Hermann
Hesse
SIDDHARTHA
Chi è Siddhartha? È
uno che cerca, e cerca soprattutto di vivere intera la propria vita. Passa di
esperienza in esperienza e non si ferma presso nessun maestro, non considera
definitiva nessuna acquisizione, perché ciò che va cercato è il tutto, il
misterioso tutto che si veste di mille volti cangianti. E alla fine quel tutto
rifluirà dietro il perfetto sorriso di Siddhartha.
“Ho scoperto il segreto del mare meditando su una goccia
di rugiada.”
Khalil Gibran
“Cercare è già di per sé trovare.”
Sant’Agostino
frammento di lettura
I N D I C E
p.
PARTE PRIMA
Il figlio del Brahmano
3
Presso i Samana
5
Gotama
7
Risveglio
9
PARTE SECONDA
Kamala
10
Tra gli uomini bambini
11
Samsara
12
Presso il fiume
13
Il barcaiolo 15
Il figlio
opera autografa
Om
opera autografa
Govinda
opera autografa
Bibliografia:
Hermann Hesse, Siddhartha, Piccola Biblioteca ADELPHI, 1975
PARTE PRIMA
IL FIGLIO DEL BRAHMANO
Siddhartha
prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con l’amico Govinda
nell’arte oratoria, nonché nell’esercizio delle facoltà di osservazione e nella
pratica della concentrazione interiore.
Il
cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso; era un grande
sapiente, un sommo sacerdote quello che egli vedeva svilupparsi in lui.
L’amore
si agitava nel cuore delle giovani figlie dei brahmani, quando Siddhartha
passava per le strade della città, con i suoi occhi regali, così slanciato e
nobile nella persona.
Govinda
voleva seguire Siddhartha, il prediletto, il magnifico. E se fosse asceso un
giorno nella gloria dei celesti, allora Govinda l’avrebbe seguito, come suo amico,
suo scudiero, sua ombra.
Così
tutti amavano Siddhartha. A tutti gli dava gioia, tutti ne traevano piacere.
Ma
lui, Siddhartha, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se
stesso. Amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore.
Lo
assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del
fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole;
sogni e un’agitazione dell’anima lo assalivano.
Siddhartha
aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza.
Aveva
cominciato a sentire che l’amore di suo padre e di sua madre, e anche l’
amicizia di Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non
gli avrebbero dato la quiete, non l’avrebbero saziato.
Aveva
cominciato a sospettare che il suo degnissimo padre e gli altri suoi maestri,
cioè i saggi brahmani, gli avessero già impartito il più e il meglio della loro
saggezza; lo spirito di Siddhartha non era soddisfatto, l’anima non era
tranquilla, non placato il cuore.
“L’ anima tua è l’intero mondo”
Verso
del Sama-Veda
“Dov’era
questo Io? Questa interiorità? Ahimè! Questa via nessuno la insegnava, nessuno
la conosceva. Cose infinite sapevano… Ma valeva la pena saper tutto questo, se
non si sapeva l’Uno ed Unico, la cosa più importante di tutte, la sola cosa
importante?
Scoprire
la fonte originaria nel proprio Io e impadronirsene! Tutto il resto era
ricerca, era errore e deviazione.”
Tali
erano i pensieri di Siddhartha.
Spesso
gli pareva vicino, il mondo celeste, ma mai l’aveva raggiunto interamente, mai
aveva spento l’ultima sete. E di tutti i saggi e dottissimi che egli conosceva non
uno ve n’era che l’avesse raggiunto interamente, il mondo celeste, non uno che
interamente l’avesse spenta, l’eterna sete.
“Domani
mattina per tempo, amico mio, Siddhartha andrà dai samana. Diventerà un samana
anche lui.”
Subito,
al primo sguardo, Govinda si rese conto: ora comincia, ora trova Siddhartha la
sua via, ora comincia il suo destino a germogliare.
Parlò
Siddhartha : ”Col tuo permesso, padre mio. Sono venuto ad annunciarti che
desidero abbandonare la tua casa domani mattina e recarmi fra gli asceti.
Diventare un samana, questo è il mio desiderio. Voglia il padre mio non
opporsi. ”
Tacque
il brahmano: tacque a lungo. Muto e immobile stava ritto il figlio con le
braccia conserte.
Finalmente
parlò il padre: ” Ch’io non senta questa preghiera una seconda volta dalla tua
bocca”.
Siddhartha
restava in piedi, muto, con le braccia conserte.
“Che
aspetti?” Chiese il padre.
Disse
Siddhartha: “Tu lo sai”.
Irritato
uscì il padre dalla stanza e si coricò. Dopo un’ora, poiché il sonno tardava,
il brahmano si alzò, guardò attraverso la piccola finestra della stanza e vide
Siddhartha in piedi, con le braccia conserte: non s’era mosso.
E
venne di nuovo dopo un’ora, venne dopo due ore, vide Siddhartha in piedi, nel
chiaro di luna, al bagliore delle stelle, nelle tenebre. Ritornò nell’ultima
ora della notte, prima che il giorno spuntasse, entrò nella stanza, vide il
giovane in piedi.
“Siddhartha,”
chiese “che attendi?”.
“Tu
lo sai”.
“Starai
sempre così ad aspettare che venga giorno, mezzogiorno e sera?”
“Starò
ad aspettare”.
“Ti
stancherai, Siddhartha”.
“Mi
stancherò”.
“Ti
addormenterai, Siddartha”.
“Non
mi addormenterò”.
“Morirai,
Siddhartha”.
“Morirò”.
“E
preferisci morire, piuttosto che obbedire a tuo padre?”.
“Siddhartha
ha sempre obbedito a suo padre”.
“Allora
rinunci al tuo proposito?”.
“Siddhartha
farà ciò che suo padre gli dirà di fare”.
Nel
volto di Siddhartha non si vedeva alcun tremito: Gli occhi guardavano lontano.
Allora il padre si accorse che Siddhartha non abitava già più con lui in quella
casa: Siddhartha l’aveva già abbandonato.
Il
padre posò la mano sulla spalla di Siddhartha.
“Andrai
nella foresta,” disse “e diverrai un samana. Se nella foresta troverai la
beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione,
ritorna: riprenderemo insieme.
Ora
va’ a baciar tua madre, dille dove vai. Tolse la mano dalla spalla di suo
figlio, e uscì.
Siddhartha
barcollò, quando provò a muoversi. Ma fece forza alle sue membra, s’inchinò
davanti al padre e andò dalla mamma, per fare come suo padre aveva prescritto.
“Sei
venuto” disse Siddhartha, e sorrise.”
“Sono
venuto” disse Govinda. ”
PRESSO I SAMANA
“Siddhartha
fece dono della sua veste a un povero brahmano incontrato sulla strada. Non
portava più che il perizoma e una tunica color terra, senza cuciture. Mangiava
soltanto una volta al giorno, e mai cibi cotti. Digiunò per quindici giorni.
Digiunò per ventotto giorni. Dalle cosce e dalle guance gli sparì la carne. Dai
suoi occhi smisuratamente ingranditi parevano prendere il volo ardenti visioni.
Gelido diventava il suo sguardo quando incontrava donne; la sua bocca si
contraeva con disprezzo quand’egli in una città doveva accompagnarsi con uomini
ben vestiti. Vedeva i mercanti commerciare, la gente in lutto piangere i suoi
morti, i medici affannarsi per i loro ammalati, i sacerdoti stabilire il giorno
per la semina, gli amanti amare, le madri allattare i loro bimbi – e tutto ciò
non era degno dello sguardo dei suoi occhi, tutto mentiva, tutto simulava significato
e felicità e bellezza. Amaro era il sapore del mondo. La vita, tormento.
Una
meta, una sola, si proponeva Siddhartha: diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto
di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore. Morire a se stesso,
non essere più “Io”, trovare la pace con il cuore svuotato, nella
spersonalizzazione del pensiero rimanere aperto al miracolo, questa era la sua
meta.
Quando
ogni residuo dell’Io fosse superato ed estinto, quando ogni brama e ogni
impulso tacesse nel cuore, si sarebbe destata allora l’ultima essenza, lo
strato più profondo dell’essere, quello che non è più Io: il grande mistero.
Tacendo
Siddhartha restava in piedi sotto il sole a picco, ardendo di dolore, ardendo
di sete, finché non sentisse più né dolore né sete. Tacendo stava in piedi
sotto la pioggia e il penitente restava in piedi finché spalle e gambe non
fossero più gelate, ma tacessero. Tacendo egli s’accoccolava su giaciglio di
spine, e dalla pelle gocciolava il sangue, e Siddhartha rimaneva rigido,
immobile, finché più non colasse il sangue, finché più nulla pungesse.
Siddhartha
imparava l’economia del respiro, Imparava, partendo dal respiro, ad assopire il
palpito del cuore, imparava a ridurne i battiti, finché fossero pochi e sempre
più radi.
Siddhartha
praticò la spersonalizzazione attraverso il dolore e il superamento del dolore,
della fame, della sete, della stanchezza, praticò la concentrazione attraverso
la meditazione, svuotando la mente da ogni immagine per mezzo del pensiero.
Mille
volte abbandonò il proprio Io, per ore e
per giorni indugiò nel non-Io. Mille volte Siddhartha poteva sfuggire dal suo Io; inevitabile era il
ritorno, inesorabile l’ora in cui egli – splendesse il sole oppure la luna,
sotto la pioggia o nell’ombra – ritrovava
se stesso e di nuovo provava il tormento di non poter sfuggire al ciclo
dell’esistenza.
Accanto
a lui viveva Govinda, come la sua ombra, percorreva le stesse vie, si
sottoponeva agli stessi sforzi.
“Che
ne pensi, Govinda? Abbiamo fatto progressi? Abbiamo raggiunto la meta?”.
Rispose
Govinda: “Abbiamo imparato, e impariamo ancora”.
Disse
Siddhartha: ” Io non sono di questo parere, amico mio. Ciò che ho imparato
finora presso i samana, o Govinda, avrei potuto impararlo più presto e
semplicemente tra carrettieri e giocatori di carte”.
Disse
Govinda: “Come avresti potuto imparare, là, tra quegli sciagurati, la
concentrazione, la sospensione del respiro, l’insensibilità alla fame e al
dolore?”.
E
Siddhartha disse piano, come se parlasse a se stesso:
“Che cos’è la concentrazione? Che
cosa l’abbandono del corpo? Che cosa la volontaria sofferenza? Che cos’è il digiuno? Che cosa la sospensione
del respiro? Tutto questo è fuga dall’Io, breve pausa nel tormento d’essere Io,
è un effimero stordirsi contro il dolore insensato della vita. La stessa
evasione, lo stesso effimero stordimento prova colui che beve alcuni bicchieri
d’acquavite. Allora costui non sente più il proprio Sé, allora non sente più le
pene della vita.
E prova lo stesso, sonnecchiando sul
suo bicchiere d’acquavite, che provano Siddhartha e Govinda, quando riescono a
sfuggire, grazie a lunghi esercizi, dai loro corpi, e a indugiare nel non-Io.
Così è, o Govinda.
Disse Govinda: “Certo il beone trova
breve tregua ed evasione, ma egli ritorna dalla sua ebbrezza e ritrova tutto
come prima, non è diventato più saggio, non ha raccolto conoscenza, non è
salito di un gradino più in alto.”
E Siddhartha replicò con un
sorriso:” Non lo so, non sono mai stato un beone. Ma che io, Siddhartha, nelle
mie pratiche e concentrazioni trovo soltanto un breve stordimento e rimango
tanto lontano dalla saggezza, dalla liberazione, quanto lo ero infante nel ventre
della madre, questo lo so, Govinda, questo lo so.”
“Ma
ora, o Govinda, siamo veramente sulla retta via? Ci accostiamo veramente alla
conoscenza? Ci avviciniamo davvero alla liberazione? O non ci aggiriamo
piuttosto in un cerchio, noi che miravamo invece a sottrarci al ciclo
dell’esistenza?”.
Disse
Govinda: “Molto abbiamo appreso, Siddhartha, molto rimane ancora da apprendere.
Non ci moviamo in cerchio, ci moviamo verso l’alto, il cerchio è una spirale, e
di molti gradini siamo già ascesi”.
Rispose
Siddhartha: “Che età credi che abbia il più vecchio dei nostri samana, il
nostro venerabile maestro?”.
Disse
Giovinda: “Il più vecchio di noi potrà avere un sessant’anni”.
E
Siddhartha: “Sessant’anni è vissuto e il nirvana non l’ha mai raggiunto e tu e
io diverremo vecchi e faremo i nostri esercizi, digiuneremo, mediteremo. Ma il
nirvana non lo raggiungeremo: non lo raggiungerà il maestro, non lo
raggiungeremo noi. Di tutti i samana che esistono non uno, io credo, raggiunge
il nirvana.
Troviamo conforti, troviamo da
stordirci, acquistiamo abilità con le quali cerchiamo d’illuderci. Ma
l’essenziale, la strada delle strade non la troviamo”.
“Presto,
Govinda, il tuo amico abbandonerà questa via dei Samana che ha così a lungo
percorso con te. Io soffro la sete, o Govinda, e su questa lunga via dei samana
la mia sete non si è per nulla placata.
Sempre
ho sofferto la sete del sapere, sempre sono stato pieno d’interrogativi. Ho
interrogato i brahmani, d’anno in anno, ho interrogato i sacri Veda, d’anno in
anno.
Lungo tempo ho impiegato, o Govinda,
per imparare questo: che non si può imparare nulla!
Nella realtà non esiste, io credo,
quella cosa che chiamiamo “imparare”. C’è soltanto, o amico, un sapere, che è
ovunque, che è Atman, che è in me e in te e in ogni essere.
E così comincio a credere: questo
sapere non ha nessun peggior nemico che il voler sapere, che l’imparare”.
Govinda
si fermò di botto in mezzo alla strada, alzò le mani e disse: “In verità, paura
risvegliano le tue parole nel mio cuore. Ma pensa dunque: che ne sarebbe della
santità delle preghiere se fosse così come tu dici, se non fosse possibile
imparare?! Che ne sarebbe allora, o Siddhartha, di tutto ciò che sulla terra
v’ha di santo, di venerabile, di degno?!”.
E
Govinda mormorò un versetto tra sé e sé:
Chi s’immerge meditando, con puro
intelletto,
Parole non v’hanno ad esprimere la
beatitudine del suo cuore.
Ma
Siddhartha taceva. Pensava alle parole che Govinda gli aveva dette, e le
pensava a fondo.
Sì,
pensava a testa bassa, che cosa rimarrebbe ancora di tutto ciò che ci pareva
sacro? Che cosa rimane? Che cosa resta confermato? E scosse il capo.”
Un giorno giunse fino a loro una notizia, una
voce: un uomo era apparso, chiamato Gotama, il Sublime, il Buddha. Percorreva
il paese insegnando, circondato di giovani, senza ricchezze, senza casa, senza
donna, avvolto nel giallo saio dell’asceta, ma con fronte serena: un beato.
Il
nome Gotama, il Buddha, ritornava alle orecchie dei giovani oggetto di lode e
di scherno.
Certo
dura da sopportare era la vita, ed ecco, qui sembrava che sgorgasse una fonte,
qui sembrava che risuonasse un messaggio consolatore, benigno, pieno di nobili
promesse.
“Parla,
amico mio, non vogliamo anche noi andar laggiù ad ascoltare la dottrina dalla
bocca del Buddha?”.
Disse
Siddhartha: “Sono diventato diffidente e stanco verso le dottrine e verso l’apprendere,
e che scarsa è la mia fede nelle parole che ci vengono dai maestri. Tuttavia
sta bene, mio caro, sono pronto ad ascoltare quella dottrina, sebbene nel mio
cuore io creda che di tale dottrina il meglio l’abbiamo già sperimentato.”
Quello
stesso giorno Siddhartha notificò al più vecchio dei samana la propria decisione
di volerlo lasciare. Ciò gli rese noto con quella cortesia e quella modestia
che si addicono a un giovane e a un discepolo. Ma il samana andò in collera a
sentire che i due giovani lo volevano abbandonare, e alzò la voce con
grossolane parole di oltraggio.
Govinda
si spaventò e rimase altamente imbarazzato, ma Siddhartha accostò la bocca
all’orecchio di Govinda e gli sussurrò: “Ora
voglio mostrare al vecchio che
qualcosa con lui ho pure imparato”.
Ponendosi ben vicino di fronte al
samana, con l’anima tutta concentrata, colse col proprio sguardo lo sguardo del
vecchio e lo avvinse, lo fece ammutolire, disarmò la sua volontà, il vecchio si
inchinò, eseguì gesti di benedizione, pronunciò un augurio di buon viaggio.
GOTAMA
Disse
la donna: “Veramente in buon punto siete arrivati voi, samana del bosco.
Sappiate che a Jetavana, nel giardino di Anathapindika si trattiene il Sublime”.
Come vi giunsero, nella notte, era
un continuo movimento di nuovi arrivi, continue domande e risposte di gente che
chiedeva e otteneva ospitalità.
Siddhartha
lo vide. Lo vide, un ometto semplice, dalla veste gialla, che camminava
tranquillo con in mano la sua ciotola per le elemosine.
“Guarda
là!” disse piano Siddhartha a Govinda. “Quello là è il Buddha”.
Il
monaco non pareva distinguersi in nulla dai cento e cento altri monaci. E lo
seguirono, osservandolo.
Il
Buddha andava per la sua strada, modesto e immerso nei propri pensieri; la sua
faccia tranquilla non era né allegra né triste, solo pareva illuminata da un
lieve sorriso interiore. Con un sorriso nascosto, cheto, tranquillo, non
dissimile da un bambino sano e ben disposto, camminava il Buddha, il suo volto
e il suo passo, il suo sguardo chetamente abbassato esprimevano pace,
esprimevano perfezione: egli respirava dolcemente in una quiete imperitura, in
un’imperitura luce, in una pace inviolabile, in cui non vi era ricerca, non vi
era desiderio, non imitazione, non sforzo, ma solo luce e pace. Siddhartha era
poco curioso della dottrina, non credeva che essa gli potesse apprendere
qualcosa di nuovo.
Udirono
il Buddha predicare. Udirono la sua voce, e anche questa era perfetta, di
perfetta calma, piena di pace. Gotama predicò la via dottrina del dolore:
l’origine del dolore, la via per superare il dolore. Tranquillo e chiaro fluiva
il suo pacato discorso. Dolore era la vita, pieno di dolore il mondo, ma la
liberazione dal dolore s’era trovata: L’avrebbe trovata chi seguisse la via del
Buddha. Limpida e calma si librava la sua voce sugli ascoltatori, come una
luce, come un cielo stellato.
Govinda
disse: “Anch’io voglio rifugiarmi presso il Sublime e la sua dottrina” e pregò
d’essere accolto nella comunità dei discepoli, e fu accolto.
Govinda
aggiunse: “Tu, Siddhartha, mio degno amico non vuoi anche tu seguire il
sentiero della liberazione? Vuoi indugiare? Vuoi aspettare ancora?”.
Siddhartha
si destò come da un sogno, quando sentì le parole di Govinda. A lungo lo fissò
nel volto. Poi parlò sommessamente, e nella sua voce non c’era scherno:
“Govinda, amico mio, ora tu hai fatto il passo, ora tu hai scelto la tua
strada. Sempre tu m’hai seguito a distanza di un passo. Spesso avevo pensato:
non farà mai, Govinda, un passo da solo, senza di me. Ed ecco, ora tu sei
diventato un uomo, e scegli da te la tua strada. Possa tu percorrerla fino alla
fine, Amico mio! Possa tu trovare la liberazione!”.
Siddhartha
passeggiava pensieroso attraverso il boschetto. S’ imbatté così in Gotama, il
Sublime, e lo salutò rispettosamente e poiché
lo sguardo del Buddha era pieno di bontà e di dolcezza, il giovane si fece
animo e chiese al degno uomo il permesso di parlargli. Con un cenno silenzioso
il Sublime assentì.
Disse
Siddhartha: “Una cosa, o venerabilissimo, ho ammirato sopra ogni altra nella
tua dottrina. Tutto in essa è perfettamente chiaro e dimostrato; come una
perfetta catena, mai e in nessun luogo interrotta, tu mostri il mondo. Mai ciò
è stato visto con tanta chiarezza, né esposto in modo più irrefutabile;
certamente più vivo deve battere il cuore in petto a ogni uomo quand’egli,
attraverso la tua dottrina, vede il mondo come una perfetta concatenazione,
senza soluzioni di continuità, limpido come un cristallo, non dipendente dal
caso, non dipendente dagli dèi. Se esso sia buono o cattivo, se la vita vi sia
gioia o dolore (possibile, forse, che questa non sia la cosa essenziale); ma
l’unità del mondo, la connessione di tutti gli avvenimenti, l’inclusione di
ogni essere nella stessa corrente, nella stessa legge di causalità, del
divenire e del morire, questo risplende chiaramente dalla tua sublime dottrina,
o Perfettissimo. Ma ora, secondo la
tua stessa dottrina, in un punto è interrotta questa unità e consequenzialità
di tutte le cose: la tua dottrina del superamento del mondo, della liberazione.
Ma con questa rottura viene infranto e compromesso l’intero ordinamento del
mondo unitario ed eterno. Voglimi perdonare, se ho osato proporti
quest’obiezione”.
Tranquillo
e immobile lo aveva ascoltato Gotama. Quindi parlò a sua volta, il Perfetto:
parlò con la sua voce chiara e cortese: “Tu hai udito la dottrina e torna a tuo
onore di avervi riflettuto così profondamente. Tu vi hai trovato un errore.
Possa tu andar oltre con il pensiero. Permetti solo che io ti metta in guardia,
o tu che sei avido di sapere, contro la molteplicità delle idee. Le opinioni non contano niente, possono
essere belle o odiose, intelligenti o stolte, ognuno può adottarle o
respingerle. Ma la dottrina che hai udito da me, non è mia opinione, e il suo
scopo non è di spiegare il mondo agli uomini avidi di sapere. Un altro è il suo
scopo: La liberazione dal dolore. Questo è ciò che Gotama insegna, null’altro”.
Il
giovane disse: “Non un minuto io ho dubitato di te, Non un minuto ho dubitato
che tu sei Buddha, che tu hai raggiunto la meta. Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te
attraverso la tua ricerca, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada,
attraverso il pensiero, la concentrazione, la conoscenza, l’illuminazione. Non
ti è venuta attraverso la dottrina! E - tale è il mio pensiero, o Sublime –
nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o
Venerabile, tu potrai mai, con parole e attraverso una dottrina, comunicare ciò
che avvenne in te nell’ora della tua illuminazione! Molto contiene la dottrina
del Buddha illuminato: a molti essa insegna a vivere rettamente, a evitare il
male. Ma una cosa non contiene questa dottrina così limpida, così degna di
stima: non contiene il segreto di ciò che il sublime stesso ha vissuto, egli
solo fra centinaia di migliaia.
Questo
è il motivo per cui io continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra
e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n’è alcuna, ma per abbandonare
tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire.
Ma spesso ripenserò a questo giorno, o Sublime, e a quest’ora, in cui i miei
occhi videro un santo.”
“Possano i tuoi pensieri non essere
errori!” parlò lentamente il venerabile. “Possa tu giungere alla meta! Ma
dimmi, hai visto i miei fratelli che nella dottrina hanno cercato rifugio? E
credi tu che per tutti costoro sarebbe meglio abbandonare la dottrina e
rientrare nella vita del mondo?”.
“Lungi da me tale pensiero!” esclamò
Siddhartha. “Possano essi rimanere tutti fedeli alla dottrina, possano
raggiungere la loro meta! Non tocca a me giudicare la vita di un altro! Solo
per me, per me soltanto devo giudicare, devo scegliere. Se io diventassi ora uno dei tuoi discepoli, o
Venerabile, mi avverrebbe – temo – che solo in apparenza, solo illusoriamente
il mio Io giungerebbe alla quiete e alla liberazione.”
“Tu
sei intelligente, o Samana” disse il Venerabile. “Sai parlare con intelligenza,
amico mio. Stai in guardia da soverchia intelligenza!”
Mai
ho visto un uomo guardare, sorridere, sedere, camminare a quel modo, pensava
Siddhartha, così veramente desidero anch’io saper guardare, sorridere, sedere e
camminare, così libero, modesto, aperto, infantile e misterioso! Così veramente
guarda e cammina soltanto l’uomo che è disceso nell’intimo di se stesso. Bene,
cercherò anch’io di discendere nell’intimo di me stesso.
Ho visto un uomo, pensava
Siddhartha, un uomo unico, davanti al quale ho dovuto abbassare lo sguardo.
Davanti a nessun altro voglio mai più abbassare lo sguardo: a nessun’altro.
Il
Buddha m’ha derubato del mio amico, di colui che credeva in me e che ora crede
in lui, ma mi ha donato Siddhartha, mi ha
fatto dono di me stesso.
RISVEGLIO
Quando
Siddhartha lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, allora egli sentì
che in quel boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e da
lui si separava. Su questa sensazione egli venne riflettendo. Profondamente vi
pensò, come attraverso un’acqua profonda si lasciò calare fino al fondo di
questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere cause ultime, questo è appunto
pensare e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno
perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che
in esse è contenuto.
Riconobbe che una cosa l’aveva
abbandonato: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine.
“Ma
che cos’è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri,
e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?
L’io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza.”
“Che io non sappia nulla di me, che
Siddhartha mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una
causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, ero in fuga da me stesso!
Cercavo la vita, il divino, l’assoluto ma intanto ferivo e stancavo me stesso;
proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso.
Oh! Ora Siddhartha non me lo voglio
più lasciar scappare! Basta, cominciare il pensiero e la vita col dolore del
mondo! Basta, uccidermi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più
alcuna dottrina a istruirmi. È da me che voglio imparare, di me stesso voglio
essere il discepolo, voglio conoscermi, svelare quel mistero che ha il nome
Siddhartha.
Si guardò attorno come se vedesse
per la prima volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso
era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva
fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna e in
mezzo v’era lui, Siddhartha, l’uomo sulla via del risveglio, sulla strada che
conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto quel giallo e azzurro, fiume e bosco non
era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze.
L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, tale era appunto la natura e il
senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui
Siddhartha.
Il senso e l’essenza delle cose
erano non in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.
Quando uno legge uno scritto di cui
vuole conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama
illusione, accidente e involucro senza valore, bensì li decifra, li studia, e
li ama lettera per lettera.
Io invece, io che volevo leggere il
libro del mondo e il libro del mio proprio essere, ho disprezzato i segni e le
lettere, a favore d’un significato congetturato in precedenza, ho chiamato
illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio fenomeno
accidentale e senza valore. No, tutto questo è finito, mi sono risvegliato
davvero e oggi nasco per la prima volta.”
Immobile restò Siddhartha, e per un
attimo, la durata d’un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì
gelare nel petto quando s’accorse quanto fosse solo.
Trasse un profondo sospiro, e per un
attimo si sentì gelare. Rabbrividì. Nessuno era così solo come lui.
Da questo momento in cui il mondo
circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato
come in cielo una stella solitaria, da questo momento di gelo e di sgomento
Siddhartha emerse, più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto.
Lo sentiva: questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo
del nascimento. E riprese il suo cammino non più indietro.
A ogni passo del suo camino
Siddhartha imparava qualcosa di nuovo, poiché il mondo era trasformato e il
cuore ammaliato. Vedeva alberi, stelle, animali, nuvole, arcobaleni, rocce,
fiumi, ruscelli e fiumi; vedeva la rugiada luccicare nei cespugli al mattino,
il vento vibrava argentino nelle risaie. Tutto questo era sempre esistito nei
suoi mille aspetti variopinti, ma nel passato tutto ciò non era stato per
Siddhartha che un velo effimero e menzognero calato davanti ai suoi occhi,
considerato con diffidenza e destinato ad essere trapassato e dissolto dal
pensiero, poiché non era realtà: la realtà era al di là delle cose visibili. Ma
ora il suo occhio liberato s’indugiava al di qua, vedeva e riconosceva le cose
visibili, non aspirava ad alcun al di là.
Bello e piacevole sentirsi così
bambino, così aperto all’immediatezza delle cose, così fiducioso.
Tutto ciò era sempre stato, ed egli
non l’aveva mai visto: non vi aveva partecipato. Ma ora sì, vi partecipava e vi
apparteneva. Luce e ombra attraversavano la sua vista, le stelle e la luna gli
attraversavano il cuore.
Belle cose l’una e l’altra, i sensi
e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto il significato ultimo; a
entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occorreva esercitare, di entrambe
occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde dell’animo. A nulla
egli voleva d’ora innanzi aspirare, se non a ciò cui la voce gli comandasse
d’aspirare, in nessun luogo indugiarsi, se non dove glielo consigliasse la voce.
Una voce nel proprio cuore.
Durante la notte, mentre dormiva,
nella capanna di paglia d’un barcaiolo sulla riva del fiume, Siddhartha ebbe un
sogno:
Triste sembrava una donna, e triste
chiedeva: perché mi hai abbandonato? Allora egli la cingeva con le braccia, e
la tirava al proprio petto e la baciava.
Quando Siddhartha si svegliò,
pallido, scintillava il fiume attraverso la porta della capanna e nel bosco
echeggiava profondo e sonoro l’oscuro richiamo della civetta.
“Anche questo ho imparato dal fiume:
tutto ritorna!”
“Tutti sono riconoscenti, mentre
avrebbero essi stessi diritto a riconoscenza. Tutti sono sottomessi, tutti
desiderano essere amici, desiderano obbedire e pensare meno che si può. Bambini
son gli uomini”.
PARTE SECONDA
KAMALA
“L’amore si può riceverlo in dono, si può
trovarlo per caso sulla strada, ma non si può estorcere.”
“Devi eseguire ciò che hai imparato e farti
dare in cambio denaro. Non c’è altro mezzo, per un povero, di procurarsi
denaro.”
“Se
tu getti una pietra nell’acqua, essa si affretta per la via più breve fino al
fondo. E così è di Siddhartha, quando ha una meta, un proposito. Siddhartha aspetta, pensa, digiuna, passa
attraverso le cose del mondo come la pietra attraversa l’acqua: egli viene
attratto, e si lascia cadere. La sua meta lo tira a sé, poiché nell’anima
propria egli non fa penetrar nulla che potrebbe contrastare a tale meta.
Ognuno può raggiungere i propri
fini, se sa pensare, se sa aspettare, se sa digiunare.”
TRA GLI UOMINI-BAMBINI
Disse
Siddhartha: “Non sono caduto in miseria e non son mai stato in miseria. Povero
lo sono, non possiedo niente, se è questo che intendi dire. Per più di tre anni
sono vissuto nella più assoluta povertà, e non ho mai pensato di che potessi
vivere.”
“Allora
sei vissuto dei beni degli altri.”
“Ognuno
prende, ognuno dà. Così è la vita.”
“Ma
permetti: se tu non possiedi nulla cosa vuoi dare?”
“Ognuno dà di quel che ha. Io so pensare,
so aspettare, so digiunare.”
“E
a che serve per esempio il digiunare?”
“Quando un uomo non ha niente,
digiunare è la cosa più saggia che possa fare. Siddhartha può aspettare
tranquillo, non conosce impazienza, non conosce miseria.”
Kamaswami
uscì e ritornò con un rotolo, che porse al suo ospite, chiedendo: “Sai leggere
questo?”
Siddhartha
cominciò a leggerne il contenuto.
“Benissimo!
E vuoi scrivermi qualcosa su questo rotolo?”. Ciò dicendo gli porgeva un foglio
e uno stilo: e Siddhartha scrisse e restituì il foglio.
Kamaswami
lesse:
“Scrivere è bene, pensare è meglio.
L’ intelligenza è bene, la pazienza è meglio. ”
Molte cose nuove apprese Siddhartha,
ascoltò molto e parlò poco.
Apprese
che, dopo una festa d’amore, gli amanti non debbono separarsi se non compresi
di reciproca ammirazione, se non vinti e vincitori a un tempo, cosicché in
nessuno dei due insorgano sazietà e noia e il sentimento cattivo d’avere
abusato o d’aver subìto un abuso.
“Non
ho mai visto Siddhartha aver paura d’un insuccesso, né inquietarsi per una
perdita.”
Una
volta Siddhartha si recò in un villaggio per comprarvi una grossa partita di
riso. Ma quando giunse, il riso era già stato venduto a un altro mercante.
Tuttavia Siddhartha rimase diversi giorni in quel villaggio, offrì banchetti,
regalò monetine di rame, prese parte a una festa di nozze e ritornò soddisfattissimo
dal suo viaggio.
Kamaswami
lo rimproverò: perché non era tornato subito? Perché aveva sciupato tempo e
denaro?
Siddhartha
rispose:
“Non mi sgridare, caro amico! Non è
ancora mai successo che sgridando si concludesse qualcosa.
Se
c’è stata perdita addossala pure a me. Io sono molto contento di questo
viaggio, ho viaggiato per mio piacere. Per che altro mai? Ho conosciuto uomini
e paesi, ho goduto cortesie e confidenze, ho trovato amicizie, non ho
danneggiato né me né il prossimo. E se mai capiterà che io debba ritornare,
quegli uomini, che già mi sono amici, mi accoglieranno lietamente. Quando venga
il giorno in cui tu ti debba accorgere: questo Siddhartha mi fa del danno,
allora di’ una parola e Siddhartha se ne andrà per la sua strada.
Vani
furono i tentativi del mercante per convincere Siddhartha che egli mangiava il
suo pane, suo di lui, Kamaswami. Siddhartha mangiava il proprio pane o meglio –
diceva – entrambi mangiavano il pane
degli altri, il pane di tutti.”
Siddhartha restava sempre aperto a
tutto ciò che questi uomini avessero da offrirgli.
“La
maggior parte degli uomini, Kamala, sono
come una foglia cadente, che si libra e si rigira nell’aria e scende
ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come gli astri, che vanno per un
loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro
legge e il loro cammino.
Kamala
disse: “O caro, tu non mi ami, non ami
nessuna creatura umana. Non è così?”
Gli
uomini-bambini possono amare: questo è il loro segreto.
SAMSARA
Era
diventato ricco e già da tempo possedeva una casa propria con servitù e un
giardino fuori della città lungo il fiume.
Nessuno
gli era realmente vicino, a eccezione di Kamala.
Sempre
s’era sentito separato dagli altri, sempre li aveva considerati con un po’ di
disprezzo.
Siddhartha
aveva preso qualcosa delle maniere degli uomini-bambini, qualcosa della loro
puerilità e della loro timidezza. Eppure li
invidiava per l’angosciosa ma dolce felicità del loro stato d’innamorati
eterni. Questo egli non riusciva a imparare da loro, questa gioia infantile
e questa infantile follia.
Nell’anima
di Siddhartha, la ruota dell’ascetismo, la ruota del pensiero, la ruota
dell’isolamento aveva ancora a lungo continuato a vibrare, vibrava ancora, ma
lentamente indugiava ed era ormai prossima allo stato di quiete.
Il
suo volto era ancor sempre più intelligente e più spirituale che quello degli
altri, ma rideva raramente e assumeva quei tratti di insoddisfazione, di
cagionevolezza, di scortesia, di delusione. Come un velo, come una nebbia
sottile la stanchezza si calava su Siddhartha. S’accorgeva soltanto che quella
voce limpida e sicura dell’animo suo, che un tempo si era destata in lui e nei
suoi tempi d’oro l’aveva sempre guidato, era ammutolita.
La proprietà, il possesso e la ricchezza
s’erano infine impadroniti di lui, erano diventati peso e catena.
Siddhartha
cominciò a praticare con crescente passione il gioco in denaro e in gioielli.
Odiando
se stesso, disprezzando se stesso guadagnava migliaia, perdeva migliaia. E dopo
ogni perdita ingente egli anelava a nuove ricchezze, si rituffava energicamente
nel commercio.
Voleva
continuare a dissipare, voleva continuare
a dimostrare il suo disprezzo per la ricchezza.
Siddhartha
si augurava di potersi sbarazzare di questi godimenti, di queste abitudini, di
tutta questa vita insensata e, in una parola, di se stesso.
Nessun
valore e nessun senso aveva la vita da lui condotta fino allora; nulla di
vitale, nulla che fosse in qualche modo prezioso o degno d’esser conservato gli
era rimasto nelle mani. Solo, si trovava, e vuoto, come un naufrago sulla
spiaggia.
Sentì
la morte nel cuore, a poco a poco egli raccolse i propri pensieri e ripercorse
in spirito l’intera via della propria vita. Allora
aveva sentito nel proprio cuore: “Una via è aperta davanti a te, a cui tu sei
chiamato, sulla quale ti attendono gli dèi”.
Ma da quanto temo ora non sentiva
più questa voce, da
quanto tempo non aveva più raggiunto le altezze, come piana era stata la sua vita,
quanti lunghi anni senza un’alta meta.
S’era dato un gran da fare, per
diventare un uomo come gli altri, come quei bambini, e con tutto questo la sua
vita è stata molto più povera e più miserabile che la loro, poiché i suoi scopi
non erano i loro, né egli ne condivideva i pensieri.
Samsara aveva nome questo gioco, un
gioco di bambini, gioco
forse piacevole a giocare una volta, due volte, dieci volte. Ma sempre, sempre
da capo?
E così seppe Siddhartha che il gioco
era finito.
In
quella stessa notte Siddhartha abbandonò il suo giardino, abbandonò la città e non vi ritornò mai più.
Da
quel giorno in poi Kamala non
ricevette più visite, e tenne chiusa la propria casa. Ma dopo qualche tempo
s’accorse che, dal suo ultimo convegno con Siddhartha, era rimasta incinta.
PRESSO IL FIUME
Siddhartha
errò nel bosco, non c’era più nulla nel mondo che lo potesse attirare,
rallegrare, consolare. Siddhartha giunse al grande fiume, quello stesso fiume sul
quale l’aveva traghettato un giorno un barcaiolo.
Presso
questo fiume si fermò e rimase indeciso sulla riva. Stanchezza e fame l’avevano
indebolito, e poi perché andare oltre? A quale meta?
Sulla
riva del fiume pendeva un albero inclinato, un albero di cocco; Siddhartha vi
si appoggiò con la spalla, mise il braccio attorno al tronco e guardò in giù
nell’acqua verde, che scorreva senza posa ai suoi piedi, guardò giù e si sentì
interamente pervaso dal desiderio di
lasciarsi andare e sparire entro quell’acqua. Lo specchio dell’acqua gli
rifletteva un vuoto raccapricciante, che faceva riscontro al terribile vuoto dell’anima sua. Con profonda
stanchezza si volse un poco per lasciarsi
cadere.
Ed
ecco, da riposti ricettacoli della sua anima, dalle remote lontananze della sua
vita, palpitò un suono. Era una parola, una sillaba, l’antica parola con cui
hanno inizio e fine tutte le preghiere dei brahmani, il sacro “Om”, che significa qualcosa come “ciò che è compiuto” o “la perfezione”. E nell’istante in cui il
suono “Om” sfiorò l’orecchio di Siddhartha, immediatamente si risvegliò il suo
spirito assopito, e riconobbe la
stoltezza del suo atto.
E di nuovo Siddhartha seppe
dell’indistruttibilità della vita, seppe di tutto il Divino che aveva
dimenticato.
Ma
fu solo un momento, un lampo, poi Siddhartha ricadde ai piedi dell’albero di
cocco abbattuto dalla fatica: posò la testa sulle radici del tronco e cadde in un sonno profondo e libero da sogni.
Quando si risvegliò udì il lieve
sussurrare dell’acqua, guardò con meraviglia gli alberi e il cielo e il passato
gli apparve come avvolto in un velo, infinitamente lontano, infinitamente
superato, infinitamente indifferente. Ora, risvegliato, guardava il mondo come
un uomo nuovo, ringiovanito, lieto e curioso.
Siddhartha vide seduto di fronte a
sé un uomo, non tardò a riconoscere in questo monaco Govinda, l’amico della sua
giovinezza. Govinda esprimeva zelo, fedeltà, ansia di ricerca, premura. Ma
quand’ora Govinda, sentendo il suo sguardo, aprì gli occhi e lo guardò,
Siddhartha s’accorse che Govinda non lo riconosceva.
Govinda disse: “Signore, sono un
discepolo del sublime Gotama, il Buddha, il Sakyamuni, e venivo in
pellegrinaggio quando ti vidi giacere addormentato in un posto dov’è pericoloso
dormire. Perciò sedetti accanto a te.”
“Ti ringrazio, samana, d’aver
vegliato sul mio sonno” disse Siddhartha. “Siete premurosi, voi, discepoli del
sublime. Ora puoi andare.”
Govinda
fece un segno di saluto, e disse:”Addio”.
“Addio,
Govinda” disse Siddhartha.
Il
monaco s’arrestò.
“Scusa,
signore, come sai il mio nome?”.
“Tu
sei Siddhartha!” gridò forte Govinda. “Ora ti riconosco. Benvenuto, Siddhartha,
grande è la mia gioia di rivederti.”
“Anch’io
son lieto di rivederti. Dove vai, amico?”.
“In
nessun posto, vado. Sempre siamo in cammino, noi monaci, viviamo secondo la
nostra Regola, predichiamo la dottrina, raccogliamo elemosine, e passiamo
oltre. Ma tu Siddhartha, dove vai?”.
Disse
Siddhartha: “Anch’io mi trovo in una condizione come la tua, amico. Non vado in
nessun posto. Sono soltanto in cammino. Vado errando. Oggi, tu hai incontrato
un pellegrino, con queste scarpe, con questi abiti. Ricordati, caro: effimero è
il mondo delle forme, effimeri, quanto mai effimeri, sono i nostri abiti e corpi.
Io porto abiti da persona ricca, hai visto bene. Li porto perché sono stato
ricco. ”
“E
ora, Siddhartha, che cosa sei ora?”.
“Non
lo so, ne so meno di te. Sono in cammino. Rapida si volge la ruota delle forme,
Govinda. Dov’è il brahmano Siddhartha? Dov’è il samana Siddhartha? Dov’è il
ricco Siddhartha? Rapida è la vicenda delle cose mortali, tu lo sai, Govinda.”
Govinda
guardò a lungo l’amico della sua giovinezza; Poi lo salutò, come si salutano le
persone di riguardo, e se ne andò per la sua strada.
Proprio in ciò consisteva l’incantesimo
che s’era prodotto in lui, che ora egli amava ogni cosa, era pieno di lieto
amore per tutto ciò che vedeva. E proprio questa era stata la sua grave
malattia, di non saper amare nulla e nessuno.
Allora,
così si ricordava di tre arti che aveva appreso negli anni diligenti e
laboriosi della sua giovinezza: digiunare, aspettare, pensare. Questo era stato
il suo fermo sostegno. E ora esse lo avevano abbandonato. Per la cosa più
meschina le aveva cedute, la più effimera, per il piacere dei sensi, gli agi
della vita, la ricchezza!
Ora eccomi di nuovo tale e quale
come quand’ero bambino: nulla posseggo, nulla so, nulla posso, nulla ho
imparato. Meraviglioso!
Ma che via fu questa! Son dovuto
passare attraverso tanto errore, delusione e dolore, solo per ridiventare
bambino e poter ricominciare da capo. Ho dovuto provare la disperazione, ho
dovuto abbassarmi fino al più stolto di tutti i pensieri, al pensiero del
suicidio, per poter rivivere la grazia, per poter di nuovo dormire tranquillo e
risvegliarmi sereno.
Dove può ancora condurmi il mio
cammino? Stolto è questo cammino, va descrivendo curve, forse va in cerchio. Ma
vada come vuole, io son contento di seguirlo.
Finalmente sono di nuovo libero e
sto sotto il cielo come un bambino?
Quanto bene mi fa quest’essere fuggito, quest’essere ridiventato libero! Che
aria bella e pura, qui, come fa bene il respirarla!
Ma qui non ho fallito, che sia
finita con quell’odio contro me stesso.
Che i piaceri mondani e la ricchezza
non siano un bene, questo l’avevo già imparato da bambino. Ma viverlo, l’ho
vissuto soltanto ora. E ora lo so; lo so non solo con la mia mente, ma lo so
coi miei occhi, col mio cuore. Buon per me che lo so!
Ora Siddhartha intuì perché avesse
invano lottato col proprio Io. Troppa scienza l’aveva impacciato, troppi sacri
versetti, troppa mortificazione, troppo affanno di azione! Pieno d’orgoglio era
stato, sempre il più intelligente, sempre il più diligente, sempre di un passo
davanti agli altri, sempre lui a sapere, sempre lui a vivere nello spirito,
sempre lui il sacerdote o il saggio. In questo sacerdozio, in questo orgoglio,
in questa spiritualità prosperava il suo Io. Ora se ne accorgeva, ora vedeva
che la voce segreta aveva avuto ragione, che nessun maestro mai lo avrebbe
potuto liberare.
Adesso
era morto, un nuovo Siddhartha s’era ridesto da quel sonno. Anch’egli un giorno
avrebbe dovuto morire.
Con
animo sereno contemplava la corrente del fiume. Gli pareva che il fiume avesse
qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa che egli non sapeva ancora, qualcosa
che aspettava proprio lui. In quel fiume Siddhartha s’era voluto annegare, in
quel fiume oggi era annegato il vecchio, stanco, disperato Siddhartha. Ma il
nuovo Siddhartha sentiva un amore profondo per quest’acqua fluente, e decise
tra sé di non abbandonarla tanto presto.
IL BARCAIOLO
Con
affetto guardò il fluir dell’acqua, in quel suo verde trasparente, nelle linee
cristalline del suo disegno pieno di segreti. E l’azzurro del cielo vi si
rifletteva. E anche il fiume lo guardava a sua volta, coi suoi mille occhi
verdi, bianchi, cristallini, azzurri come il cielo. Quest’acqua lo affascinava:
Udiva in cuore ora la voce ridesta, ed essa gli ripeteva: Ama quest’acqua!
Resta con lei! Impara da lei! Voleva ascoltarla, da lei voleva imparare! Chi fosse riuscito a comprendere
quell’acqua e i suoi segreti – così gli pareva – avrebbe compreso anche molte
altre cose, molti segreti, tutti i segreti. Ecco quel che vedeva: quest’acqua
correva, correva, sempre correva, eppure era sempre lì, era sempre e in ogni
momento la stessa, eppure in ogni istante un’altra! Oh, chi potesse afferrar
questo mistero, comprenderlo!
“Una bella vita ti sei scelto”
cominciò il viaggiatore. “Bello dev’essere vivere ogni giorno su quest’acqua e
attraversarla di continuo.”
“È bello, signore, è proprio come tu
dici. Ma non è bella ogni vita, ogni lavoro?”
“Ora ti riconosco.” Disse alla fine.
Una volta tu hai dormito nella mia capanna, tanto tempo fa, forse più di
vent’anni, e poi io ti portai dall’altra parte del fiume e ci separammo come
buoni amici.
Ascoltò con grande attenzione. Tutto
assimilò ascoltando: Nascita e fanciullezza di Siddhartha, tutti i suoi studi,
tutto il suo gran cercare, tutta la gioia, tutta la pena. Tra le virtù del
barcaiolo questa era una delle più grandi: sapeva ascoltare come pochi.
Siddhartha parlando sentiva come pur senza aver detto una parola, accogliesse
in sé le parole sue: tranquillo, aperto, tutto in attesa, e non ne perdesse
una, non ne aspettasse una con impazienza, non vi annettesse né lode, né
biasimo, semplicemente ascoltava.
“Ti ringrazio di avermi ascoltato.
Sono rari gli uomini che sanno ascoltare, e non ne ho mai incontrato uno che
fosse così bravo come sei tu. Anche in questo avrò da imparare da te.”
“Imparerai anche questo.” Disse, “ma
non da me.”
Ad ascoltare mi ha insegnato il
fiume e anche tu imparerai da lui. Lui sa tutto, il fiume, tutto si può imparare
da lui. Vedi, anche questo tu l’hai già imparato dall’acqua, che è bene
discendere, tendere verso il basso, cercare il profondo.
Vedi, io non sono un sapiente, non
so parlare, non so nemmeno pensare. So soltanto ascoltare ed essere pio, altro
non ho imparato mai. Se potessi dirtelo e insegnartelo, forse sarei un saggio,
invece non sono che un barcaiolo e il mio compito è di portare gli uomini al di
là di questo fiume. Molti ne ho traghettati, migliaia, e per tutti costoro il
mio fiume non è stato altro che un ostacolo sul loro cammino. Ma fra quelle
migliaia alcuni pochi, quattro o cinque, non più, per i quali il fiume aveva
cessato d’essere un ostacolo, ne hanno sentito la voce, l’hanno ascoltato, e il
fiume è diventato loro sacro, come per me.
Ma più di quanto gli uomini
potessero insegnargli, gli insegnava il fiume. Prima di tutto da esso apprese
ad ascoltare, a porger l’orecchio con serenità di cuore, con l’anima aperta, in
attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare, senza opinioni.
Talvolta scambiavano qualche parola,
poche e ben ponderate parole.
Hai appreso anche tu dal fiume quel segreto:
che il tempo non esiste?
“Sì, Siddhartha”, rispose, “ma è
questo ciò che tu vuoi dire: che il fiume si trova dovunque in ogni istante,
alle sorgenti e alla foce, alla cascata, alle rapide, nel mare, in montagna,
dovunque in ogni istante, e che per lui non vi è che presente, neanche l’ombra
del passato, neanche l’ombra dell’avvenire?”.
“Sì, questo,”disse Siddhartha. “E
quando l’ebbi appreso allora considerai la mia vita, e vidi che è anch’essa un
fiume, vidi che soltanto ombre, ma nulla di reale, separano il ragazzo
Siddhartha dall’uomo Siddhartha e dal Siddhartha anziano.”
Nulla fu, nulla sarà: Tutto è, tutto
ha realtà e presenza. Non era forse tempo ogni dolore, non era forse tempo ogni
tormentarsi e aver paura? E non sarebbero stati superati e soppressi tutto il
peso, tutta l’ostilità del mondo, non appena si fosse superato il tempo , non
appena si fosse superato il tempo, non appena si fosse trovato il modo di
annullare il pensiero del tempo?
Non è vero, amico, che il fiume ha
molte voci, moltissime voci?
Così è, ammise, tutte le voci delle
creature sono nella sua. E sai, continuò Siddhartha, che parola dice quando ti
riesce di udire tutte insieme le sue diecimila voci? Il sacro Om.
Tacevano e ascoltavano l’acqua, che
per loro non era acqua, ma la voce della vita, la voce di ciò che è, ed
eternamente diviene; il miracolo della vita risiede nella sua stessa esistenza.
Accadeva talvolta che uno dei
viaggiatori, dopo aver guardato in volto uno dei barcaioli, cominciasse a
raccontare la propria vita, rivelasse sofferenze, confessasse torti, chiedesse
consolazione e consiglio.
E accadeva anche che arrivassero
curiosi, ai quali era stato raccontato che vivevano a questo traghetto due
saggi o santi. I curiosi facevano un mare di domande, e non ricevevano l’ombra
d’una risposta. Non trovavano né saggi né santi ma solo due anziani buoni e che
parevano muti, forse anche un po’ scemi. E i curiosi ridevano e conversando tra
loro ammiravano con quanta stoltezza e leggerezza il popolo accetti e sparga simili voci senza
fondamento.
Si ricordò con affetto di lui, il
Sublime, vide davanti ai propri occhi la sua via di perfezione e ripensò
sorridendo alle parole che un tempo, da giovane, egli aveva rivolto a lui.
Erano state, così gli sembrava, parole orgogliose e saccenti – nel
rammentarsene sorrise.
No, l’uomo che cerca veramente,
l’uomo che veramente vuol trovare, non può accogliere nessuna dottrina. Ma quell’altro
uomo, quello che ha trovato, quello può ammettere ogni dottrina, ogni via, ogni
meta.
v
Capitoli dieci, undici e dodici.
Consultare l’opera autografa
v