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sabato 27 maggio 2017

Siddhartha - colourfulnote

 

Hermann  Hesse

 

 

 

 

 

SIDDHARTHA

 

Chi è Siddhartha? È uno che cerca, e cerca soprattutto di vivere intera la propria vita. Passa di esperienza in esperienza e non si ferma presso nessun maestro, non considera definitiva nessuna acquisizione, perché ciò che va cercato è il tutto, il misterioso tutto che si veste di mille volti cangianti. E alla fine quel tutto rifluirà dietro il perfetto sorriso di Siddhartha.

 

“Ho scoperto il segreto del mare meditando su una goccia di rugiada.”

Khalil Gibran

 

 

“Cercare è già di per sé trovare.”

 Sant’Agostino

 

 

 

 

 

 

 

frammento di lettura

 

I N D I C E

                                                                                                                          p.

 

PARTE PRIMA

 

Il figlio del Brahmano                                                                                                                                                                3

Presso i Samana                                                                                                                                                                         5

Gotama                                                                                                                                                                                       7

Risveglio                                                                                                                                                                                    9

 

 

PARTE SECONDA

 

Kamala                                                                                                                                                                                       10

Tra gli uomini bambini                                                                                                                                                              11

Samsara                                                                                                                                                                                      12

Presso il fiume                                                                                                                                                                           13

Il barcaiolo                                                                                                                                                                                 15

Il figlio                                                                                                                                                                   opera autografa

Om                                                                                                                                                                         opera autografa

Govinda                                                                                                                                                                 opera autografa

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

Hermann Hesse, Siddhartha, Piccola Biblioteca ADELPHI, 1975

PARTE PRIMA

IL FIGLIO DEL BRAHMANO

 

Siddhartha prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con l’amico Govinda nell’arte oratoria, nonché nell’esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore.

Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello che egli vedeva svilupparsi in lui.

L’amore si agitava nel cuore delle giovani figlie dei brahmani, quando Siddhartha passava per le strade della città, con i suoi occhi regali, così slanciato e nobile nella persona.

Govinda voleva seguire Siddhartha, il prediletto, il magnifico. E se fosse asceso un giorno nella gloria dei celesti, allora Govinda l’avrebbe seguito, come suo amico, suo scudiero, sua ombra.

Così tutti amavano Siddhartha. A tutti gli dava gioia, tutti ne traevano piacere.

Ma lui, Siddhartha, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso. Amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore.

Lo assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole; sogni e un’agitazione dell’anima lo assalivano.

Siddhartha aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza.

Aveva cominciato a sentire che l’amore di suo padre e di sua madre, e anche l’ amicizia di Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non gli avrebbero dato la quiete, non l’avrebbero saziato.

Aveva cominciato a sospettare che il suo degnissimo padre e gli altri suoi maestri, cioè i saggi brahmani, gli avessero già impartito il più e il meglio della loro saggezza; lo spirito di Siddhartha non era soddisfatto, l’anima non era tranquilla, non placato il cuore.

 

“L’ anima tua è l’intero mondo”

Verso del Sama-Veda

 

“Dov’era questo Io? Questa interiorità? Ahimè! Questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva. Cose infinite sapevano… Ma valeva la pena saper tutto questo, se non si sapeva l’Uno ed Unico, la cosa più importante di tutte, la sola cosa importante?

Scoprire la fonte originaria nel proprio Io e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione.”

Tali erano i pensieri di Siddhartha.

Spesso gli pareva vicino, il mondo celeste, ma mai l’aveva raggiunto interamente, mai aveva spento l’ultima sete. E di tutti i saggi e dottissimi che egli conosceva non uno ve n’era che l’avesse raggiunto interamente, il mondo celeste, non uno che interamente l’avesse spenta, l’eterna sete.

“Domani mattina per tempo, amico mio, Siddhartha andrà dai samana. Diventerà un samana anche lui.”

Subito, al primo sguardo, Govinda si rese conto: ora comincia, ora trova Siddhartha la sua via, ora comincia il suo destino a germogliare.

Parlò Siddhartha : ”Col tuo permesso, padre mio. Sono venuto ad annunciarti che desidero abbandonare la tua casa domani mattina e recarmi fra gli asceti. Diventare un samana, questo è il mio desiderio. Voglia il padre mio non opporsi. ”

Tacque il brahmano: tacque a lungo. Muto e immobile stava ritto il figlio con le braccia conserte.

Finalmente parlò il padre: ” Ch’io non senta questa preghiera una seconda volta dalla tua bocca”.

Siddhartha restava in piedi, muto, con le braccia conserte.

“Che aspetti?” Chiese il padre.

Disse Siddhartha: “Tu lo sai”.

Irritato uscì il padre dalla stanza e si coricò. Dopo un’ora, poiché il sonno tardava, il brahmano si alzò, guardò attraverso la piccola finestra della stanza e vide Siddhartha in piedi, con le braccia conserte: non s’era mosso.

E venne di nuovo dopo un’ora, venne dopo due ore, vide Siddhartha in piedi, nel chiaro di luna, al bagliore delle stelle, nelle tenebre. Ritornò nell’ultima ora della notte, prima che il giorno spuntasse, entrò nella stanza, vide il giovane in piedi.

“Siddhartha,” chiese “che attendi?”.

“Tu lo sai”.

“Starai sempre così ad aspettare che venga giorno, mezzogiorno e sera?”

“Starò ad aspettare”.

“Ti stancherai, Siddhartha”.

“Mi stancherò”.

“Ti addormenterai, Siddartha”.

“Non mi addormenterò”.

“Morirai, Siddhartha”.

“Morirò”.

“E preferisci morire, piuttosto che obbedire a tuo padre?”.

“Siddhartha ha sempre obbedito a suo padre”.

“Allora rinunci al tuo proposito?”.

“Siddhartha farà ciò che suo padre gli dirà di fare”.

Nel volto di Siddhartha non si vedeva alcun tremito: Gli occhi guardavano lontano. Allora il padre si accorse che Siddhartha non abitava già più con lui in quella casa: Siddhartha l’aveva già abbandonato.

Il padre posò la mano sulla spalla di Siddhartha.

“Andrai nella foresta,” disse “e diverrai un samana. Se nella foresta troverai la beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione, ritorna: riprenderemo insieme.

Ora va’ a baciar tua madre, dille dove vai. Tolse la mano dalla spalla di suo figlio, e uscì.

Siddhartha barcollò, quando provò a muoversi. Ma fece forza alle sue membra, s’inchinò davanti al padre e andò dalla mamma, per fare come suo padre aveva prescritto.

“Sei venuto” disse Siddhartha, e sorrise.”

“Sono venuto” disse Govinda. ”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESSO I SAMANA

“Siddhartha fece dono della sua veste a un povero brahmano incontrato sulla strada. Non portava più che il perizoma e una tunica color terra, senza cuciture. Mangiava soltanto una volta al giorno, e mai cibi cotti. Digiunò per quindici giorni. Digiunò per ventotto giorni. Dalle cosce e dalle guance gli sparì la carne. Dai suoi occhi smisuratamente ingranditi parevano prendere il volo ardenti visioni. Gelido diventava il suo sguardo quando incontrava donne; la sua bocca si contraeva con disprezzo quand’egli in una città doveva accompagnarsi con uomini ben vestiti. Vedeva i mercanti commerciare, la gente in lutto piangere i suoi morti, i medici affannarsi per i loro ammalati, i sacerdoti stabilire il giorno per la semina, gli amanti amare, le madri allattare i loro bimbi – e tutto ciò non era degno dello sguardo dei suoi occhi, tutto mentiva, tutto simulava significato e felicità e bellezza. Amaro era il sapore del mondo. La vita, tormento.

Una meta, una sola, si proponeva Siddhartha: diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore. Morire a se stesso, non essere più “Io”, trovare la pace con il cuore svuotato, nella spersonalizzazione del pensiero rimanere aperto al miracolo, questa era la sua meta.

Quando ogni residuo dell’Io fosse superato ed estinto, quando ogni brama e ogni impulso tacesse nel cuore, si sarebbe destata allora l’ultima essenza, lo strato più profondo dell’essere, quello che non è più Io: il grande mistero.

Tacendo Siddhartha restava in piedi sotto il sole a picco, ardendo di dolore, ardendo di sete, finché non sentisse più né dolore né sete. Tacendo stava in piedi sotto la pioggia e il penitente restava in piedi finché spalle e gambe non fossero più gelate, ma tacessero. Tacendo egli s’accoccolava su giaciglio di spine, e dalla pelle gocciolava il sangue, e Siddhartha rimaneva rigido, immobile, finché più non colasse il sangue, finché più nulla pungesse.

Siddhartha imparava l’economia del respiro, Imparava, partendo dal respiro, ad assopire il palpito del cuore, imparava a ridurne i battiti, finché fossero pochi e sempre più radi.

Siddhartha praticò la spersonalizzazione attraverso il dolore e il superamento del dolore, della fame, della sete, della stanchezza, praticò la concentrazione attraverso la meditazione, svuotando la mente da ogni immagine per mezzo del pensiero.

Mille volte abbandonò il proprio Io, per ore e per giorni indugiò nel non-Io. Mille volte Siddhartha poteva sfuggire dal suo Io; inevitabile era il ritorno, inesorabile l’ora in cui egli – splendesse il sole oppure la luna, sotto la pioggia o nell’ombra – ritrovava se stesso e di nuovo provava il tormento di non poter sfuggire al ciclo dell’esistenza.

Accanto a lui viveva Govinda, come la sua ombra, percorreva le stesse vie, si sottoponeva agli stessi sforzi.

“Che ne pensi, Govinda? Abbiamo fatto progressi? Abbiamo raggiunto la meta?”.

Rispose Govinda: “Abbiamo imparato, e impariamo ancora”.

Disse Siddhartha: ” Io non sono di questo parere, amico mio. Ciò che ho imparato finora presso i samana, o Govinda, avrei potuto impararlo più presto e semplicemente tra carrettieri e giocatori di carte”.

Disse Govinda: “Come avresti potuto imparare, là, tra quegli sciagurati, la concentrazione, la sospensione del respiro, l’insensibilità alla fame e al dolore?”.

E Siddhartha disse piano, come se parlasse a se stesso:

“Che cos’è la concentrazione? Che cosa l’abbandono del corpo? Che cosa la volontaria sofferenza?  Che cos’è il digiuno? Che cosa la sospensione del respiro? Tutto questo è fuga dall’Io, breve pausa nel tormento d’essere Io, è un effimero stordirsi contro il dolore insensato della vita. La stessa evasione, lo stesso effimero stordimento prova colui che beve alcuni bicchieri d’acquavite. Allora costui non sente più il proprio Sé, allora non sente più le pene della vita.

E prova lo stesso, sonnecchiando sul suo bicchiere d’acquavite, che provano Siddhartha e Govinda, quando riescono a sfuggire, grazie a lunghi esercizi, dai loro corpi, e a indugiare nel non-Io. Così è, o Govinda.

Disse Govinda: “Certo il beone trova breve tregua ed evasione, ma egli ritorna dalla sua ebbrezza e ritrova tutto come prima, non è diventato più saggio, non ha raccolto conoscenza, non è salito di un gradino più in alto.”

E Siddhartha replicò con un sorriso:” Non lo so, non sono mai stato un beone. Ma che io, Siddhartha, nelle mie pratiche e concentrazioni trovo soltanto un breve stordimento e rimango tanto lontano dalla saggezza, dalla liberazione, quanto lo ero infante nel ventre della madre, questo lo so, Govinda, questo lo so.”

“Ma ora, o Govinda, siamo veramente sulla retta via? Ci accostiamo veramente alla conoscenza? Ci avviciniamo davvero alla liberazione? O non ci aggiriamo piuttosto in un cerchio, noi che miravamo invece a sottrarci al ciclo dell’esistenza?”.

Disse Govinda: “Molto abbiamo appreso, Siddhartha, molto rimane ancora da apprendere. Non ci moviamo in cerchio, ci moviamo verso l’alto, il cerchio è una spirale, e di molti gradini siamo già ascesi”.

Rispose Siddhartha: “Che età credi che abbia il più vecchio dei nostri samana, il nostro venerabile maestro?”.

Disse Giovinda: “Il più vecchio di noi potrà avere un sessant’anni”.

E Siddhartha: “Sessant’anni è vissuto e il nirvana non l’ha mai raggiunto e tu e io diverremo vecchi e faremo i nostri esercizi, digiuneremo, mediteremo. Ma il nirvana non lo raggiungeremo: non lo raggiungerà il maestro, non lo raggiungeremo noi. Di tutti i samana che esistono non uno, io credo, raggiunge il nirvana.

Troviamo conforti, troviamo da stordirci, acquistiamo abilità con le quali cerchiamo d’illuderci. Ma l’essenziale, la strada delle strade non la troviamo”.

“Presto, Govinda, il tuo amico abbandonerà questa via dei Samana che ha così a lungo percorso con te. Io soffro la sete, o Govinda, e su questa lunga via dei samana la mia sete non si è per nulla placata.

Sempre ho sofferto la sete del sapere, sempre sono stato pieno d’interrogativi. Ho interrogato i brahmani, d’anno in anno, ho interrogato i sacri Veda, d’anno in anno.

Lungo tempo ho impiegato, o Govinda, per imparare questo: che non si può imparare nulla!

Nella realtà non esiste, io credo, quella cosa che chiamiamo “imparare”. C’è soltanto, o amico, un sapere, che è ovunque, che è Atman, che è in me e in te e in ogni essere.

E così comincio a credere: questo sapere non ha nessun peggior nemico che il voler sapere, che l’imparare”.

Govinda si fermò di botto in mezzo alla strada, alzò le mani e disse: “In verità, paura risvegliano le tue parole nel mio cuore. Ma pensa dunque: che ne sarebbe della santità delle preghiere se fosse così come tu dici, se non fosse possibile imparare?! Che ne sarebbe allora, o Siddhartha, di tutto ciò che sulla terra v’ha di santo, di venerabile, di degno?!”.

E Govinda mormorò un versetto tra sé e sé:

Chi s’immerge meditando, con puro intelletto,

Parole non v’hanno ad esprimere la beatitudine del suo cuore.

Ma Siddhartha taceva. Pensava alle parole che Govinda gli aveva dette, e le pensava a fondo.

Sì, pensava a testa bassa, che cosa rimarrebbe ancora di tutto ciò che ci pareva sacro? Che cosa rimane? Che cosa resta confermato? E scosse il capo.”

 Un giorno giunse fino a loro una notizia, una voce: un uomo era apparso, chiamato Gotama, il Sublime, il Buddha. Percorreva il paese insegnando, circondato di giovani, senza ricchezze, senza casa, senza donna, avvolto nel giallo saio dell’asceta, ma con fronte serena: un beato.

Il nome Gotama, il Buddha, ritornava alle orecchie dei giovani oggetto di lode e di scherno.

Certo dura da sopportare era la vita, ed ecco, qui sembrava che sgorgasse una fonte, qui sembrava che risuonasse un messaggio consolatore, benigno, pieno di nobili promesse.

“Parla, amico mio, non vogliamo anche noi andar laggiù ad ascoltare la dottrina dalla bocca del Buddha?”.

Disse Siddhartha: “Sono diventato diffidente e stanco verso le dottrine e verso l’apprendere, e che scarsa è la mia fede nelle parole che ci vengono dai maestri. Tuttavia sta bene, mio caro, sono pronto ad ascoltare quella dottrina, sebbene nel mio cuore io creda che di tale dottrina il meglio l’abbiamo già sperimentato.”

Quello stesso giorno Siddhartha notificò al più vecchio dei samana la propria decisione di volerlo lasciare. Ciò gli rese noto con quella cortesia e quella modestia che si addicono a un giovane e a un discepolo. Ma il samana andò in collera a sentire che i due giovani lo volevano abbandonare, e alzò la voce con grossolane parole di oltraggio.

Govinda si spaventò e rimase altamente imbarazzato, ma Siddhartha accostò la bocca all’orecchio di Govinda e gli sussurrò: “Ora voglio mostrare al vecchio che qualcosa con lui ho pure imparato”.

Ponendosi ben vicino di fronte al samana, con l’anima tutta concentrata, colse col proprio sguardo lo sguardo del vecchio e lo avvinse, lo fece ammutolire, disarmò la sua volontà, il vecchio si inchinò, eseguì gesti di benedizione, pronunciò un augurio di buon viaggio.

 

 

 

GOTAMA

Disse la donna: “Veramente in buon punto siete arrivati voi, samana del bosco. Sappiate che a Jetavana, nel giardino di Anathapindika si trattiene il Sublime”.

Come vi giunsero, nella notte, era un continuo movimento di nuovi arrivi, continue domande e risposte di gente che chiedeva e otteneva ospitalità.

Siddhartha lo vide. Lo vide, un ometto semplice, dalla veste gialla, che camminava tranquillo con in mano la sua ciotola per le elemosine.

“Guarda là!” disse piano Siddhartha a Govinda. “Quello là è il Buddha”.

Il monaco non pareva distinguersi in nulla dai cento e cento altri monaci. E lo seguirono, osservandolo.

Il Buddha andava per la sua strada, modesto e immerso nei propri pensieri; la sua faccia tranquilla non era né allegra né triste, solo pareva illuminata da un lieve sorriso interiore. Con un sorriso nascosto, cheto, tranquillo, non dissimile da un bambino sano e ben disposto, camminava il Buddha, il suo volto e il suo passo, il suo sguardo chetamente abbassato esprimevano pace, esprimevano perfezione: egli respirava dolcemente in una quiete imperitura, in un’imperitura luce, in una pace inviolabile, in cui non vi era ricerca, non vi era desiderio, non imitazione, non sforzo, ma solo luce e pace. Siddhartha era poco curioso della dottrina, non credeva che essa gli potesse apprendere qualcosa di nuovo.

Udirono il Buddha predicare. Udirono la sua voce, e anche questa era perfetta, di perfetta calma, piena di pace. Gotama predicò la via dottrina del dolore: l’origine del dolore, la via per superare il dolore. Tranquillo e chiaro fluiva il suo pacato discorso. Dolore era la vita, pieno di dolore il mondo, ma la liberazione dal dolore s’era trovata: L’avrebbe trovata chi seguisse la via del Buddha. Limpida e calma si librava la sua voce sugli ascoltatori, come una luce, come un cielo stellato.

Govinda disse: “Anch’io voglio rifugiarmi presso il Sublime e la sua dottrina” e pregò d’essere accolto nella comunità dei discepoli, e fu accolto.

Govinda aggiunse: “Tu, Siddhartha, mio degno amico non vuoi anche tu seguire il sentiero della liberazione? Vuoi indugiare? Vuoi aspettare ancora?”.

Siddhartha si destò come da un sogno, quando sentì le parole di Govinda. A lungo lo fissò nel volto. Poi parlò sommessamente, e nella sua voce non c’era scherno: “Govinda, amico mio, ora tu hai fatto il passo, ora tu hai scelto la tua strada. Sempre tu m’hai seguito a distanza di un passo. Spesso avevo pensato: non farà mai, Govinda, un passo da solo, senza di me. Ed ecco, ora tu sei diventato un uomo, e scegli da te la tua strada. Possa tu percorrerla fino alla fine, Amico mio! Possa tu trovare la liberazione!”.

Siddhartha passeggiava pensieroso attraverso il boschetto. S’ imbatté così in Gotama, il Sublime, e lo salutò rispettosamente e poiché lo sguardo del Buddha era pieno di bontà e di dolcezza, il giovane si fece animo e chiese al degno uomo il permesso di parlargli. Con un cenno silenzioso il Sublime assentì.

Disse Siddhartha: “Una cosa, o venerabilissimo, ho ammirato sopra ogni altra nella tua dottrina. Tutto in essa è perfettamente chiaro e dimostrato; come una perfetta catena, mai e in nessun luogo interrotta, tu mostri il mondo. Mai ciò è stato visto con tanta chiarezza, né esposto in modo più irrefutabile; certamente più vivo deve battere il cuore in petto a ogni uomo quand’egli, attraverso la tua dottrina, vede il mondo come una perfetta concatenazione, senza soluzioni di continuità, limpido come un cristallo, non dipendente dal caso, non dipendente dagli dèi. Se esso sia buono o cattivo, se la vita vi sia gioia o dolore (possibile, forse, che questa non sia la cosa essenziale); ma l’unità del mondo, la connessione di tutti gli avvenimenti, l’inclusione di ogni essere nella stessa corrente, nella stessa legge di causalità, del divenire e del morire, questo risplende chiaramente dalla tua sublime dottrina, o Perfettissimo. Ma ora, secondo la tua stessa dottrina, in un punto è interrotta questa unità e consequenzialità di tutte le cose: la tua dottrina del superamento del mondo, della liberazione. Ma con questa rottura viene infranto e compromesso l’intero ordinamento del mondo unitario ed eterno. Voglimi perdonare, se ho osato proporti quest’obiezione”.

Tranquillo e immobile lo aveva ascoltato Gotama. Quindi parlò a sua volta, il Perfetto: parlò con la sua voce chiara e cortese: “Tu hai udito la dottrina e torna a tuo onore di avervi riflettuto così profondamente. Tu vi hai trovato un errore. Possa tu andar oltre con il pensiero. Permetti solo che io ti metta in guardia, o tu che sei avido di sapere, contro la molteplicità delle idee. Le opinioni non contano niente, possono essere belle o odiose, intelligenti o stolte, ognuno può adottarle o respingerle. Ma la dottrina che hai udito da me, non è mia opinione, e il suo scopo non è di spiegare il mondo agli uomini avidi di sapere. Un altro è il suo scopo: La liberazione dal dolore. Questo è ciò che Gotama insegna, null’altro”.

Il giovane disse: “Non un minuto io ho dubitato di te, Non un minuto ho dubitato che tu sei Buddha, che tu hai raggiunto la meta. Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te attraverso la tua ricerca, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada, attraverso il pensiero, la concentrazione, la conoscenza, l’illuminazione. Non ti è venuta attraverso la dottrina! E - tale è il mio pensiero, o Sublime – nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o Venerabile, tu potrai mai, con parole e attraverso una dottrina, comunicare ciò che avvenne in te nell’ora della tua illuminazione! Molto contiene la dottrina del Buddha illuminato: a molti essa insegna a vivere rettamente, a evitare il male. Ma una cosa non contiene questa dottrina così limpida, così degna di stima: non contiene il segreto di ciò che il sublime stesso ha vissuto, egli solo fra centinaia di migliaia.

Questo è il motivo per cui io continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n’è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire. Ma spesso ripenserò a questo giorno, o Sublime, e a quest’ora, in cui i miei occhi videro un santo.”

“Possano i tuoi pensieri non essere errori!” parlò lentamente il venerabile. “Possa tu giungere alla meta! Ma dimmi, hai visto i miei fratelli che nella dottrina hanno cercato rifugio? E credi tu che per tutti costoro sarebbe meglio abbandonare la dottrina e rientrare nella vita del mondo?”.

“Lungi da me tale pensiero!” esclamò Siddhartha. “Possano essi rimanere tutti fedeli alla dottrina, possano raggiungere la loro meta! Non tocca a me giudicare la vita di un altro! Solo per me, per me soltanto devo giudicare, devo scegliere. Se io diventassi ora uno dei tuoi discepoli, o Venerabile, mi avverrebbe – temo – che solo in apparenza, solo illusoriamente il mio Io giungerebbe alla quiete e alla liberazione.”

“Tu sei intelligente, o Samana” disse il Venerabile. “Sai parlare con intelligenza, amico mio. Stai in guardia da soverchia intelligenza!”

Mai ho visto un uomo guardare, sorridere, sedere, camminare a quel modo, pensava Siddhartha, così veramente desidero anch’io saper guardare, sorridere, sedere e camminare, così libero, modesto, aperto, infantile e misterioso! Così veramente guarda e cammina soltanto l’uomo che è disceso nell’intimo di se stesso. Bene, cercherò anch’io di discendere nell’intimo di me stesso.

Ho visto un uomo, pensava Siddhartha, un uomo unico, davanti al quale ho dovuto abbassare lo sguardo. Davanti a nessun altro voglio mai più abbassare lo sguardo: a nessun’altro.

Il Buddha m’ha derubato del mio amico, di colui che credeva in me e che ora crede in lui, ma mi ha donato Siddhartha, mi ha fatto dono di me stesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RISVEGLIO

Quando Siddhartha lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, allora egli sentì che in quel boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e da lui si separava. Su questa sensazione egli venne riflettendo. Profondamente vi pensò, come attraverso un’acqua profonda si lasciò calare fino al fondo di questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere cause ultime, questo è appunto pensare e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto.

Riconobbe che una cosa l’aveva abbandonato: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine.

“Ma che cos’è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti? L’io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza.”

“Che io non sappia nulla di me, che Siddhartha mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, ero in fuga da me stesso! Cercavo la vita, il divino, l’assoluto ma intanto ferivo e stancavo me stesso; proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso.

Oh! Ora Siddhartha non me lo voglio più lasciar scappare! Basta, cominciare il pensiero e la vita col dolore del mondo! Basta, uccidermi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più alcuna dottrina a istruirmi. È da me che voglio imparare, di me stesso voglio essere il discepolo, voglio conoscermi, svelare quel mistero che ha il nome Siddhartha.

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna e in mezzo v’era lui, Siddhartha, l’uomo sulla via del risveglio, sulla strada che conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto quel giallo e azzurro, fiume e bosco non era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume, tale era appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddhartha.

Il senso e l’essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.

Quando uno legge uno scritto di cui vuole conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e involucro senza valore, bensì li decifra, li studia, e li ama lettera per lettera.

Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio essere, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d’un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio fenomeno accidentale e senza valore. No, tutto questo è finito, mi sono risvegliato davvero e oggi nasco per la prima volta.”

Immobile restò Siddhartha, e per un attimo, la durata d’un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto quando s’accorse quanto fosse solo.

Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì. Nessuno era così solo come lui.

Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella solitaria, da questo momento di gelo e di sgomento Siddhartha emerse, più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto. Lo sentiva: questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo del nascimento. E riprese il suo cammino non più indietro.

A ogni passo del suo camino Siddhartha imparava qualcosa di nuovo, poiché il mondo era trasformato e il cuore ammaliato. Vedeva alberi, stelle, animali, nuvole, arcobaleni, rocce, fiumi, ruscelli e fiumi; vedeva la rugiada luccicare nei cespugli al mattino, il vento vibrava argentino nelle risaie. Tutto questo era sempre esistito nei suoi mille aspetti variopinti, ma nel passato tutto ciò non era stato per Siddhartha che un velo effimero e menzognero calato davanti ai suoi occhi, considerato con diffidenza e destinato ad essere trapassato e dissolto dal pensiero, poiché non era realtà: la realtà era al di là delle cose visibili. Ma ora il suo occhio liberato s’indugiava al di qua, vedeva e riconosceva le cose visibili, non aspirava ad alcun al di là.

Bello e piacevole sentirsi così bambino, così aperto all’immediatezza delle cose, così fiducioso.

Tutto ciò era sempre stato, ed egli non l’aveva mai visto: non vi aveva partecipato. Ma ora sì, vi partecipava e vi apparteneva. Luce e ombra attraversavano la sua vista, le stelle e la luna gli attraversavano il cuore.

Belle cose l’una e l’altra, i sensi e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto il significato ultimo; a entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occorreva esercitare, di entrambe occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde dell’animo. A nulla egli voleva d’ora innanzi aspirare, se non a ciò cui la voce gli comandasse d’aspirare, in nessun luogo indugiarsi, se non dove glielo consigliasse la voce. Una voce nel proprio cuore.

 

Durante la notte, mentre dormiva, nella capanna di paglia d’un barcaiolo sulla riva del fiume, Siddhartha ebbe un sogno:

Triste sembrava una donna, e triste chiedeva: perché mi hai abbandonato? Allora egli la cingeva con le braccia, e la tirava al proprio petto e la baciava.

Quando Siddhartha si svegliò, pallido, scintillava il fiume attraverso la porta della capanna e nel bosco echeggiava profondo e sonoro l’oscuro richiamo della civetta.

“Anche questo ho imparato dal fiume: tutto ritorna!”

“Tutti sono riconoscenti, mentre avrebbero essi stessi diritto a riconoscenza. Tutti sono sottomessi, tutti desiderano essere amici, desiderano obbedire e pensare meno che si può. Bambini son gli uomini”.

 

 

 

PARTE SECONDA

 

 

 

KAMALA

 “L’amore si può riceverlo in dono, si può trovarlo per caso sulla strada, ma non si può estorcere.”

 “Devi eseguire ciò che hai imparato e farti dare in cambio denaro. Non c’è altro mezzo, per un povero, di procurarsi denaro.”

“Se tu getti una pietra nell’acqua, essa si affretta per la via più breve fino al fondo. E così è di Siddhartha, quando ha una meta, un proposito. Siddhartha aspetta, pensa, digiuna, passa attraverso le cose del mondo come la pietra attraversa l’acqua: egli viene attratto, e si lascia cadere. La sua meta lo tira a sé, poiché nell’anima propria egli non fa penetrar nulla che potrebbe contrastare a tale meta.

Ognuno può raggiungere i propri fini, se sa pensare, se sa aspettare, se sa digiunare.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRA GLI UOMINI-BAMBINI

 

Disse Siddhartha: “Non sono caduto in miseria e non son mai stato in miseria. Povero lo sono, non possiedo niente, se è questo che intendi dire. Per più di tre anni sono vissuto nella più assoluta povertà, e non ho mai pensato di che potessi vivere.”

“Allora sei vissuto dei beni degli altri.”

“Ognuno prende, ognuno dà. Così è la vita.”

“Ma permetti: se tu non possiedi nulla cosa vuoi dare?”

Ognuno dà di quel che ha. Io so pensare, so aspettare, so digiunare.”

 

“E a che serve per esempio il digiunare?”

“Quando un uomo non ha niente, digiunare è la cosa più saggia che possa fare. Siddhartha può aspettare tranquillo, non conosce impazienza, non conosce miseria.”

Kamaswami uscì e ritornò con un rotolo, che porse al suo ospite, chiedendo: “Sai leggere questo?”

Siddhartha cominciò a leggerne il contenuto.

“Benissimo! E vuoi scrivermi qualcosa su questo rotolo?”. Ciò dicendo gli porgeva un foglio e uno stilo: e Siddhartha scrisse e restituì il foglio.

Kamaswami lesse:

“Scrivere è bene, pensare è meglio. L’ intelligenza è bene, la pazienza è meglio. ”

Molte cose nuove apprese Siddhartha, ascoltò molto e parlò poco.

Apprese che, dopo una festa d’amore, gli amanti non debbono separarsi se non compresi di reciproca ammirazione, se non vinti e vincitori a un tempo, cosicché in nessuno dei due insorgano sazietà e noia e il sentimento cattivo d’avere abusato o d’aver subìto un abuso.

“Non ho mai visto Siddhartha aver paura d’un insuccesso, né inquietarsi per una perdita.”

Una volta Siddhartha si recò in un villaggio per comprarvi una grossa partita di riso. Ma quando giunse, il riso era già stato venduto a un altro mercante. Tuttavia Siddhartha rimase diversi giorni in quel villaggio, offrì banchetti, regalò monetine di rame, prese parte a una festa di nozze e ritornò soddisfattissimo dal suo viaggio.

Kamaswami lo rimproverò: perché non era tornato subito? Perché aveva sciupato tempo e denaro?

Siddhartha rispose:

“Non mi sgridare, caro amico! Non è ancora mai successo che sgridando si concludesse qualcosa.

Se c’è stata perdita addossala pure a me. Io sono molto contento di questo viaggio, ho viaggiato per mio piacere. Per che altro mai? Ho conosciuto uomini e paesi, ho goduto cortesie e confidenze, ho trovato amicizie, non ho danneggiato né me né il prossimo. E se mai capiterà che io debba ritornare, quegli uomini, che già mi sono amici, mi accoglieranno lietamente. Quando venga il giorno in cui tu ti debba accorgere: questo Siddhartha mi fa del danno, allora di’ una parola e Siddhartha se ne andrà per la sua strada.

Vani furono i tentativi del mercante per convincere Siddhartha che egli mangiava il suo pane, suo di lui, Kamaswami. Siddhartha mangiava il proprio pane o meglio – diceva – entrambi mangiavano il pane degli altri, il pane di tutti.”

Siddhartha restava sempre aperto a tutto ciò che questi uomini avessero da offrirgli.

 La maggior parte degli uomini, Kamala, sono come una foglia cadente, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come gli astri, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino.

Kamala disse: “O caro, tu non mi ami, non ami nessuna creatura umana. Non è così?”

Gli uomini-bambini possono amare: questo è il loro segreto.

 

SAMSARA

Era diventato ricco e già da tempo possedeva una casa propria con servitù e un giardino fuori della città lungo il fiume.

Nessuno gli era realmente vicino, a eccezione di Kamala.

Sempre s’era sentito separato dagli altri, sempre li aveva considerati con un po’ di disprezzo.

Siddhartha aveva preso qualcosa delle maniere degli uomini-bambini, qualcosa della loro puerilità e della loro timidezza. Eppure li invidiava per l’angosciosa ma dolce felicità del loro stato d’innamorati eterni. Questo egli non riusciva a imparare da loro, questa gioia infantile e questa infantile follia.

Nell’anima di Siddhartha, la ruota dell’ascetismo, la ruota del pensiero, la ruota dell’isolamento aveva ancora a lungo continuato a vibrare, vibrava ancora, ma lentamente indugiava ed era ormai prossima allo stato di quiete.

Il suo volto era ancor sempre più intelligente e più spirituale che quello degli altri, ma rideva raramente e assumeva quei tratti di insoddisfazione, di cagionevolezza, di scortesia, di delusione. Come un velo, come una nebbia sottile la stanchezza si calava su Siddhartha. S’accorgeva soltanto che quella voce limpida e sicura dell’animo suo, che un tempo si era destata in lui e nei suoi tempi d’oro l’aveva sempre guidato, era ammutolita.

La proprietà, il possesso e la ricchezza s’erano infine impadroniti di lui, erano diventati peso e catena.

Siddhartha cominciò a praticare con crescente passione il gioco in denaro e in gioielli.

Odiando se stesso, disprezzando se stesso guadagnava migliaia, perdeva migliaia. E dopo ogni perdita ingente egli anelava a nuove ricchezze, si rituffava energicamente nel commercio.

Voleva continuare a dissipare, voleva continuare a dimostrare il suo disprezzo per la ricchezza.

Siddhartha si augurava di potersi sbarazzare di questi godimenti, di queste abitudini, di tutta questa vita insensata e, in una parola, di se stesso.

Nessun valore e nessun senso aveva la vita da lui condotta fino allora; nulla di vitale, nulla che fosse in qualche modo prezioso o degno d’esser conservato gli era rimasto nelle mani. Solo, si trovava, e vuoto, come un naufrago sulla spiaggia.

Sentì la morte nel cuore, a poco a poco egli raccolse i propri pensieri e ripercorse in spirito l’intera via della propria vita. Allora aveva sentito nel proprio cuore: “Una via è aperta davanti a te, a cui tu sei chiamato, sulla quale ti attendono gli dèi”.

Ma da quanto temo ora non sentiva più questa voce, da quanto tempo non aveva più raggiunto le altezze, come piana era stata la sua vita, quanti lunghi anni senza un’alta meta.

S’era dato un gran da fare, per diventare un uomo come gli altri, come quei bambini, e con tutto questo la sua vita è stata molto più povera e più miserabile che la loro, poiché i suoi scopi non erano i loro, né egli ne condivideva i pensieri.

 

Samsara aveva nome questo gioco, un gioco di bambini, gioco forse piacevole a giocare una volta, due volte, dieci volte. Ma sempre, sempre da capo?

E così seppe Siddhartha che il gioco era finito.

In quella stessa notte Siddhartha abbandonò il suo giardino, abbandonò la città e non vi ritornò mai più.

Da quel giorno in poi Kamala non ricevette più visite, e tenne chiusa la propria casa. Ma dopo qualche tempo s’accorse che, dal suo ultimo convegno con Siddhartha, era rimasta incinta.

 

 

 

 

 

 

PRESSO IL FIUME

Siddhartha errò nel bosco, non c’era più nulla nel mondo che lo potesse attirare, rallegrare, consolare. Siddhartha giunse al grande fiume, quello stesso fiume sul quale l’aveva traghettato un giorno un barcaiolo.

Presso questo fiume si fermò e rimase indeciso sulla riva. Stanchezza e fame l’avevano indebolito, e poi perché andare oltre? A quale meta?

Sulla riva del fiume pendeva un albero inclinato, un albero di cocco; Siddhartha vi si appoggiò con la spalla, mise il braccio attorno al tronco e guardò in giù nell’acqua verde, che scorreva senza posa ai suoi piedi, guardò giù e si sentì interamente pervaso dal desiderio di lasciarsi andare e sparire entro quell’acqua. Lo specchio dell’acqua gli rifletteva un vuoto raccapricciante, che faceva riscontro al terribile vuoto dell’anima sua. Con profonda stanchezza si volse un poco per lasciarsi cadere.

Ed ecco, da riposti ricettacoli della sua anima, dalle remote lontananze della sua vita, palpitò un suono. Era una parola, una sillaba, l’antica parola con cui hanno inizio e fine tutte le preghiere dei brahmani, il sacro “Om”, che significa qualcosa come “ciò che è compiuto” o “la perfezione”. E nell’istante in cui il suono “Om” sfiorò l’orecchio di Siddhartha, immediatamente si risvegliò il suo spirito assopito, e riconobbe la stoltezza del suo atto.

E di nuovo Siddhartha seppe dell’indistruttibilità della vita, seppe di tutto il Divino che aveva dimenticato.

Ma fu solo un momento, un lampo, poi Siddhartha ricadde ai piedi dell’albero di cocco abbattuto dalla fatica: posò la testa sulle radici del tronco e cadde in un sonno profondo e libero da sogni.

Quando si risvegliò udì il lieve sussurrare dell’acqua, guardò con meraviglia gli alberi e il cielo e il passato gli apparve come avvolto in un velo, infinitamente lontano, infinitamente superato, infinitamente indifferente. Ora, risvegliato, guardava il mondo come un uomo nuovo, ringiovanito, lieto e curioso.

Siddhartha vide seduto di fronte a sé un uomo, non tardò a riconoscere in questo monaco Govinda, l’amico della sua giovinezza. Govinda esprimeva zelo, fedeltà, ansia di ricerca, premura. Ma quand’ora Govinda, sentendo il suo sguardo, aprì gli occhi e lo guardò, Siddhartha s’accorse che Govinda non lo riconosceva.

Govinda disse: “Signore, sono un discepolo del sublime Gotama, il Buddha, il Sakyamuni, e venivo in pellegrinaggio quando ti vidi giacere addormentato in un posto dov’è pericoloso dormire. Perciò sedetti accanto a te.”

“Ti ringrazio, samana, d’aver vegliato sul mio sonno” disse Siddhartha. “Siete premurosi, voi, discepoli del sublime. Ora puoi andare.”

Govinda fece un segno di saluto, e disse:”Addio”.

“Addio, Govinda” disse Siddhartha.

Il monaco s’arrestò.

“Scusa, signore, come sai il mio nome?”.

“Tu sei Siddhartha!” gridò forte Govinda. “Ora ti riconosco. Benvenuto, Siddhartha, grande è la mia gioia di rivederti.”

“Anch’io son lieto di rivederti. Dove vai, amico?”.

“In nessun posto, vado. Sempre siamo in cammino, noi monaci, viviamo secondo la nostra Regola, predichiamo la dottrina, raccogliamo elemosine, e passiamo oltre. Ma tu Siddhartha, dove vai?”.

Disse Siddhartha: “Anch’io mi trovo in una condizione come la tua, amico. Non vado in nessun posto. Sono soltanto in cammino. Vado errando. Oggi, tu hai incontrato un pellegrino, con queste scarpe, con questi abiti. Ricordati, caro: effimero è il mondo delle forme, effimeri, quanto mai effimeri, sono i nostri abiti e corpi. Io porto abiti da persona ricca, hai visto bene. Li porto perché sono stato ricco. ”

“E ora, Siddhartha, che cosa sei ora?”.

“Non lo so, ne so meno di te. Sono in cammino. Rapida si volge la ruota delle forme, Govinda. Dov’è il brahmano Siddhartha? Dov’è il samana Siddhartha? Dov’è il ricco Siddhartha? Rapida è la vicenda delle cose mortali, tu lo sai, Govinda.”

Govinda guardò a lungo l’amico della sua giovinezza; Poi lo salutò, come si salutano le persone di riguardo, e se ne andò per la sua strada.

Proprio in ciò consisteva l’incantesimo che s’era prodotto in lui, che ora egli amava ogni cosa, era pieno di lieto amore per tutto ciò che vedeva. E proprio questa era stata la sua grave malattia, di non saper amare nulla e nessuno.

Allora, così si ricordava di tre arti che aveva appreso negli anni diligenti e laboriosi della sua giovinezza: digiunare, aspettare, pensare. Questo era stato il suo fermo sostegno. E ora esse lo avevano abbandonato. Per la cosa più meschina le aveva cedute, la più effimera, per il piacere dei sensi, gli agi della vita, la ricchezza!

Ora eccomi di nuovo tale e quale come quand’ero bambino: nulla posseggo, nulla so, nulla posso, nulla ho imparato. Meraviglioso!

Ma che via fu questa! Son dovuto passare attraverso tanto errore, delusione e dolore, solo per ridiventare bambino e poter ricominciare da capo. Ho dovuto provare la disperazione, ho dovuto abbassarmi fino al più stolto di tutti i pensieri, al pensiero del suicidio, per poter rivivere la grazia, per poter di nuovo dormire tranquillo e risvegliarmi sereno.

Dove può ancora condurmi il mio cammino? Stolto è questo cammino, va descrivendo curve, forse va in cerchio. Ma vada come vuole, io son contento di seguirlo.

Finalmente sono di nuovo libero e sto sotto il cielo come un bambino? Quanto bene mi fa quest’essere fuggito, quest’essere ridiventato libero! Che aria bella e pura, qui, come fa bene il respirarla!

Ma qui non ho fallito, che sia finita con quell’odio contro me stesso.

Che i piaceri mondani e la ricchezza non siano un bene, questo l’avevo già imparato da bambino. Ma viverlo, l’ho vissuto soltanto ora. E ora lo so; lo so non solo con la mia mente, ma lo so coi miei occhi, col mio cuore. Buon per me che lo so!

Ora Siddhartha intuì perché avesse invano lottato col proprio Io. Troppa scienza l’aveva impacciato, troppi sacri versetti, troppa mortificazione, troppo affanno di azione! Pieno d’orgoglio era stato, sempre il più intelligente, sempre il più diligente, sempre di un passo davanti agli altri, sempre lui a sapere, sempre lui a vivere nello spirito, sempre lui il sacerdote o il saggio. In questo sacerdozio, in questo orgoglio, in questa spiritualità prosperava il suo Io. Ora se ne accorgeva, ora vedeva che la voce segreta aveva avuto ragione, che nessun maestro mai lo avrebbe potuto liberare.

Adesso era morto, un nuovo Siddhartha s’era ridesto da quel sonno. Anch’egli un giorno avrebbe dovuto morire.

Con animo sereno contemplava la corrente del fiume. Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa che egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui. In quel fiume Siddhartha s’era voluto annegare, in quel fiume oggi era annegato il vecchio, stanco, disperato Siddhartha. Ma il nuovo Siddhartha sentiva un amore profondo per quest’acqua fluente, e decise tra sé di non abbandonarla tanto presto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL BARCAIOLO

 

Con affetto guardò il fluir dell’acqua, in quel suo verde trasparente, nelle linee cristalline del suo disegno pieno di segreti. E l’azzurro del cielo vi si rifletteva. E anche il fiume lo guardava a sua volta, coi suoi mille occhi verdi, bianchi, cristallini, azzurri come il cielo. Quest’acqua lo affascinava: Udiva in cuore ora la voce ridesta, ed essa gli ripeteva: Ama quest’acqua! Resta con lei! Impara da lei! Voleva ascoltarla, da lei voleva imparare! Chi fosse riuscito a comprendere quell’acqua e i suoi segreti – così gli pareva – avrebbe compreso anche molte altre cose, molti segreti, tutti i segreti. Ecco quel che vedeva: quest’acqua correva, correva, sempre correva, eppure era sempre lì, era sempre e in ogni momento la stessa, eppure in ogni istante un’altra! Oh, chi potesse afferrar questo mistero, comprenderlo!

 

“Una bella vita ti sei scelto” cominciò il viaggiatore. “Bello dev’essere vivere ogni giorno su quest’acqua e attraversarla di continuo.”

“È bello, signore, è proprio come tu dici. Ma non è bella ogni vita, ogni lavoro?”

“Ora ti riconosco.” Disse alla fine. Una volta tu hai dormito nella mia capanna, tanto tempo fa, forse più di vent’anni, e poi io ti portai dall’altra parte del fiume e ci separammo come buoni amici.

Ascoltò con grande attenzione. Tutto assimilò ascoltando: Nascita e fanciullezza di Siddhartha, tutti i suoi studi, tutto il suo gran cercare, tutta la gioia, tutta la pena. Tra le virtù del barcaiolo questa era una delle più grandi: sapeva ascoltare come pochi. Siddhartha parlando sentiva come pur senza aver detto una parola, accogliesse in sé le parole sue: tranquillo, aperto, tutto in attesa, e non ne perdesse una, non ne aspettasse una con impazienza, non vi annettesse né lode, né biasimo, semplicemente ascoltava.

“Ti ringrazio di avermi ascoltato. Sono rari gli uomini che sanno ascoltare, e non ne ho mai incontrato uno che fosse così bravo come sei tu. Anche in questo avrò da imparare da te.”

“Imparerai anche questo.” Disse, “ma non da me.”

Ad ascoltare mi ha insegnato il fiume e anche tu imparerai da lui. Lui sa tutto, il fiume, tutto si può imparare da lui. Vedi, anche questo tu l’hai già imparato dall’acqua, che è bene discendere, tendere verso il basso, cercare il profondo.

Vedi, io non sono un sapiente, non so parlare, non so nemmeno pensare. So soltanto ascoltare ed essere pio, altro non ho imparato mai. Se potessi dirtelo e insegnartelo, forse sarei un saggio, invece non sono che un barcaiolo e il mio compito è di portare gli uomini al di là di questo fiume. Molti ne ho traghettati, migliaia, e per tutti costoro il mio fiume non è stato altro che un ostacolo sul loro cammino. Ma fra quelle migliaia alcuni pochi, quattro o cinque, non più, per i quali il fiume aveva cessato d’essere un ostacolo, ne hanno sentito la voce, l’hanno ascoltato, e il fiume è diventato loro sacro, come per me.

Ma più di quanto gli uomini potessero insegnargli, gli insegnava il fiume. Prima di tutto da esso apprese ad ascoltare, a porger l’orecchio con serenità di cuore, con l’anima aperta, in attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare, senza opinioni.

Talvolta scambiavano qualche parola, poche e ben ponderate parole.

Hai appreso anche tu dal fiume quel segreto: che il tempo non esiste?

“Sì, Siddhartha”, rispose, “ma è questo ciò che tu vuoi dire: che il fiume si trova dovunque in ogni istante, alle sorgenti e alla foce, alla cascata, alle rapide, nel mare, in montagna, dovunque in ogni istante, e che per lui non vi è che presente, neanche l’ombra del passato, neanche l’ombra dell’avvenire?”.

“Sì, questo,”disse Siddhartha. “E quando l’ebbi appreso allora considerai la mia vita, e vidi che è anch’essa un fiume, vidi che soltanto ombre, ma nulla di reale, separano il ragazzo Siddhartha dall’uomo Siddhartha e dal Siddhartha anziano.”

Nulla fu, nulla sarà: Tutto è, tutto ha realtà e presenza. Non era forse tempo ogni dolore, non era forse tempo ogni tormentarsi e aver paura? E non sarebbero stati superati e soppressi tutto il peso, tutta l’ostilità del mondo, non appena si fosse superato il tempo , non appena si fosse superato il tempo, non appena si fosse trovato il modo di annullare il pensiero del tempo?

Non è vero, amico, che il fiume ha molte voci, moltissime voci?

Così è, ammise, tutte le voci delle creature sono nella sua. E sai, continuò Siddhartha, che parola dice quando ti riesce di udire tutte insieme le sue diecimila voci? Il sacro Om.

Tacevano e ascoltavano l’acqua, che per loro non era acqua, ma la voce della vita, la voce di ciò che è, ed eternamente diviene; il miracolo della vita risiede nella sua stessa esistenza.

Accadeva talvolta che uno dei viaggiatori, dopo aver guardato in volto uno dei barcaioli, cominciasse a raccontare la propria vita, rivelasse sofferenze, confessasse torti, chiedesse consolazione e consiglio.

E accadeva anche che arrivassero curiosi, ai quali era stato raccontato che vivevano a questo traghetto due saggi o santi. I curiosi facevano un mare di domande, e non ricevevano l’ombra d’una risposta. Non trovavano né saggi né santi ma solo due anziani buoni e che parevano muti, forse anche un po’ scemi. E i curiosi ridevano e conversando tra loro ammiravano con quanta stoltezza e leggerezza  il popolo accetti e sparga simili voci senza fondamento.

Si ricordò con affetto di lui, il Sublime, vide davanti ai propri occhi la sua via di perfezione e ripensò sorridendo alle parole che un tempo, da giovane, egli aveva rivolto a lui. Erano state, così gli sembrava, parole orgogliose e saccenti – nel rammentarsene sorrise.

No, l’uomo che cerca veramente, l’uomo che veramente vuol trovare, non può accogliere nessuna dottrina. Ma quell’altro uomo, quello che ha trovato, quello può ammettere ogni dottrina, ogni via, ogni meta.

 

 

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Capitoli dieci, undici e dodici.

Consultare l’opera autografa

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