LA BANALITÀ DEL MALE
Eichmann
in Jerusalem
H A N N A H A R E N D T
frammento
di lettura
P A R T E
P R I M A
Feltrinelli, Milano 1964
I N D I C E
p.
LA CORTE .
3
L’IMPUTATO.
6
UN ESPERTO DI QUESTIONI EBRAICHE. 10
LA PRIMA SOLUZIONE : ESPULSIONE. 15
LA SECONDA SOLUZIONE : CONCENTRAMENTO. 17
LA SOLUZIONE FINALE : STERMINIO. 21
LA CONFERENZA DI WANNSEE, OVVERO PONZIO
PILATO. 31
I DOVERI DI UN CITTADINO LIGIO ALLA LEGGE. 37
DEPORTAZIONI
DAL REICH – GERMANIA, AUSTRIA E PROTETTORATO. 39
CONSULTARE L’OPERA AUTOGRAFA.
dati
storici relativi ai capitoli dieci, undici e dodici.
I CENTRI DI STERMINIO DELL’EUROPA ORIENTALE.
41
PROVE E TESTIMONIANZE.
44
CONDANNA, APPELLO ED ESECUZIONE.
45
EPILOGO.
49
Appendice:
Le polemiche sul caso Eichmann.
56
Questa scrittura (frammento di
lettura), benché compendi il significato originario dell’opera di Hannah Arendt
non coincide con l’ opera autografa.
Siate curiosi di osservare la
fonte originaria.
Il totale degli ebrei massacrati nel quadro
della «soluzione finale»:
da quattro milioni e mezzo a sei milioni -
una cifra che non ha mai potuto essere controllata.
LA CORTE.
Per
tutto il processo non ci sarà mai nulla di teatrale nel comportamento dei
giudici. Entrano con passo disinvolto, ascoltano con serietà e attenzione, e i
tratti del loro volto s'irrigidiscono per un senso naturale di pena al racconto
di tante sofferenze.
La loro
impazienza, quando l'accusa cerca di prolungare all'infinito le udienze, è
spontanea e dà un senso di sollievo; il loro atteggiamento verso la difesa è
forse fin troppo corretto: si direbbe che non dimentichino mai che il dottor Servatius,
l’avvocato di Eichmann, combatte «questa disperata battaglia quasi da solo e in
un ambiente ostile.
Fin
dall'inizio non c'è dubbio che è il giudice Landau a dare il tono; ed è lui che
fa di tutto perché l'irruente teatralità del Pubblico ministero non trasformi
questo processo in una semplice messinscena.
La
giustizia vuole che l'imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte
le altre questioni, anche se più importanti («come è potuto accadere?,» «perché
è accaduto?,» «perché gli ebrei?,» «perché i tedeschi?,» «quale è stato il
ruolo delle altre nazioni?,» «fino a che punto gli Alleati sono da considerarsi
corresponsabili?,» «come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio
degli ebrei?,» «perché gli ebrei andavano a morte, siano lasciate da parte. La
giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl
Adolf Eichmann, l'uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente
per proteggerlo.
Eichmann
per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul
banco, neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente
cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l'autocontrollo.
Qui si
devono giudicare le sue azioni, non
le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l'umanità, e neppure
l'antisemitismo e il razzismo.
Critica
alle conferenze stampa ed alle interviste durante il processo, critica agli
“affari, innanzitutto” ed all’ eccessia vanità:
La giustizia non permette nulla di tutto
questo: richiede isolamento, vuole più dolore che collera, prescrive che ci si
astenga il più possibile dal mettersi in vista.
Il
Pubblico Ministero:
Il tema
centrale del proceso sarebbe stato «la tragedia dei popolo ebraico nel suo
complesso.» Se infatti ad Eichmann «contesteremo anche crimini contro non
ebrei,» ciò avverrà non tanto perché li ha commessi, quanto «perché non
facciamo distinzioni etniche».
«In
questo storico processo, al banco degli imputati non siede un individuo, e
neppure il solo regime nazista, bensì l'antisemitismo nel corso di tutta la
storia.»
Questa
frase, pronunziata nel discorso di apertura, si rivelò essenziale per capire
tutta l'impostazione data dall'accusa al processo: ché il processo doveva
basarsi su quello che gli ebrei avevano sofferto, non su quello che Eichmann
aveva fatto.
Che in
Israele nessuno voleva sentir parlare di un tribunale internazionale, perché
questo avrebbe giudicato Eichmann non per «crimini contro il popolo ebraico,»
ma per «crimini contro l'umanità commessi sul corpo del popolo ebraico.» Di qui
la strana vanteria: «Noi non facciamo distinzioni etniche».
Se il
pubblico al processo doveva essere il mondo e se il dramma doveva essere un
vasto panorama delle sofferenze ebraiche, le aspettative e le intenzioni
andarono deluse. I giornalisti dopo circa due settimane disertarono l'aula, e
da quel momento la fisionomia del pubblico mutò radicalmente. Si ritenne che
questo fosse ora formato essenzialmente da israeliani, e precisamente da
persone che erano troppo giovani per aver vissuto quegli avvenimenti.
Si pensò
quindi che il processo dovesse mostrare a questa gente che cosa significava
vivere tra non ebrei, convincere che soltanto in Israele un ebreo può condurre
una vita sicura e decorosa.
Senonché
il pubblico non era affatto costituito da giovani, e neppure da ebrei insediati
in Israele. Era invece formato soprattutto da persone non giovani che sapevano
perfettamente tutto qullo che c’era da sapere, non erano nella disposizione
d'animo di ascoltare delle lezioni e comunque non avevano certo bisogno di
questo processo per farsi delle idee.
Un
processo assomiglia a un dramma in quanto che dal principio alla fine si occupa
del protagonista, non della vittima. E se
il protagonista deve soffrire deve soffrire per ciò che ha fatto materialmente, non per le sofferenze che ha provocato
agli altri. Nessuno lo sapeva meglio dei giudici.
«E'
necessario che i giovani ricordino ciò che è accaduto al popolo ebraico, che
essi conoscano gli eventi più tragici della storia.»
L'antisemitismo,
grazie a Hitler, è stato screditato, forse non per sempre, ma certamente almeno
per l'epoca attuale, e questo non perché gli ebrei sono divenuti tutt'a un
tratto più popolari, ma perché, per dirla con Ben Gurion, la gente ha «capito che ai nostri giorni la camera a
gas è la cosa a cui può condurre l’antisemitismo.»
Gli
ebrei della diaspora non avevano certo bisogno dell'immane catastrofe in cui un
terzo di loro era perito per convincersi dell'ostilità del mondo. Essi avevano
sempre pensato che l'antisemitismo fosse per natura eterno e onnipresente.
Questa convinzione spiegava anche la strana
disposizione della comunità ebraica tedesca a negoziare con le autorità naziste
nel primo periodo del regime. (Naturalmente c'era un abisso tra questi
negoziati e quello che fu poi il collaborazionismo degli “Judenräte”: non c'era
ancora il problema morale, si trattava soltanto di una decisione politica di un
«realismo» naturalmente discutibile: l'aiuto «concreto» - si sosteneva - era
meglio della denunzia «astratta.» Era insomma una “Realpolitik” senza sfumature
machiavelliche, e i suoi pericoli
vennero in luce solo più tardi, dopo lo scoppio della guerra, quando i
quotidiani contatti con la burocrazia nazista resero molto più facile ai
funzionari ebraici il gran «salto»:
invece che aiutare gli ebrei a fuggire, aiutare i nazisti a deportarli.
Era
stata questa convinzione a rovinarli, rendendoli incapaci di distinguere gli
amici dai nemici, e gli ebrei tedeschi non erano i soli a credere che tutti i
gentili fossero uguali e a sottovalutare perciò i loro avversari.
Il
pubblico Ministero interrrogò i testimoni riguardo la rassegnata sottomissione
con cui gli ebrei andavano a morte (arrivando puntuali ai centri di smistamento,
recandosi con i propri piedi ai luoghi d'esecuzione, scavandosi la fossa con le
proprie mani, spogliandosi da sé e ammucchiando in bell'ordine le vesti,
distendendosi uno accanto all'altro per essere uccisi) chiedendo: «Perché non
protestavate? Perché salivate sui treni? Perché, essendo in quindicimila contro
poche centinaia di guardie, non vi ribellaste passando all'attacco?» Ma la
triste verità è che quell'argomento serviva a ben poco, perché nessun gruppo
etnico, nessun popolo si sarebbe comportato diversamente.
Parecchi
anni fa, ancora sotto l'impressione diretta di quegli avvenimenti, David
Rousset, già ospite del campo di Buchenwald, tratteggiò una situazione che,
come noi sappiamo, era la stessa in tutti i campi di concentramento: «Il trionfo
delle S.S. esige che la vittima torturata si lasci condurre dove si vuole senza
protestare, che rinunzi a lottare e si abbandoni fino a perdere completamente
la coscienza della propria personalità. E c'è una ragione. Non è senza motivo,
non è per puro sadismo che gli uomini delle S.S. desiderano il suo
annientamento spirituale: essi sanno che distruggere la vittima prima che salga
al patibolo... è il sistema di gran lunga migliore per tenere un popolo intero
in schiavitù, assoggettato. Nulla è più terribile di questi esseri umani che
vanno come automi incontro alla morte» “Les jours de notre morte”, 1947). La
Corte non ricevette risposta a quelle crudeli domande.
Esistono
molte cose di gran lunga peggiori della morte, e le S.S. sapevano bene di
essere costantemente presenti alla mente e all'immaginazione delle loro
vittime.
Soltanto
i giovanissimi erano stati capaci di prendere la drammatica decisione: «Non
dobbiamo lasciarci ammazzare come pecore.»
Il
processo è divenuto effettivamente un importante strumento per scovare altri
criminali, tuttavia non nei paesi arabi, che hanno apertamente concesso asilo a
centinaia di nazisti.
Non che
il processo Eichmann portasse alla luce prove nuove e importanti per scoprire i
colpevoli, ma bastò la notizia della sensazionale cattura di Eichmann e
dell'imminente processo per spingere i tribunali tedeschi ad avvalersi
finalmente delle scoperte di Schüle e a vincere l'innata riluttanza ad agire
contro «gli assassini che sono tra noi,» almeno col vecchio sistema di porre
una taglia sul capo dei più famosi criminali ancora latitanti. I risultati sono
stati stupefacenti. Sette mesi dopo l'arrivo di Eichmann a Gerusalemme (e
quattro prima dell'apertura del processo), Richard Baer, successore di Rudolf
Höss come comandante di Auschswitz, venne finalmente arrestato. In rapida
successione, furono assicurati alla giustizia anche quasi tutti i membri del
cosiddetto Eichmann Commando: Franz Novak, il Dott. Otto Hunsche, Hermann
Krumey, Gustav Richter e il Dott. Günther Zöpf. Contro gli omicidi di primo
grado le condanne furono tnto miti da essere ridicole: e così il Dott. Otto
Bradfisch, che fece parte degli “Einsatzgruppen”, cioè delle unità mobili delle
S.S. addette allo sterminio nei paesi dell'Europa orientale, è stato condannato
a dieci anni di lavori forzati per avere ucciso quindicimila ebrei; il dott.
Otto Hunsche, esperto legale di Eichmann e personalmente responsabile della
deportazione di circa milleduecento ebrei ungheresi, dei quali almeno seicento
furono uccisi, è stato condannato a cinque anni; e Joseph Lechthaler, che
«liquidò» gli ebrei di Slutsk e di Smolevici in Russia, a tre anni e sei mesi.
Criminali
come Erich von dem Bach-Zelewski, già generale del Corpo dei comandanti
superiori delle S.S. e della polizia. Costui fu già processato nel 1961 per
aver partecipato alla soppressione di Röhm del 1934, e condannato a tre anni e
mezzo di carcere; poi, nel 1962, dinanzi a un tribunale di Norimberga fu di
nuovo processato per avere ucciso nel 1933 sei comunisti tedeschi, e condannato
all'ergastolo. Ma nessuna delle due sentenze pronunziate contro di lui accenna
al fatto che egli fu uno dei capi della lotta antipartigiana sul fronte
orientale e che partecipò al massacro degli ebrei di Minsk e di Mogilev, nella
Bielorussia. Forse i tribunali tedeschi, col pretesto che i crimini di guerra
non sono crimini, fanno «distinzioni etniche»? Oppure si deve pensare che una
condanna così severa, così insolita almeno nella Germania dei dopoguerra, è
stata inflitta perché Bach-Zelewski fu uno dei pochissimi che dopo le uccisioni
in massa subirono un collasso nervoso, cercò di salvare gli ebrei dagli
“Einsatzgruppen” e a Norimberga si presentò come testimone dell'accusa?
Bach-Zelewski fu anche l'unico di questa categoria di criminali ad autoaccusarsi
pubblicamente di omicidio in massa, nel 1952, senza tuttavia essere mai
processato per questo.
Martin
Fellenz era stato arrestato nel Giugno del 1960, sotto l’ accusa di essere
parzialmente responsabile dell’uccisione di quarantamila ebrei in polonia. Il
Pubblico Ministero ha chiesto il massimo della pena, cioè la condanna
all’ergastolo. La Corte ha invece condannato Fellenz a quattro anni, di cui due
e mezzo già scontati nell'attesa del processo.
Il
processo Eichmann ha avuto le ripercussioni più importanti in Germania.
L'atteggiamento
dei tedeschi verso il loro passato, che per oltre quindici anni è stato un
rebus per tutti gli esperti di cose tedesche, è venuto in luce con una
chiarezza che non poteva esser maggiore: i tedeschi non si preoccupano molto di prendere posizione in un senso o
nell'altro, e non trovano gran che da ridire sulla presenza di tanti
criminali nel loro paese, dato che
nessuno di essi probabilmente commetterebbe un delitto di propria spontanea
volontà ; ma se l'opinione pubblica
mondiale, o meglio quello che i tedeschi, con termine che abbraccia tutti i
paesi stranieri dei mondo, chiamano “das Ausland”, si ostina a chiedere che
quella gente sia punita, non hanno nulla in contrario, almeno fino a un certo
punto.
Il
Pubblico ministero passò quindi a citare Ezechiele: «E quando io [il Signore]
passai da te e ti vidi macchiato del tuo sangue, ti dissi: Nel tuo sangue
vivi,» spiegando che queste parole erano «l'imperativo di fronte a cui questa
nazione si è trovata fin dal giorno in cui si è affacciata alla storia.» Era
cattiva storiografia e retorica a buon mercato; e quel che è peggio, queste
osservazioni erano in contrasto con l'idea stessa di processare Eichmann,
poiché potevano far pensare che forse Eichmann era soltanto l'innocente
esecutore di un fato misterioso, o che magari l'antisemitismo era necessario
per spianare quella «strada coperta di sangue» che il popolo ebraico doveva
percorrere per compiere il suo destino.
E'innegabile che emettere una sentenza era
l'unico compito dei tribunale di Gerusalemme.
L’ IMPUTATO.
Adolf
Eichmann al tribunale di Gerusalemme l'11 aprile 1961, doveva rispondere di
quindici imputazioni, avendo commesso, «in concorso con altri,» crimini contro
il popolo ebraico, crimini contro l'umanità e crimini di guerra sotto il regime
nazista, in particolare durante la seconda guerra mondiale. La legge contro i
nazisti e i collaboratori dei nazisti, in base alla quale fu giudicato, risale
al 1950 e prevede che « una persona che abbia commesso uno di questi crimini è
passibile della pena di morte. »
Richiesto
su ciascun punto se si considerasse colpevole, Eichmann rispose: «Non colpevole
nel senso dell'atto d'accusa.»
In quale
senso allora si riteneva colpevole? Nel corso dell'interminabile interrogatorio,
che secondo le parole dello stesso imputato fu «il più lungo» che mai ci fosse
stato, né la difesa né l'accusa e nemmeno i giudici si presero la briga di
rivolgergli quell'ovvia domanda.
L’avvocato
di Adolf Eichmann, dichiarò in un’intervista. Concessa alla stampa:
«Eichmann si sente colpevole dinanzi a Dio,
non dinanzi alla legge»; ma questa spiegazione non fu mai confermata
dall'interessato.
L’avvocato
di Adolf Eichmann, dichiarò inoltre :
«La
condotta del processo era una grande conquista spirituale.»
Sicuramente
la difesa avrebbe preferito dichiararlo
non colpevole perché in base al sistema giuridico del periodo nazista egli non
aveva fatto niente di male ; perché le cose di cui era accusato non
erano crimini ma «azioni di Stato,»
azioni che nessuno stato straniero aveva il diritto di giudicare (“par in
parem imperium non habet”); e perché egli aveva il dovere di obbedire e -
parole testuali di Servatius - aveva compiuto atti «per i quali si viene
decorati se si vince e si va alla forca se si perde.»
(Già
Goebbels aveva dichiarato nel 1943: «Passeremo alla storia come i più grandi
statisti di tutti i tempi, o come i più grandi criminali.») Fuori d'Israele (e
precisamente a una riunione dell'Accademia Cattolica di Baviera, dedicata a
quello che il “Rheinischer Merkur” definì il «delicato problema della
possibilità di giudicare le colpe storiche e politiche con procedimenti
penali».
Ad avviso di Eichmann l’accusa di omicidio
era infondata.
«Con la liquidazione degli ebrei io non ho
mai avuto a che fare; io non ho mai ucciso né un ebreo né un non ebreo, insomma
non ho mai ucciso un essere umano; né ho mai dato l'ordine di uccidere un ebreo
o un non ebreo: proprio, non l'ho mai fatto.»
Precisando
meglio questa affermazione, disse:
«E'
andata così... non l'ho mai dovuto fare» - lasciando intendere chiaramente che
avrebbe ucciso anche suo padre, se qualcuno glielo avesse ordinato.
Nel 1955 Adolf Eichmann aveva dichiarato di
poter essere accusato soltanto di avere «aiutato e favorito» lo sterminio degli
ebrei, sterminio che effettivamente, riconobbe a Gerusalemme, era stato «uno
dei più grandi crimini della storia dell'umanità.»
La
difesa non si curò della teoria personale di Eichmann, ma ma l'accusa dedicò
molto tempo a cercare di dimostrare che Eichmann, almeno in un caso, aveva
ucciso di propria mano.
«Eichmann
propone la fucilazione.» Questo risultò l'unico «ordine di uccidere,» ammesso
che tale fosse da considerarsi, per cui esistesse almeno un'ombra di prova.
Comunque
sia, se veramente «propose la fucilazione,» Eichmann ai militari disse soltanto
di seguitare a fare quanto già facevano da tempo.
La
spiegazione che Rademacher aveva dato quando era stato processato
nel 1952
da un tribunale della Germania occidentale,era: «L'esercito, in quanto
responsabile dell'ordine, doveva fucilare gli ebrei ribelli»; e tuttavia anche
questa era una menzogna, poiché noi sappiamo, da fonti tedesche, che gli ebrei
non erano «ribelli.») Se era difficile interpretare come un ordine una frase
pronunziata durante una conversazione telefonica, ancor più difficile era
credere che Eichmann potesse impartire ordini ai generali della Wehrmacht.
Le sue azioni erano criminose soltanto
guardando retrospettivamente, e lui era sempre stato un cittadino ligio alla
legge, poiché gli ordini di Hitler - quegli ordini che certo egli aveva fatto
del suo meglio per eseguire - possedevano «forza di legge». (A questo
proposito, la difesa avrebbe potuto citare uno dei più noti esperti di diritto
costituzionale del Terzo Reich, Theodor Maunz, attualmente ministro della
pubblica istruzione in Baviera, che nel 1943 affermò “Gestalt und Recht der
Polizei”: «Il comando del Führer.. è il centro assoluto dell'attuale ordinamento
giuridico.)
Chi dunque gli veniva ora a dire che
avrebbe dovuto comportarsi diversamente, ignorava o aveva dimenticato come
stavano le cose a quell'epoca. Lui non era di quelli che sostenevano di
essere stati «contrari» quando invece erano sempre stati zelantissimi
nell'obbedire; ma i tempi cambiano, e lui, al pari del professor Maunz, era ora
«approdato a idee diverse.»
Ciò che
aveva fatto, lo aveva fatto e non lo negava; anzi proponeva: «Impiccatemi
pubblicamente come monito per tutti gli antisemiti di questa terra.»
Per tutto il processo Eichmann cercò di
spiegare, quasi sempre senza successo, che non si sentiva «colpevole nel senso
dell'atto d'accusa.» Secondo l'atto d'accusa egli aveva agito
non solo di proposito, ma anche per bassi motivi e ben sapendo che le sue
azioni erano criminose.
Ma quanto ai bassi motivi, Eichmann era convintissimo di non essere un “innerer Schweinchund”,
cioè di non essere nel fondo dell'anima un individuo indegno; e quanto alla
consapevolezza, disse che sicuramente non
si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva
ordinato - trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte - con
grande zelo e cronometrica precisione.
Queste
affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo
aveva dichiarato «normale,» e uno di questi, si dice, aveva esclamato
addirittura: «Più normale di quello che sono io dopo che l'ho visitato,» mentre
un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento
verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e
gli amici era «non solo normale, ma ideale»; e infine anche il cappellano che
lo visitò regolarmente in carcere dopo che la Corte Suprema ebbe finito di
discutere l'appello, assicurò a tutti che Eichmann aveva «idee quanto mai
positive.» Dietro la commedia degli esperti della psiche c'era il fatto che egli non era evidentemente affetto da
infermità mentale.
Le
recenti rivelazioni di Hausner contraddicono però questa tesi. Hausner ci dice
ora che secondo gli psichiatri Eichmann era «un
uomo ossessionato da una pericolosa e insanabile mania omicida,» «un individuo
perverso e sadico»: nel qual caso avrebbe dovuto essere ricoverato in un
manicomio.
Peggio ancora, non si poteva neppure dire
che fosse animato da un folle odio per gli ebrei, da un fanatico antisemitismo,
o che un indottrinamento di qualsiasi tipo avesse provocato in lui una
deformazione mentale. «Personalmente» egli non aveva mai avuto
nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte «ragioni private» per
non odiarli.
Nessuno gli credette. Il
Pubblico ministero non gli credette perché la cosa non lo riguardava; il
difensore non gli dette peso perché evidentemente non si curava dei problemi di
coscienza; e i giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e
forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per
ammettere che una persona comune, «normale,» non svanita né
indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere
il bene dal male.
Preferirono concludere che egli era
fondamentalmente un «bugiardo» - e così trascurarono il più importante
problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal
presupposto che l'imputato, come tutte le
persone «normali,» avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in
effetti Eichmann era normale nel senso che «non era una eccezione tra i
tedeschi della Germania nazista,» ma sotto il Terzo Reich soltanto le
«eccezioni» potevano comportarsi in maniera «normale.» Questa semplice
verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non
ci si poteva sottrarre.
Eichmann
era nato il 19 marzo 1906 a Solingen, così descrisse quel memorabile momento:
«Oggi,
quindici anni e un giorno dopo l'8 maggio 1945, comincio a riandare con la
mente a quel 19 marzo dell'anno 1906 in cui, alle ore 5 di mattina, vidi la
luce di questa terra, in forma di essere umano.» (Il manoscritto di questa
autobiografia è ancora gelosamente custodito dalle autorità israeliane. Secondo
le sue credenze religiose, rimaste immutate dal tempo del nazismo (a
Gerusalemme dichiarò di essere un Gottgläubiger!, «credente in Dio» - il
termine nazista per indicare chi ha rotto col cristianesimo - e rifiutò di
giurare sulla Bibbia), questo avvenimento andava ascritto a un «Essere
razionale superiore» (“Höherer Sinnesträger”), un'entità più o meno identica a
quel «movimento dell'universo» a cui la vita umana, priva in sé di un
«significato superiore,» è soggetta. (La terminologia è quanto mai
interessante, poiché chiamare Dio uno “Höherer Sinnesträger” equivaleva a
dargli un posto nella gerarchia militare: i nazisti avevano infatti cambiato il
vecchio termine “Befehlsempfänger”, «colui che riceve ordini,» in
“Befehlsträger”, «colui che porta gli ordini,» cioè il depositario di ordini
che ne sostiene il peso ed ha la responsabilità di eseguirli; e ancora:
Eichmann, come tutti coloro che lavoravano alla «soluzione finale,» era
ufficialmente un “Geheimnisträger”, cioè «depositario di segreti,» un titolo
fatto apposta per lusingare la vanità.)
Ma
Eichmann, che non s'interessava molto di metafisica, non si preoccupò di
precisare meglio i segreti rapporti tra l'Essere razionale superiore e il
depositario di ordini, e passò a considerare invece l'altra possibile causa
della sua esistenza, i suoi genitori: «Difficilmente si sarebbero rallegrati
tanto per l'arrivo del loro primogenito, se avessero potuto vedere come
nell'ora della mia nascita la sfortuna, a dispetto della fortuna, già filava fili
di dolore e di pena nella mia vita. Ma un benigno, impenetrabile velo impedì ai
miei genitori di vedere il futuro.»
«Per la
prima volta in vita sua confessò i suoi primi disastri, benché certo si
rendesse conto che così smentiva molti dati importanti che figuravano in tutti
i suoi documenti di funzionario nazista.»
Gli ebrei che c'erano nella sua famiglia
furono appunto una delle «ragioni private» per cui non aveva bisogno di nutrire
sentimenti antisemiti.
Ancora
nel 1943 o 1944, quando la «soluzione finale era in pieno sviluppo, non aveva
dimenticato: «La figlia nata da questo matrimonio, mezza ebrea secondo le leggi
di Norimberga,... venne a trovarmi per ottenere da me il permesso di emigrare
in Svizzera; e anche quel mio zio venne a trovarmi per chiedermi d'intervenire
in favore di alcune coppie di viennesi ebrei. Accenno a questi fatti soltanto
per mostrare come personalmente non
odiassi gli ebrei, giacché tutta l'educazione che avevo ricevuto da mia madre e
da mio padre era rigorosamente cristiana; mia madre, che aveva parenti ebrei, aveva idee diverse da quelle
che dominavano negli ambienti delle S.S.» Insisté molto su questo punto: non
aveva mai nutrito sentimenti di avversione per le sue vittime e, cosa più
importante, non ne aveva mai fatto un segreto. «Lo spiegai al dott. Löwenherz
[capo della comunità ebraica di Vienna], e lo spiegai al dott. Kastner
[vicepresidente dell'organizzazione sionista di Budapest]; credo d'averlo detto
a tutti, tutti i miei uomini lo sapevano, ogni tanto me lo sentivano ripetere.
Alla
fine del 1932, con suo gran rammarico, era stato improvvisamente trasferito da
Linz a Salisburgo. «Persi completamente il gusto di lavorare.» Ma quella non fu
davvero la sola volta che la
“Arbeitsfreude” lo abbandonò. La peggiore
di queste esperienze fu quando gli comunicarono che il Führer aveva dato ordine
di procedere allo «sterminio fisico degli ebrei,» in cui egli avrebbe avuto un
ruolo tanto importante. Anche
quest'ordine gli giunse inaspettato: personalmente non aveva «mai pensato... a
una soluzione così violenta,» e descrisse la propria reazione usando le stesse
parole: «Ora persi tutto, tutto il gusto di lavorare, tutta l'iniziativa, tutto
l'interesse; mi sgonfiai, se così si può dire.» Analogo «sgonfiamento» doveva essersi verificato a Salisburgo, e
dal suo racconto risulta chiaramente che non rimase troppo sorpreso quando fu
licenziato, per quanto sia piuttosto improbabile che ne fosse «felicissimo.»
Adolf Eichmann: Misera foglia ghermita dal
turbine della storia.
Il 1932 segnò una svolta nella sua vita.
Nell’aprile di quell’anno egli si iscrisse al partito nazionalsocialista ed
entrò nelle S.S.
Finì
nelle colonne in marcia sotto le bandiere di quel Terzo Reich che doveva
esistere per mille anni ma che in realtà durò esattamente dodici anni e tre
mesi. Eichmann non s'iscrisse al partito per convinzione, né acquistò mai una
fede ideologica: ogni volta che gli si chiedevano le ragioni della sua
adesione, ripeteva sempre gli stessi luoghi comuni sull'iniquità del trattato
di Versaglia e sulla disoccupazione.
«Inghiottito dal partito senza accorgersene
e senza avere avuto il tempo di decidere; fu una cosa così rapida e
improvvisa!» Non ebbe il tempo, e nemmeno il desiderio, d'informarsi bene; non
conosceva il programma del partito, non aveva mai letto “Mein Kampf”.
Kaltenbrunner gli disse: «Perché non entri nelle S.S.?», e lui rispose: «Già,
perché no?» Andò così.
Durante
l'interrogatorio, Eichmann non disse che a quell'epoca era un giovane
ambizioso.
Da una
vita monotona e insignificante era piombato di colpo nella «storia,» cioè,
secondo la sua concezione, in un «movimento» che non si arrestava mai e in cui
una persona come lui - un fallito sia agli occhi del suo ceto e della sua
famiglia che agli occhi propri - poteva ricominciare da zero e far carriera.
E anche
se non sempre gli piaceva quello che doveva fare (per esempio mandare gente a
morire invece che costringerla a emigrare), anche se assai presto intuì che la
Germania avrebbe perso la guerra e tutto sarebbe finito male, anche se con suo
grandissimo «dispiacere e dolore» non riuscì mai a salire nella gerarchia oltre
il grado di “S.S.-Obersturmbannführer” (equivalente a quello di tenente
colonnello), nessuno poteva pensare di fare carriera nel partito nazista
austriaco - insomma anche se la sua vita (eccezion fatta per l'anno trascorso a
Vienna) fu una vita piena di frustrazioni, egli non dimenticava mai quale
sarebbe stata l'alternativa.
La noia del servizio militare era
una cosa insopportabile, ogni giorno la stessa cosa, sempre la stessa.» Così,
mentre cercava una via d'uscita, seppe che al Servizio di Sicurezza
(“Sicherheitsdienst”, ovvero S.D.) del
“Reichsführer” delle S.S. c'erano dei posti liberi, e subito fece domanda.
Ogni
volta che gli fu rinfacciata la sua mentalità nazista, si giustificò dicendo:
«E' sempre la vecchia storia
UN ESPERTO DI QUESTIONI
EBRAICHE.
Degno di
nota è che la sua preparazione, in fatto di problemi ebraici, riguardava quasi
esclusivamente il sionismo.
Reinhardt
Heydrich: «Il vero ingegnere della soluzione finale» (“The Final Solution”,
1961).
Settembre
del 1939 : La fusione delle S.S. e della polizia.
Adolf
Eichmann quando entrò nell'S.D., non sapeva nulla neppure della natura
di quest'organismo. La cosa non è impossibile, perché l'attività dell'S.D. era
sempre stata segretissima. Per lui
si trattò di un completo fraintendimento
e, in primo luogo, di una «gran delusione»: «Pensavo infatti che l'S.D. fosse
quello di cui avevo letto sulla “Münchener Illustrierte Zeitung”: quando gli
alti funzionari del partito si spostavano, erano accompagnati da guardie del
corpo. Insomma avevo scambiato il Servizio di sicurezza del “Reichsführer” delle
S.S. per il servizio di sicurezza del Reich... e nessuno mi avvertì. Non immaginavo neppure lontanamente le cose che
poi mi furono rivelate»
Al processo la questione ebbe un certo
peso, poiché si doveva stabilire se egli aveva scelto volontariamente quel
posto o se invece vi era stato trascinato. Il fraintendimento di cui
Eichmann parlò non è del tutto inverosimile, poiché in origine le S.S.
(“Schutzstaffeln”) erano state unità speciali addette alla protezione dei capi
del partito.
Inazisti
crearono musei e biblioteche
antiebraiche, e dobbiamo a questa singolare fissazione se tanti tesori della
civiltà ebraica europea si sono salvati.)
Correva l’anno 1935 quando la Germania,
violando il trattato di Versaglia, introdusse la coscrizione generale e
annunziò pubblicamente di avere intenzione di riarmarsi e di costruirsi
un'aviazione e una flotta.
1935.
Era il tempo dei discorsi
pacifisti di Hitler: «La Germania ha bisogno di pace e desidera la pace».
L’anno anno in cui il regime nazista riscosse generali e purtroppo sinceri consensi sia all'interno che all'estero, mentre
ovunque Hitler era ammirato come un grande statista. Per ciò che riguarda la
situazione interna, fu un periodo di transizione. Grazie al colossale programma
di riarmo, la disoccupazione fu liquidata, ogni tentativo di resistenza della
classe operaia fu stroncato sul nascere, e il regime, che combatteva principalmente
gli «antifascisti» (comunisti, socialisti, intellettuali di sinistra ed ebrei
che occupavano posti-chiave), ancora non perseguitava accanitamente gli ebrei
in quanto ebrei.
1933: Esclusione degli ebrei dai srvizi
pubblici. Le attività private non furono toccate fino al 1938.
Gli studenti ebrei furono esclusi da quasi
tutte le università e l’esercizio dell’avvocatura e della professione medica fu
proibito solo gradualmente.Ci furono varie Einzelaktionen”, azioni individuali
per costringere gli ebrei a vendere i loro beni a prezzi spesso ridicoli, ma di
solito questi episodi si verificavano in piccole città; è innegabile che la
polizia non fece mai nulla per impedire questi «eccessi,» ma le
autorità naziste non ne erano molto entusiaste, poiché si risolvevano in un
danno economico per tutta la nazione. Gli ebrei che emigravano, se non
fuggivano per ragioni politiche, erano giovani che capivano di non avere un
futuro in Germania, ma poiché presto si accorgevano che per loro anche
all'estero non era facile vivere, in questo periodo finivano a volte col
tornare in patria.
1938: Kristallnacht ovvero «Notte dei vetri
rotti» ,quando le vetrine di settemilacinquecento negozi furono
infrante, tutte le sinagoghe furono date alle fiamme e ventimila uomini della
comunità furono rinchiusi in campo di concentramento.
Autunno 1935: Le leggi di Norimberga avevano privato gli
ebrei dei loro diritti politici, ma non di quelli civili; gli ebrei non erano
più cittadini tedeschi (“Reichsbürger”), ma restavano membri dello stato
germanico (“Staatsangehörige”). Anche se emigravano, non divenivano
automaticamente apolidi. I rapporti sessuali tra ebrei e tedeschi, e i
matrimoni misti, erano proibiti. Ma di queste norme, soltanto l'ultima aveva
una qualche importanza pratica: le altre non facevano che legalizzare una
situazione già esistente di fatto. Perciò le leggi di Norimberga furono
sentite come un provvedimento che
stabilizzava la posizione degli ebrei nel Reich. Gli ebrei erano già cittadini
di seconda classe, per usare un'espressione mite, dal 30 gennaio 1933; il loro quasi completo isolamento dal resto
della popolazione era stato raggiunto nel giro di qualche settimana o di
qualche mese - col terrore, ma anche con
la connivenza di coloro che li circondavano. «Tra gentili ed ebrei c'era un muro,» disse il dott. Benno Colin.
Se
avessero continuato a comportarsi nel modo che era stato loro imposto,
avrebbero potuto vivere indisturbati. Per usare le parole della
“Reichsvertretung” ebraica (l’associazione nazionale di tutte le comunità e
organizzazioni ebraiche esistenti in Germania il cui presidente fu Leo Baeck,
fondata nel 1933 per iniziativa della comunità di Berlino.)
Scopo
delle leggi di Norimberga era «creare un piano» su cui fossero possibili
«tollerabili rapporti tra tedeschi ed ebrei»; al che un membro della comunità berlinese, un sionista radicale, aveva
aggiunto: «La vita è possibile sotto qualsiasi legge, e comunque non si può
vivere nella completa ignoranza di ciò che è lecito e di ciò che non lo è; si
può essere cittadini utili e rispettati anche se si è membri di una minoranza in
seno a un grande popolo» (Hans Lamm,” Über die Entwicklung des deutschen Judentums”, 1951).
E gli ebrei beatamente ignari del crescente
potere del regime, in genereale credevano che trovare un “modus vivendi” fosse
possibile; si offrirono persino di collaborare alla «soluzione del problema
ebraico.»
Quando
Adolf Eichmann stabilì i suoi primi contatti con i funzionari ebrei, tanto i
sionisti quanto gli assimilazionisti parlavano di una «grande rinascita»
ebraica, di un «grande movimento costruttivo dell'ebraismo tedesco. » E in
campo ideologico seguitavano a discorrere tra loro sull’auspicabilità o meno
dell’emigrazione, come se le loro decisioni potessero contare
qualcosa.
Adolf Eichmann lesse il libro di Theodor
Herzl, “Lo Stato ebraico”. Dopo
la lettura di questo famoso classico sionista, Eichmann aderì prontamente e per
sempre alle idee sioniste. Pare che fosse il primo libro serio che avesse
mai letto, e ne rimase profondamente colpito. Da quel momento, come ripeté più
e più volte, non pensò ad altro che a cercare una «soluzione politica» (che
significava l'espulsione ed era l'opposto della «soluzione fisica,» cioè lo
sterminio). A Gerusalemme egli
non parlò mai di queste cose, sebbene si vantasse continuamente di essere stato
in buoni rapporti con i funzionari ebraici.) A tale scopo cominciò a diffondere
il suo vangelo tra i camerati delle S.S., pronunziando discorsi e scrivendo
opuscoli. Lesse anche un altro libro, la “Storia del sionismo” di Adolf Böhm
(che al processo confuse continuamente con “Lo Stato ebraico” di Herzl), e
questo fu effettivamente uno sforzo notevole per un uomo che non aveva mai
amato la lettura e che, con delusione del padre, non aveva mai approfittato
della biblioteca di famiglia.
Eichmann
spiegò che la ragione per cui la «questione ebraica» lo affascinava tanto era
il proprio «idealismo.» Gli ebrei sionisti, a differenza degli
assimilazionisti, da lui sempre disprezzati, e degli ortodossi, che lo
annoiavano, erano «idealisti ». Essere
«idealisti » secondo Eichmann,
non voleva dire soltanto credere in un'«idea», voleva dire soprattutto «vivere»
per le proprie idee ed essere pronti a sacrificare per quelle idee tutto e,
principalmente, tutti. Quando in istruttoria dichiarò che avrebbe mandato a
morte suo padre se così gli fosse stato ordinato, non intese soltanto mostrare
fino a che punto era soggetto agli ordini
e pronto a obbedire; volle anche
mostrare fino a che punto era sempre stato «idealista.»
Naturalmente,
anche l'idealista perfetto aveva i suoi sentimenti e la sua sensibilità
personale, ma doveva evitare nel modo più assoluto che questi, se erano in
conflitto con l'«idea,» interferissero con le azioni. Il più grande idealista
che Eichmann avesse mai conosciuto tra gli ebrei era il dott. Rudolf Kastner;
fu con Kastner che egli negoziò al tempo delle deportazioni dall'Ungheria,
concludendo un accordo in base al quale lui, Eichmann, avrebbe permesso la
partenza «illegale» di qualche migliaio di ebrei per la Palestina. in cambio di
«quiete e ordine» nei campi da cui centinaia di migliaia di altri ebrei
venivano avviati ad Auschwitz.
L’”Anschluss”
: L’Austria fu incorporata nel Reich del marzo del 1938.
In
Germania, fino all’autunno del 1938 continuò la finzione secondo cui gli
ebrei, se lo desideravano, potevano ottenere il permesso di lasciare il paese,
senza esservi «costretti.» Una delle ragioni per cui gli ebrei tedeschi prendevano per buona questa finzione, era il
programma del partito nazista, che era stato stilato nel 1920 e che condivise
con la costituzione di Weimar il curioso destino di non essere mai abrogato.
In verità gli ebrei non potevano essere
cittadini come gli altri, non potevano occupare posti nei servizi civili, erano
esclusi dalla stampa, e se avevano acquistato la cittadinanza tedesca dopo il 2
agosto 1914 (data dello scoppio della prima guerra mondiale) dovevano essere
«snaturalizzati,» cioè erano soggetti all'espulsione.
La «snaturalizzazione» fu attuata attuata
immediatamente, ma l'espulsione in massa di circa quindicimila ebrei, che da un
giorno all'altro furono scacciati oltre il confine polacco, a Zbaszyn, dove
subito furono internati in campi, avvenne soltanto cinque anni dopo, quando
nessuno se l'aspettava più.
Il programma del partito non fu mai preso
sul serio dai funzionari nazisti; questi si vantavano di appartenere a un
movimento, distinto dal partito, che non poteva restare vincolato a un
programma. Anche prima che i nazisti afferrassero il potere, quei venticinque
punti erano stati una semplice concessione al sistema del partito.
«Il programma del partito non importava; si
sapeva già a che cosa si aderiva.»
Gli
ebrei, invece, avevano anche loro una mentalità antiquata, così antiquata che
conoscevano a memoria i venticinque punti e vi credevano; e se il programma del
partito non era attuato secondo le regole, tendevano ad attribuire questo fatto
agli «eccessi rivoluzionari,» temporanei, di membri o gruppi indisciplinati.
Ufficialmente
Eichmann doveva occuparsi dell’«emigrazione
forzata,» e questa espressione andava presa alla lettera: tutti gli ebrei, senza riguardo per i loro desideri
o per la loro cittadinanza, dovevano essere fatti emigrare per forza – un atto
che nel linguaggio comune si chiama espulsione.
Adolf Eichmann divenne tenente e fu
elogiato per la sua «vasta conoscenza dei metodi organizzativi e dell'ideologia
degli avversari, gli ebrei.» La
missione assegnatagli a Vienna fu il suo primo lavoro importante, quello da cui
dipendeva tutta la sua carriera, che fino a quel momento era stata piuttosto
lenta. Doveva essere smanioso di far bene, e in effetti raggiunse risultati
spettacolari: in otto mesi quarantacinquemila ebrei lasciarono l'Austria,
mentre nello stesso periodo soltanto diciannovemila lasciarono la Germania; in meno di diciotto mesi l'Austria fu
«ripulita» da circa centocinquantamila persone (press'a poco il sessanta per
cento della popolazione ebraica) che abbandonarono tutte «legalmente» il paese;
anche dopo lo scoppio della guerra, altri sessantamila ebrei circa se ne
poterono andare.
La «tesi della totale responsabilità di
Adolf Eichmann» e la «supposizione che dietro a tutto c'era una sola mente
[quella di Eichmann]» sono assurde.
Attraverso
la comunità ebraica estorcevamo una certa somma di denaro agli ebrei ricchi che
volevano emigrare. Grazie a questa somma, e a una somma supplementare in valuta
straniera, gli ebrei poveri potevano partire. Il problema non era far partire
gli ebrei ricchi, ma sbarazzarsi degli ebrei poveri.» Ora, questo «problema» non fu risolto da Eichmann. L'idea dei «fondi per
l'emigrazione» non fu sua.
C’erano
problemi che potevano essere risolti soltanto nel corso dell'operazione, e qui
effettivamente Eichmann, per la prima volta in vita sua, si accorse di avere
doti speciali. C'erano due cose che egli poteva far meglio di altri:
organizzare e negoziare. Appena arrivato intavolò trattative con i
rappresentanti della comunità ebraica, dopo averli fatti liberare dalle
prigioni e dai campi di concentramento, giacché lo «zelo rivoluzionario» in
Austria, superando di gran lunga gli «eccessi» verificatisi in Germania, era
sfociato nell'imprigionamento di quasi tutte le maggiori personalità ebraiche.
L'ostacolo principale era costituito dalla
gran massa di documenti che ogni emigrante doveva procurarsi per lasciare il
paese. Poiché ciascun documento era valido soltanto per un breve
periodo di tempo, di regola accadeva che quando l'ultimo era pronto il primo
era già scaduto da tempo. Una volta capito come funzionavano o meglio come non
funzionavano le cose, Eichmann «rifletté»
e partorì «l'idea che a mio avviso doveva render giustizia a entrambe le
parti.» Progettò una specie di «catena di
montaggio»: «all'inizio c'è il
primo documento, poi vengono gli altri documenti, e al termine si dovrebbe avere il passaporto. Per far questo il ministero delle finanze, il fisco, la polizia,
la comunità ebraica, eccetera – dovevano esser ospitati nel medesimo edificio e
costrette a lavorare sul posto, in presenza del richiedente. A un capo della
“catena” entra un ebreo che possiede ancora qualcosa, una fabbrica, un negozio,
un conto in banca, e questo percorre l'edificio da un ufficio all'altro, ed
esce all'altro capo senza un soldo, senza più nessun diritto, solamente con un
passaporto in cui si dice: 'Devi lasciare il paese entro quindici giorni,
altrimenti finirai in un campo di concentramento'.
Gli ebrei non potevano essere lasciati
completamente «senza un soldo,» per la semplice ragione che in tal caso nessun
paese straniero, a quell'epoca, li avrebbe accettati.
Vorzeigegeld: Somma di denaro da mostrare
per ottenere i visti d'ingresso e superare i controlli dei paesi dove
immigravano.
Quanto più si ascoltava Adolf Eichmann,
tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente
legata a un'incapacità di “pensare”, cioè di pensare dal punto di vista di
qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma
perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale,
non lo toccavano.
L’« esempio » di Adolf Eichmann è un
esempio di malafede, un ingannare se stesso, congiunto a un'enorme stupidità? O
è semplicemente l'eterna storia del criminale che non si pente (nelle sue
memorie Dostojevskij ricorda che in Siberia, tra tanti assassini, ladri e
violenti non ne trovò mai uno solo disposto ad ammettere di avere agito male),
del criminale che non può vedere la realtà perché il suo crimine è divenuto una
parte di essa? Eppure il caso di Eichmann è diverso da quello del criminale
comune. Questo può sentirsi ben protetto, al riparo dalla realtà di un mondo
retto, soltanto finché non esce dagli stretti confini della sua banda. Ma ad
Eichmann bastava ricordare il passato per sentirsi sicuro di non star mentendo
e di non ingannare se stesso, e questo perché lui e il mondo in cui aveva
vissuto erano stati, un tempo, in perfetta armonia. E quella società tedesca di
ottanta milioni di persone si era protetta dalla realtà e dai fatti esattamente
con gli stessi mezzi e con gli stessi trucchi, con le stesse menzogne e con la
stessa stupidità che ora si erano radicate nella mentalità di Eichmann. Queste
menzogne cambiavano ogni anno, e spesso erano in contraddizione tra loro;
inoltre, non erano necessariamente uguali per tutti i vari rami della gerarchia
del partito o della popolazione.
Ma l'abitudine d'ingannare se stessi era
divenuta così comune, quasi un presupposto morale per sopravvivere, che ancora
oggi, a vent'anni dal crollo del regime nazista, oggi che ormai il contenuto
specifico di quelle menzogne è stato dimenticato, ogni tanto si è portati a
credere che il mendacio sia divenuto parte integrante del carattere tedesco.
La falsità dello slogan: «lotta fatale»
(“der Schicksalskampf des deutschen Volkes”).
Coniato che fosse da Hitler o da Goebbels,
quello slogan serviva a convincere la gente che, innanzitutto, la guerra non
era guerra; in secondo luogo, che la guerra era venuta dal destino e non dalla
Germania; e in terzo luogo che per i tedeschi era una questione di vita o di
morte: o annientare i nemici o essere annientati.
L’atmosfera del regime:
Atmosfera di sistematica menzogna che era
stata l'atmosfera generale, e generalmente accettata e accolta, del Terzo
Reich.
«Naturalmente» Eichmann aveva contribuito
allo sterminio degli ebrei; naturalmente, se lui non li avesse trasportati
«essi non sarebbero finiti nelle mani del carnefice.»
«Che cosa c'è da 'ammettere'?» diceva.
Ora, aggiunse, gli sarebbe piaciuto
«rappacificarsi con i nemici di un tempo» - un'idea, questa, già espressa da Himmler
durante l'ultimo anno di guerra, e dal leader del «Fronte del Lavoro» Robert
Ley, che prima di uccidersi a Norimberga aveva proposto un «comitato di
riconciliazione» costituito da nazisti responsabili dei massacri e da ebrei
sopravvissuti; ma una idea condivisa anche, cosa incredibile, da molti tedeschi
comuni, che alla fine della guerra furono uditi pronunziare frasi quasi
identiche.
Slogan insolenti, vuoti e astrusi furono
sovente imposti dall’alto e talvolta concepiti dal basso. Per dodici anni furono
fondanti l’indottrinamento
imposto dal regime, una educazione ideologica condotta
in modo metodico che mediante la reiterazione di molteplici concetti
(affetti dai limiti di generalità,eccessiva astrazione, falsità, incompiutezza
del significato, assenza di unità di senso dovuta all’assenza di relazioni
logichetra i concetti; tali limiti ostacolano il ragionamento, l’assimilazione
e la comprensione necessari alla critica consapevole) passivamente subiti si
alimentò autonomamente,
così da determinare una persuasione profonda e un'adesione acritica .
Ed è facile supporre che, nel momento in
cui esprimevano quel concetto, essi si «esaltassero» al pensiero della loro
grandezza d'animo.
La mente di Eichmann era piena fino a
traboccare di concetti di questo tipo. La sua memoria si rivelò pessima per ciò
che riguarda gli avvenimenti concreti.
Il giudice Landau, sempre così paziente,
vedendo che non ricordava nulla della cosiddetta conferenza di Wannsee, dove i
capi nazisti avevano discusso i vari metodi di sterminio, non poté trattenersi
dal chiedergli con tono irritato: «Ma quali sono le cose che Lei riesce a
ricordare?» Eichmann ricordava assai
bene le svolte della propria carriera, e tuttavia si constatava che non
necessariamente queste svolte coincidevano con quelle della storia dello
sterminio degli ebrei o della storia in generale. Per esempio, egli aveva
sempre difficoltà a ricordare la data esatta dello scoppio della guerra. E
invece non aveva dimenticato una sola delle frasi che, da lui pronunziate in
questo o in quel momento della sua vita, avevano avuto su lui stesso un
«effetto esaltante».
Adolf Eichmann:
«Una delle poche doti che il destino mi ha
concesso, è la capacità di essere veritiero, per quel che dipende da me.» Di questa
dote si era vantato ancor prima che il Pubblico ministero volesse attribuirgli
crimini che non aveva commesso.»
Negli
appunti confusi e disorganizzati che aveva stilato quando era ancora «nel pieno
possesso» della sua «libertà fisica e psicologica,» Eichmann aveva rivolto uno
strabiliante ammonimento agli storici futuri, invitandoli ad essere «abbastanza
oggettivi da non deviare dal sentiero della verità qui registrata»:
Strabiliante, perché ogni riga di quegli scritti rivelava un’estrema ignoranza di ciò che dal punto di vista tecnico e
burocratico non era direttamente connesso con il suo lavoro, nonché una memoria
eccezionalmente difettosa.
Che cosa si doveva pensare di un uomo che
prima dichiarava solennemente di avere imparato almeno una cosa, nella sua vita
sbagliata, e cioè che non si deve mai prestar giuramento:
«Oggi
nessuno, nessun giudice mi persuaderà mai a fare una dichiarazione giurata, a
testimoniare qualcosa sotto giuramento. Mi rifiuto, e mi rifiuto per ragioni
morali. L'esperienza mi ha insegnato che se uno resta fedele al giuramento, un
giorno ne deve pagare le conseguenze, e perciò io ho deciso una volta per tutte
che nessun giudice al mondo e nessun'altra autorità riuscirà mai a farmi
giurare, a farmi fare una testimonianza giurata. Non voglio, e nessuno mi potrà
costringere.»
E, poi, quando gli si diceva che se voleva
deporre in propria difesa poteva farlo «sotto giuramento o senza giuramento,»
dichiarava senza esitazione che preferiva giurare? Che cosa si doveva pensare
di un uomo che dopo aver detto e ripetuto al giudice istruttore e alla Corte
che la peggior cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stata cercar di sottrarsi
alle proprie responsabilità, cercar di salvarsi la pelle e implorare pietà, e
poi, su consiglio del difensore, scrisse di proprio pugno un'istanza di grazia?
Per ciò
che lo riguardava personalmente, si trattava di stati d'animo mutevoli, e finché egli riusciva a ritrovare nella
sua memoria una frase fatta era soddisfatto e non si rendeva neppur conto che esistesse una cosa che si chiama
«incoerenza.» Come vedremo, questa capacità spaventosa di consolarsi con frasi
vuote non lo abbandonò nemmeno nell'ora della morte.
LA PRIMA SOUZIONE:
ESPULSIONE.
Se questo fosse stato un processo normale,
con i normali scontri tra accusa e difesa per appurare i fatti e render
giustizia a entrambe le parti, oggi potremmo esaminare la versione della difesa
per vedere se per caso non ci fosse qualcosa di più, nel grottesco racconto
fatto da Eichmann della sua attività a Vienna, e se per caso le sue distorsioni
della realtà non andassero attribuite a qualcosa di più che alla menzogna. I
fatti per cui Eichmann doveva essere impiccato erano già stati accertati «al di
là di ogni ragionevole dubbio» molto prima che il processo iniziasse, ed erano
generalmente noti a tutti gli studiosi del periodo nazista.
Le idee confuse che Adolf Eichmann aveva
sulla “questione ebraica” in generale:
Durante l’interrogatorio egli disse che a
Vienna aveva «considerato gli ebrei come avversari per i quali bisognava
trovare una soluzione reciprocamente accettabile, reciprocamente leale... in
modo che possiedano un territorio loro; questa, secondo me sarebbe la soluzione.
E io lavorai con entusiasmo in questa direzione. Era questa la vera ragione per
cui ebrei e nazisti «si appoggiavano,» per cui il lavoro si basava sulla
«reciprocità.» Era nell'interesse degli ebrei - anche se forse non tutti gli
ebrei lo capivano - abbandonare il paese: «bisognava aiutarli, bisognava aiutare
questi funzionari ad agire, e fu questo che io realizzai.
A quell'epoca egli non poteva prevedere che
un giorno sarebbe venuta la «soluzione finale,» tuttavia li aveva salvati e
questo era un «fatto.»
«E’ indiscutibile infatti che «nelle prime
fasi della loro politica ebraica i nazionalsocialisti ritennero opportuno
adottare un atteggiamento filosionista» (Hans Lamm)
Gli stessi ebrei tedeschi pensavano che
sarebbe bastato annullare l'«assimilazione» con un nuovo processo di
«dissimilazione» e aderirono in massa al movimento sionista.
«Portatela con orgoglio, la Stella gialla!» Questo
slogan, il più popolare di quegli anni, coniato dal capo redattore della
“Jüdische Rundschau”, Robert Weltsch, esprimeva bene lo stato d'animo di
quell'epoca.
Esso era
polemicamente rivolto contro gli «assimilazionisti» e contro tutti coloro che si rifiutavano di accettare il nuovo «corso
rivoluzionario,» “die ewig Gestrigen”, cioè «gli eterni arretrati».
Robert Weltsch, illustre giornalista, aveva
dichiarato dopo la guerra che non l'avrebbe mai lanciato se avesse potuto
prevederne gli sviluppi.
Era un dato di fatto che in quegli anni
soltanto i sionisti avevano qualche possibilità di trattare con le autorità
tedesche: e questo per la semplice ragione che nello statuto dell 'Associazione
centrale dei cittadini tedeschi di fede ebraica, a cui allora aderiva il 95%
degli ebrei organizzati in Germania, si affermava che compito primo
dell'associazione era «combattere l'antisemitismo».
Per definizione quell'organismo era «ostile allo Stato,» e
sicuramente sarebbe stato perseguitato (cosa che non fu) se si fosse azzardato
a fare quello che si supponeva fosse nelle sue intenzioni. Nei primi anni,
l'ascesa di Hitler al potere fu interpretata dai sionisti soprattutto come «la
sconfitta definitiva dell'assimilazionismo». I sionisti credevano anche che la
«dissimulazione,» combinata all’emigrazione in Palestina degli ebrei più
giovani e possibilmente dei capitalisti ebrei, potesse costituire una «soluzione reciprocamente leale.»
Secondo
i tedeschi i sionisti i sionisti erano «ebrei bravi,» in quanto che anche loro
pensavano in «termini nazionali.»
Naturalmente non si rendevano conto delle
sinistre conseguenze che un giorno avrebbe avuto questa attività selettiva; tuttavia
pensavano anche che, se si trattava di selezionare ebrei da far sopravvivere, gli
ebrei dovevano fare da sé questa selezione.
Fu a causa di questo fondamentale errore di
valutazione che alla fine gli ebrei non selezionati - la maggioranza – si
trovarono inevitabilmente di fronte a due nemici: da un lato le autorità
naziste, dall'altro le autorità ebraiche.
Quanto
alla fase viennese, l'assurda affermazione fatta da Eichmann di aver salvato
centinaia di migliaia di vite, affermazione che al processo fu accolta con risa
dal pubblico. E’ stranamente confortata dal meditato giudizio degli storici
ebrei, i Kimche: «Così cominciò uno dei
più paradossali episodi di tutto il periodo nazista: l'uomo che sarebbe passato
alla storia come uno dei principali assassini del popolo ebraico si mise con
impegno a salvare gli ebrei d'Europa.»
Eichmann
ed il suo avvocato difensore non ricordarono nessuno dei fatti che potevano
confermare, sia pur vagamente, la sua incredibile versione.
Più
dannosa di qualsiasi fatto oggettivo fu per Eichmann la difettosa memoria.
Era nella natura del partito nazista
continuare a divenire di mese in mese sempre più estremista, ma una delle
fondamentali caratteristiche dei suoi membri era che psicologicamente essi
tendevano sempre a restare indietro, avevano gran difficoltà a tenere il passo
o, per dirla con Hitler, non sapevano «scavalcare la propria ombra.»
Gli
unici ebrei che Eichmann ricordava erano quelli che erano stati completamente
in suo potere.
Aveva
dimenticato non soltanto gli emissari palestinesi, ma anche le persone che
aveva conosciuto a Berlino quando ancora lavorava per il servizio di spionaggio
e ancora non aveva poteri esecutivi.
Meyer,
membro dell’esecutivo dell’organizzazione sionista in Germania:
Eichmann
«ci ascoltava e sinceramente cercava di capire la situazione»; e si comportava
con correttezza: «usava chiamarmi 'Signore' e mi offriva una sedia.» Ma poi,
nel febbraio del 1939, tutto era cambiato di colpo. Eichmann aveva convocato a
Vienna i capi ebraici tedeschi per spiegar loro il suo nuovo metodo di
«emigrazione forzata.» Li aveva ricevuti seduto a un tavolo in una gran sala
dei Palazzo Rothschild, e gli ebrei lo avevano riconosciuto, naturalmente, ma
l'avevano trovato completamente trasformato:
«Dissi
ai miei amici che non ero certo che fosse proprio lui. Tanto terribile era il
cambiamento... Qui trovai un uomo che si comportava come il signore della vita
e della morte. Ci ricevette con fare insolente e rude. Non permise che ci
avvicinassimo al suo tavolo.
Tra il
1937 e il 1941 egli ebbe quattro promozioni; nel giro di quattordici mesi salì
da Untersturmführer a Hauptsturmführer (cioè da sottotenente a capitano), e di
lì a un anno e mezzo divenne Obersturmbannführer, ossia tenente colonnello.
A Praga
si attuò il medesimo sistema di Vienna.
Centinaia
di migliaia di ebrei avevano abbandonato le loro case nel giro di pochi anni, e
altri milioni attendevano il loro turno.
1939, un
mese dopo lo scoppio della guerra, fu richiamato a Berlino ( capo del Centro
nazionale per l'emigrazione degli ebrei ). Nessuna persona di buon senso poteva
più pensare di risolvere la questione ebraica con l'emigrazione forzata; a
prescindere dalla difficoltà di trasferire gente da un paese all'altro in tempo
di guerra.
L’ordine
che arrestò definitivamente l'emigrazione ebraica venne solo due anni più
tardi, nell'autunno del 1941.
Ammesso
che già fosse stata decisa una qualche «soluzione finale,» nessuno aveva ancora
impartito ordini in questo senso, sebbene nelle regioni orientali gli ebrei già
fossero concentrati in ghetti e già venissero liquidati dagli
"Einsatzgruppen". Ma l'emigrazione, per quanto accuratamente
organizzata a Berlino secondo il principio della «catena di montaggio,» si
sarebbe estinta ugualmente, da sé.
LA SECONDA SOLUZIONE:
CONCENTRAMENTO.
Fu
soltanto quando scoppiò la guerra (primo settembre 1939) che il regime nazista
divenne scopertamente totalitario e criminale. Uno dei passi più importanti in
questa direzione, sul piano organizzativo, fu un decreto, che fuse il Servizio
di sicurezza delle S.S., che era un organo del partito e a cui Eichmann
apparteneva fin dal 1934, con la polizia di sicurezza dello Stato, cioè con la
polizia regolare, che comprendeva anche la polizia segreta dello Stato o
Gestapo. Da questa fusione nacque l'Ufficio centrale della sicurezza del Reich
(R.S.H.A.).
Tutti
gli ufficiali di polizia, non solo quelli della Gestapo, ma anche quelli della
polizia criminale e della polizia dell'ordine, ricevettero nuovi titoli - i
titoli in uso tra le S.S. - corrispondenti ai gradi che avevano a quella data,
fossero o non fossero iscritti al partito: e ciò significa che da un giorno
all'altro uno dei più importanti settori dei vecchi servizi civili fu
inquadrato nell'organizzazione nazista più estremista. Nessuno, a quanto ci consta, protestò o si dimise.
L'R.S.H.A.,
inoltre, era soltanto uno dei dodici uffici centrali delle S.S.: i più
importanti
erano l'Ufficio centrale dell'ordine pubblico, che si occupava di rastrellare
gli ebrei, e l'Ufficio centrale dell'amministrazione e dell'economia
("Wirtschafts-Verwaltungshauptamt", o W.V.H.A.), che si
occupava dei campi di concentramento e più tardi s'interessò degli aspetti
«economici» dello sterminio.
Questa
«concretezza» o «oggettività» “Sachlichkeit” - parlare dei campi di
concentramento in termini di «amministrazione» e dei campi di sterminio in
termini di «economia» - era tipica della mentalità delle S.S.. Grazie ad essa,
le S.S. si distinguevano da certi tipi «emotivi», «poveri idioti» che non
avevano una visione realistica.
Al
processo, tuttavia, non fu l'”Obersturmbannführer a. D.” a riportare la palma
dell'«oggettività»; fu invece il dott. Servatius, avvocato difensore di
Eichmann, il quale, benché non avesse mai aderito al partito nazista, tenne
alla Corte una lezione su ciò che significa non essere «emotivi»: lezione che,
chi la udì, difficilmente dimenticherà. Il memorabile episodio si verificò
durante la breve arringa finale del difensore, dopo la quale la Corte si ritirò
per quattro mesi per stilare la sentenza. Servatius disse che l'imputato non
era responsabile delle «collezioni di scheletri, sterilizzazioni, uccisioni
mediante gas e “analoghe questioni mediche”.» Il giudice Halevi lo interruppe:
«Dottor Servatius, suppongo che Lei sia incorso in un “lapsus linguae” quando
ha detto che l'uccisione mediante gas era una questione medica»; al che
Servatius rispose: «Era proprio una questione medica, perché era preparata da
medici; si trattava di uccidere, e anche uccidere è una questione medica.» E
come se non bastasse, quasi per essere sicuro che i giudici di Gerusalemme non
dimenticassero in che modo i tedeschi (quelli comuni, non gli ex-membri delle
S.S. o gli ex-membri del partito nazista) ancor oggi intendono certi atti che
in altri paesi sono chiamati omicidio, ripeté la frase nei suoi «Commenti alla
sentenza di prima istanza,» stilati in vista della revisione del processo
dinanzi alla Corte Suprema; ripeté anche che non Eichmann, ma uno dei suoi
uomini si occupava di “questioni mediche”.
Ciascuno
degli uffici centrali delle S.S. era diviso,
al tempo della guerra, in sezioni e sottosezioni, (fenomeno critico
dell’atomizzazione) e così anche l'R.S.H.A. finì col comprendere sette sezioni
principali. La Quarta Sezione era quella della Gestapo; il Gruppenführer
(maggior generale) doveva opporsi agli «avversari dello Stato,» e questi erano
divisi in due categorie di cui si occupavano due distinte sottosezioni: gli
«oppositori» accusati di comunismo, sabotaggio, liberalismo e omicidio erano di
competenza della sottosezione Quarta-A; la sottosezione Quarta-B si occupava
invece delle etnie cioè cattolici, protestanti, ed ebrei.
Eichmann
nel 1941 fu assegnato all’ufficio Quarta-B-4 dell'R.S.H.A.
Dal
punto di vista tecnico e organizzativo la posizione di Eichmann non era dunque
di primissimo piano; se si rivelò così importante fu solo perché durante la
guerra la lotta antiebraica acquistò di mese in mese, di settimana in
settimana, di giorno in giorno un peso sempre maggiore finché negli anni della
disfatta (dal 1943 in poi) assunse proporzioni fantastiche. Quando ciò
accadde,ufficialmente il Quarta-B-4 dell'R.S.H.A. era ancora il solo a
occuparsi esclusivamente degli «oppositori, gli ebrei,» ma in realtà aveva
perduto il monopolio perché ormai tutti gli uffici e tutti gli apparati, lo
Stato e il partito, l'esercito e le S.S., erano impegnati a «risolvere» il
problema.
Ognuno di questi gruppi costituiva una
catena gerarchica diversa, ognuna era pari alle altre e chi apparteneva a un
gruppo non doveva obbedienza ai funzionari, anche se superiori, di un altro
gruppo. E’ impresa ardua avventurarsi in questo labirinto di itituzioni
parallele.
Se il
processo avesse avuto luogo oggi, la cosa sarebbe stata molto più facile,
poiché Raul Hilberg nel suo libro “The
Destruction of the European Jews” è
riuscito finalmente a darci una descrizione chiara di quello spaventoso
meccanismo.
Questi potentissimi organismi si facevano
una concorrenza spietata - il che non tornava davvero a vantaggio delle loro
vittime, giacché tutti avevano la stessa ambizione: uccidere più ebrei
possibile.
Questo spirito competitivo, che
naturalmente garantiva ad ogni organismo la fedeltà più assoluta da parte dei
suoi membri, è sopravvissuto alla guerra; solo che oggi funziona per così dire
all'inverso: ognuno cerca di «scagionare» il più possibile quello che fu il
proprio organismo, a spese di tutti gli altri.
E’ questa la spiegazione che Eichmann dette
quando fu invitato ad esprimere il suo giudizio sulle memorie di Rudolf Höss,
comandante di Auschwitz, memorie che lo accusavano di cose che egli sostenne di
non aver mai fatto né potuto fare. Eichmann non ebbe difficoltà a riconoscere
che Höss non aveva nessun motivo di attribuirgli colpe che non aveva commesso,
dato che i rapporti tra loro erano sempre stati ottimi; ma sostenne (invano)
che Höss voleva scagionare il proprio ufficio, il W.V.H.A., e riversare tutte
le colpe sull'R.S.H.A.. Tale circostanza si era già verificata a Norimberga
dove i vari imputati avevano offerto uno spettacolo indegno accusandosi l'un l'altro
- e guardandosi bene dall'accusare Hitler!
Non c'è
dubbio che uno dei principali errori, oggettivamente parlando, commessi
dall'accusa al processo di Gerusalemme, fu quello di basarsi troppo su
dichiarazioni giurate o non giurate di ex-gerarchi nazisti, morti o vivi;
l'accusa non vide, o forse non poteva vedere, quanto poco sicure fossero queste
fonti per appurare i fatti. Perfino la sentenza, nel valutare le testimonianze
a sfavore rese da altri criminali nazisti, tenne conto del fatto che - come si
era espresso uno dei testi della difesa - «al tempo dei processi contro i
criminali di guerra c'era la tendenza a riversare il più possibile le colpe su
coloro che erano assenti o che si credevano morti.»
Eichmann si trovò di fronte ad uno
spiacevole dilemma: Spiacevole dilemma: da un lato l'«emigrazione forzata» era
sempre la formula ufficiale per risolvere la questione ebraica, ma dall'altro
l'emigrazione non era più possibile.Per la prima prima e forse ultima volta
nella sua vita tra le S.S., fu costretto dalle circostanze a prendere
l'iniziativa, cercar di «partorire un'idea.»
Secondo la versione che dette al giudice
istruttore, tre furono le soluzioni che gli balenarono alla mente, ma tutte e
tre - ammise - si risolsero in nulla, poiché ogni cosa che egli pensava di fare
invariabilmente andava a monte.
Sempre delusioni, dunque; eterna causa dei
suoi guai, a suo avviso, era che lui e i suoi uomini non erano mai liberi di
agire, poiché tutti gli altri uffici dello Stato e del partito volevano partecipare
alla «soluzione,» co il risultato che ovunque vi furono eserciti di «esperti
ebraici» che si ostacolavano a vicenda cercando di primeggiare in un campo di
cui non s'intendevano.
Il fatto
che Eichmann fosse tanto ansioso di trovare un territorio per i «suoi» ebrei si
spiega soprattutto col suo desiderio di far carriera. Il progetto Nisko
«nacque» infatti nel periodo della sua rapida ascesa, ed è più che probabile
che egli sperasse di divenire un giorno il governatore generale di uno di uno
«Stato ebraico.» Il completo fallimento
dell'impresa dovette però fargli capire quanto inutili e inopportune fossero le
iniziative «personali.»
Il
secondo tentativo compiuto da Eichmann per «mettere un po' di terraferma sotto
i piedi degli ebrei» fu il progetto del Madagascar. Il piano di evacuare
quattro milioni di ebrei dall'Europa e di trasportarli nella grande isola
francese al largo della costa sudorientale dell'Africa era stato elaborato dal ministero
degli esteri del Reich e poi trasmesso all'R.S.H.A.. Il progetto fallì. Era
assolutamente impossibile trasportare quasi tre milioni di ebrei e farli
arrivare vivi.
La verità è che il piano del Madagascar
doveva servire a mascherare i preparativi per lo sterminio fisico di tutti gli
ebrei dell'Europa occidentale (per lo sterminio degli ebrei polacchi non c'era
bisogno di mascheramenti!) e il suo gran pregio - visto che gli antisemiti, per
quanto numerosi e addestrati e zelanti, restavano sempre un passo indietro al
Führer - era che inculcava in tutti l'idea basilare che soltanto l'evacuazione
completa dell'Europa poteva risolvere il problema: in altre parole, che nessuna
legge speciale, nessuna «dissimilazione,» nessun ghetto poteva bastare. Quando,
un anno più tardi, il progetto del Madagascar fu dichiarato «superato,» tutti
erano psicologicamente o meglio razionalmente preparati al passo successivo:
dato che non esisteva un territorio in
cui «evacuare» gli ebrei, l'unica «soluzione» era lo sterminio.
Non che
Eichmann, il rivelatore della verità per le future generazioni, sospettasse mai
l'esistenza di progetti tanto sinistri! Ciò che fece fallire l'impresa del
Madagascar fu, secondo lui, la mancanza di tempo.
A Gerusalemme, tanto il giudice istruttore
quanto la Corte cercarono di confutare la sua tesi: gli misero dinanzi due
documenti riguardanti la riunione del 21 settembre 1939, a cui sopra abbiamo
accennato: in uno di questi, una lettera di Heydrich spedita per telescrivente
e contenente alcune direttive per gli “Einsatzgruppen”, si distingueva per la
prima volta tra «un obiettivo finale che richiede un lungo periodo di tempo,»
obiettivo da considerare «segretissimo,» e «le fasi per raggiungere questo
obiettivo finale.» Ancora non si usava l'espressione «soluzione finale,» e il
documento non specificava che cosa per «obiettivo finale» fosse da intendersi.
Eichmann dopo aver letto il documento, disse senza esitazione che secondo lui
«obiettivo finale» poteva significare soltanto «sterminio fisico,» e concluse
che «quest'idea basilare era già radicata nelle menti dei capi supremi.»
La guerra secondo la «profezia» fatta da
Hitler nel suo discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939, avrebbe portato
l'«annientamento della razza ebraica in Europa».
Una politica coerente e unitaria non c'era.
(fenomeno critico dell’atomizzazione): Ogni insieme amministrativo aveva per
così dire una «soluzione» propria e poteva applicarla o imporla contro le
soluzioni degli altri.
Ciascun singolo aspirava alla supremazia.
La fine di una fase in cui esistevano
leggi, ordini, decreti che regolavano il trattamento dei singoli ebrei.
Il «sogno» di uno Stato ebraico retto dai
nazisti era sempre stato l'istanza più alta in materia di ebraismo, «passò in
secondo piano, poiché ora ogni iniziativa fu demandata a unità diverse.
Queste «unità diverse» erano reparti scelti
di sterminatori, che in oriente operavano nelle retrovie della Wehrmacht e il
cui compito era quello di massacrare la popolazione civile indigena e
soprattutto gli ebrei.
La destinazione ultima di ogni carico di
ebrei. Questa destinazione veniva stabilita in base alla «capacità di
assorbimento» dei vari impianti di sterminio e anche in base alla richiesta di
manodopera forzata da parte di numerose industrie che, per ragioni di profitto,
avevano eretto loro stabilimenti nelle vicinanze di alcuni campi della morte.
La collaborazione tra le S.S. e gli industriali era ottima.
Quanto alle condizioni di lavoro, l'idea
era ovviamente quella di uccidere con la fatica.
Era un
fatto che ormai l'evacuazione e la deportazione non erano più la fase ultima
della «soluzione.»
Da fonti
migliori della difettosa memoria di Eichmann noi sappiamo che fin dall'inizio
Theresienstadt doveva divenire un ghetto speciale per alcune categorie privilegiate
di ebrei, principalmente ebrei tedeschi.
Ma la città si dimostrò troppo piccola anche
per queste categorie, e dopo circa un anno, nel 1943, cominciò un processo di
«assottigliamento» ovvero «sfoltimento» ("Auflockerung"):
ogni superaffollamento fu regolarmente eliminato... mediante il trasporto ad
Auschwitz.
Ormai era passato il tempo delle «soluzioni
politiche» e già era iniziata l'epoca della «soluzione fisica.»
Eichmann già aveva saputo dell'ordine del
Führer di procedere alla «soluzione finale.» Ripulire dagli ebrei una nazione
intera.
LA SOLUZIONE FINALE :
STERMINIO.
Il 22
giugno 1941 Hitler attaccò l'Unione Sovietica, e all'incirca un paio di mesi
dopo Eichmann fu convocato a Berlino. Il 31 luglio Heydrich aveva ricevuto dal Reichsmarschall
sostituto di Hitler nella gerarchia statale (distinta dalla gerarchia del
partito), una lettera in cui lo si invitava a preparare «la soluzione
complessiva (Gesamtlösung) della questione ebraica nelle zone d'influenza della
Germania» e ad approntare «una proposta generale... per il raggiungimento
dell'auspicata soluzione finale Endlösung del problema ebraico.» Heydrich, comandante della
polizia dal 1936 e delle forze di sicurezza del Terzo Reich dal 1939, scrisse
in una lettera del 6 novembre 1941 che già da
vari anni aveva «il compito di preparare la soluzione finale,» (confer
Reitlinger) e già si occupava, da quando era iniziata la campagna di Russia,
dello sterminio degli ebrei ad opera degli Einsatzgruppen.
Nel colloquio che ebbe con Eichmann,
Heydrich cominciò con «un discorsetto sull'emigrazione» (la quale praticamente
era già cessata, anche se l'ordine che la proibì ufficialmente fu emanato
soltanto qualche mese più tardi), e poi disse: “Il Führer ha ordinato lo
sterminio fisico degli ebrei”
Lì per lì io non afferrai bene il
significato di quello che aveva detto, data la cura con cui aveva scelto le
parole, ma poi capii e non dissi nulla perché non c'era nulla da dire. Infatti
io non mi sarei mai immaginato una cosa simile, una soluzione così violenta.
Ora persi tutto, tutto il gusto di lavorare, tutta l'iniziativa, tutto
l'interesse.
La gestione del sistematico sterminio degli
ebrei era stato posto sotto l'autorità dei W.V.H.A.» (non dunque dell'R.S.H.A.),
il nome convenzionale di tutta l'operazione sarebbe stato «soluzione finale.»
Eichmann,
a Gerusalemme si dimenticò di questo fatto, con suo gran danno, perché la cosa
era importante per stabilire i limiti della sua autorità e quindi della sua
responsabilità.
Nessuno mai disse ad Eichmann più di quello
che era strettamente indispensabile perché egli potesse svolgere il suo lavoro
specifico.
Di questo “affare segretissimo” segretissimi
gli sviluppi rimasero anche dopo che la notizia del ricorso alla soluzione
finale ebbe fatto il giro di tutto il partito, di tutti i ministeri statali, di
tutte le industrie interessate al lavoro forzato e per lo meno di tutto il
corpo degli ufficiali delle forze armate; ma la segretezza rispondeva a uno
scopo pratico. Coloro che venivano esplicitamente informati dell'ordine del
Führer non erano più semplici Gefehlsträger, ma venivano promossi Geheimsträger
e prestavano un giuramento speciale: giuramento che però era già stato prestato
dai membri del servizio di sicurezza, a cui Eichmann apparteneva fin dal 1934.
Inoltre, tutta la corrispondenza relativa
alla questione doveva rispettare rigorosamente una determinata «falsificazione
concettuale e di significato» e se si eccettuano i rapporti degli
Einsatzgruppen è raro trovare documenti in cui figurino parole crude come
«sterminio,» «liquidazione,» «uccisione.»
Invece di dire uccisione si dovevano usare
termini come «soluzione finale,» «evacuazione» (Aussiedlung) e «trattamento
speciale» (Sonderbehandlung); invece di dire deportazione bisognava usare
parole come «trasferimento» o «lavoro in oriente» (Arbeitseinsatz im Osten), in
modo da dare l'impressione che si trattasse di provvedimenti temporanei, non
dannosi, altresì favorevoli nei confronti degli interessati, (Dimostrando
l’evidente intenzione di far credere all’interlocutore di agire ancora per il
loro bene!).
In certi casi speciali questa sistematica
falsificazioe di significato subì qualche leggera modifica, e così, per
esempio, un alto funzionario del ministero degli esteri propose un giorno che
in tutta la corrispondenza col Vaticano lo sterminio degli ebrei venisse
chiamato con la formula sottile «soluzione radicale».
Soltanto tra di loro i «depositari di
segreti» potevano parlare liberamente, senza ricorrere al linguaggio
convenzionale, ma è molto improbabile che lo facessero nel normale adempimento
delle loro criminose mansioni, cioè in presenza di stenografi o di semplici
impiegati. Qualunque sia la ragione per cui
quell’idioma venne inventato, esso fu di enorme utilità per mantenere l'ordine
e l'equilibrio negli innumerevoli servizi la cui collaborazione era essenziale.
Del resto, il termine stesso usato dai nazisti per dire «idioma»
(Sprachregelung, ossia «regole di linguaggio») era in fondo un termine in
codice; significava quello che nel linguaggio comune si chiamerebbe «falsità.»
Venne applicato quando un «depositario di segreti» era mandato a incontrarsi
con qualche persona del mondo esterno.
Questo
sistema aveva un effetto molto importante: i nazisti implicati nella «soluzione
finale» si rendevano ben conto di quello che facevano, ma la loro attività, ai
loro occhi, non coincideva con l'idea tradizionale del «delitto.» Ed Eichmann,
suggestionabile com'era dalle parole d'ordine e dalle frasi fatte, e insieme
incapace di parlare il linguaggio comune, era naturalmente da questo punto di
vista l'individuo ideale.
Il gas
sarebbe enttrato nell’edificio asfissiando gli ebrei.
Eichmann:
“Anche per me era una cosa mostruosa. Io non sono così forte da sopportare una
cosa del genere senza reagire, ricordo ancora come mi raffigurai la scena e poi
mi prese una debolezza fisica, come dopo una grande agitazione. Queste cose
succedono a tutti, e io rimasi con una specie di tremito interiore.»
Eppure poteva considerarsi fortunato,
poiché aveva visto solamente i preparativi di quelle che sarebbero state le
camere al monossido di carbonio di Treblinka, uno dei sei campi della morte
delle regioni orientali, dove sarebbero perite varie centinaia di migliaia di
persone.
A Kulm nel 1944, furono poi uccisi oltre
trecentomila ebrei provenienti da ogni parte d'Europa. Qui si
lavorava già a pieno ritmo, ma il metodo era diverso: invece di camere si
usavano camion a gas.
Ecco che cosa vide Eichmann:
Gli ebrei erano raggruppati in una grande
stanza, ricevettero l'ordine di spogliarsi; poi arrivò un camion che si fermò
proprio dinanzi all'ingresso della stanza e gli ebrei nudi vi furono fatti
entrare. Gli sportelli si rinchiusero e il camion partì. “Non so dire [quanti
fossero], cercavo di non guardare. Non potevo; non potevo; ne avevo abbastanza.
Le grida e... Ero troppo sconvolto.”
“Allora vidi la cosa più orribile che
avessi mai visto in vita mia. Il camion si fermò davanti a una fossa, gli
sportelli si aprirono e i corpi furono gettati giù; sembravano ancora vivi,
tanto le membra erano ancora flessibili. Furono scaraventati nella fossa. Poi
me ne andai. Era troppo. Ero finito. Avrei voluto non parlare più, sparire.”
Ma di lì a poco vide qualcosa di ancora più
spaventoso:
Una donna con le braccia legate dietro alla
schiena di fronte ad un giovane tiratore. “Allora mi prese una debolezza alle
ginocchia e me ne andai.”
Sulla via del ritorno, gli venne in mente
di fermarsi a Lwów. Sembrava una buona idea, perché Lwów (o Lemberg) era stata
a suo tempo una città austriaca, e quando vi giunse vide «la prima scena
piacevole dopo tanti orrori»: cioè «la stazione ferroviaria costruita in onore
del sessantesimo anno di regno di Francesco Giuseppe».
Ma poi, proprio nella cara Lwów, commise un
grosso errore. Andò a trovare il comandante delle S.S. della città e gli disse:
«E' proprio orribile quello che si sta facendo qui attorno; i giovani si
trasformano in sadici. Come si può fare una cosa simile? Infierire su donne e
bambini? E' assurdo. Il nostro popolo diverrà pazzo o malato di mente, il
nostro popolo.» Il guaio era che a Lwów si stavano facendo esattamente le
stesse cose che si facevano a Minsk, e il suo ospite fu lieto di condurlo dove
: “C'era una fossa che ormai era già colma. E, dalla terra, sprizzava uno
zampillo di sangue, come una fontana. Una cosa del genere non l'avevo mai vista
prima. Ero stufo della mia missione, e tornai a Berlino”.
Senonché, non era ancora finita.
Sebbene Eichmann gli spiegasse di non
essere «abbastanza forte» da tollerare quelle visioni, di non essere mai stato
un soldato, di non essere mai stato al fronte, di non aver mai visto un'azione,
di non poter dormire e di avere degli incubi, circa nove mesi più tardi fu rimandato
nella zona di Lublino dove Eichmann vide una delle cose più orribili che avesse
visto in vita sua. “Mi tenni più indietro che potei, non mi avvicinai per
vedere tutto. Tuttavia vidi come una colonna di ebrei nudi, messi in fila in
una grande stanza: vennero uccisi, come mi dissero, con l’acido cianidrico.”
Prima di queste visioni Eichmann non vide
molto. E' vero, egli visitò più volte Auschwitz, il più grande e il più famoso
dei campi della morte, ma Auschwitz che si estendeva per una superficie di quasi
trenta chilometri quadrati, non era soltanto un campo di sterminio: era una
gigantesca industria e contava fino a centomila ospiti, dove tutti i tipi di
prigionieri erano rappresentati, anche i non ebrei e i forzati non destinati
alla morte per gas. Era facile evitar di vedere gli impianti di sterminio, e
Höss, col quale egli era in ottimi rapporti di amicizia, gli risparmiò di
assistere a scene crudeli. Eichmann non assisté mai a fucilazioni in massa, non
seguì mai il processo dell'asfissia né la selezione degli idonei al lavoro (in
media il 25% di ogni convoglio) che ad Auschwitz precedeva l'uccisione. Vide
appena quel tanto che gli bastava per sapere con esattezza come funzionava quel
meccanismo di distruzione, per sapere che c'erano due diversi metodi di
esecuzione, la fucilazione e l'asfissia; che la prima era effettuata dagli
Einsatzgruppen e la seconda era praticata nei campi o in camere o in camion a
gas; e che nei campi vigeva tutta una complicata procedura per ingannare le
vittime fino all'ultimo momento.
La difesa, vien da pensare. poteva anche
alzarsi subito, poiché la conclusione di questo «storico processo» era già
prevedibile, la colpevolezza già dimostrata. I fatti, ossia le cose che
Eichmann aveva commesso (anche se l'accusa avrebbe voluto attribuirgliene di
più) erano fuori discussione, erano stati accettati molto prima che il processo
iniziasse ed erano stati ammessi e ribaditi più e più volte dall'interessato. C'erano
elementi più che sufficienti - come egli stesso rilevò ogni tanto - per
impiccarlo. («Non basta ancora?» disse quando il giudice istruttore cercò di
attribuirgli poteri che non aveva mai posseduto.) Ma siccome Eichmann si era
occupato del trasporto delle vittime e non dell'uccisione, giuridicamente o
almeno formalmente restava la questione se a quel tempo egli sapeva che cosa
faceva, e inoltre se era in grado di giudicare l'enormità delle sue azioni. In
altre parole, bisognava appurare fino a che punto, per quanto sano di mente dal
punto di vista medico, era responsabile giuridicamente.
A queste
due questioni si dette ora una risposta affermativa:
Egli
aveva visto le località di arrivo dei convogli e ne era rimasto turbato.
Un'ultima questione, la più inquietante di tutte, fu sollevata più e più volte
dai giudici, in particolare dal presidente: l'uccisione degli ebrei aveva mai
provocato in lui crisi di coscienza? Ma questa era una questione morale, e, dal
punto di vista giuridico, non poteva essere considerata «rilevante.»
Ma se i
fatti erano già stati accertati, c'erano sempre due problemi giuridici. Primo:
poteva Eichmann essere sollevato dalla responsabilità penale – come previsto previsto
dalla sezione 10 della legge in base alla quale era processato - per avere
agito «al fine di salvarsi dal pericolo immediato di morte?» Secondo: poteva
egli invocare qualcuna delle circostanze attenuanti elencate nella sezione 11
della medesima legge? aveva egli fatto «del suo meglio per ridurre la gravità
delle conseguenze del torto» o «per sventare conseguenze più gravi di quelle
concretamente verificatesi?» E' chiaro che le sezioni 10 e 11 della Legge
contro i nazisti e i collaboratori dei nazisti, legge emanata nel 1950, erano
state stilate con la mente rivolta agli ebrei «collaborazionisti.» Dappertutto,
nell'operazione di sterminio, i tedeschi si erano serviti di Sonderkommandos
ebraici, cioè di «unità speciali» che avevano commesso atti criminosi «al fine
di salvarsi dal pericolo immediato di morte.»
A questi
due problemi Eichmann provvide da sé a fornire una risposta, con la propria
deposizione, e fu una risposta chiaramente negativa. E' vero che una volta egli disse che l'unica alternativa sarebbe stata
per lui il suicidio; ma questa era una menzogna, poiché noi sappiamo che
elementi delle squadre di sterminio lasciavano quel lavoro con stupefacente
facilità, senza gravi conseguenze per la propria persona. Nei documenti presentati a Norimberga «non
si trovava un solo caso di S.S. condannate a morte per essersi rifiutate di
partecipare a un'esecuzione» (Herbert Jäger, “Betrachtungen zum
Eichmann-Prozess”, in “Kriminologie und Strafrechtsreform”, 1962), e al
processo di Norimberga un testimone della difesa, Bach-Zelewski, dichiarò:
«Chiedendo il trasferimento era possibile sottrarsi a una missione; certo, in
alcuni casi bisognava aspettarsi qualche provvedimento disciplinare, ma non si
rischiava affatto la vita.»
In
verità Eichmann sapeva benissimo che non si era mai trovato nella classica
«posizione difficile» del soldato «che può essere condannato alla fucilazione
da una Corte marziale se disobbedisce a un ordine, e condannato
all'impiccagione da un giudice e da una giuria se obbedisce» (come diceva Dicey
nella sua famosa Law of the Constitution), se non altro perché, in quanto
membro delle S.S., non poteva essere tradotto dinanzi a una Corte marziale, ma
soltanto dinanzi a un tribunale della Polizia e delle S.S. Nell'ultima
dichiarazione che fece al processo, egli ammise che se avesse voluto avrebbe
potuto trovare un pretesto e ritirarsi, come avevano fatto altri. Ma un passo
del genere gli era sempre parso «inammissibile,» e neppure ora gli sembra
«ammirevole»; avrebbe significato soltanto il passaggio a un altro lavoro ben
remunerato. L'idea della disobbedienza aperta, nata dopo la guerra, era a suo
avviso una favola: «in quelle circostanze, comportarsi in quel modo era
impossibile. Nessuno lo fece.» Era una cosa «impensabile.» Se l'avessero
nominato comandante di un campo di sterminio, come il suo caro amico Höss, si
sarebbe suicidato, essendo incapace di uccidere.
No, lui
non si era mai trovato «in pericolo immediato di morte,» e poiché aveva sempre
«fatto il suo dovere» e obbedito a tutti gli ordini che gli venivano dati -
cosa di cui era ancora orgoglioso -, aveva fatto del suo meglio per aggravare,
non per ridurre «le conseguenze del torto.»
La
condanna a morte era una conclusione scontata, anche giuridicamente. Restava
una sola possibilità: che la pena fosse mitigata in considerazione del fatto
che egli aveva agito per ordine superiore: una circostanza, anche questa,
prevista dalla sezione 11 della legge israeliana.
La
«teoria delle azioni di Stato» :
Se
quelle che Eichmann aveva commesso erano «azioni di Stato,» allora nessuno dei
suoi superiori, e meno di tutti Hitler, poteva essere giudicato da un
tribunale.
Fu di
poco rilievo giuridico, sapere quanto tempo occorre a una persona media per
superare l'innata ripugnanza per il crimine e sapere che cosa esattamente le
accade una volta che abbia raggiunto quel punto. A questa questione il caso di
Adolf Eichmann fornì una risposta che non avrebbe potuto essere più chiara e
precisa.
Conformemente
al «desiderio» di Hitler, il primo convoglio comprese ventimila ebrei della
Renania e cinquemila zingari, e in questa occasione avvenne una cosa strana.
Eichmann,
che non aveva mai deciso nulla da sé, che si era sempre preoccupato di essere
«coperto» da ordini superiori, che aveva sempre perfino evitato di dare
suggerimenti (come confermato dalla libera testimonianza di quasi tutti coloro
che avevano collaborato con lui), e che sempre aveva voluto avere «istruzioni»
prima di agire, ora, «per la prima e ultima volta,» prese una iniziativa che
era in contrasto con gli ordini: invece di mandare quella gente in territorio
russo, a Riga o a Minsk, dove gli “Einsatzgruppen” avrebbero immediatamente
provveduto a fucilarla, la inviò al ghetto di Lódz, dove sapeva che ancora non
si erano fatti preparativi per lo sterminio - sia pure soltanto perché il
responsabile di quel ghetto, aveva trovato il modo di ricavare lauti guadagni
dai «suoi» ebrei. Questa decisione procurò ad Eichmann fastidi notevoli, perché
il ghetto era sovraffollato. Eichmann fu protetto dai suoi superiori e
l’incidente fu presto perdonato e dimenticato. Dimenticato, prima di tutto,
dallo stesso Eichmann.
L’avvocato
difensore cercò di concludere da questo episodio che Eichmann, ogni volta che
aveva potuto, aveva salvato degli ebrei: il che era ovviamente falso. Il
Pubblico ministero, ne dedusse invece che era proprio Eichmann a stabilire la
destinazione finale di tutti i convogli, e che perciò era lui che decideva se
un particolare convoglio doveva o non doveva essere sterminato. Anche questo
era inesatto. Comunque sia, in questo
unico caso, aveva cercato di salvare degli ebrei.
Così noi possiamo forse rispondere alla
questione posta dal giudice Landau - la questione più inquietante per quasi
tutti coloro che seguirono il processo -, se cioè l'imputato avesse una
coscienza. La risposta è: sì, egli aveva una coscienza, e
questa coscienza funzionò per circa quattro settimane nel senso normale, dopo
di che cominciò a funzionare nel senso inverso. Ma anche durante le poche
settimane in cui funzionò normalmente, la sua coscienza si mosse entro limiti
alquanto singolari.
Non
dobbiamo dimenticare che già vari mesi prima che gli venisse comunicato
l'ordine del Führer, Eichmann era al corrente della delittuosa attività degli
Einsatzgruppen in oriente: sapeva che subito dietro le linee del fronte tutti i
funzionari russi («comunisti»), tutti i professionisti polacchi e tutti gli
ebrei venivano fucilati in massa. Inoltre, nel luglio di quello stesso anno,
poche settimane prima di essere convocato da Heydrich, aveva ricevuto da un
uomo delle S.S. un memoriale in cui gli si diceva che nel prossimo inverno gli
ebrei non avrebbero più potuto esser
nutriti, e gli si chiedeva se per
caso non fosse «più umano» uccidere
con qualche mezzo sbrigativo «gli ebrei incapaci di lavorare»:
«Questo
sarebbe comunque più opportuno che lasciarli morire di fame.» In una lettera di
accompagnamento, indirizzata ad Eichmann, l'autore del memoriale ammetteva:
«Queste cose suoneranno forse fantastiche, ma sono perfettamente realizzabili.»
L'ammissione dimostra che il mittente non conosceva ancora il ben più
«fantastico» ordine del Führer, ma dimostra anche come quest'ordine fosse già
nell'aria. Eichmann non menzionò mai questa lettera, ed è probabile che essa
non l'avesse minimamente turbato.
Se la
sua coscienza si ribellava a qualcosa, non era all'idea dell'omicidio, ma
all'idea che i uccidessero ebrei tedeschi.
(«Non ho
mai detto che non sapevo che gli Einsatzgruppen avevano l'ordine di uccidere,
ma non sapevo che ebrei del Reich evacuati verso oriente venissero sottoposti
allo stesso trattamento. Questo non lo sapevo.»)
Questo
tipo di coscienza, che, ammesso che si ribellasse, si ribellava solamente
all'assassinio di persone provenienti «dal nostro stesso ambiente culturale,» è
sopravvissuto al regime hitleriano: molti tedeschi di oggi si ostinano a
credere che soltanto Ostjuden, ebrei dell'Europa orientale, venissero
massacrati.
Ma
bisogna anche dire che questo modo di pensare, che distingue tra l'uccisione di
persone «primitive» e l'uccisione di persone «civili,» non è prerogativa del
solo popolo tedesco.
L’opposizione
tedesca a Hitler:
In un
primo momento l’opposizione era ancora un movimento antifascista ed
esclusivamente di sinistra e in linea di principio non dava troppo peso alle
questioni morali e tanto meno alla persecuzione degli ebrei : secondo la
sinistra, questa persecuzione era un semplice «diversivo,» per distogliere
l'attenzione dalla lotta di classe che dominava tutta la scena politica.
Inoltre,
nel periodo in questione,
quest'opposizione era quasi del tutto scomparsa - distrutta nei campi di
concentramento e nelle celle della Gestapo dallo spaventoso «terrore» scatenato
dalle S.A., scompaginata dal «pieno impiego» reso possibile dai programmi di
riarmo, demoralizzata dalla tattica del partito comunista di entrare nelle file
del partito di Hitler per sabotarlo all'interno. Quel poco che restava di
questa opposizione politica quando cominciò la guerra acquistò importanza
unicamente grazie alla cospirazione che finalmente condusse al 20 luglio.
La
maggior parte dei congiurati di luglio erano in realtà ex-nazisti o uomini che
comunque avevano rivestito alte cariche nel Terzo Reich. Ciò che li infiammava
non era la questione ebraica, ma il fatto che Hitler stesse perdendo la guerra,
e le infinite crisi di coscienza che li tormentavano erano quasi esclusivamente
legate al problema dell'alto tradimento e della violazione del giuramento di
fedeltà a Hitler.
Essi si
trovavano inoltre di fronte a un dilemma che era veramente insolubile: al tempo
dei successi di Hitler non avevano potuto far nulla perché la gente non avrebbe
capito; ora, negli anni della disfatta, temevano che ogni loro azione potesse
essere considerata una «pugnalata alle spalle.» All’ultimo, la loro più grande
preoccupazione fu come impedire il caos e sventare il pericolo di una guerra
civile; e la soluzione, a loro avviso, era che gli Alleati dovevano essere
«ragionevoli» e dovevano concedere una «moratoria,» in attesa che l'ordine
fosse ristabilito e che, naturalmente, l'esercito si rimettesse in piedi.
Il fatto
si è che la situazione, quant’era semplice, altrettanto era disperata: la
stragrande maggioranza del popolo tedesco credeva in Hitler e continuò a
credervi anche dopo l'aggressione alla Russia e la temuta guerra su due fronti,
anche dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti e anche dopo Stalingrado, dopo
la defezione dell'Italia e dopo gli sbarchi alleati in Francia. Contro questa
maggioranza compatta stava un piccolo numero di individui isolati, che si
rendevano ben conto della catastrofe politica e morale in cui la nazione stava
precipitando. Costoro potevano anche conoscersi e fidarsi l'uno dell'altro,
potevano anche essere amici e scambiarsi le idee, ma non avevano nessun
progetto e anzi nessuna intenzione di ribellarsi. Alla fine si formò il gruppo
in cui maturò la congiura, ma anche questi uomini non riuscirono mai ad
accordarsi su nulla, neppure sulla questione della cospirazione. Capo del
gruppo era Carl Friedrich Goerdeler, già sindaco di Lipsia. Sotto il regime
nazista, costui era stato per tre anni controllore dei prezzi, ma si era
dimesso dalla carica piuttosto presto, nel 1936. Egli auspicava una monarchia
costituzionale, e Wilhelm Leuschner, un rappresentante della sinistra,
socialista e già dirigente sindacale, gli promise l'«appoggio delle masse.»
(Sulla
bancarotta politica di tutto il movimento di resistenza a partire dal 1933, c'è
ora uno studio ben documentato e imparziale: una dissertazione di George K.
Romoser, di prossima pubblicazione.)
Col
protrarsi della guerra e col profilarsi della sconfitta le divergenze d'ordine
politico avrebbero dovuto passare in secondo piano; ma anche qui ha
probabilmente ragione Gerhard Ritter quando dice: «Senza l'atteggiamento deciso
di von Stauffenberg il movimento di resistenza si sarebbe impantanato in una
inattività più o meno disperata. »
Ciò che
univa questi uomini era il fatto che essi vedevano in Hitler un «impostore,» un
«dilettante» che sacrificava intere armate contro il consiglio degli esperti,
un «folle» e un «demone,» l'«incarnazione del male,» espressioni che per la
mentalità tedesca significavano però che egli era qualcosa di più, ma insieme
anche qualcosa di meno che «un pazzo criminale.» Senonché, a quella data, come
nota Fritz Hesse, chiunque poteva avere simili idee su Hitler, anche chi
apparteneva alle S.S. o era iscritto al partito o occupava cariche governative;
ed è per questo che nella cerchia dei cospiratori si potevano trovare anche
persone gravemente implicate nei crimini del regime.
Non c'è
dubbio che questi uomini che sia pure tardivamente si opposero a Hitler
pagarono con la vita e fecero una morte atroce; il coraggio di molti di loro fu
ammirevole, ma non fu ispirato da sdegno morale o dal rimorso per le sofferenze
inflitte ad altri esseri umani; essi furono mossi quasi esclusivamente dalla
certezza che ormai la sconfitta e la rovina della Germania erano inevitabili.
Con ciò non si vuol negare che alcuni di loro, fossero spinti inizialmente
all'opposizione politica dalle «ripugnanti violenze del novembre 1938 contro
gli ebrei»
Quello
fu il mese in cui le sinagoghe furono date alle fiamme e in cui l'intera
popolazione fu in preda a una certa paura.
Certo,
il corpo degli ufficiali superiori rimase turbato quando Hitler emanò il
cosiddetto «ordine sui commissari,» nel maggio 1941, quando cioè apprese che
nella prossima campagna di Russia tutti i funzionari sovietici, e naturalmente
tutti gli ebrei, dovevano essere massacrati. Si guardò ovviamente con una certa
preoccupazione al fatto che nei territori occupati e contro gli ebrei si
adottassero «tecniche di liquidazione e di persecuzione religiosa... che
peseranno per sempre sulla nostra storia.»
Tuttavia pare che a nessuno venisse mai in mente che quei sistemi quei
sistemi non soltanto rendevano «enormernente più difficile la nostra posizione»
(nel negoziare un trattato di pace con gli Alleati), non soltanto erano una
«macchia sul buon nome della Germania» e non soltanto minavano il morale
dell'esercito, ma erano qualcosa di più, erano spaventosi anche per altre
ragioni. «A che punto hanno ridotto il glorioso esercito delle guerre di
liberazione [contro Napoleone nel 1814] e di Guglielmo Primo [nella guerra
franco-prussiana del 1870]» - esclamò Goerdeler quando seppe del rapporto di un
uomo delle S.S. che, con tono distaccato, diceva che non era «molto bello
mitragliare fosse ricolme di migliaia di ebrei e poi gettare terra sui corpi
loro.» E a nessuno passò per la mente che potesse esserci un legame tra quelle
atrocità e la richiesta degli Alleati di resa incondizionata, richiesta che i
tedeschi si sentivano autorizzati a criticare come «nazionalistica» e
«irragionevole» e ispirata da odio cieco.
Nel
1943, quando la sconfitta della Germania era ormai quasi certa, e addirittura
anche più tardi, quegli uomini pensavano ancora di avere il diritto di
negoziare una «pace giusta» con il nemico, «su un piede di parità,» benché
sapessero fin troppo bene quanto ingiusta e completamente non provocata fosse
la guerra che Hitler aveva scatenato.
Ancor
più stupefacenti erano le loro idee su una «pace giusta.»
Si parlò
a lungo dell'«ostinazione,» dell'«incompetenza e mancanza di moderazione» del
regime hitleriano, dell'«arroganza e vanità» di Hitler. Ma il punto cruciale,
l’«atto più spudorato» del regime, era che esso voleva addossare ai «capi delle
forze armate» la «colpa» dell'imminente disfatta e delle calamità che ne
sarebbero derivate. E qui Beck aggiungeva che si erano commessi crimini che
erano «una macchia per l'onore della nazione tedesca» e che rovinavano «la
buona reputazione» che essa si era conquistata.
E quale
sarebbe stato il prossimo passo, una volta eliminato Hitler? L'esercito tedesco
avrebbe continuato a combattere «fino a una conclusione onorevole della
guerra.»
Uno
scrittore tedesco, Friedrich P. Reck-Malleczewen, dopo aver saputo che
l'attentato a Hitler era fallito (cosa che naturalmente lo addolorò), egli
scrisse nel libro Diario di un disperato [Tagebuch eines Verzweifelten]:
«Un po' tardi, signori che avete creato
questo arcidistruttore della Germania e che siete corsi dietro a lui finché
tutto sembrava andar bene; che... senza esitazione avete prestato ogni
giuramento richiestovi e vi siete ridotti a spregevoli lacché di questo
criminale che è responsabile dell'assassinio di centinaia di migliaia di esseri
umani e su cui pesano i lamenti e la maledizione di tutto il mondo. Voi ora
l'avete tradito... Ora che il tracollo non può più essere mascherato essi
tradiscono l'edificio crollato per crearsi un alibi politico - gli stessi
uomini che hanno tradito tutto ciò che si opponeva alla loro sete di potere.»
Non è né
provato né verosimile che Eichmann entrasse mai personalmente in contatto con
gli uomini del 20 luglio, e del resto sappiamo che in Argentina egli li
considerava ancora una massa di infami traditori.
«Continuare la guerra senza alcuna speranza
di vittoria è ovviamente un delitto.»
Tutto
sta a dimostrare che la coscienza in quanto tale era morta, in Germania, al
punto che la gente non si ricordava più di averla e non si rendeva conto che il
«nuovo sistema di valori» tedesco non era condiviso dal mondo esterno.
Naturalmente,
questo non vale per tutti i tedeschi: ché ci furono anche individui che fin
dall'inizio si opposero senza esitazione a Hitler e al suo regime. Nessuno sa
quanti fossero (forse centomila, forse molti di più, forse molti di meno)
poiché non riuscirono mai a far sentire la loro voce.
Potevano
trovarsi in tutti gli strati della popolazione, tra la gente semplice come tra
la gente colta, in tutti i partiti e forse anche nelle file del partito
nazista. Di pochissimi conosciamo il nome, come il filosofo Karl Jaspers. Alcuni
erano uomini profondamente miti, come un artigiano - di cui io ho sentito
parlare - che preferì lasciar distruggere la sua attività indipendente e
impiegarsi in una fabbrica come semplice operaio pur di non compiere la
«piccola formalità» d'iscriversi al partito nazista; altri consideravano il
giuramento una cosa seria e preferirono rinunziare per esempio alla carriera
accademica anziché giurare fedeltà a Hitler. Più numerosi erano quegli operai,
specialmente berlinesi, e quegli intellettuali socialisti che cercavano di
aiutare gli ebrei che conoscevano. E ci furono infine quei due ragazzi, figli
di contadini, la cui storia è narrata da Günther Weisenborn in “Der lautlose
Aufstand” (1953): arruolati a forza nelle S.S. alla fine della guerra, essi si
rifiutarono di firmare, furono condannati a morte, e il giorno dell'esecuzione
scrissero nella loro ultima lettera a casa:
«Tutti e due preferiamo morire che avere
sulla coscienza cose così terribili. Sappiamo che cosa fanno le S.S.»
La
posizione di queste persone, che sul
piano pratico non poterono mai far nulla, era molto diversa da quella dei
cospiratori. Essi avevano conservato
intatta la capacità di distinguere il bene dal male, non avevano mai avuto
«crisi di coscienza»; certo, potevano anche appartenere al movimento di
resistenza, ma non è detto che fossero più numerose tra i congiurati che tra la
gente comune.
Non erano né eroi né santi, tacevano. Soltanto
in un'occasione la presenza di questi elementi isolati e muti si manifestò in
pubblico, in un atto disperato: fu quando due studenti dell'Università di
Monaco, gli Scholl, fratello e sorella, influenzati dal loro insegnante Kurt
Huber distribuirono i famosi manifestini in cui Hitler era finalmente definito
quello che era: un «assassino di massa.»
Hitler in un discorso pronunciato alle S.S.
nel 1931 disse: «Il mio onore è la mia lealtà» - frasi che Eichmann chiamava
«parole alate».
Himmler:
“Queste sono battaglie che le generazioni
future non dovranno più combattere.”
Dove per «battaglie» erano da intendersi
quelle contro le donne, i babini, gli anziani e altre «inutilità».
Altre
frasi di questo tipo, dette da Himmler ai comandanti degli Einsatzgruppen e ai
comandanti superiori delle S.S. e della polizia, erano: «Aver resistito sino
alla fine ed essere rimasti puliti, questo è quello che ci ha induriti. E' una
pagina di gloria che non era mai stata scritta nella nostra storia e che mai
più lo sarà.» Oppure: «L'ordine di risolvere la soluzione ebraica: Questo era
l'ordine più spaventoso che un'organizzazione potesse ricevere.»
O
ancora: «Noi ci rendiamo conto che ciò che ci attendiamo da voi è 'sovrumano,'
di essere 'sovrumanamente inumani'.» Tutto quello che si può dire è che queste
aspettative non andarono deluse.
I giudici a Gerusalemme chiamarono queste
frasi «chiacchiere vuote» (finalizzate ad indottrinare l’interlocutore).
E' degno
di nota, però, che Himmler non tentasse quasi mai di darne una motivazione
ideologica, e le poche volte che lo fece, le sue argomentazioni furono presto
dimenticate. Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano
trasformati in assassini, era semplicemente l'idea di essere elementi di un
processo grandioso, unico nella storia del mondo («un compito grande, che si
presenta una volta ogni duemila anni») e perciò gravoso. Questo era molto
importante, perché essi non erano sadici o assassini per natura; anzi, i
nazisti si sforzarono sempre, sistematicamente, di mettere in disparte tutti
coloro che provavano un godimento fisico nell'uccidere. Gli uomini degli
Einsatzgruppen provenivano dalle Waffen-S.S., un'unità militare che non aveva
al suo attivo più crimini di una qualunque altra unità dell'esercito tedesco, e
i loro comandanti erano stati scelti da Heydrich tra l'élite delle S.S., erano
persone istruite. Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce
della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo
normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri.
Il metodo psicologico usato da Himmler (che
a quanto pare era lui stesso vittima di queste reazioni istintive) era molto
semplice, e, come si vide, molto efficace: L’indottrinamento consisteva nel
deviare questi istinti, per così dire, verso l'io affinché l’ego soggiogasse reiterativamente
l’altruismo d’ogni singolo interlocutore di Himmler; Tale reiterazione insita
nella memoria dell’interlocutore di Himmler si traduce in atti abitudinari ed
infine in atti percepiti come normali a tal punto che ciascun interlocutore di
Himmler riterrà giusto proporsi come esempio d’una condotta eticamente e
socialmente «condivisibile e corretta». In tal modo l’indottrinamento si poté
autoalimentare degenerando nel prima nel conformismo, poi nel consenso di
molteplici voci.
E così, invece di pensare: che cose
orribili faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose
devo vedere nell'adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle
mie spalle!
Metodi per risolvere il «problema della
coscienza» :
Il
fattore più importante, come Hitler aveva calcolato e previsto, era lo stato di
guerra in sé e per sé. Eichmann insisté più volte sul fatto che
l'«atteggiamento personale» nei confronti della morte non poteva non cambiare
quando «si vedevano morti dappertutto» e quando ciascuno pensava con
indifferenza alla propria morte: «Non c'importava morire oggi invece che
domani, e talvolta maledivamo la luce del nuovo giorno che ci trovava ancora in
vita.» Data quest'atmosfera, non poco peso ebbe il fatto che nelle ultime fasi fasi la soluzione finale venisse attuata non
più con le fucilazioni, ossia con la violenza bruta, ma con le camere a gas,
che sempre erano state strettamente connesse al programma di eutanasia ordinato
da Hitler già nelle prime settimane di guerra e applicato, fino all'invasione
della Russia, ai tedeschi malati di mente. Il programma di sterminio iniziato
nell'autunno dei 1941 seguiva, per così dire, due binari completamente diversi.
Uno conduceva alle camere a gas, e l'altro nelle mani degli "Einsatzgruppen",
i quali, specialmente in Russia, agivano nelle retrovie dell'esercito col
pretesto di dover combattere i partigiani, e facevano strage non di ebrei
soltanto.
Ebrei tedeschi che erano convinti di essere
«pionieri» del Terzo Reich. I rapporti tra
ebrei tedeschi e tedeschi erano di regola «eccellenti» e in certi casi
addirittura «cordiali» (herzlich). I generali si dimostravano di una «bontà
stupefacente»: non solo consegnavano agli Einsatzgruppen i loro ebrei, ma
spesso distaccavano soldati regolari perché li aiutassero a massacrare. Secondo
i calcoli di Hilberg il totale delle loro vittime ebree ammontò a circa un
milione e mezzo, ma questa strage non era il risultato dell'ordine del Führer
di sterminare fisicamente tutto il popolo ebraico: era il risultato di un
ordine precedente, quello dato da Hitler a Himmler nel marzo del 1941, che
diceva di preparare le S.S. e la polizia ad «assolvere missioni speciali in
Russia».
L'idea
di sterminare tutti gli ebrei, aveva radici molto lontane. Era nata nell’ufficio
personale di Hitler.
Non
aveva nulla a che vedere con la guerra e non fu mai giustificata con le
necessità militari. Uno dei grandi meriti del libro “The Final Solution” di
Gerald Reidinger è quello di aver dimostrato, in base a documenti che non
lasciano dubbi, che il programma di sterminare col gas gli ebrei dell'Europa
orientale fu uno «sviluppo» del programma dell'eutanasia di Hitler, ed è
deplorevole che il Tribunale di Gerusalemme, sempre così preoccupato della
«verità storica,» non abbia tenuto conto di questo concreto rapporto.
Esso
avrebbe aiutato a chiarire la tanto dibattuta questione se Eichmann, che
apparteneva all'R.S.H.A., fosse o non fosse implicato in Gasgeschichten.
Probabilmente non lo era.
Le prime
camere a gas furono costruite nel 1939, in ottemperanza al decreto di Hitler,
del primo settembre di quell'anno, secondo cui alle «persone incurabili» doveva
essere «concessa una morte pietosa.» (Fu probabilmente questa origine a
infondere nel dott. Servatius la sorprendente convinzione che lo sterminio col
gas dovesse essere considerato una «questione medica.)
Già nel 1935 Hitler aveva spiegato al suo «Capo medico
del Reich» Gerhard Wagner che, se fosse venuta la guerra, avrebbe «ripreso e
condotto in porto questa faccenda dell'eutanasia, poiché in tempo di guerra è
molto più facile.
Il
decreto entrò immediatamente in vigore per ciò che riguarda i malati di mente,
e così tra il dicembre del 1939 e l’agosto del 1941 circa cinquantamila
tedeschi furono uccisi con monossido di carbonio in istituti dove le camere
della morte erano camuffate in stanze per la doccia - esattamente come lo
sarebbero state più tardi ad Auschwitz.
Il programma suscitò enorme scalpore. Era
impossibile tener segreta l’uccisione di tanta gente; la popolazione tedesca
delle zone in cui sorgevano quegli istituti se ne accorse e ci fu un'ondata di
proteste, da parte di persone di ogni ceto.
Nell'Europa
orientale lo sterminio col gas - o, per usare il linguaggio dei nazisti, il
«modo umanitario» di «concedere una morte pietosa» - iniziò quasi il giorno
stesso in cui in Germania fu sospesa l'uccisione dei malati di mente. Gli
uomini che avevano lavorato per il programma di eutanasia furono ora inviati a
oriente, a costruire gli impianti per distruggere popoli interi - e questi
uomini erano scelti o dalla Cancelleria del Führer o dal ministero della sanità
del Reich.
Il
decreto hitleriano contemporaneo allo scoppio della guerra, dove la parola
«assassinio» era sostituita dalla perifrasi «concedere una morte pietosa», ebbe
un effetto radicale e deviante sulle menti degli esecutori:
Eichmann,
quando il giudice istruttore gli chiese se l'istruzione di evitare «inutili
brutalità» non fosse un po' ridicola visto che gli interessati erano comunque
destinati a morte certa, non capì la domanda, tanto radicata nella sua mente
era l'idea che peccato mortale non fosse uccidere, ma causare inutili
sofferenze. E durante il processo ebbe scatti di sdegno sincero per le crudeltà
e le atrocità commesse dalle S.S. e raccontate dai testimoni, anche se la Corte
e il pubblico quasi non se ne accorsero perché, fuorviati dal suo sforzo
costante di non perdere l'autocontrollo, si erano convinti che egli fosse un
uomo incapace di commozione e indifferente.
A scuoterlo veramente non fu l'accusa di aver
mandato a morire milioni di persone, ma soltanto l'accusa - mossagli da un
testimone e non accolta dalla Corte - di avere un giorno picchiato a morte un
giovane ebreo.
Certo, egli aveva mandato gente anche
nell'area dove operavano gli Einsatzgruppen, i quali non concedevano «una morte
pietosa» ma fucilavano, tuttavia doveva poi aver provato un senso di sollievo
quando ciò non fu più necessario data la sempre crescente «capacità di
assorbimento» delle camere a gas. Doveva anche aver pensato che il nuovo metodo
rappresentava un decisivo miglioramento nell'atteggiamento del governo nazista
verso gli ebrei poiché il beneficio dell'eutanasia, a regola, era riservato
soltanto ai veri tedeschi. Col passare del tempo, mentre la guerra infuriava e
dappertutto era morte e violenza.
I
centri di sterminio di Auschwitz e di Chelmno, di Majdanek e di Belzek,
di Treblinka e di Sobibor, dovevano davvero essergli apparsi altrettanti
«istituti di carità,» come li chiamavano gli esperti di eutanasia.
Inoltre, a partire dal gennaio del 1942, sul fronte orientale avevano
cominciato a operare «gruppi di eutanasia» che «aiutavano i feriti» tra le nevi
e tra i ghiacci, e questa uccisione di soldati feriti, sebbene anch'essa
«segretissima,» era nota a molti, sicuramente agli esecutori della «soluzione
finale.»
Nel
corso della guerra l'atteggiamento nei confronti della «morte indolore mediante
gas» - a prescindere dall'effetto della propaganda in favore dell'eutanasia -
era cambiato.
La cosa
è difficile a dimostrarsi; non ci sono documenti che la confortino, data la
segretezza di tutta l'operazione, e nessun criminale di guerra ne ha mai
parlato: neppure vi hanno accennato i difensori al cosiddetto «processo dei
medici» di Norimberga, che pure abbondarono in citazioni tratte da studi
internazionali. Forse i criminali di guerra avevano dimenticato il «clima» in
cui avevano ucciso, forse non si erano
mai preoccupati di sapere che cosa pensasse l'opinione pubblica perché,
erroneamente, erano convinti che il loro atteggiamento «oggettivo e
scientifico» fosse di gran lunga superiore alle idee della gente comune.
Tuttava, nel naufragio morale di una intera
nazione, i diari di guerra di alcune persone degne di fede, pienamente
consapevoli del fatto che il loro sgomento non era più condiviso dalle masse,
hanno salvato il ricordo veramente prezioso di alcuni episodi.
Reck-Malleczewen scrive di una «gerarca»
che nell'estate del 1944 si recò in Baviera per tenere un discorso di
propaganda ai contadini. A quanto pare costei non si dilungò molto sulle «armi
miracolose» e sulla vittoria, ma affrontò il tema della probabile sconfitta
dicendo che nessun buon tedesco doveva preoccuparsi, perché il Führer «nella
sua grande bontà aveva predisposto per tutto il popolo tedesco una morte dolce
mediante gas, nel caso che la guerra fosse finita male.» E lo scrittore
commenta: «Oh, no, questa cara signora non è un miraggio, io l'ho vista con i
miei occhi: una donna dallo sguardo folle... E cosa successe? Quei contadini
bavaresi la tuffarono almeno nel lago vicino per raffreddare il suo entusiasmo
per la morte? Macché! Se ne tornarono a casa scuotendo il capo.»
L’altro episodio che ora citeremo è ancor
più significativo, poiché riguarda una donna che non solo non era «gerarca,» ma
probabilmente non era nemmeno iscritta al partito nazista. Accadde a
Königsberg, nella Prussia orientale nel gennaio del 1945, pochi giorni prima
che i russi distruggessero la città, ne occupassero le rovine e si annettessero
l'intera provincia. L'episodio è riferito dal conte Hans von Lehnsdorff nel suo
Ostpreussischcs Tagebuch(1961). Qui fu avvicinato da una donna. Egli disse alla
donna:
«Cerco di spiegarle che sarebbe meglio per
lei andar via da Königsberg. Dove vorrebbe andare? le chiedo.»
Non sa; sa soltanto che tutti quanti
saranno portati nel Reich.
E poi, a un tratto, aggiunse:
«I russi non ci avranno mai. Il Führer non
lo permetterà mai. Piuttosto ci ucciderà col gas.»
«Mi guardo intorno furtivamente, ma sembra
che gli altri non trovino nulla di strano in questa frase.»
Il racconto, come quasi tutti i racconti
veri, andrebbe integrato: con una voce, preferibilmente di donna, che
sospirando dicesse:
«Peccato che tanto buon gas sia stato
sprecato con gli ebrei!»
LA CONFERENZA DI WANNSEE,
OVVERO PONZIO PILATO.
Nel
gennaio del 1942, ebbe luogo la conferenza che i nazisti usarono chiamare dei
segretari di Stato, ma che oggi è più nota coi nome di Conferenza di Wannsee,
dal sobborgo di Berlino.
La
riunine si era resa necessaria perché la soluzione finale, se doveva essere
applicata in tutta l'Europa, richiedeva qualcosa di più che il tacito consenso
dell'apparato statale: richiedeva la collaborazione attiva di tutti i ministeri
e di tutti i servizi civili. Quanto ai ministri, questi, nove anni dopo
l'ascesa di Hitler al potere, erano tutti nazisti della prima ora; e infatti
quelli che nel primo periodo del regime si erano limitati ad «allinearsi» erano
stati poco per volta congedati.
Come disse Eichmann, Heydrich «si aspettava
d'incontrare gravissime difficoltà.» E invece, nulla di più infondato di questo
timore.
La
discussione verté dapprima su «complicate questioni giuridiche» come il
trattamento dei mezzi ebrei e degli ebrei per un quarto: dovevano essere uccisi
o soltanto sterilizzati?
Seguì
una schietta discussione sui «vari modi possibili di risolvere il problema,»
cioè sui vari metodi di uccisione, e anche qui si riscontrò tra i partecipanti
il più «perfetto accordo»; tutti i presenti salutarono la soluzione finale con
«straordinario entusiasmo».
Qualche
difficoltà, tuttavia, ci fu. Il sottosegretario Josef Bühler, l'uomo più
potente in Polonia dopo il governatore generale, si sgomentò all'idea che si
evacuassero ebrei da occidente verso oriente, perché ciò avrebbe significato un
aumento del numero degli ebrei in Polonia, e propose quindi che questi
trasferimenti fossero rinviati e che la soluzione finale iniziasse dal
Governatorato generale. Doe non esistevano problemi di trasporto. I funzionari
del ministero degli esteri presentarono un memoriale, preparato con ogni cura,
in cui erano espressi «i desideri e le idee» del loro dicastero in merito alla
«soluzione totale della questione ebraica in Europa,» ma nessuno dette gran
peso a quel documento.
I rappresentanti dei vari servizi civili
non si limitavano a esprimere pareri, ma avanzavano proposte concrete. La
seduta non durò più di un'ora, un'ora e mezzo, dopo di che ci fu un brindisi e
tutti andarono a cena - «una festicciola in famiglia» per favorire i necessari
contatti personali. Per Eichmann, che non si era mai trovato in mezzo a tanti
«grandi personaggi,» fu un avvenimento memorabile.
Bisognava uccidere undici milioni di ebrei,
che non era cosa da poco – fu Heydrich a stilare i verbali. In pratica funse da
segretario, ed è per questo che, quando i grandi se ne furono andati, gli fu
concesso di sedere accanto al caminetto in compagnia del suo capo Müller e di
Heydrich, «e fu la prima volta che vidi Heydrich fumare e bere.» Non parlarono
di «affari,» ma si godettero «un po' di riposo» dopo tanto lavoro,
soddisfattissimi e - soprattutto Heydrich - molto su di tono.
Benché Eichmann avesse fatto del suo meglio
per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito
qualche dubbio su «una soluzione così violenta e cruenta.» Ora questi dubbi
furono fugati. «Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi più
illustri, i papi del Terzo Reich.» Ora egli vide con i propri occhi e udì con
le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la «sfinge»
Müller, non soltanto le S.S. o il partito, ma i più qualificati esponenti dei
buoni vecchi servizi civili si disputavano l'onore di dirigere questa «crudele»
operazione. «In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii
libero da ogni colpa.» Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era
lui per permettersi di «avere idee proprie»? Orbene: egli non fu né il primo né
l'ultimo ad essere rovinato dalla modestia.
Così la
sua attività prese un nuovo indirizzo divenendo ben presto un lavoro di tutti i
giorni. Se prima egli era stato un esperto in «emigrazione forzata,» ora
diventò un esperto in «evacuazione forzata.»
In un
paese dopo l'altro gli ebrei dovettero farsi schedare, furono costretti a
portare il distintivo giallo per essere riconoscibili a prima vista, furono
rastrellati e deportati e i vari convogli vennero spediti a questo o a quel
campo di sterminio dell'Europa orientale, a seconda del «posto» disponibile in
quel dato momento.
Gli
esperti di diritto approntarono leggi per rendere apolidi le vittime, il che
era molto importante per due ragioni: nessun paese poteva indagare sul loro
destino, e lo Stato in cui risiedevano poteva confiscare i loro beni.
E gli
ebrei si facevano registrare, riempivano innumerevoli moduli, rispondevano a
pagine e pagine di questionari riguardanti i loro beni, in modo da agevolarne
il sequestro; poi si radunavano nei centri di raccolta e salivano sui treni. I
pochi che tentavano di nascondersi o di scappare venivano ricercati da uno
speciale corpo di polizia ebraico. A quanto constava ad Eichmann, nessuno
protestava, nessuno si rifiutava di collaborare. «Immerzu fahren hier die Leute zu ihren eigenen Begräbnis» - «qui la
gente parte continuamente, diretta verso la propria tomba,» disse un
osservatore ebraico a Berlino nel 1943.
La semplice condiscendenza non sarebbe mai
bastata né ad appianare le enormi difficoltà di un'operazione che presto
interessò tutta l'Europa occupata o alleata dei nazisti, né a tranquillizzare
la coscienza degli esecutori, i quali in fondo erano stati educati al
comandamento «Non ammazzare» e conoscevano il versetto della Bibbia «Tu hai
ucciso e tu hai ereditato», versetto così a proposito citato nel verdetto del
Tribunale distrettuale di Gerusalemme. Il «ciclone mortale,» come lo chiamò
Eichmann, che si abbatté sulla Germania dopo l'immenso salasso subìto a
Stalingrado - il bombardamento a tappeto delle città tedesche, la scusa fissa
addotta da Eichmann e anche da molti tedeschi di oggi per giustificare i
massacri di civili -, con le sue scene di terrore diverse ma non meno orribili
di quelle di cui si parlò a Gerusalemme, avrebbe potuto contribuire ad attutire
o meglio a soffocare i rimorsi, se ancora ci fosse stata un po' di coscienza.
Ma questo non era il caso. Il meccanismo dello sterminio era stato progettato e
studiato in tutti i particolari molto prima che gli orrori della guerra
colpissero anche la Germania, e la sua complicata burocrazia funzionò con la
stessa matematica precisione tanto negli anni delle facili vittorie quanto in
quelli delle sconfitte. All'inizio, quando la gente poteva ancora avere una
coscienza, le defezioni negli alti gradi e soprattutto tra gli ufficiali
superiori delle S.S. furono molto rare; cominciarono ad avere un peso soltanto
quando ormai era chiaro che la Germania avrebbe perso la guerra. Ma anche
allora non assunsero mai proporzioni tali da pregiudicare il funzionamento del
meccanismo; furono atti individuali, dettati non dal rimorso ma dalla
corruzione, ispirati non dalla pietà ma dal desiderio di salvare del denaro
o di crearsi un alibi per l'oscuro avvenire.
L'ordine
dato da Himmler nell'autunno del 1944, di sospendere lo sterminio e di
smantellare gli impianti dei campi della morte, fu dovuto al fatto che egli era
assurdamente ma sinceramente convinto che le potenze alleate avrebbero saputo
apprezzare e ricompensare questo gesto.
Eichmann
Eichmann spiegò che se riuscì a tacitare la propria coscienza fu soprattutto
per la semplicissima ragione che egli non vedeva nessuno, proprio nessuno che
fosse contrario alla soluzione finale.
Naturalmente
Eichmann non si aspettava che gli ebrei condividessero il generale entusiasmo
per la loro distruzione, ma si aspettava qualcosa di più che la condiscendenza:
si aspettava - e la ebbe in misura eccezionale - la loro collaborazione.
Questa
era la «pietra angolare» di tutto ciò che faceva, così come era stata la pietra
angolare della sua attività a Vienna. Senza l'aiuto degli ebrei nel lavoro
amministrativo e poliziesco (il rastrellamento finale degli ebrei a Berlino,
come abbiamo accennato, fu effettuato esclusivamente da poliziotti ebraici), o
ci sarebbe stato il caos completo oppure i tedeschi avrebbero dovuto
distogliere troppi uomini dal fronte.
Così
dice R.Pendorf:
“E' fuor
di dubbio che senza la collaborazione delle vittime ben difficilmente poche
migliaia di persone, che per giunta lavoravano quasi tutte al tavolino,
avrebbero potuto liquidare molte centinaia di migliaia di altri esseri umani...
Lungo tutto il viaggio verso la morte, gli ebrei polacchi di rado vedevano più
di un pugno di tedeschi.”
I membri dei Consigli ebraici erano di
regola i capi riconosciuti delle varie comunità ebraiche, uomini a cui i
nazisti concedevano poteri enormi finché, un giorno, deportarono anche loro.
Per un
ebreo, il contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo,
è uno dei capitoli più foschi di tutta quella fosca vicenda. La cosa è risaputa
da tempo, ma ora Raul Hilberg, nella sua fondamentale opera “The Destruction of
the European Jews” già da noi citata, ne ha esposto per la prima volta tutti i
particolari. In fatto di collaborazione, non c'era differenza tra le comunità
ebraiche dell'Europa centro-occidentale, fortemente assimilate, e le comunità orientali.
I funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da
deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le
spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l'elenco degli
alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli
ebrei e a caricarli sui treni, e infine, ultimo gesto, di consegnare in buon
ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale.
Nei manifesti che essi affiggevano -
ispirati, ma non dettati dai nazisti - avvertiamo ancora quanto fossero fieri
di questi nuovi poteri:
«Il Consiglio ebraico centrale annunzia che
gli è stato concesso il diritto di disporre di tutti i beni spirituali e
materiali degli ebrei, e di tutte le persone fisiche ebree,» diceva il primo
proclama del Consiglio di Budapest.
Noi sappiamo che cosa
provavano i funzionari ebrei quando divenivano strumenti nelle mani degli
assassini: si sentivano come capitani «le cui navi stanno per affondare e che
tuttavia riescono a condurle sane e salve in porto gettando a mare gran parte
del loro prezioso carico»; si sentivano salvatori che «con cento vittime
salvano mille persone, con mille diecimila.» Senonché la verità era diversa,
spietatamente. In verità soventi casi specifici testimoniano la salvezza di poche
centinaia di persone al prezzo di centinaia di migliaia di vittime.
Per non lasciare la
selezione al «caso,» occorrevano «princìpi sacrosanti» che guidassero «la
debole mano umana che scrive sulla carta il nome di una persona sconosciuta e
così decide della sua vita o della sua morte.» Ma con questi «sacrosanti
princìpi» chi si sceglieva di salvare? Coloro «che avevano lavorato per tutta
la vita per lo “zibur”,» cioè per la comunità, vale a dire i funzionari e gli
ebrei «più illustri».
Le dannose considerazioni
«umanitarie»:
Per esempio: “vivere
nell'attesa, consapevoli di essere uccisi col gas, sarebbe stato soltanto più
penoso.”
Al processo di Eichmann, un
testimone parlò delle tragiche conseguenze
di questo tipo di «umanità» - la gente chiedeva volontariamente di essere
deportata da Theresienstadt ad Auschwitz e denunziava come «maniaci» coloro che
cercavano di spiegare loro la verità.
Queste
questioni sono trattate apertamente e con sconcertante franchezza nei manuali
scolastici israeliani, come si può vedere dall'articolo di Mark M. Krug, “Young
Israelis and Jews Abroad - A Study of Selected History Textbooks”, in
“Comparative Education Review”, ottobre 1963.) Ma noi ne dobbiamo parlare,
poiché esse spiegano certe lacune, altrimenti incomprensibili, nella
documentazione di un caso che in generale era fin troppo documentato. I giudici
notarono una di queste lacune, e cioè la mancanza, tra i documenti, del libro
di H. G. Adler “Theresienstadt 1941-1945” (1955), e il Pubblico ministero
dovette ammettere, un po' confuso, che effettivamente quell'opera era
«autentica» e si basava su «fonti irrefutabili.» La ragione dell'omissione era
ovvia.
Il
libro spiega con dovizia di particolari come le famigerate «liste di trasporto»
fossero compilate dal Consiglio ebraico di Theresienstadt conformemente ad
alcune istruzioni generali diramate dalle S.S. riguardo al numero delle persone
da spedire, età, sesso, professione e paese d'origine. L'accusa avrebbe visto
indebolita la propria posizione, se fosse stata costretta a riconoscere che la
designazione degli individui da mandare a morte era stata, salvo poche
eccezioni, lavoro dell'amministrazione ebraica. E il sig. Ya'akov Baror,
sostituto del Pubblico ministero, parlando dal suo banco, ammise indirettamente
questo fatto quando disse: «Io sto cercando di mettere in luce quelle cose che
in qualche modo riguardano l'imputato senza pregiudicare il quadro nel suo
insieme.»
Orbene,
il quadro sarebbe stato gravemente danneggiato se tra i documenti fosse stato
incluso il libro di Adler, poiché questo avrebbe smentito la deposizione resa
dalla principale testimone degli avvenimenti di Theresienstadt, la quale
sosteneva che era stato Eichmann a effettuare le selezioni. Cosa ancor più
importante, sarebbe stato seriamente pregiudicato anche il quadro generale,
imperniato su una netta distinzione tra vittime e persecutori.
«Quadro
generale.» Al presidente non piacque né il termine né il quadro vero e proprio.
Più volte egli avvertì: «Qui non stiamo tracciando quadri,» più volte disse che
c'era un atto d'accusa e che era su quest'atto d'accusa che si basava il
processo: la Corte «ha le proprie idee su questo processo, conformemente
all'atto d'accusa e l'accusa deve adattarsi a ciò che stabilisce la Corte.»
Ammonimenti ammirevoli, per un procedimento penale; senonché il Procuratore
generale non ne tenne alcun conto, e anzi fece di peggio: si rifiutò
semplicemente di guidare i suoi testimoni, rivolgendo loro qualche domanda
insignificante soltanto quando la Corte s'impazientiva troppo, col risultato
che quelli si comportarono come oratori a un comizio dove lui, prima che
prendessero la parola, fungeva da presentatore. I testimoni parlavano quasi
quanto volevano, e di rado erano invitati a rispondere a un determinato
quesito.»
Quest'aria
non di processo spettacolare, ma di comizio, un comizio dove gli oratori
facevano a gara per arringare la folla, si poté notare specialmente quando
l'accusa chiamò una lunga teoria di testimoni a deporre su fatti che non
avevano nulla a che vedere con i crimini dell'imputato.
Gli ebrei non erano
riconosciuti dai nazisti come belligeranti; se lo fossero stati, si sarebbero
salvati, in campi per prigionieri di guerra o in campi d'internamento per
civili.
I gruppi di resistenza
erano stati ben esigui, incredibilmente deboli ed essenzialmente inoffensivi, e
che inoltre rappresentavano tanto poco la popolazione ebraica, che una volta
questa aveva preso le armi contro di loro.
Certo, coloro che avevano
opposto resistenza erano stati una minoranza, un'esigua minoranza, ma data la
situazione, come rilevò un teste, «il miracolo era che questa minoranza
esistesse.
La
soluzione finale si era svolta in un'atmosfera soffocante e avvelenata, e vari
testimoni dell'accusa avevano confermato, lealmente e crudamente, il fatto già
ben noto che nei campi molti lavori materiali connessi allo sterminio erano
affidati a speciali reparti ebraici; avevano narrato come tecnici ebrei
avessero costruito camere a gas a Theresienstadt e come qui l'«autonomia»
ebraica fosse arrivata al punto che perfino il boia era un ebreo.
La
selezione e classificazione di questi lavoratori, nei campi, era fatta dalle
S.S., le quali avevano una spiccata predilezione per i criminali; e comunque,
non poteva che essere la selezione dei peggiori, quando i nazisti non solo
avevano decimato l'intellighenzia ebraica, ma avevano anche ucciso
intellettuali e professionisti non ebrei o - in netto contrasto, salvavano
ebrei illustri da poter destinare allo scambio con civili internati o
prigionieri di guerra.
In
origine, Bergen-Belsen era stato appunto un campo di «ebrei da scambiare.») Il
problema morale era riposto nella gran dose di verità inclusa in ciò che
Eichmann aveva raccontato sulla collaborazione delle autorità ebraiche, anche
quando la soluzione finale era già in corso: «La formazione del Consiglio
ebraico [di Theresienstadt] e la distribuzione delle mansioni fu lasciata alla
discrezione del Consiglio; soltanto la nomina del presidente, cioè la scelta di
chi doveva fungere da presidente, dipendeva, com'era naturale, da noi. Tuttavia
questa nomina non era fatta in forma di decisione dittatoriale.
I
funzionari ebrei con cui noi eravamo continuamente in contatto - bene, questi
andavano trattati con i guanti. Non gli davamo ordini, per la semplice ragione
che sarebbe stato controproducente se ai funzionari principali avessimo detto:
Dovete far così e così. Se uno fa una cosa malvolentieri, tutto il lavoro ne
risente... Noi facevamo del nostro meglio
per rendere ogni cosa più o meno digeribile.» E non c'è dubbio che così agivano
i nazisti.
Così
l'omissione più grave, nel «quadro generale,» fu una deposizione che parlasse
della collaborazione tra governanti nazisti e autorità ebraiche e che
permettesse di porre la domanda: «Perché
contribuivate alla distruzione del vostro stesso popolo e in ultima analisi
alla vostra stessa rovina?
Ci
sono persone, qui, le quali dicono che nessuno consigliò loro di fuggire: ma il
cinquanta per cento di quelli che fuggirono furono ripresi e uccisi.» Egli
dimenticava però che furono uccisi il novantanove per cento di coloro che non
fuggirono.
L’argomento
della collaborazione fu toccato dai giudici due volte. Il giudice Yitzak Raveh,
interrogando un testimone sui tentativi di resistenza, riuscì a fargli
ammettere che la «polizia del ghetto» era «uno strumento nelle mani degli
assassini,» e che la politica degli “Judenrat” era una politica di
«collaborazionismo»; e il giudice Halevi, interrogando Eichmann, accertò che i
nazisti consideravano questa collaborazione come «la pietra angolare» della
loro politica ebraica.
La domanda che l'accusa
rivolgeva regolarmente a tutti i testimoni:
«Perché non vi ribellaste?»
Tutte
le risposte a questa assurda domanda non furono affatto «la verità, tutta la
verità, nient'altro che la verità.»
Il popolo ebraico era
rimasto disorganizzato, non aveva avuto un territorio, un governo, un esercito;
non aveva avuto un governo in esilio che lo rappresentasse presso gli Alleati,
né depositi di armi, né una gioventù militarmente addestrata. Ma la verità vera
era che sia sul piano locale che su quello internazionale c'erano state
comunità ebraiche, partiti ebraici, organizzazioni assistenziali. Ovunque
c'erano ebrei, c'erano stati capi ebraici riconosciuti, e questi capi, quasi
senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell'altro,
per una ragione o per l'altra. La verità vera era che se il popolo ebraico
fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato
caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni.
(Secondo
i calcoli di Freudiger, circa la metà si sarebbero potute salvare se non
avessero seguito le istruzioni dei Consigli ebraici. Naturalmente si tratta di
una semplice ipotesi, ma è un'ipotesi che stranamente concorda con le cifre
piuttosto attendibili che mi sono state cortesemente fornite per l'Olanda dal
dott. L. de Jong, direttore dell'Istituto statale olandese per la
documentazione di guerra. In Olanda, dove lo “Joodsche Raad” presto divenne al
pari di tutte le autorità olandesi uno «strumento» dei nazisti, 103 mila ebrei
furono deportati nei campi di sterminio e circa 5000 a Theresienstadt: tutti al
solito modo, ossia con la collaborazione dei capi ebraici; ne tornarono solo
519. Invece, dei 20 mila-25 mila ebrei che sfuggirono ai nazisti e cioè, anche,
ai Consigli ebraici e si nascosero, ne sopravvissero 10 mila, una cifra pari al
40 o 50%. La maggior parte degli ebrei inviati a Theresienstadt ritornò in
Olanda.)
Questo
aspetto della storia dello sterminio permette di farsi un'idea esatta della
vastità del crollo morale provocato dai nazisti nella «rispettabile» società
europea - non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi, non solo tra i
persecutori ma anche tra le vittime.
Se
in una cosa Eichmann credette sino alla fine, fu nel successo, il distintivo
fondamentale della «buona società» come la intendeva lui. Tipico fu l'ultimo
giudizio che espresse sul conto di Hitler. Hitler, disse, «avrà anche sbagliato
su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e
salire dal grado di caporale dell'esercito tedesco al rango di Führer di una
nazione di quasi ottanta milioni di persone... Il suo successo bastò da solo a
dimostrarmi che dovevo sottostargli.» E in effetti la sua coscienza si
tranquillizzò al vedere lo zelo con cui la «buona società» reagiva dappertutto
allo stesso suo modo. Quando venne pronunciato il verdetto egli non ebbe
bisogno di tacere la voce della coscienza: Non perché non avesse una coscienza,
ma perché la sua coscienza gli parlava con una «voce rispettabile,» la voce
della rispettabile società che lo circondava.
E
uno dei principali argomenti di Eichmann, al processo, fu appunto che nessuna
voce si era levata dall'esterno a svegliare la sua coscienza, e l'accusa fece
di tutto per dimostrare che era vero il contrario, che c'erano state voci che
egli avrebbe potuto ascoltare, e che comunque lui aveva svolto il suo lavoro
con uno zelo che nessuno gli aveva richiesto.
emigrazione interna
In
Germania dopo la guerra, molti individui che nel Terzo Reich rivestirono
cariche anche importanti hanno detto a se stessi e al mondo di essere sempre
stati «interiormente contrari» al regime. Qui non si tratta di stabilire se
costoro dicano o non dicano la verità. La cosa che conta è che nell'atmosfera
gravida di segretezza del regime hitleriano nessun segreto fu mantenuto così
bene come questa «opposizione interiore.» Fino a un certo punto ciò è
comprensibile, se si pensa al terrorismo nazista.
L'unico
modo possibile di continuare a vivere in Germania e di non seguire i nazisti
era sparire completamente: il «ritiro da ogni significativa partecipazione alla
vita pubblica» fu in effetti l'unico sistema con cui uno poteva limitare la
colpevolezza individuale, come ha osservato di recente Otto Kirchheimer nel suo
libro “Political Justice” (1961). In questi ultimi anni, la formula
dell'«emigrazione interna» è diventata una specie di scherzo. Il dott. Otto
Bradfisch, individuo sinistro, già membro di un “Einsatzgruppe”, responsabile
dell'uccisione di almeno quindicimila persone, ha dichiarato dinanzi a un
tribunale tedesco di essere sempre stato «intimamente contrario» a ciò che
faceva, lasciando quasi intendere che la morte di quindicimila esseri umani gli
era stata necessaria per crearsi un alibi agli occhi dei «nazisti veri.»
Dicembre
1932: Data della formulazione della prima istruzione che raccomandava la prova
dell’origine ariana per le persone che chiedevano di cambiare nome.
Nel
dicembre del 1932 l'ascesa di Hitler non era ancora una certezza ma già
appariva molto probabile, la circolare notificandosi ai destinatari che non era
«destinata alla pubblicazione,» anticipava stranamente i «decreti segretissimi»
che il regime hitleriano introdusse molto più tardi.
Lei
cercò d'influenzarlo? Cercò, in quanto ecclesiastico, di appellarsi ai suoi
sentimenti? gli fece una predica? gli spiegò che la condotta di Eichmann era
contraria alla morale?» Naturalmente il coraggioso prelato non aveva fatto
nulla di tutto questo, e ora fu molto imbarazzato nel rispondere. Disse che «i
fatti sono più efficaci delle parole» e che le «parole sarebbero state
inutili»; pronunziò frasi fatte che non avevano alcun peso, giacché in realtà
quelle che lui chiamava «semplici parole» sarebbero state delle «azioni,» ed
egli avrebbe avuto per lo meno il dovere come sacerdote di controllare se
davvero le parole erano «inutili.»
Eichmann
disse a proposito di questo episodio nella sua ultima dichiarazione: «Nessuno
venne a rimproverarmi per il modo in cui eseguivo il mio dovere; neppure il
pastore sostiene di averlo fatto.» E aggiunse: «Venne a chiedermi di alleviare
le sofferenze, ma non trovò nulla da ridire sul modo in cui io adempivo i miei
doveri.
Come
risulta dalla testimonianza del pastore, egli aveva raccomandato non
propriamente di «alleviare le sofferenze,» ma di esentarne certe precise
categorie fissate già dagli stessi nazisti. Orbene, queste categorie erano
state accettate fin dall'inizio dagli ebrei tedeschi, senza proteste, e
l'accettazione di categorie privilegiate
aveva segnato il principio del crollo morale della rispettabile società
ebraica. Inutile dire che, dal canto loro, i nazisti non presero mai sul serio
queste distinzioni: per loro un ebreo era un ebreo. «Era prassi comune fare
qualche eccezione onde imporre più agevolmente la regola generale,» come dice
Louis de Jong in un illuminante articolo sugli ebrei e non ebrei nell'Olanda
occupata. Se l'accettazione delle categorie privilegiate fu così disastrosa, fu
perché chi chiedeva di essere «eccettuato» implicitamente riconosceva la regola
del privilegio; ma a quanto pare questo fatto non fu mai afferrato da quelle
«brave persone» - ebrei e gentili - che si davano da fare per raccomandare ai
nazisti i «casi speciali,» gli individui che potevano aver diritto a un
trattamento preferenziale.
Il
Rapporto Kastner (Der Kastner-Bericht über Eichmanns Menschenhandel in Ungarn,
1961) mostra fino a che punto persino le vittime accettassero i criteri della
soluzione finale. Anche dopo la guerra Kastner ha continuato a vantarsi di
esser riuscito a salvare «ebrei illustri,» una categoria fissata ufficialmente
dai nazisti nel 1942, come se anche per lui un ebreo famoso avesse più diritto
di restare in vita di un ebreo comune; sempre secondo Kastner, addossarsi
simili «responsabilità» (cioè aiutare i nazisti a sceverare la gente «famosa»
tra l'anonima massa, ché tutto si riduceva a questo) «richiedeva più coraggio
che affrontare la morte.» Ma se gli ebrei e i gentili che peroravano in favore
dei «casi speciali» non si rendevano conto della loro complicità, coloro che
erano impegnati nell'opera di sterminio lo capivano benissimo. Di tanto in
tanto aderivano alla richiesta di fare un'eccezione per un «caso speciale,»
concedevano la grazia e riscuotevano gratitudine, e così pensavano per lo meno
di aver convinto i loro oppositori della legittimità di ciò che stavano
facendo.
Il
ghetto di Theresienstadt per categorie privilegiate fu istituito in seguito a
pressioni esercitate da ogni parte. Theresienstadt divenne più tardi un campo
da mostrare ai visitatori stranieri, per ingannare il mondo, ma questa non fu
la sua “raison d'être” originale. L'orribile processo di sfoltimento che si
verificò a intervalli regolari in questo «paradiso» («diverso dagli altri campi
come il giorno è diverso dalla notte,» secondo la giusta osservazione di
Eichmann) avvenne perché non c'era mai abbastanza spazio per ospitare tutti i
privilegiati, e da un'istruzione diramata da Ernst Kaltenbrunner, capo
dell'R.S.H.A., noi sappiamo che una «cura speciale» si metteva nel «non
deportare ebrei con legami e importanti aderenze nel mondo esterno.» In altre
parole, gli ebrei meno «illustri» erano costantemente sacrificati a quelli che
non potevano sparire senza provocare fastidiose inchieste. Non necessariamente
le «aderenze nel mondo esterno» vivevano fuori della Germania; secondo Himmler,
c'erano «ottanta milioni di buoni tedeschi, e ognuno di essi ha il suo bravo
ebreo, una persona di prim’ordine.» Lo stesso Hitler, a quanto si dice,
conosceva trecentoquaranta «ebrei di prim'ordine» e aveva concesso loro la
posizione di tedeschi puri o almeno i privilegi garantiti ai mezzi ebrei.
Nella Germania di oggi
quest'idea degli ebrei «illustri» è ancora viva. Mentre non si parla più dei
veterani e di altri gruppi
privilegiati, si deplorano ancora i maltrattamenti inflitti agli ebrei
«famosi.» Più d'uno, soprattutto nei circoli intellettuali, seguita a deplorare
pubblicamente che la Germania costringesse Einstein ad espatriare; ma sembra
che costoro non si rendano conto che delitto molto più grave fu uccidere il
piccolo Hans Cohn, che abitava all'angolo, anche se non era un genio.
I DOVERI DI UN CITTADINO LIGIO ALLA LEGGE.
Eichmann col
passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Questa era la
nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino
ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo
“dovere”, di avere obbedito non soltanto a “ordini”, ma anche alla “legge”. I
logori temi degli «ordini superiori» oppure delle «azioni di Stato» furono
ampiamente discussi già al processo di Norimberga, per la semplice ragione che
davano l'illusione che fatti senza precedenti potessero essere giudicati in
base a precedenti e a criteri già noti. Eichmann, con le sue doti mentali
piuttosto modeste, era certamente l'ultimo, nell'aula del tribunale, da cui ci
si potesse attendere che contestasse queste idee e impostasse in altro modo la
propria difesa. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il dovere di
un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini -
preoccupandosi sempre di essere «coperto» -, e perciò ora si smarrì
completamente e finì con l'insistere alternativamente sui pregi e sui difetti
dell'obbedienza cieca.
Eichmann
dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell'etica
kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L'affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l'etica di
Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell'uomo, facoltà che
esclude la cieca obbedienza. Il giudice istruttore non approfondì l'argomento,
ma il giudice Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann
avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi misfatti,
decise di chiedere chiarimenti all'imputato. E con sorpresa di tutti Eichmann
se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell'imperativo categorico:
«Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà
deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali» (il
che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell'omicidio, poiché il ladro
e l'omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia
agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli). Rispondendo ad altre
domande, Eichmann rivelò di aver letto la “Critica della ragion pratica” di
Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare
la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che
ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più
«padrone delle proprie azioni,» che non poteva far nulla per «cambiare le
cose.»
Alla Corte non
disse però che in questo periodo «di crimini legalizzati dallo Stato» non solo
aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l'aveva
distorta facendola divenire: «agisci come se il principio delle tue azioni
fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese,» ovvero, come
suonava la definizione che dell'«imperativo categorico nel Terzo Reich» aveva
dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: «agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni,
approverebbe» (“Die Technik des Staates”, 1942, p.p. 15-16).
Certo, Kant non
si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo
diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: Usando
la «ragion pratica» ciascuno trova i princìpi che potrebbero e dovrebbero
essere i princìpi della legge. Ma è anche vero che l'inconsapevole distorsione
di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria
di Kant «ad uso privato della povera gente.» In questa versione ad uso privato,
tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l'uomo deve fare qualcosa
di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza
e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge - la
fonte da cui la legge è scaturita. Nella
filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann, era la
volontà del Führer.
In Germania è
diffusa l’idea diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa
semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato
la legge a cui si obbedisce. Da qui la convinzione che occorra fare anche di più
di ciò che impone il dovere.
Non c’é il
minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una
legge è una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemme Eichmann
ammise i aver fatto una eccezione in due casi salvando tre ebrei. Questa
incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e così durante
l'interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver «confessato le sue
colpe» ai suoi superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò
più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio
questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare
quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezioni: questa era la
prova che lui aveva sempre agito contro le proprie «inclinazioni,» fossero esse
ispirate dal sentimento o dall'interesse; questa era la prova che lui aveva
sempre fatto il suo «dovere.»
Il ministero
degli esteri del Reich non si stancava mai di ricordare agli alleati della
Germania che la pietra di paragone della loro fedeltà era il contributo che
davano non alla vittoria, ma alla soluzione del problema ebraico.
Budapest:
Quello che Eichmann chiamò un «sogno» fu per gli ebrei un incubo spaventoso: in
nessun'altra nazione tanta gente fu deportata e sterminata in così breve tempo:
in meno di due mesi partirono centoquarantasette treni che portarono via
434.351 persone rinchiuse in vagoni-merci sigillati, cento per vagone, e le
camere a gas di Auschwitz pur lavorando a pieno ritmo stentarono a liquidare
tutta questa moltitudine.
All'inizio
Eichmann cercò di adeguarsi alle regole del nuovo giuoco. Fu quando si trovò
implicato nelle strabilianti trattative «sangue in cambio di merci» (un milione
di ebrei in cambio di diecimila camion per l'esercito tedesco in rotta),
trattative che non era stato certo lui ad avviare. Il modo in cui a Gerusalemme
cercò di spiegare il ruolo che aveva avuto in questo affare dimostra chiaramente
come doveva aver ragionato: era una necessità militare, grazie alla quale, per
giunta, sarebbe tornato ad essere un personaggio importante nel campo
dell'emigrazione. La cosa che forse non confessò mai neppure a se stesso era
che, aumentando le difficoltà da ogni parte, cresceva per lui di giorno in
giorno anche il rischio di rimanere senza lavoro (come difatti avvenne di lì a
pochi mesi), a meno che non fosse riuscito a trovare qualcosa a cui aggrapparsi
mentre gli altri lottavano tra di loro per il potere. Il piano di scambio
fallì.
A Gerusalemme,
dove appunto non c'era nessuno a dargli istruzioni del genere, parlò
liberamente di «sterminio» di «assassinio,» di «crimini legalizzati dallo
Stato»; disse pane al pane e vino al vino.
Che Eichmann
avesse sempre fatto del suo meglio per attuare la soluzione finale era perciò
fuori discussione. La questione era soltanto se questa fosse davvero una prova
di fanatismo, di odio sfrenato per gli ebrei, e se egli avesse mentito alla
polizia e spergiurato in tribunale quando aveva affermato di aver sempre
obbedito a ordini. I giudici, che sempre si sforzarono di capire l'imputato e
sempre lo trattarono con una considerazione e un'umanità che nessuno
probabilmente gli aveva mai mostrato, non seppero trovare altra spiegazione che
la menzogna.
Eichmann aveva
«molta fiducia nel giudice Landau» come se Landau potesse cambiare il nero in
bianco.
Questa fiducia
fu attribuita al fatto che Eichmann aveva sempre bisogno di un'autorità;
qualunque ne fosse l'origine, tale fiducia fu evidente per tutto il processo, e
spiega bene la «delusione» che Eichmann provò alla lettura della sentenza: egli
aveva scambiato l'umanità per mitezza. Che essi non riuscissero mai a capirlo
può essere una conseguenza della loro «bontà,» della loro fede ferma e un po'
antiquata nei principi morali della loro professione. Ché la triste e
spiacevolissima verità era probabilmente che non il fanatismo, ma proprio la
coscienza aveva spinto Eichmann ad adottare quell'inflessibile atteggiamento.
A Gerusalemme,
posto di fronte ai documenti che provavano la sua eccezionale fedeltà a Hitler,
Eichmann cercò a più riprese di spiegare che nel Terzo Reich «le parole del
Führer avevano forza di legge» (“Führerworte haben Gesetzeskraft”), il che
significava, tra l'altro, che gli ordini di Hitler non avevano bisogno di
essere scritti. Cercò di spiegare che era per questo che egli non aveva mai
chiesto un ordine scritto di Hitler (e in effetti documenti di questo tipo
riguardanti la soluzione finale non sono mai stati trovati e probabilmente non
esistettero mai). In tale sistema «giuridico,» ogni ordine contrario nella
lettera o nello spirito a una disposizione orale di Hitler era per definizione
illegittimo. Perciò la posizione assunta da Eichmann assomigliava spiacevolmente
a quella, tante volte citata, del soldato che in un sistema giuridico normale
si rifiuta di eseguire ordini che sono contrari all'idea comune della
legittimità e che quindi possono da lui essere considerati illegali. La vasta
letteratura sull'argomento gioca di solito sull'ambiguità dei termine «legge,»
che in questo contesto significa a volte la legge vigente in un dato paese -
cioè il codice esistente, concreto - e a volte la legge che, si suppone, parla
con identica voce nel cuore di tutti gli uomini. In pratica, però, gli ordini a
cui si può disobbedire devono essere «manifestamente illegali» e l'illegalità
deve essere «come una bandiera nera che sventola al di sopra di essi con una
scritta che dice: 'Proibito',» secondo la pittoresca espressione adoperata
nella sentenza. E sotto un regime
criminale questa «bandiera nera» con la sua «scritta ammonitrice» sventola su
quello che è normalmente un ordine legittimo (per esempio, non uccidere degli
innocenti solo perché sono ebrei) nella stessa manifesta maniera in cui
sventola, sotto un regime normale, al di sopra di un ordine criminale.
Ripiegare
sull'inequivocabile voce della coscienza, o, secondo la terminologia ancor più
vaga dei giuristi, su un «generale sentimento di umanità» (Oppenheim-Lauterpacht
in “International Law”, 1952) significa non soltanto aggirare la questione, ma
rifiutarsi deliberatamente di prender nota dei principali fenomeni morali,
giuridici e politici del nostro secolo.
il fattore
personale in gioco non era il fanatismo, bensì la sua sincera, «sfrenata e
smisurata ammirazione per Hitler,» come disse un teste della difesa, cioè per
l'uomo che era riuscito a salire «da caporale a Cancelliere del Reich.
Negli ultimi
giorni di guerra Eichmann cominciò a viaggiare sotto falso nome, ma ormai
Hitler era morto e «la legge del paese» non esisteva più e lui, come precisò al
processo, non era più vincolato dal giuramento. E infatti il giuramento
prestato dalle S.S. differiva da quello dei militari, nel senso che imponeva
fedeltà a Hitler, non alla Germania.
Il problema della coscienza di Adolf Eichmann, che è
notoriamente complesso ma nient'affatto unico, non può essere paragonato a
quello della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali, quando a
Norimberga gli chiesero «Com'è possibile che tutti voi rispettabili generali
abbiate seguitato a servire un assassino con tanta fedeltà?» rispose che non
toccava a un soldato ergersi a giudice del suo comandante supremo: «Questo
tocca alla storia, o a Dio in cielo.»
A trasformarli tutti in criminali non era stato un ordine, ma
una legge. La differenza tra ordine e «ordine del Führer» era che la validità
del secondo non era limitata nel tempo o nello spazio, mentre questo limite è
caratteristica precipua del primo. E questa è anche la vera ragione per cui
quando il Führer ordinò la soluzione finale esperti giuristi e consiglieri
giuridici, non semplici amministratori, stilarono una fiumana di regolamenti e
direttive: quell'ordine, a differenza degli ordini comuni, fu considerato una
legge. Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi
dall'essere semplice frutto della pignoleria o precisione tedesca, servirono
ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di legalità.
E come come nei paesi civili la legge presuppone che la voce
della coscienza dica a tutti «Non ammazzare,» anche se talvolta l'uomo può
avere istinti e tendenze omicide, così la legge della Germania hitleriana
pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: «Ammazza,» anche se gli
organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli
istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione.
Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che
permette ai più di riconoscerlo per quello che è - la proprietà della
tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande
maggioranza, dovettero esser tentati di “non” mandare a morire i loro vicini di
casa (che naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi
particolari, essi “sapevano” che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e
dovettero esser tentati di “non” trarre vantaggi da questi crimini e divenirne
complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste
tentazioni.
DEPORTAZIONI DAL REICH – GERMANIA, AUSTRIA
E PROTETTORATO.
Autunno 1944 :
All'insaputa di Hitler la soluzione finale fu abbandonata come se i massacri
non fossero stati che un deplorevole errore, Eichmann non fu turbato da
problemi di coscienza. La sua mente era tutta presa dalla mole sempre crescente
di lavoro organizzativo e amministrativo.
Quello che per
Hitler - l'unico, solitario «macchinatore» della soluzione finale (mai
macchinazione, se tale essa fu, ebbe bisogno di meno organizzatori e di più
esecutori) - era uno dei principali obiettivi di guerra, a cui si doveva dare
la precedenza assoluta senza curarsi della situazione economica o militare, e
quello che per Eichmann era un lavoro giornaliero, monotono, con i suoi alti e
bassi - per gli ebrei fu letteralmente la fine del mondo. Per secoli gli ebrei,
a ragione o a torto, erano stati avvezzi a considerare la loro storia come una
lunga sequela di sofferenze, più o meno proprio come il Pubblico ministero
spiegò al processo nel suo discorso d'apertura. Ma dietro questo atteggiamento
c'era stata, per lungo tempo, la consolante idea “Am Yisrael chai”, l'idea cioè
che il “popolo” d'Israele si sarebbe salvato. Singoli ebrei, intere famiglie
ebraiche potevano perire nei pogrom, intere comunità potevano essere distrutte,
ma il popolo sarebbe sopravvissuto. Gli ebrei non avevano mai visto il
genocidio. Ora poi, almeno nell'Europa occidentale, non c'era più neppure
bisogno di quell'antica consolazione. Dai tempi di Roma, cioè dall'inizio della
storia europea, gli ebrei si erano inseriti nel bene o nel male, nella miseria
o nello splendore, nel consesso delle nazioni europee; ma negli ultimi
centocinquant'anni era stato soprattutto nel bene, e i momenti di splendore
erano stati tanti che nell'Europa centro-occidentale potevano ben esser
considerati la regola. Perciò la fiducia che il loro popolo sarebbe
sopravvissuto non era più molto importante per larghi settori delle comunità
ebraiche: esse non sapevano più immaginare una vita al di fuori del contesto
della civiltà europea, così come non sapevano raffigurarsi un'Europa
“judenrein”.
La fine del
mondo, anche se piuttosto monotona nel suo funzionamento, ebbe forme e
manifestazioni diverse, più o meno quante erano le nazioni d'Europa. Ciò non
sorprende lo storico che conosce le travagliate vicende di questo continente e
il faticoso sviluppo del suo sistema di Stati; ma stupì grandemente i nazisti,
i quali erano sinceramente convinti che l'antisemitismo potesse divenire il
comun denominatore che avrebbe unificato tutta l'Europa. Fu un errore grave e
costoso.
La fine del
mondo cominciò naturalmente nel Reich.
«una migrazione
di popoli organizzata,» come lo definì la sentenza del Tribunale distrettuale
di Gerusalemme.
I nazisti, I
nazisti, sempre portati a generalizzare, pensarono di aver dimostrato che gli
ebrei erano «indesiderati» dappertutto, e che ogni non ebreo era almeno in
potenza un antisemita. Chi dunque si sarebbe infastidito se essi avessero
affrontato il problema in maniera «radicale»? A Gerusalemme, Eichmann, ancora
influenzato da quelle generalizzazioni, sostenne più e più volte che nessun
paese si era mostrato disposto ad accogliere ebrei, e che questo, soltanto
questo aveva provocato la grande catastrofe: senza pensare però che gli Stati
europei si sarebbero certamente comportati allo stesso modo di fronte a
qualsiasi altra «calata» di persone - anche se non ebrei -, se queste fossero
arrivate improvvisamente senza un soldo, senza un passaporto, senza neppure
conoscere la lingua del paese!
«Se almeno si
potesse esser certi che non saranno liquidati!» Ma anche gli altri pensavano
quasi tutti allo stesso modo.
Marzo del 1941 : Eichmann fu
all'improvviso messo a capo di una nuova sottosezione: o meglio, il nome della
sua sottosezione, «Emigrazione ed evacuazione,» fu cambiato in «Affari ebraici,
evacuazione.» Da quel momento, benché non fosse stato ancora informato della
soluzione finale, egli avrebbe dovuto rendersi conto che non solo l'emigrazione
era tramontata per sempre, ma sarebbe stata rimpiazzata dalla deportazione.
Senonché Eichmann non era uomo da afferrare il significato di certi indizi, e
poiché nessuno gli aveva spiegato nulla, continuò a pensare in termini di
emigrazione.
Egli non vide
mai al di là del ristretto orizzonte delle leggi e dei decreti vigenti in un
determinato momento, quali che fossero, e la fiumana di leggi antisemite si
abbatté sugli ebrei del Reich soltanto quando l'ordine di Hitler di procedere
alla soluzione finale era già stato trasmesso ufficialmente a coloro che ne
sarebbero stati gli esecutori. Contemporaneamente era stato deciso che al Reich
si desse la precedenza assoluta, che cioè i suoi territori venissero ripuliti
dagli ebrei al più presto, e stupisce che passassero ancora quasi due anni
prima che lo si facesse. I provvedimenti preliminari, che subito servirono da
modello a tutti gli altri paesi, furono: primo, introduzione del distintivo
giallo (primo settembre 1941); secondo, revisione della legge sulla
cittadinanza, nel senso che un ebreo non era più considerato cittadino tedesco
se viveva fuori dei confini del Reich (da dove naturalmente doveva essere
deportato). Bastò solo una nuova nuova
disposizione, dei marzo 1942, per sancire che tutti gli ebrei deportati erano «ostili
al popolo e allo Stato.» I nazisti presero tutte queste leggi molto sul serio.
Le quattro organizzazioni riconosciute come «criminali» (i
dirigenti del partito nazista, la Gestapo, l'S.D. e le S.S.), le distinzioni di
Norimberga sarebbero sempre rimaste inadeguate e inesatte. Perché la realtà è
che nel Terzo Reich, almeno negli anni di guerra, non ci fu una sola
organizzazione o pubblica istituzione che non fosse implicata in azioni e
transazioni criminose.
Sappiamo che
delle duecentosessantacinquemila persone che, secondo fonti tedesche, già erano
state deportate o erano candidate alla deportazione nel gennaio dei 1942,
pochissime sfuggirono: forse qualche centinaio, al massimo qualche migliaio
riuscirono a nascondersi e a sopravvivere alla guerra. E quanto fosse facile tranquillizzare la coscienza della popolazione
tedesca lo si vede bene dalla spiegazione ufficiale che delle deportazioni
dette la cancelleria del partito in una sua circolare dell'autunno 1942: «E'
nella natura delle cose che questi problemi, sotto certi rispetti
difficilissimi, possano essere risolti nell'interesse della sicurezza
permanente del nostro popolo soltanto impiegando una "spietata
durezza" [“rücksichtslose Härte”].
v
CONSULTARE
L’OPERA AUTOGRAFA
dati storici relativi ai
capitoli dieci, undici e dodici.
v
I
CENTRI DI STERMINIO DELL’EUROPA ORIENTALE
L’oriente era stato il principale teatro delle sofferenze
ebraiche, la spaventosa stazione terminale di tutte le deportazioni, la zona da
dove non si poteva più fuggire. Nei vari centri, di rado erano sopravvissuti
più del cinque per cento dei deportati. L'oriente, inoltre, era stato
nell'anteguerra la principale sede degli ebrei.
Benché i
testimoni dell'accusa fossero molto raramente controinterrogati dalla difesa o
dai giudici, la sentenza accettò, delle testimonianze riguardanti Eichmann,
soltanto quelle che erano confortate anche da altre prove.
L’avvocato difensore di Eichmann contestò l’imparzialità dei
giudici: Nessun ebreo, secondo lui, poteva giudicare gli esecutori della
soluzione finale.
Il presidente aveva risposto: Noi siamo giudici di professione,
avvezzi a soppesare gli elementi che ci vengono sottoposti e a svolgere il
nostro lavoro sotto gli occhi del pubblico, esposti alle critiche del pubblico...
Quando una Corte siede in giudizio, i giudici che la compongono sono esseri
umani, sono persone in carne ed ossa, dotate di sensi e sentimenti, ma dalla
legge sono obbligati a reprimere questi sensi e sentimenti. Altrimenti, non si
potrebbe mai trovare un giudice per giudicare un crimine che suscita orrore...
Non si può negare che il ricordo dell'olocausto turba ogni ebreo, ma finché
questa causa sarà dibattuta dinanzi a noi, sarà nostro dovere reprimere questi
sentimenti, e noi rispetteremo questo dovere.»
Una volta che un testimone aveva preso la parola era difficile
interromperlo, troncare la sua deposizione, e questo «per l'onore del testimone
e per le cose di cui parla,» come diceva il giudice Landau. Chi erano loro,
umanamente parlando, per negare a questa gente il diritto di esporre le proprie
ragioni in tribunale? E chi avrebbe mai osato, umanamente parlando, soffermarsi
a controllare la veracità dei particolari quando le cose che venivano dette,
anche se andavano considerate «prodotti accessori del processo,» uscivano «dal
cuore»?
C'era poi un
altro fatto. In Israele, come in quasi tutti i paesi civili, una persona
tradotta in giudizio è considerata innocente finché la sua colpevolezza non è
dimostrata. Ma nel caso di Eichmann era evidente che si trattava di una
finzione. Se egli non fosse stato considerato colpevole in partenza, colpevole
«al di là di ogni ragionevole dubbio,» gli israeliani non avrebbero mai osato o
pensato di rapirlo.
Lettera datata
3 giugno 1960, la ragione per cui Israele aveva commesso una «formale
violazione delle leggi argentine,» aveva scritto che era stato Eichmann a
«organizzare lo sterminio, su scala gigantesca e senza precedenti, in tutta
l'Europa.» Mentre di solito per arrestare un individuo occorre che i sospetti su
di lui siano fondati, ma soltanto in sede di processo si accerta che i sospetti
siano l'al di là di ogni ragionevole dubbio,» l'arresto illegale di Eichmann
era giustificabile (e così fu infatti giustificato agli occhi del mondo)
solamente perché già si sapeva come si sarebbe concluso il processo. Qui però
si vide che il ruolo a lui attribuito nella soluzione finale era stato
grandemente esagerato.
La sentenza
della Corte d’Appello:
«E' un fatto che l'appellante non aveva ricevuto alcun 'ordine
superiore.' Egli era il superiore di se stesso e dava tutti gli ordini nel
campo degli affari ebraici.»
Orbene, questa
era per l'appunto la tesi dell'accusa. I
giudici del Tribunale distrettuale non l'accettarono ma la Corte d'Appello,
per quanto assurdo possa sembrare, la avallò pienamente. (La tesi era
confortata soprattutto dalla deposizione di Michael A. Musmanno, autore di “Ten
Days to Die”, 1950, e già giudice al processo di Norimberga.”
La responsabilità giuridica e morale di chi consegna la vittima
al carnefice non è a nostro avviso minore e può essere anche maggiore della
responsabilità di chi fa morire la vittima.
La sentenza dei giudici:
La sentenza che stilarono si divideva in due parti, e la più
ampia era una revisione delle tesi dell'accusa.
I giudici intendevano concentrarsi su quello che era stato
commesso, e non su quello che gli ebrei avevano sofferto. In aperta polemica
con l'accusa dissero esplicitamente che le sofferenze su scala così gigantesca
andavano «al di là della comprensione umana,» erano una materia «da grandi
scrittori e poeti» ed erano fuori posto in un'aula di tribunale, mentre i fatti
e le loro cause né andavano al di là della comprensione né erano ingiudicabili.
Arrivarono al punto di affermare che nel trarre le conclusioni si sarebbero
basati sulla propria esposizione, ed effettivamente, se non avessero avuto il
coraggio di procedere a una revisione così ampia e faticosa, avrebbero
rischiato di smarrirsi. Non persero mai di vista la complicata burocrazia della
macchina di distruzione nazista, in modo da fissare con chiarezza la posizione
dell'imputato. La sentenza può essere studiata con profitto da chi s'interessa
alla storia di quel periodo. E tuttavia, per quanto fortunatamente priva di
oratoria a buon mercato, essa avrebbe finito col distruggere completamente le
tesi dell'accusa se i giudici non avessero potuto attribuire ad Eichmann un po'
di responsabilità per i crimini perpetrati in oriente, oltre a quella per il
crimine principale, da lui confessato, di aver cioè mandato a morire la gente
ben sapendo che cosa faceva.
v
CONSULTARE
L’OPERA AUTOGRAFA
dati storici relativi alla
responsabilità attribuita ad Eichmann per i crimini perpetrati in oriente
v
«Il grande paradosso di Auschwitz era che i criminali «erano
trattati meglio degli altri.»
Raja Kagan,
testimone a Gerusalemme
I criminali non erano soggetti alla selezione e di regola
sopravvivevano.
La verità era che Eichmann non aveva alcuna autorità per
stabilire chi doveva morire e chi doveva vivere, e neppure sapeva chi sarebbe
morto e chi si sarebbe salvato.
La questione
era invece appurare se Eichmann avesse mentito o no, quando aveva detto: «Io
non ho mai ucciso un ebreo, e nemmeno un non ebreo... Io non ho mai ordinato di
uccidere un ebreo né un non ebreo.» L'accusa, rifiutandosi di credere che uno
sterminatore non avesse mai ucciso (e addirittura, come nel caso specifico, non
avesse mai avuto il gusto di uccidere), si sforzò continuamente di dimostrare
che egli aveva ucciso qualcuno con le proprie mani.
Nella sentenza
i giudici dissero che Eichmann fu responsabile di dirigere la soluzione finale
senza limitazioni territoriali.
In realtà la
soluzione finale non si applicava ai territori orientali occupati, per il
semplice motivo che qui il destino degli ebrei era stato segnato da un pezzo.
Il massacro degli ebrei polacchi era stato deciso da Hitler non nel maggio o
nel giugno del 1941, ma già nel settembre del 1939, come i giudici sapevano
dalla testimonianza resa a Norimberga da Erwin Lahousen, del controspionaggio
tedesco.
Due conferenze
avevano avuto luogo all’inizio della guerra:
21 settembre
1939: A cui avevano partecipato i «capi e comandanti dipartimentali» degli
“Einsatzgruppen” e a cui Eichmann (che era ancora “Hauptsturmführer” aveva
rappresentato il Centro di Berlino per l'emigrazione degli ebrei; e quella del
30 gennaio 1940, in cui ci si era occupati di «questioni di evacuazione e
trasferimento.» A entrambe le riunioni si era discussa la sorte di tutte le
popolazioni dei territori occupati, ossia la «soluzione» tanto del problema
polacco quanto di quello ebraico. Già allora la soluzione del primo era a buon
punto: i «dirigenti politici,» secondo i rapporti, erano ridotti ad appena il
tre per cento, e al fine di rendere «innocui» anche i pochi restanti, li si
sarebbero «mandati in campi di concentramento.» Gli strati medi
dell'intellighenzia polacca dovevano essere registrati e arrestati (insegnanti,
clero, nobiltà, legionari, funzionari, eccetera), mentre gli «strati
elementari» dovevano essere evacuati e aggregati alla manodopera tedesca come
«lavoratori stagionali.
La «migrazione
di popoli organizzata,» come la chiamò la sentenza, questa «politica
demografica negativa» non era affatto un'improvvisazione, un'idea nata in
seguito alle vittorie tedesche in oriente, ma era già stata tratteggiata nel
novembre dei 1937 nel discorso segreto che Hitler aveva tenuto al Comando
supremo - vedasi il cosiddetto “protocollo Hössbach”. Hitler aveva detto che
respingeva ogni idea tradizionale di conquista; ciò che gli occorreva era uno
«spazio disabitato» (“volkloser Raum”) in oriente, per insediarvi tedeschi. Uno
spazio simile non esisteva e perciò le parole del Führer non potevano
significare che una cosa sola: a una vittoria tedesca sarebbe automaticamente
seguita l'«evacuazione» di tutte le popolazioni indigene. Le misure contro gli
ebrei dell'Europa orientale non erano soltanto un prodotto dell'antisemitismo,
erano parte integrante di tutta una politica «demografica» che, se la Germania
avesse vinto, avrebbe riservato al popolo polacco la stessa sorte degli ebrei -
il genocidio. Non è una semplice congettura, poiché in Germania i polacchi
erano già obbligati a portare un distintivo dove una «P» sostituiva la stella
ebraica: e questo, come abbiamo visto, era il primo provvedimento che la
polizia prendeva quando si cominciava ad attuare un programma di sterminio.
Lettera spedita
per espresso ai comandanti degli “Einsatzgruppen” dopo la riunione di
settembre:
Questa lettera
riguardava soltanto «la questione ebraica nei territori occupati» e distingueva
tra l'«obiettivo finale,» che doveva restare segreto, e le «misure preliminari»
per conseguirlo. Tra queste ultime il documento menzionava esplicitamente il
concentramento di ebrei in prossimità di scali ferroviari. Fatto
caratteristico, ancora non si adoperava l'espressione «soluzione finale del
problema ebraico»; l'«obiettivo finale» era probabilmente la distruzione degli
ebrei polacchi, cosa che ovviamente non era una novità per chi aveva partecipato
alla riunione; nuova era soltanto l'idea di trasportare in Polonia gli ebrei
stanziati nelle province annesse al Reich, e questo era effettivamente un primo
passo verso la «ripulitura» della Germania dagli ebrei, cioè verso la soluzione
finale.
Per ciò che
riguarda Eichmann, i documenti mostrarono chiaramente che anche in questa fase
egli non ebbe quasi nulla a che fare con ciò che accadeva nell'Europa
orientale. Il suo ruolo fu semplicemente quello di esperto di «trasporto» e di
«emigrazione.»
Non c'erano
eccezioni perché il destino riservato a chi veniva assegnato ai lavori forzati
era soltanto un tipo diverso di morte, una morte lenta.
Per questo la
burocrazia ebraica, la cui collaborazione era considerata così importante per
questi massacri amministrativi, non ebbe alcuna parte nella cattura e nel
concentramento degli ebrei. E ciò segnò la fine delle sfrenate fucilazioni in
massa nelle retrovie, che avevano caratterizzato la prima fase. Pare infatti
che i comandanti dell'esercito avessero protestato contro i massacri di civili
e che Heydrich si fosse accordato col Comando supremo per un completo
“repulisti”, una volta per tutte, degli ebrei, dell'”intellighenzia” polacca,
del clero cattolico e della nobiltà, stabilendo però per ragioni pratiche (cioè
per la vastità dell'operazione, che avrebbe interessato due milioni di persone)
di concentrare prima gli ebrei in ghetti.
Anche se
avessero prosciolto completamente Eichmann da queste imputazioni, che spinsero
numerosissimi testimoni a raccontare storie raccapriccianti, i giudici
sarebbero sempre giunti a un verdetto di colpevolezza ed Eichmann non sarebbe
sfuggito alla pena capitale. Il risultato sarebbe stato lo stesso. Ma
l'impostazione data al processo dall'accusa ne sarebbe uscita smantellata
completamente, senza compromessi.
PROVE
E TESTIMONIANZE.
Nelle ultime
settimane di guerra la burocrazia delle S.S. si occupò soprattutto di
fabbricare carte d'identità false e di distruggere le montagne di documenti che
attestavano sei anni di sistematico sterminio. L'ufficio di Eichmann bruciò i
suoi archivi, ma naturalmente la cosa non servì a molto, poiché non poté
distruggere la corrispondenza spedita ad altri organismi dello Stato e del
partito, i cui archivi caddero nelle mani degli Alleati. Così, i documenti
rimasti furono più che sufficienti per ricostruire la storia della soluzione
finale, e molti furono portati a conoscenza del pubblico al processo di
Norimberga e in processi contro altri criminali di guerra.
Non era del
tutto vero che un tribunale israeliano fosse almeno tecnicamente «il più idoneo
per processare gli esecutori della soluzione finale.»
La difesa non
ebbe «né i mezzi né il tempo» di organizzarsi bene, non aveva a disposizione
«gli archivi del mondo e l'apparato governativo.»
Scuotere quella
gente dalla pericolosa apatia in cui l'aveva gettata l'inedia.
“Ci portarono
alla stazione ferroviaria. Le strade erano nere di gente che gridava: “Juden
raus”, in Palestina!'... Col treno arrivammo a Neubenschen, al confine
tedesco-polacco. Era sabato mattina, quando giungemmo lì, le sei di mattina.
Arrivavano treni da tutti i posti, da Lipsia, Colonia, Düsseldorf, Essen,
Biederfeld, Brema. In tutto eravamo quasi dodicimila... Era sabato, il 29
ottobre... Quando fummo in prossimità del confine ci perquisirono per vedere se
qualcuno aveva del denaro, e chi aveva più di dieci marchi - i soldi in più
glieli levavano. Questa era la legge tedesca, non più di dieci marchi si
potevano fare uscire dalla Germania. I tedeschi dicevano: 'Quando veniste qui non
avevate di più, e ora non potete portar via di più'.» Gli ebrei dovettero
percorrere a piedi quasi due chilometri, fino alla linea di confine, poiché i
tedeschi intendevano farli passare in territorio polacco. «Le S.S. ci
frustavano, colpivano chi restava indietro, la strada era macchiata di sangue.
Ci portarono via le valige, ci minacciavano nel modo più brutale, fu la prima
volta che vidi la selvaggia brutalità dei tedeschi. Ci gridavano: 'Correte!
correte!' Io fui colpito e caddi nella fossa. Mio figlio mi aiutò e mi disse:
'Corri, papà, corri o ti ammazzano!' Quando arrivammo al confine... le donne
passarono per prime. I polacchi non sapevano nulla. Chiamarono un generale
polacco e alcuni ufficiali che esaminarono i nostri documenti, e videro che eravamo
cittadini polacchi, che avevamo passaporti speciali. Decisero di lasciarci
entrare. Ci portarono in un paese di circa seimila abitanti. e noi eravamo
dodicimila. Pioveva a dirotto. Soffrivamo molto. Non c'erano viveri, da giovedì
eravamo senza mangiare.”
Testimone a
Gerusalemme
Occorsero più di dieci minuti per raccontare questa storia, e al
termine, un pensiero si affacciò imperioso alla mente di chi aveva ascoltato il
racconto di quell'insensata, inutile distruzione di ventisette anni di vita in
meno di ventiquattr'ore: «Tutti, tutti dovrebbero poter venire a deporre.»
Senonché, nelle interminabili udienze che seguirono, si vide quanto fosse
difficile raccontare, si vide che - almeno fuori del regno trasfigurante della
poesia - occorreva una grande purezza d'animo, un'innocenza cristallina di
cuore e di mente, quale soltanto i giusti possiedono.
Questa non era affatto la prima volta che qualcuno accennava ad
aiuti ricevuti dal mondo esterno, cioè da non ebrei. Il giudice Halevi aveva
sempre chiesto ai testimoni: «Ricevevate qualche aiuto?» con la stessa
regolarità con cui l'accusa chiedeva: «Perché non vi ribellaste?» Le risposte
erano state svariate e inconcludenti («Tutta la popolazione era contro di noi,»
oppure: gli ebrei nascosti da famiglie cristiane «si contavano sulle dita,»
potevano essere cinque o sei su un totale di tredicimila).
E così un ebreo, oggi residente in Israele e sposato a una donna
polacca, aveva raccontato come sua moglie avesse nascosto lui e altri dodici
ebrei per tutta la durata della guerra; e un altro come fosse fuggito da un
campo trovando ospitalità presso un ariano che conosceva da prima della guerra,
il quale poi era stato giustiziato. Un testimone dichiarò che i partigiani
polacchi avevano fornito armi a molti ebrei e avevano salvato migliaia di
bambini sistemandoli presso famiglie polacche. I rischi erano enormi; un'intera
famiglia polacca, per esempio, era stata sterminata nel modo più feroce per
avere adottato una bambina. C’era, è vero, anche un altro episodio che riguardava
un tedesco; ma di questi si parlava soltanto in un documento: si trattava di un
ufficiale che aveva aiutato gli ebrei indirettamente, sabotando gli ordini
della polizia.
Durante una breve testimonianza un silenzio di tomba calò
nell'aula del tribunale; come se il pubblico avesse spontaneamente deciso di
osservare i tradizionali due minuti di silenzio. E in quei due in quei due
minuti, che furono come un improvviso raggio di luce in mezzo a una fitta,
impenetrabile tenebra, un pensiero affiorò alle menti, chiaro, irrefutabile,
indiscutibile: come tutto sarebbe stato oggi diverso in quell'aula, in Israele,
in Germania, in tutta l'Europa e forse in tutti i paesi del mondo, se ci
fossero stati più episodi del genere da raccontare!
Peter Bamm, un
medico della Wehrmacht che era stato sul fronte russo, racconta in “Die
unsichtbare Flagge” (1952) l'uccisione di un gruppo di ebrei di Sebastopoli.
Gli ebrei furono rastrellati dagli «altri,» come l'autore chiama gli uomini
degli “Einsatzgruppen” per distinguerli dai soldati comuni, di cui invece
esalta la rettitudine, e furono rinchiusi in un'ala sigillata dell'ex-prigione
della G.P.U., poi furono caricati su un furgone a gas, dove perirono nel giro
di pochi minuti, dopo di che l'autista trasportò i cadaveri fuori città
scaricandoli in trincee anticarro.
“Noi lo
sapevamo. Non facemmo nulla. Chiunque avesse protestato sul serio o avesse
fatto qualcosa contro le unità addette allo sterminio sarebbe stato arrestato
entro ventiquattr'ore e sarebbe scomparso. Uno dei metodi più raffinati dei
regimi totalitari del nostro secolo consiste appunto nell'impedire agli
oppositori di morire per le loro idee di una morte grande, drammatica, da
martiri. Molti di noi avrebbero accettato una morte del genere. Ma la dittatura
fa scomparire i suoi avversari di nascosto, nell'anonimo. E' certo che chi avesse preferito affrontare la morte piuttosto che
tollerare in silenzio il crimine, avrebbe sacrificato la vita inutilmente. Ciò
non vuol dire che il sacrificio sarebbe stato moralmente privo di senso. Ma
sarebbe stato praticamente inutile.
Nessuno di noi aveva convinzioni così profonde da addossarsi un
sacrificio praticamente inutile in nome di un significato morale superiore.» E'
ovvio che qui lo scrittore non si rende conto di quanto sia vuota la
«rettitudine» da lui tanto esaltata quando manca quello che egli chiama il
«significato morale superiore.»
Questo esempio sta però a
dimostrare non tanto la vuotezza della rispettabilità (poiché in circostanze
come quelle la rettitudine si riduce semplicemente a rispettabilità), quanto la
vuotezza di tutto il ragionamento, che
pure a prima vista sembra ineccepibile. E' vero che il regime hitleriano
cercava di creare vuoti di oblio ove scomparisse ogni differenza tra il bene e
il male, ma come i febbrili tentativi
compiuti dai nazisti dal giugno 1942 in poi per cancellare ogni traccia dei
massacri (con la cremazione, con l'incendio in pozzi, con gli esplosivi, i
lanciafiamme e macchine che frantumavano le ossa) furono condannati al
fallimento, così anche tutti i loro sforzi di far scomparire gli oppositori «di
nascosto, nell'anonimo,» furono vani.
I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere
cancellata completamente e al mondo c'è troppa gente perché certi fatti non si
risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può
mai essere «praticamente inutile,» almeno non a lunga scadenza.
Quegli episodi, sul piano politico, insegnano che sotto il
terrore la maggioranza si sottomette, ma “qualcuno no”, così come la soluzione
finale insegna che certe cose potevano accadere in quasi tutti i paesi, ma “non
accaddero in tutti”. Sul piano umano, insegnano che se una cosa si può
ragionevolmente pretendere, questa è che sul nostro pianeta resti un posto ove
sia possibile l'umana convivenza.
CONDANNA,
APPELLO ED ESECUZIONE.
Eichmann non
aveva mai avuto alcun ruolo nell'attività delle organizzazioni naziste del
dopoguerra.
Nel novembre
del 1945 si aprirono a Norimberga i procedimenti penali contro i grandi
criminali di guerra, e il nome di Eichmann cominciò ad emergere con
preoccupante regolarità.
Se la Corte di
Gerusalemme poté giudicare Eichmann fu solo perché “di fatto” egli era un
apolide, e solo per questo. Ed Eichmann, benché non fosse un giurista, non
dovette meravigliarsene: tutta la sua carriera gli insegnava che degli apolidi
si poteva fare quello che si voleva, tanto che per sterminare gli ebrei si era
dovuto prima provvedere a renderli senza patria.
L’11 maggio
1960 Eichmann fu afferrato da tre uomini e in meno di un minuto gettato in
un'auto che sostava nei pressi. Fu portato in un remoto sobborgo di Buenos
Aires, in una casa che i suoi rapitori avevano preso in affitto da qualche
tempo. Nessuna droga, nessuna corda, nessuna manetta fu usata, e Eichmann capì
subito che si trattava di un colpo da professionisti, effettuato senza inutile
violenza. Non se la prese. Quando gli chiesero chi era, rispose senza
esitazioni: «Ich bin Adolf Eichmann,» e, frase sorprendente, aggiunse: «So di essere
nelle mani d'israeliani.» (Più tardi spiegò di aver letto su qualche giornale
che Ben Gurion aveva ordinato di scovarlo e catturarlo.
Al secondo
giorno di prigionia fu invitato a dichiarare per iscritto che non aveva nulla
in contrario ad essere processato da un tribunale israeliano. Naturalmente il
testo della dichiarazione era già pronto, e lui non doveva fare altro che
firmarlo. Senonché con sorpresa di tutti egli pretese di scrivere una
dichiarazione a modo suo, utilizzando il testo già preparato, a quanto pare,
soltanto nella parte introduttiva: «Io sottoscritto, Adolf Eichmann, dichiaro
di mia spontanea volontà che, essendo stata ormai scoperta la mia vera
identità, mi rendo perfettamente conto che sarebbe inutile cercare di sfuggire
ulteriormente alla giustizia. Perciò mi dichiaro disposto a recarmi in Israele
e affrontare il giudizio di un tribunale, un tribunale autorizzato. E' chiaro e
sottinteso che mi sarà concessa assistenza legale [qui finisce probabilmente la
parte ricopiata], e io cercherò di
scrivere che cosa ho fatto nei miei ultimi anni di attività pubblica in
Germania, senza abbellimenti di sorta, in modo da dare un quadro veritiero alle
generazioni future. Faccio questa dichiarazione di mia spontanea volontà, non
allettato da promesse né costretto con minacce. Voglio finalmente essere in
pace con me stesso. Non potendo ovviamente ricordare tutti i particolari, e
avendo l'impressione di confondere i fatti, chiedo che si mettano a mia
disposizione documenti e dichiarazioni giurate onde aiutarmi nel mio sforzo di
ricercare la verità. Firmato: Adolf Eichmann. Buenos Aires, maggio 1960.»
Ci sono due
modi per spiegare la sorprendente disposizione di Eichmann a collaborare con la
giustizia. (Anche i giudici, pur considerandolo un «bugiardo,» dovettero
riconoscere che non era facile capire come mai egli avesse rivelato «tanti
particolari che prima della sua confessione non potevano essere provati,
soprattutto i viaggi nell'Europa orientale, dove aveva veduto le atrocità con i
propri occhi.»)
Eichmann era
stanco di vivere nell'anonimo, e questa stanchezza doveva essere cresciuta in
lui quanto più leggeva le cose che si scrivevano sul suo conto. La seconda
spiegazione, da lui fornita in Israele, è assai più drammatica: «Circa un anno
e mezzo fa [cioè nella primavera del 1959] sentii dire da un conoscente appena
tornato da un viaggio in Germania che alcuni settori della gioventù tedesca
erano tormentati da un senso di colpa... e per me il fatto che ci fosse questo
complesso di colpa fu una cosa molto importante, importante come potrebbe
essere, per così dire, l'atterraggio del primo uomo sulla luna. Divenne un
punto essenziale della mia vita interiore, attorno al quale si cristallizzarono
molti pensieri. Ecco perché non fuggii... Dopo quelle conversazioni sul senso
di colpa della gioventù tedesca, che mi fecero così profonda impressione,
sentii che non avevo più il diritto di sparire. Ed ecco perché all'inizio di
questo interrogatorio ho anche proposto, in una dichiarazione scritta, ...
d'impiccarmi in pubblico. Volevo fare qualcosa per liberare i giovani tedeschi
dal peso della colpa, poiché in fondo questi giovani non sono responsabili di
ciò che è accaduto e di ciò che i loro padri hanno fatto durante l'ultima
guerra» - guerra che però, in un altro contesto, egli seguitava a chiamare una
«guerra imposta al Reich.» Naturalmente tutte queste erano chiacchiere vuote.
Che cosa gli avrebbe infatti impedito di tornarsene da sé in Germania e di
costituirsi? Quando gli rivolsero questa domanda, rispose che a suo avviso i
tribunali tedeschi non potevano ancora avere l'«oggettività» necessaria per
giudicare individui come lui. Ma se avesse preferito essere giudicato da una
Corte israeliana (come più o meno lasciò intendere e come non è del tutto da
escludere) avrebbe potuto risparmiare al governo israeliano tanto spreco di
tempo e di fatica. Ma già abbiamo visto come egli si autoesaltasse quando
parlava a questo modo, e come ciò gli servisse per tenersi su di morale per
tutto il tempo che rimase nel carcere d'Israele. Gli servì anche per guardare
alla morte con notevole serenità - «So che mi attende la condanna a morte,»
disse al principio dell'istruttoria. Tuttavia dietro queste chiacchiere vuote
c'era un po' di vero.
Il processo
avrebbe potuto assumere «dimensioni globali,» divenire cioè un «processo-fiume»
dove ci sarebbero stati molti avvocati per l'accusa e dove l’avvocato difensore
di Eichmann difficilmente avrebbe potuto «esaminare tutto il materiale» da
solo. Gli fu allora fatto presente che egli, in una lettera in cui chiedeva la
procura, aveva detto che avrebbe «capeggiato un gruppo di avvocati» (cosa che
poi non fece). L’avvocato fu dunque solo per quasi tutto il tempo. E il
risultato fu che Eichmann divenne il principale assistente del proprio patrono,
e - a parte il fatto che scrisse anche un libro «per le future generazioni» -
lavorò intensamente per tutta la durata del processo.
Il documento
della sentenza :
Lasciando
cadere la tesi della «cospirazione,» che l'avrebbe trasformato in «grande
criminale di guerra,» automaticamente responsabile di tutto ciò che aveva a che
fare con la soluzione finale, essi riconobbero Eichmann colpevole di tutte le
quindici imputazioni contenute nell'atto d'accusa, per quanto lo
prosciogliessero da alcuni crimini particolari. «In concorso con altri» egli
aveva commesso crimini «contro il popolo ebraico,» cioè contro gli ebrei “con
l'intenzione di distruggere la stirpe”, in quattro modi:
1) «causando lo
sterminio di milioni di ebrei»;
2) facendo
vivere «milioni di ebrei in condizioni che verosimilmente avrebbero condotto
alla loro distruzione fisica»;
3) «provocando
gravi danni fisici e mentali»;
4) «ordinando
che si bandissero le nascite e s'interrompessero le gravidanze tra le donne
ebree» di Theresienstadt.
Lo prosciolsero
però da queste accuse per quel che riguardava il periodo anteriore all'agosto
1941, cioè alla data in cui gli fu comunicato l'ordine del Führer, poiché in
quel periodo, a Berlino, a Vienna e a Praga, egli non aveva ancora l'intenzione
di «distruggere» il popolo ebraico. Questi erano i primi quattro capi d'accusa.
I capi 5-12
riguardavano i «crimini contro l'umanità» - un concetto piuttosto strano nel
diritto d'Israele, poiché comprendeva tanto il genocidio praticato contro non
ebrei, quanto tutti gli altri delitti (assassinio incluso) contro ebrei o non
ebrei, purché non commessi con l'intenzione di «distruggere» un popolo intero.
Perciò tutte le cose che Eichmann aveva fatto prima dell'ordine del Führer e
tutte le sue azioni contro non ebrei furono scritte sotto la voce «crimini
contro l'umanità,» con l'aggiunta, ancora una volta, di tutti i crimini contro
ebrei posteriori all'agosto 1941, dato che questi erano anche delitti ordinari.
Il risultato fu che il capo 5 imputava ad Eichmann gli stessi delitti enumerati
nei capi 1 e 2, e che il capo 6 lo accusava di avere «perseguitato ebrei per
motivi razziali, religiosi e politici»; il capo 7 si occupava del «saccheggio
della proprietà... collegato all'omicidio... di questi ebrei,» e il capo 8
ricatalogava tutte queste azioni come «crimini di guerra,» essendo state
commesse per la maggior parte nel periodo bellico. I capi 9-12 riguardavano in
particolare i crimini contro non ebrei: il 9 lo accusava dell'«espulsione di...
centinaia di migliaia di polacchi dalle loro case,» il 10 dell'«espulsione di
quattordicimila sloveni» dalla Jugoslavia, l'11 della deportazione di «decine
di migliaia di zingari» ad Auschwitz. Il capo 12 riguardava la deportazione di
novantatré bambini di Lidice, il villaggio cecoslovacco i cui abitanti erano
stati massacrati. Eichmann fu però, giustamente, prosciolto dall'accusa di
avere ucciso questi bambini. Gli ultimi tre capi lo accusavano di aver fatto
parte di tre delle quattro organizzazioni classificate come «criminali» a
Norimberga - le S.S., il Servizio di sicurezza o S.D., la polizia segreta di
Stato o Gestapo. (La quarta organizzazione, il corpo dei dirigenti del partito
nazista, non era menzionata essendo ovvio che egli non era mai stato uno dei
capi del partito.)
Tutti i crimini
enumerati nei capi 1-12 prevedevano la pena di morte.
Eichmann, come
si ricorderà, aveva sempre sostenuto di esser colpevole soltanto di avere
«aiutato e favorito» i delitti di cui era accusato, e di non aver mai commesso
personalmente un omicidio. La sentenza, con suo gran sollievo, in un certo
senso riconobbe che l'accusa non era riuscita a dimostrare il contrario. E
questo era un punto importante, poiché toccava l'essenza stessa dei crimini,
che non erano crimini comuni, e la natura stessa di questo criminale, che non
era un criminale comune. Implacabilmente la sentenza prese anche nota del
tragico fatto che nei campi di sterminio erano stati di solito gli ospiti e le
vittime a far funzionare «con le proprie mani la macchina fatale.» E a questo
proposito, le cose dette nella sentenza erano più che esatte, erano la verità:
«Se volessimo descrivere la sua attività con i termini usati nella sezione 23
del nostro codice penale, dovremmo dire che essa fu principalmente quella di
una persona che incoraggiava altri con consigli o suggerimenti, e di una
persona che permetteva ad altri di agire o li aiutava.» Ma «in un crimine cosi
enorme e complesso come quello che stiamo considerando, a cui parteciparono
molte persone, a vari livelli e in vari modi (i pianificatori, gli
organizzatori e gli esecutori, distribuiti in varie gerarchie), non ha molto
senso adoperare i concetti tradizionali di consiglio e istigazione. Ché questi reati furono commessi in massa,
non solo per ciò che riguarda il numero delle vittime, ma anche per ciò che
riguarda il numero di coloro che li commisero, e il grado in cui ciascuno dei
tanti criminali era vicino o lontano dall'uccisore materiale non significa
nulla, per quanto concerne la misura della responsabilità. Al contrario, in
generale “il grado di responsabilità cresce quanto più ci si allontana
dall'uomo che usa con le sue mani il fatale strumento”.»
La Corte non
gli aveva creduto benché egli si fosse sempre sforzato di dire la verità. I
giudici non l'avevano capito: lui non aveva mai odiato gli ebrei, non aveva mai
voluto lo sterminio di esseri umani. La sua colpa veniva dall'obbedienza, che è
sempre stata esaltata come una virtù. Di questa sua virtù i capi nazisti
avevano abusato, ma lui non aveva mai fatto parte della cricca al potere, era
una vittima, e solo i capi meritavano di essere puniti, era profondamente
convinto di dover pagare le colpe di altri.
“Io sono
vittima di un equivoco.”
Dichiarazione
di Eichmann
Il 15 dicembre
1961, venerdì, alle ore nove di mattina fu pronunziata la condanna a morte.
29 maggio 1962:
Ci fu la lettura della seconda sentenza - un po' meno voluminosa della prima,
ma sempre ampia abbastanza: cinquantuno pagine protocollo, scritte a macchina
con un solo spazio. Confermava il verdetto del Tribunale distrettuale, ma per
far questo non sarebbe stato necessario che i giudici impiegassero due mesi di
tempo e scrivessero cinquantuno pagine. Il fatto si è che la sentenza della
Corte Suprema era una revisione di quella di primo grado, per quanto non lo
dicesse. In aperto contrasto con la prima sentenza, si affermò ora che
l'appellante «non aveva ricevuto alcun 'ordine superiore.' Egli era il
superiore di se stesso e dava tutti gli ordini nel campo degli affari ebraici»;
inoltre, aveva «eclissato per importanza tutti i suoi superiori.» E prevenendo
l'ovvia obiezione del difensore, che cioè gli ebrei non sarebbero stati meglio
se Eichmann non fosse mai esistito, i giudici dissero ora che «l'idea della
soluzione finale non avrebbe mai assunto le forme infernali dello scorticamento
e della tortura di milioni di ebrei senza lo zelo fanatico e l'insaziabile sete
di sangue dell'appellante e dei suoi complici.» La Corte Suprema d'Israele non
solo accettò insomma gli argomenti dell'accusa, ma ne adottò persino il
linguaggio. Quel giorno stesso, 29 maggio, Itzhak Ben-Zvi, presidente
d'Israele, ricevette la domanda di grazia di Eichmann, quattro pagine
manoscritte, stilate seguendo le «istruzioni del mio difensore.» Ricevette
anche una lettera della moglie e una dei parenti di Linz; e inoltre centinaia
di lettere e telegrammi, da tutte le parti dei mondo, che lo invitavano ad
usare clemenza: tra i mittenti facevano spicco il Consiglio centrale dei
rabbini americani (l'organismo rappresentativo degli ebrei riformisti
d'America) e un gruppo di docenti dell'università ebraica di Gerusalemme,
capeggiato da Martin Buber, il quale si era sempre opposto al processo fin
dall'inizio ed ora cercò di convincere Ben Gurion a intervenire. Il 31 maggio
Ben-Zvi respinse tutte queste istanze di grazia, e qualche ora dopo, sempre in
quel giorno (giovedì), poco prima di mezzanotte Eichmann fu impiccato, il suo
corpo fu cremato, le ceneri furono disperse sulle acque del Mediterraneo che
bagnano Israele.
L’esecuzione
ebbe luogo nemmeno due ore dopo che Eichmann era stato informato che la domanda
di grazia era stata respinta.
La condanna a
morte era prevista fin dall'inizio, e nessuno aveva mai pensato di polemizzare
in proposito. Ma le cose cambiarono completamente quando si sparse la notizia
che era stata eseguita. Le proteste, è vero, ebbero breve vita, ma furono
numerose e vennero da persone influenti e autorevoli. La tesi più comune era
che le colpe di Eichmann erano troppo grandi per poter essere punite dagli
uomini, che la pena di morte non era proporzionata a crimini di tali
dimensioni: il che naturalmente in un certo senso era vero, senonché è assurdo
sostenere che chi ha ucciso milioni di esseri umani debba per ciò stesso
sfuggire alla pena. Tra la gente comune, molti dissero che la condanna a morte
dimostrava «poca fantasia,» e proposero, sia pure tardivamente, alternative
ingegnose: Eichmann per esempio avrebbe dovuto «trascorrere il resto della sua
vita nelle aride distese del Negeb, condannato ai lavori forzati, aiutando col
suo sudore a colonizzare la patria degli ebrei» - una pena a cui probabilmente
non avrebbe resistito più di un giorno.
Martiri Buber
definì l'esecuzione un «errore di portata storica,» che poteva «liberare dal
senso di colpa molti giovani tedeschi» - un argomento che stranamente
riecheggiava le idee dello stesso Eichmann, il quale proprio per quella ragione
aveva espresso un giorno il desiderio di essere impiccato in pubblico. (Questo,
probabilmente, Buber non lo sapeva, ma è strano comunque che un uomo della sua
statura morale e della sua intelligenza non si rendesse conto di quanto spurio fosse quel tanto reclamizzato senso di colpa.
Sentirsi colpevoli quando non si è fatto nulla di male: quanta
nobiltà d'animo! Ma è assai difficile e certamente deprimente ammettere la
colpa e pentirsi.
La gioventù
tedesca, ad ogni passo della sua vita, è circondata da tutte le parti da uomini
che oggi rivestono cariche pubbliche importanti e che sono veramente colpevoli,
ma non “sentono” nulla.
Giovani
tedeschi - uomini e donne - che ogni tanto, come in occasione della
pubblicazione del “Diario di Anna Frank” oppure del processo Eichmann,
esplodono in manifestazioni isteriche di senso di colpa, di senso di colpa, non
vacillano sotto il peso del passato, sotto il peso delle colpe dei loro padri;
cercano piuttosto di sottrarsi alla pressione dei veri problemi attuali
rifugiandosi in un sentimentalismo a buon mercato.) Il professor Buber aggiunse
che non sentiva «alcuna pietà» per Eichmann perché aveva pietà soltanto per quelli «di cui nel mio cuore capisco le azioni».
Karl Jaspers disse che Eichmann doveva essere giudicato da un
tribunale internazionale. e dispiace constatare che
proprio lui, persona così autorevole eludesse il vero problema posto da
Eichmann e dalle sue azioni.
Le voci che
meno si udirono furono quelle di coloro che per principio erano contrari alla
pena di morte; eppure le loro idee sarebbero rimaste valide, poiché non
avrebbero avuto bisogno di riadattarle a questo caso particolare. Ma forse si
resero conto - giustamente, a nostro avviso - che battersi per Eichmann non avrebbe
giovato molto alla loro causa.
Adolf Eichmann
nelle ultime ore della sua vita:
Rifiutò
l'assistenza del pastore protestante, reverendo William Hull, che si era
offerto di leggergli la Bibbia.Ormai gli restavano appena due ore di vita, e
perciò non aveva «tempo da perdere.» Percorse
i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell'esecuzione calmo e a testa
alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le
caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da
poter restare in piedi. «Non ce n'è bisogno,» disse quando gli offersero il
cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era
completamente se stesso.
Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la
lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato -
la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile “banalità del male”.
EPILOGO.
Le irregolarità
e le anormalità del processo di Gerusalemme furono tali e tante e così
complesse, da offuscare i problemi centrali, morali, politici e anche giuridici
che inevitabilmente si ponevano: e questo non solo nel corso del dibattimento,
ma anche in quel poco - veramente molto poco - che è stato scritto a processo
finito.
Il modo in cui
l'accusa impostò la causa, confuse ancor di più le cose prefiggendo un gran
numero di scopi che, tutti, andavano al di là della legge e della normale
procedura. Lo scopo di un processo è
rendere giustizia e basta; qualunque altro scopo, anche il più nobile («fare
un quadro del regime hitleriano che resti nella storia,» come disse l'avvocato
Robert G. Storey illustrando le presunte finalità superiori del processo di Norimberga),
non può che pregiudicare quello che è il compito essenziale della legge:
soppesare le accuse mosse all'imputato, per render giustizia e comminare la
giusta pena.
Le prime due
sezioni della sentenza contro Eichmann, che polemizzavano con la teoria delle
finalità superiori quale era stata prospettata sia in aula che fuori, non
avrebbero potuto essere più esplicite e adoperare frasi più opportune: «Bisognava opporsi a tutti i tentativi di
estendere la portata del processo, perché la Corte non poteva lasciarsi
«trascinare in campi che sono al di fuori della sua sfera... il processo
giudiziario ha metodi suoi, che sono fissati dalla legge e non mutano,
qualunque sia il caso in discussione.» Inoltre
la Corte non poteva oltrepassare questi limiti senza «fallire completamente.»
Essa non aveva a sua disposizione «gli strumenti necessari per studiare
questioni generali», parlava con un'autorità il cui peso dipendeva proprio dai
suoi limiti. «Nessuno ci ha fatto giudici» di cose che esulano dal campo della legge
e «la nostra opinione in merito a tali cose non ha più valore di quella di
qualunque persona che vi consacri studi e meditazioni.» Perciò, alla domanda
rivolta da tanti: «A che serve processare Eichmann?», non c'era che una sola
risposta possibile: «A far giustizia.»
Le critiche
mosse al processo Eichmann:
Eichmann era
processato in base a una legge retroattiva, e nel tribunale dei vincitori.
Le critiche all’accusa (Eichmann
avrebbe commesso crimini «contro il popolo ebraico» invece che «contro l'umanità»)
e quindi alla legge in base a cui era giudicato; e queste critiche conducevano
logicamente a sostenere che soltanto un tribunale internazionale poteva
giudicare quei crimini.
Le risposte della corte:
La risposta
della Corte alla prima categoria di critiche fu semplice: il processo di
Norimberga fu citato come valido precedente, e anche in base al codice
nazionale i giudici difficilmente avrebbero potuto agire altrimenti, giacché la
legge del 1950 contro i nazisti e i collaborazionisti si fondava appunto su
quel precedente. «Questa particolare legge - rilevò la sentenza - è totalmente
diversa dalle leggi dei codici penali comuni, «e la ragione di questa
differenza è riposta nella natura dei crimini di cui si occupa.» La sua
retroattività, si può aggiungere, viola solo formalmente, non concretamente, il
principio "nullum crimen, nulla poena sine lege", dato che
questo principio ovviamente vale soltanto per azioni note al legislatore; ma
quando improvvisamente compare un crimine di tipo nuovo, come il genocidio, la
giustizia stessa esige una sentenza conforme a una nuova legge; nel caso di
Norimberga questa nuova legge fu la Carta (l'accordo di Londra del 1945), nel
caso d'Israele è la legge del 1950. La questione non era dunque la retroattività
(che del resto in leggi simili è alquanto logica), ma l'adeguatezza o meno: si
trattava cioè di vedere se la legge valeva soltanto per crimini di nuovo tipo.
Questo presupposto fondamentale di ogni legislazione retroattiva era stato
gravemente calpestato dalla Carta che aveva portato alla creazione del
Tribunale militare internazionale di Norimberga. La Carta accordava la
giurisdizione su tre generi di reati: i «crimini contro la pace,» che il
Tribunale di Norimberga definì «il supremo crimine internazionale... nel senso
che racchiude in sé tutti gli altri mali»; i «crimini di guerra» e i «crimini contro
l'umanità.» Di questi, soltanto gli ultimi erano nuovi e senza precedenti. La
guerra d'aggressione era sempre esistita, ma benché già in passato fosse stata
più volte denunziata come «criminale,» ancora non era mai stata dichiarata tale
ufficialmente.
« I crimini di
guerra,» che sicuramente non avevano meno precedenti dei «crimini contro la
pace,» erano già considerati dal diritto internazionale.
Il
bombardamento a tappeto di città aperte e soprattutto le bombe atomiche
sganciate su Hiroshima e Nagasaki erano evidenti crimini di guerra.
Se la
distruzione delle città tedesche era stata provocata (dai bombardamenti di
Londra, di Coventry, di Rotterdam), ciò non si poteva dire dell'uso delle bombe
atomiche, armi nuovissime e potentissime la cui realizzazione avrebbe potuto
essere annunziata e dimostrata in molti altri modi. E' certo che se le
violazioni della convenzione dell'Aja commesse dagli Alleati non furono mai
discusse in termini giuridici, fu soprattutto perché il Tribunale militare
internazionale era internazionale solo di nome, in realtà era il tribunale dei
vincitori, e l'autorità dei suoi verdetti non fu certo accresciuta quando la
coalizione che aveva vinto la guerra e organizzato i processi si scisse, per
citare Otto Kirchheimer, «prima ancora che l'inchiostro si asciugasse sulle
sentenze.» Ma questa non fu né l'unica ragione né forse la più potente, e non è
menzogna dire che il Tribunale di Norimberga fu per lo meno molto cauto nel
muovere ai criminali tedeschi accuse che potevano essere ritorte. La verità è
infatti che alla fine della seconda guerra mondiale tutti sapevano che i
progressi tecnici compiuti nella fabbricazione delle armi rendevano ormai
«criminale» qualsiasi guerra. Proprio la distinzione tra soldati e civili, tra
esercito e popolazione, tra obiettivi militari e città aperte, su cui si
fondavano le definizioni che dei crimini di guerra aveva dato la convenzione
dell'Aja, proprio quella distinzione era ormai antiquata. Stando così le cose,
ci si rendeva conto che crimini di guerra potevano essere considerati soltanto
quelli non dettati da necessità militari, dove si poteva dimostrare un intento
malvagio.
La crudeltà gratuita poteva dunque servire per determinare ciò
che, nelle nuove circostanze, costituiva crimine di guerra.
Ma questo criterio non era valido, benché
purtroppo fosse adottato, per definire gli unici crimini di tipo veramente
nuovo, quelli «contro l'umanità,» che secondo la Carta (articolo 6-c) erano
«atti disumani» quasi che anche qui si trattasse di eccessi criminosi nella
condotta della guerra e nel tripudio della vittoria.
Comunque sia, non fu certo questo genere già ben noto di
misfatti a indurre gli Alleati a dichiarare, per dirla con Churchill, che la
«punizione dei criminali di guerra» era «una delle principali finalità della
guerra,» ma, al contrario, furono i rapporti sulle inaudite atrocità, sullo
sterminio di intere popolazioni, sulla «ripulitura» d'intere regioni; cioè non
tanto crimini che «nessuna concezione delle necessità militari» poteva sostenere,
quanto crimini che in realtà erano indipendenti dalla guerra e annunziavano una
politica di sistematico sterminio da continuare anche in tempo di pace. Questi
crimini effettivamente non erano considerati dal diritto internazionale o
nazionale.
«La categoria dei crimini contro l'umanità che la Carta aveva
fatto entrare da una piccolissima porta evaporò in virtù della sentenza del
tribunale»; ma» i giudici non furono più coerenti della Carta. Infatti, sebbene
preferissero insistere, come dice Kirchheimer, sui crimini di guerra «in quanto
che abbracciavano tutti i crimini tradizionali, sminuendo il più possibile le
accuse di crimini contro l'umanità,» quando dovettero pronunziare la sentenza
rivelarono i loro veri sentimenti comminando la massima pena, la morte,
soltanto a chi aveva commesso atrocità eccezionali, cioè delitti «contro
l'umanità.»
Donnedieu de
Vabres, Le Procès de Nuremberg, 1947.
Delitti «contro la condizione umana.»
François de
Menthon
La sentenza del
Tribunale di Gerusalemme rilevò che ora, per la prima volta, la catastrofe
ebraica era «al centro del dibattimento,» e che proprio questo fatto
distingueva l'attuale processo da quelli che, a Norimberga o altrove,l’avevano
preceduto. Ma nel migliore dei casi ciò era vero solo a metà. Era stata proprio
la catastrofe ebraica a indurre gli Alleati a creare il concetto di «crimine
contro l'umanità,» poiché come ha scritto Julius Stone in “Legal Controls of
International Conflict” (1954), «lo sterminio degli ebrei, quando questi erano
cittadini tedeschi, poteva essere colpito solo a titolo di crimine contro
l'umanità.» E se il Tribunale di Norimberga non aveva potuto fare piena
giustizia per ciò che riguarda questi crimini, non era stato perché le vittime
erano ebrei, ma perché la Carta esigeva che questi delitti (avendo così poco a
che fare con la guerra da pregiudicarne e ostacolarne la condotta) venissero
collegati ad altri.
Se lo sterminio era divenuto una faccenda «internazionale,» nel
senso limitato, giuridico, della Carta di Norimberga, la ragione era stata la
dispersione dei popolo ebraico. Ora che invece gli ebrei avevano un proprio
territorio, lo Stato d'Israele, ovviamente essi avevano il diritto di giudicare
i crimini commessi contro di loro esattamente come i polacchi avevano il
diritto di giudicare quelli commessi in Polonia. Perciò tutte le obiezioni
sollevate contro il processo di Gerusalemme in base al principio della
giurisdizione territoriale erano sottigliezze irrilevanti.
Non c'era infatti il minimo dubbio che gli ebrei erano stati
massacrati in quanto ebrei, senza tener conto della nazionalità che avevano in
quel momento, ed anche se è vero che i nazisti uccisero molti ebrei che avevano
rinnegato la propria origine etnica, preferendo morire per esempio come
francesi o tedeschi, anche in questi casi non si poteva far giustizia che
tenendo conto delle intenzioni e degli scopi degli assassini.
Un giudice può
detestare il crimine e tuttavia essere leale verso il criminale. L'avvocato che
difende un omicida non difende l'omicidio.
Nell'interesse
della giustizia (la giustizia distinta
dalle norme di procedura, che per quanto importanti non devono mai sopraffarla),
la Corte per giustificare la propria competenza non aveva bisogno d'invocare né
il principio della «personalità passiva» (le vittime erano ebrei e perciò
soltanto Israele era autorizzato a parlare in loro nome), né quello della
giurisdizione universale (applicare ad Eichmann, in quanto “hostis generis
humani”, le norme valide contro la pirateria.
Il principio
della personalità passiva, che a Gerusalemme fu confortato dalla dotta opinione
di P. N. Drost (“Crime of State”, 1959), dice che in certe circostanze «il
“forum patriae victimae” può essere competente a giudicare il caso,» ma
sfortunatamente implica che la procedura penale sia iniziata dal governo a nome
delle vittime, le quali, si presume, hanno il diritto di essere vendicate. E
questa fu in effetti la posizione dell'accusa, e il signor Hausner cominciò il
suo discorso d'apertura con le seguenti parole:
«Se io di
fronte a voi, giudici d'Israele, mi levo in quest'aula ad accusare Adolf
Eichmann, non mi levo solo. Assieme a me si levano in questo momento sei
milioni di accusatori. Ma ahimè, essi non possono puntare il dito contro la
gabbia di vetro e gridare “J'accuse” contro l'uomo lì seduto... Il loro sangue
grida vendetta al cielo, ma la loro voce non può essere udita. E così tocca a
me fare il loro portavoce e pronunziare in loro nome la terribile
requisitoria.»
Ma con questa retorica Hausner dette un potente sostegno alla
più grave delle critiche mosse al processo: che cioè il processo si faceva per
soddisfare non un'esigenza di giustizia, ma il desiderio o magari il diritto
delle vittime di essere vendicate.
La procedura penale si fonda su leggi la cui essenza - per
citare le parole usate da Telford Taylor sul “New York Times Magazine” - è che
«un crimine non è commesso soltanto contro la vittima, ma anche e soprattutto
contro la comunità di cui viene violata la legge.» Il malfattore è tradotto in
giudizio perché la sua azione ha turbato e gravemente danneggiato la comunità
nel suo complesso, e non perché, come nelle cause civili, il danno è stato
fatto a individui che hanno diritto al risarcimento. Il risarcimento, nelle
cause penali, è di natura completamente diversa; è la società che deve essere
«risarcita,» ed è l'ordine pubblico generale che, essendo stato turbato,
dev'essere per così dire «riparato.» In altre parole, è la legge e non il
querelante che deve prevalere.
Ancor meno
giustificata del tentativo dell'accusa di ricorrere al principio della
personalità passiva fu la tendenza della Corte a dichiararsi competente in nome
della giurisdizione universale. Questa pretesa era in aperto contrasto con la
condotta stessa del processo, nonché con la legge in base alla quale Eichmann
era processato.
I crimini
imputati ad Eichmann si commettono e si possono commettere solamente sotto un
“regime” criminale e in uno “Stato” criminale.
la Convenzione
sul genocidio approvata dall'Assemblea generale dell'ONU il 9 dicembre 1948
respinse esplicitamente il ricorso al principio della giurisdizione universale,
stabilendo invece che le «persone accusate di genocidio» siano giudicate «da un
tribunale competente dello Stato nel cui territorio l'atto è stato commesso, o
da una Corte internazionale che abbia giurisdizione.» In base a questa
convenzione, firmata anche da Israele, il
Tribunale di Gerusalemme avrebbe dovuto o chiedere la costituzione di una Corte
internazionale, o ridefinire il principio territoriale. Entrambe le alternative
rientravano in fondo nelle sue possibilità e nella sua competenza.
L'idea di
costituire una Corte internazionale fu sbrigativamente messa da parte per
ragioni sui cui torneremo più avanti. Ma se non si cercò neppure di riformulare
il principio territoriale (sicché il Tribunale finì coi dichiararsi competente
in base a tutti e tre i princìpi - quello territoriale, quello della
personalità passiva e quello della giurisdizione universale -, come se la somma
di tre cose cosi diverse potesse dare un principio valido), ciò fu dovuto
certamente anche al fatto che tutti gli interessati erano quanto mai riluttanti
ad avventurarsi su un terreno vergine e ad agire senza il sostegno di
precedenti.
La sentenza
riportò in appendice l'interpretazione ufficiale che della legge del 1950 aveva
dato Pinhas Rosen, allora ministro della giustizia, il quale non avrebbe potuto
esprimersi in maniera più chiara e meno equivoca: «Mentre altri popoli hanno
approvato leggi speciali contro i nazisti e i collaborazionisti subito dopo la
guerra, e in certi casi ancor prima della fine della guerra, il popolo
ebraico... non ha avuto l'autorità politica per tradurre in giudizio i
criminali nazisti e i collaborazionisti fino a quando non è stato creato lo
Stato.» Perciò il processo Eichmann differì dagli altri soltanto per una cosa:
L’imputato non
era stato regolarmente arrestato e consegnato a Israele, ma, al contrario, per
tradurlo in giudizio era stata commessa una palese violazione del diritto
internazionale. Già abbiamo spiegato come Israele avesse potuto rapire Eichmann
impunemente soltanto perché egli era di fatto un apolide.
Israele aveva
dunque veramente violato il principio territoriale, il cui grande significato è
che la terra è abitata da molti popoli retti da leggi diverse e che ogni
estensione della legge di un territorio al di là dei confini geografici e dei
limiti della sua validità porta direttamente a un conflitto con la legge di un
altro territorio. Non si poteva fare altrimenti se si voleva tradurre Eichmann
in giudizio sicché a partire dal 7 maggio 1960 Eichmann non poteva più essere
espulso legalmente. In breve, tutte le vie legali erano precluse. Coloro che
sono convinti che la giustizia e nient'altro sia il fine della legge, saranno
portati a perdonare il rapimento, ché sia un atto dettato dall'insufficienza
del diritto internazionale. Da questo punto di vista, esisteva solo
un'alternativa concreta a ciò che Israele aveva fatto: invece di catturare Eichmann
e di portarlo in volo a Gerusalemme, gli agenti israeliani avrebbero potuto
ucciderlo sul posto, nelle vie di Buenos Aires.
L'idea non era
ingiustificata, poiché le colpe di Eichmann erano fuori discussione, ma chi la
caldeggiava dimenticava che colui che
vuol prendere la legge nelle sue mani può rendere giustizia soltanto se
trasforma la situazione in modo che la legge possa di nuovo operare e in modo
che la sua azione, magari anche a cose fatte, divenga legittima. E qui
vengono subito a mente due precedenti verificatisi in un passato non molto
lontano. Uno è quello di Shalom Schwartzbard, che il 25 maggio 1926, a Parigi,
uccise a colpi di arma da fuoco Simon Petljura, già comandante delle armate
ucraine e responsabile di quei pogrom che durante la guerra civile russa, tra
il 1917 e il 1920, avevano mietuto circa centomila vittime. L'altro è il caso
dell'armeno Tehlirian, che nel 1921, nel centro di Berlino, colpì a morte
Talaat Bey, il grande sterminatore responsabile dei pogrom del 1915, nel corso
dei quali quasi un terzo (seicentomila) degli armeni residenti in Turchia erano
stati massacrati. Orbene, entrambi questi attentatori non si accontentarono di
uccidere il «loro» criminale, ma subito dopo si costituirono chiedendo di
essere processati. Entrambi sfruttarono il proprio processo per mostrare al
mondo quali crimini fossero stati impunemente commessi contro intere
popolazioni. Soprattutto nel caso Schwartzbard i metodi usati al processo
furono molto simili a quelli del processo Eichmann. Anche lì i crimini furono
documentati e illustrati nel modo più ampio possibile, con la differenza, però,
che ciò fu fatto non dall'accusa ma dalla difesa (la quale utilizzò il
materiale raccolto in un anno e mezzo di lavoro.
Gli attentatori furono tutti e due assolti,
e in entrambi i casi il mondo sentì che
il loro gesto significava che la loro razza «aveva finalmente deciso di
difendersi, di abbandonare l'abdicazione morale e di vincere la rassegnazione
di fronte ai soprusi,» secondo la splendida frase usata da Georges Suarez a
proposito di Shalom Schwartzbard.
Un processo: Non è «uno spettacolo con esito prefissato,» ma
contiene sempre quell'«irriducibile rischio» che secondo Kirchheimer è elemento
indispensabile di ogni dibattimento giudiziario.
L'avvento dello
Stato d'Israele garantì la nascita di un tribunale per giudicare crimini che
tanto spesso rimanevano impuniti.
Le analogie tra il processo Schwartzbard celebrato a Parigi nel
1927 e il processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961 mostrano quanto
poco Israele e il popolo ebraico in generale fossero disposti a riconoscere nei
crimini contestati ad Eichmann dei delitti senza precedenti, e quanto difficile
dovette essere per loro convincersene. Agli occhi degli ebrei, che vedevano le cose
soltanto dal punto di vista della loro storia, la catastrofe che si era
abbattuta su di loro al tempo di Hitler e in cui un terzo della stirpe aveva
trovato la morte non era un crimine nuovo, il crimine senza precedenti del
genocidio, ma al contrario il più antico crimine che conoscessero e
ricordassero.
La radice dei difetti e delle manchevolezze del processo di
Gerusalemme. Nessuno degli interessati arrivò a capir
bene che l'orrore di Auschwitz era stato diverso da tutte le atrocità del
passato; perfino l'accusa e i giudici erano portati a considerare quella
vicenda come il più orribile pogrom della storia ebraica. Perciò essi credevano
che esistesse una linea di congiunzione diretta tra l'antisemitismo dei primi
tempi del partito nazista e le leggi di Norimberga, tra l'espulsione degli
ebrei dal Reich e le camere a gas. E invece, politicamente e giuridicamente,
questi crimini erano diversi non solo per gravità, ma anche nella loro essenza.
Le leggi di Norimberga del 1935 avevano legalizzato la
discriminazione che di fatto la maggioranza tedesca già praticava contro la
minoranza ebraica.
Le leggi di Norimberga furono un crimine «nazionale»; violavano
i diritti e le libertà nazionali, costituzionali, ma non interessavano il
consesso delle nazioni. Ma l'«emigrazione forzata»
ossia l'espulsione, che divenne politica ufficiale della Germania dopo il 1938,
interessava tutte le nazioni, per la semplice ragione che gli espulsi si
presentavano alle frontiere di altri paesi e questi erano costretti o ad
accogliere quegli ospiti non invitati o a spedirli in altri paesi ugualmente
poco disposti ad accettarli. In altre parole, quando uno Stato espelle propri cittadini commette già un crimine
contro l'umanità, se per «umanità» s'intende semplicemente il
conesso delle nazioni.
Ora, tanto il
crimine nazionale costituito dalla discriminazione legalizzata (che poi si
riduce a persecuzione legalizzata), quanto il crimine internazionale costituito
dall'espulsione, avevano già dei precedenti, anche nell'età moderna.
Fu quando il regime nazista dichiarò di voler non soltanto
deportare tutti gli ebrei dalla Germania, ma fare sparire tutto il popolo ebraico
dalla faccia della terra, fu allora che prese forma il crimine nuovo, il
crimine contro l'umanità, nel senso di delitto commesso contro la condizione
umana ovvero contro il complesso degli esseri umani. L'espulsione e il
genocidio, sebbene siano entrambi delitti internazionali, devono rimanere
distinti; la prima è un crimine contro le altre nazioni, mentre il secondo è un
attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della
«condizione umana» senza
la quale la stessa parola «umanità» si svuoterebbe di ogni significato.
Se la Corte di Gerusalemme avesse capito che c'è una differenza
tra discriminazione, espulsione e genocidio, avrebbe subito visto chiaramente
che il crimine supremo che essa doveva giudicare, lo sterminio fisico degli
ebrei, era un crimine contro l'umanità, perpetrato sul corpo del popolo
ebraico; e avrebbe anche visto che solo la scelta delle vittime, ma non la
natura del crimine, poteva ricondursi all'antico odio per gli ebrei e
all'antisemitismo. Orbene, se le vittime erano ebrei, la Corte aveva tutto il
diritto di giudicare; ma nella misura in cui il crimine era un crimine contro
l'umanità, per far giustizia occorreva un tribunale internazionale.
Alcune voci
autorevoli misero in dubbio la
competenza del Tribunale di Gerusalemme dicendosi favorevoli a un tribunale
internazionale. Ché il crimine riguardava tutta l'umanità, tutte le nazioni
dovevano essere ammesse a giudicarlo. Queste voci proponevano che il Tribunale
di Gerusalemme, dopo avere esaminato le prove concrete, rinunciasse al diritto
di pronunziare la sentenza dichiarandosi «incompetente»: questo perché incerta
era ancora la natura del crimine e perché non si sapeva chi fosse competente a
giudicare delitti commessi per ordine di un governo. Egli affermava inoltre che
una cosa sola era certa: quel crimine era «qualcosa di più e insieme qualcosa
di meno di un assassinio ordinario,» e, sebbene non fosse neppure un crimine di
guerra, «l'umanità perirebbe se si permettesse agli Stati di commettere delitti
simili.
Lo Stato d’Israele avrebbe potuto rinunziare al suo diritto di
eseguire la sentenza, dato che dato che la
procedura adottata non aveva precedenti. In tal caso Israele avrebbe potuto
ricorrere all'ONU e dimostrare, prove alla mano, che un tribunale penale
internazionale permanente era indispensabile per questi nuovi delitti contro
l'umanità nel suo complesso; e se gli altri Stati non gli avessero dato
ascolto, avrebbe potuto metterli in imbarazzo chiedendo che cosa dovesse fare
del prigioniero e ripetendo la domanda in continuazione, in modo da smuovere
l'opinione pubblica mondiale: allora sarebbe veramente riuscito a far sì che
l'umanità non «si adagiasse» e a impedire che il massacro degli ebrei potesse
divenire un giorno il «modello» di altri crimini, di un genocidio effettuato
forse su scala ancor più vasta.
Quando invece è
un tribunale di una sola nazione a giudicare, certi fatti, anche se mostruosi,
vengono «minimizzati.»
Perché non
giudicarlo dinanzi a una Corte internazionale?',» è anche vero che coloro che
rivolgevano questa domanda non capivano che per Israele una cosa sola era senza
precedenti in questo processo: per la prima volta dal 70 d.C., cioè da quando i
romani avevano distrutto Gerusalemme, gli ebrei potevano sedere in giudizio per
giudicare crimini commessi contro il loro popolo; per la prima volta non
avevano bisogno di appellarsi ad altri per ottenere protezione e giustizia, né
ricorrere alla svalutata fraseologia dei diritti dell'uomo. Nessuno meglio di
loro sapeva che quei diritti erano reclamati soltanto da persone troppo deboli
per difendersi e per imporre una propria legge.
Il fatto che Israele avesse ora una propria legge segnava una
«svolta rivoluzionaria» nella «posizione politica del popolo ebraico.»
Inoltre, la tesi
secondo cui il crimine contro il popolo ebraico era prima di tutto un crimine
contro l'umanità (tesi su cui si fondavano le uniche proposte veramente valide
d'istituire un tribunale internazionale) era in flagrante contrasto con la
legge in base alla quale Eichmann era giudicato. Perciò chi proponeva che
Israele rinunziasse al suo prigioniero avrebbe dovuto andare un passo oltre a
dire: la legge del 1950 contro i nazisti e i collaborazionisti è errata, è
incoerente, è inadeguata. E sarebbe stata la verità: ché come l'assassino è
processato perché ha violato la legge della comunità, e non perché ha privato
del marito, padre famiglia tal dei tali, così questi moderni assassini di
massa, al servizio dello stato, devono essere processati perché hanno violato l'ordine
dell'umanità, non perché hanno ucciso milioni di persone.
Nulla è più nocivo alla comprensione di questi nuovi delitti, e
nulla ostacola di più l'instaurazione di un codice penale internazionale,
quanto la comune illusione che il crimine dell'omicidio e il crimine del
genocidio siano in sostanza la stessa cosa, e che perciò il secondo non sia
propriamente una novità. Il secondo viola un ordine del tutto diverso e lede
una comunità del tutto diversa.
A noi sembra di
poter predire con sufficiente sicurezza che questo processo, in futuro, servirà
assai poco da valido precedente: forse ancor meno degli altri processi contro
criminali nazisti. Ciò non conterebbe poi molto, visto che lo scopo principale
è stato raggiunto (processare, difendere, giudicare e punire Adolf Eichmann),
se non ci fosse la spiacevolissima
possibilità che un giorno si commettano crimini analoghi.
Questa fosca possibilità non è affatto da escludere, per ragioni
sia generali che particolari. E' nella natura delle cose che ogni azione umana
che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa
ripetersi anche quando ormai appartiene a un lontano passato. Nessuna pena ha
mai avuto il potere d'impedire che si commettano crimini. Al contrario, quale
che sia la pena, quando un reato è stato commesso una volta, la sua ripetizione
è più probabile di quanto non fosse la sua prima apparizione.
E le ragioni particolari per cui non è da escludere che qualcuno
faccia un giorno ciò che hanno fatto i nazisti, sono ancor più plausibili.
L'enorme incremento demografico dell'èra moderna coincide con l'introduzione
dell'automazione, che renderà «superflui» anche in termini di lavoro grandi
settori della popolazione mondiale; e coincide anche con la scoperta
dell'energia nucleare, che potrebbe invogliare qualcuno a rimediare a quei due
pericoli con strumenti rispetto ai quali le camere a gas di Hitler
sembrerebbero scherzi banali di un bambino cattivo. E' una prospettiva che
dovrebbe farci tremare.
Proprio per questa possibilità di una ripetizione bisognerebbe
che tutti i processi riguardanti «crimini contro l'umanità» venissero condotti
con criteri che fossero il più possibile «ideali.» Se il genocidio può
ripetersi in futuro, nessun popolo della terra (meno di tutti il popolo
ebraico, in Israele o altrove) dovrebbe sentirsi sicuro di poter continuare a
vivere, senza l'aiuto e la protezione di una legge internazionale. Quando ci si
occupa di un reato senza precedenti, il successo o il fallimento dipendono
soltanto dalla misura in cui i criteri che si adottano possono servire da
valido precedente per costruire un codice penale internazionale. Naturalmente,
non si deve esagerare e pretendere dai giudici più di ciò che è ragionevole
attendersi. Il diritto internazionale, come osservò il giudice Jackson a
Norimberga, «nasce da una massa di trattati e accordi tra varie nazioni, e da
usanze riconosciute. Ma ogni usanza ha la sua origine in qualche azione
singola... La nostra epoca ha il diritto di istituire usanze e di concludere accordi
che divengano la fonte di un diritto internazionale più moderno e più solido.»
Quello che Jackson mancò di notare è però che a causa dell'attuale
insufficienza del diritto internazionale, i giudici comuni sono oggi costretti
a render giustizia senza l'aiuto o al di là dei limiti posti dal diritto
positivo vigente. I giudici possono dunque trovarsi in grave imbarazzo, ed
avrebbero perfettamente ragione a far presente che non tocca a loro, ma al
legislatore, emanare la «legge speciale.» E in effetti, prima di parlare di un
successo o di un fallimento del processo di Gerusalemme dobbiamo sottolineare
che i giudici israeliani avevano piena coscienza di non avere il diritto di
divenire legislatori, sentivano di dover lavorare da un lato entro i limiti
della legge israeliana e dall'altro entro i limiti dei concetti giuridici
vigenti. E bisogna anche riconoscere che i difetti del processo non furono né
diversi né maggiori di quelli del processo di Norimberga o dei processi
celebrati contro criminali nazisti in altri paesi d'Europa. Anzi, questi
difetti furono in parte dovuti proprio al fatto che i giudici cercarono di
attenersi il più possibile al precedente di Norimberga. Insomma, se il
Tribunale di Gerusalemme in qualcosa fallì, fu perché non si affrontarono e non
si risolsero tre questioni fondamentali, tutte e tre già ben note e ampiamente
discusse fin dal tempo dell'istituzione del Tribunale militare di Norimberga:
evitare di celebrare il processo dinanzi alla Corte dei vincitori; dare una
valida definizione dei «crimini contro l'umanità»; capire bene la figura del
criminale che commette questo nuovo tipo di crimini. Quanto alla prima
questione, la giustizia fu compromessa a Gerusalemme più gravemente di quanto
non fosse avvenuto a Norimberga, perché la Corte non ammise i testimoni della
difesa. Almeno per l'idea tradizionale che si ha della lealtà e correttezza di
un processo, questa fu una mancanza gravissima.
La sentenza non permise che la natura del crimine annegasse e si
dissolvesse in una fiumana di atrocità, né cadde nella trappola di porre questo
crimine sullo stesso piano dei comuni crimini di guerra.
Il grande merito di imperniare un processo su un crimine contro
il popolo ebraico è stato dunque innanzitutto quello di far risaltare con
chiarezza la differenza (che ora potrà ben essere inserita in un futuro codice
penale internazionale) tra crimini di guerra come la fucilazione di partigiani
e l'uccisione di ostaggi, e «azioni disumane» come l'espulsione e
l'annientamento di popolazioni al fine di «colonizzare» i loro territori; ma
poi anche quello di chiarire la differenza tra «azioni disumane» (compiute per
scopi noti, anche se criminosi, come l'espansionismo territoriale) e «crimini
contro l'umanità,» crimini commessi con intenti e scopi che finora non avevano
precedenti. Tuttavia, né nel dibattimento né nella sentenza nessuno accennò mai
alla possibilità che lo sterminio di interi gruppi etnici fosse qualcosa di più
che un crimine contro ciascuno di quei popoli : e cioè colpisse e danneggiasse
gravemente l'ordine internazionale, l'umanità nella sua interezza. Strettamente
connessa a questo fatto fu l'incapacità dei giudici di capire veramente il
criminale che avevano dinanzi, sebbene questo fosse il loro primo dovere. Non
basta che essi non seguissero l'accusa che, evidentemente errando, aveva
presentato l'imputato come un «sadico perverso». Ma il guaio del caso Eichmann
era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal
punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici,
questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché
implica - come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro
patroni - che questo nuovo tipo di criminale, realmente “hostis generis
humani”, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di
accorgersi o di sentire che agisce male.
L’unica prova concreta del fatto che i nazisti non avevano la coscienza
a posto era che negli ultimi mesi di guerra essi si erano dati da fare per
distruggere ogni traccia dei crimini, soprattutto di quelli commessi dalle
organizzazioni a cui apparteneva anche Eichmann. E questa prova non era poi
molto solida. Dimostrava soltanto che i nazisti sapevano che la legge dello
sterminio, data la sua novità, non era ancora accettata dalle altre nazioni;
ovvero, per usare il loro stesso linguaggio, sapevano di aver perduto la
battaglia per «liberare» l'umanità dal «dominio degli esseri inferiori.»
Questo fatto dimostrava che essi riconoscevano di essere stati
sconfitti. Se avessero vinto, qualcuno di loro si sarebbe sentito colpevole?
Tra i più grandi problemi del processo Eichmann, uno supera per importanza
tutti gli altri. Tutti i sistemi giuridici moderni partono dal presupposto che
per commettere un crimine occorre l'intenzione di fare del male. Se c'è una
cosa di cui la giurisprudenza del mondo civile si vanta, è proprio di tener
conto del fattore soggettivo. Quando manca questa intenzione, quando per
qualsiasi ragione (anche di alienazione mentale) la capacità di distinguere il
bene dal male è compromessa, noi sentiamo che non possiamo parlare di crimine.
Noi respingiamo e consideriamo barbariche le tesi «che un delitto grave offende
la natura sicché la terra stessa grida vendetta; che il male viola un'armonia
naturale che può essere risanata soltanto con la rappresaglia; che una comunità
offesa ha il dovere di punire il criminale in nome di un ordine morale» (Yosal
Rogat). E tuttavia a noi sembra innegabile che fu proprio in base a questi
principi antiquati che Eichmann venne tradotto in giudizio, e che questi
princìpi furono la più vera ragione della sua condanna a morte.
Se è vero che «la giustizia non solo va fatta, ma si deve anche
vedere,» tutti avrebbero visto che il processo di Gerusalemme era giusto se i
giudici avessero avuto il coraggio di rivolgersi all'imputato più o meno come
segue: «Tu hai ammesso che il crimine commesso contro il popolo ebraico
nell'ultima guerra è stato il più grande crimine della storia, ed hai ammesso
di avervi partecipato. Ma tu hai detto di non aver mai agito per bassi motivi,
di non aver mai avuto tendenze omicide, di non aver mai odiato gli ebrei, e
tuttavia hai sostenuto che non potevi agire altrimenti e che non ti senti
colpevole. A nostro avviso è difficile, anche se non del tutto impossibile,
credere alle tue parole; in questo campo di motivi e di coscienza vi sono
contro di te alcuni elementi, anche se non molti, che possono essere provati al
di là di ogni ragionevole dubbio. Tu hai anche detto che la parte da te avuta
nella soluzione finale fu casuale e che, più o meno, chiunque altro avrebbe
potuto prendere il tuo posto: sicché quasi tutti i tedeschi sarebbero
ugualmente colpevoli, potenzialmente. Ma il senso del tuo discorso era che dove
tutti o quasi tutti sono colpevoli, nessuno lo è. Questa è in verità un'idea
molto comune, ma noi non siamo disposti ad accettarla. E se tu non comprendi le
nostre obiezioni, vorremmo ricordarti la storia di Sodoma e di Gomorra, di cui
parla la Bibbia: due città vicine che furono distrutte da una pioggia di fuoco
perché tutti gli abitanti erano ugualmente colpevoli. Tutto questo, sia detto
per inciso, non ha nulla a che vedere con la nuova idea della 'colpa
collettiva,' secondo la quale gli individui sono o si sentono colpevoli di cose
fatte in loro nome ma non da loro, cose a cui non hanno partecipato e da cui
non hanno tratto alcun profitto. In altre parole, colpa e innocenza dinanzi
alla legge sono due entità oggettive, e quand'anche ottanta milioni di tedeschi
avessero fatto come te, non per questo tu potresti essere scusato.
«Fortunatamente non è così. Tu stesso hai affermato che solo in potenza i
cittadini di uno Stato che aveva eretto i crimini più inauditi a sua principale
finalità politica erano tutti ugualmente colpevoli; non in realtà. E quali che
siano stati gli accidenti esterni o interiori che ti spinsero a divenire un
criminale, c'è un abisso tra ciò che tu hai fatto realmente e ciò che gli altri
potevano fare, tra l'attuale e il potenziale. Noi qui ci occupiamo soltanto di
ciò che tu hai fatto, e non dell'eventuale non-criminalità della tua vita
interiore e dei tuoi motivi, o della potenziale criminalità di coloro che ti
circondavano. Tu ci hai narrato la tua storia presentandocela come la storia di
un uomo sfortunato, e noi, conoscendo le circostanze, siamo disposti fino a un
certo punto ad ammettere che in circostanze più favorevoli ben difficilmente tu
saresti comparso dinanzi a noi o dinanzi a qualsiasi altro tribunale. Ma anche
supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario
strumento dello sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò
attivamente appoggiato una politica di sterminio.
La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare
sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica
il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con
varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di
stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno,
cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per
questo, tu devi essere impiccato.»
Appendice
Le polemiche sul caso Eichmann.
La manipolazione dell'opinione pubblica, essendo ispirata da
interessi ben precisi, ha di regola obiettivi limitati; tuttavia, se per caso
arriva a toccare questioni profonde, sfugge al controllo e conduce a risultati
imprevisti o non voluti. Ora si è visto che l'epoca hitleriana, con i suoi
crimini enormi e senza precedenti, costituisce un passato che «sfugge» non solo
al popolo tedesco o agli ebrei di tutto il mondo, ma anche al resto
dell'umanità che non ha dimenticato la catastrofe e non è riuscito a venire a
patti con essa. Inoltre (e questo era forse ancor meno previsto) tra gli
interessi dei pubblico sono emerse improvvisamente in primo piano le grandi
questioni morali, in tutta la loro complessità e con tutte le loro
complicazioni - questioni che io non avrei mai sospettato che perseguitassero
l'uomo odierno e avessero per lui tanto peso.
Chi si accinge a scrivere il resoconto di un processo sa che
deve parlare soltanto delle questioni che sono state affrontate al processo, o
che almeno avrebbero dovuto essere affrontate nell'interesse della giustizia.
Se per combinazione la situazione generale del paese in cui si svolge un dato
processo influisce sulla condotta del processo medesimo, anche di questo fatto
si deve tener conto. Il presente libro non è dunque la storia dei più grande
disastro che si sia mai abbattuto sul popolo ebraico, né un saggio sulle
dittature, né una storia del popolo tedesco al tempo del Terzo Reich, e tanto
meno un trattato teorico sulla natura del male. Al centro di ogni processo c'è
la figura dell'imputato, il quale è un individuo in carne ed ossa, con una sua
storia personale, con un complesso particolare di qualità, di modi di agire e
di reagire. Tutte le altre cose, come nel caso specifico la storia del popolo ebraico
nella diaspora, l'antisemitismo, il comportamento dei tedeschi e di altri
popoli o le ideologie dell'epoca e l'apparato governativo del Terzo Reich,
interessano il processo solo nella misura in cui servono a precisare lo sfondo
e le circostanze in cui l'imputato ha commesso i reati che gli sono contestati.
Tutte le cose con cui l'imputato non è entrato in contatto o che non hanno
influito su di lui devono essere escluse dal dibattimento, e di conseguenza dal
resoconto del processo.
Le pene sono necessarie «per difendere l'onore o il prestigio di
chi ha subìto un torto, in modo che la mancanza di una punizione non determini
la sua degradazione.
Naturalmente, non c'è dubbio che l'imputato e le sue colpe, come
pure il processo, sollevano problemi d'ordine generale che vanno molto al di là
delle questioni affrontate a Gerusalemme. Io ho cercato di approfondire alcuni
di questi problemi nell'Epilogo, dove il mio discorso non è più un semplice
“reportage”. Non mi sarei affatto meravigliata se qualcuno avesse trovato
insufficiente la mia trattazione e sarei stata lieta se si fosse accesa una
discussione su tutta la vicenda, discussione tanto più proficua quanto più
legata ai fatti. Neppure mi sarei stupita se si fosse scatenata una polemica
sul titolo del libro: ché quando io parlo della «banalità del male,» lo faccio
su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e
nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che «fare il cattivo» per
fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel
pensare alla propria carriera. Egli non aveva motivi per essere crudele, e
anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai
ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere,
egli “non capì mai che cosa stava facendo”. In linea di principio sapeva
benissimo quale era la questione, e nella sua ultima dichiarazione alla Corte
parlò di un «riesame dei valori» imposti dal governo nazista. Non era uno
stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità),
e tale mancanza d'idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei
più grandi criminali di quel periodo. E se questo è «banale», se con tutta la
nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o
demoniaca, ciò non vuol dire che la sua situazione e il suo atteggiamento
fossero comuni.
Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d'idee possono
essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati
nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una
spiegazione del fenomeno, né una teoria.
Apparentemente più complessa, ma in realtà molto più semplice di
quella della strana interdipendenza tra mancanza d'idee e male, è la questione
del tipo di crimine commesso - un tipo di crimine che per giunta, per unanime
riconoscimento, non aveva precedenti. Il nuovo concetto di «genocidio» vale
solo fino a un certo punto, perché il massacro d'interi popoli ha in fondo dei precedenti.
Più appropriata sembrerebbe semmai l'espressione «massacri
amministrativi.» Se l'espressione è più appropriata, è perché ha il pregio di
fugare il pregiudizio che certe mostruosità possano essere commesse soltanto ai
danni di una nazione straniera o di una razza diversa. È evidente
che questo tipo di sterminio può essere diretto contro qualsiasi gruppo, e che
il principio con cui viene effettuata la selezione dipende esclusivamente dalle
circostanze. Non è affatto escluso che nell'economia automatizzata di un futuro
non troppo lontano gli uomini siano tentati di sterminare tutti coloro il cui
quoziente d'intelligenza sia al di sotto di un certo livello (Questa selezione si
stima essere disumana, ingiusta e labile poiché limitata ad un criterio di giudizio
(il “livello di intelligenza”) estraneo al conferimento di valore ed alla
attenta valutazione di qualità intellettive, creative ed umane incomputabili che
il “quoziente di intelligenza” potrebbe sottovalutare o tracurare.)
A Gerusalemme la questione fu discussa in maniera inadeguata; e
in verità si tratta di una questione difficilissima dal punto di vista
giuridico La difesa affermò che in fondo Eichmann non era che una «piccola
rotella» del gran macchinario della soluzione finale; l'accusa sostenne invece
che Eichmann era stato la rotella principale. Io personalmente non attribuii
alle due tesi più importanza di quella che le attribuisse la Corte di
Gerusalemme, poiché tutta la «teoria della rotella» è giuridicamente futile.
Nella sentenza la Corte riconobbe naturalmente che certi crimini
possono essere commessi soltanto da una burocrazia gigantesca che gode il pieno
appoggio del governo. Ma nella misura in cui si tratta di crimini (e questo è
il presupposto di ogni processo) tutte le rotelle del macchinario, anche le più
insignificanti, automaticamente in tribunale si ritrasformano in esecutori,
cioè in esseri umani. Ed è inutile che l'imputato cerchi di giustificarsi
sostenendo di avere agito non come uomo, ma come semplice funzionario che ha
fatto una cosa che chiunque altro avrebbe potuto fare: sarebbe come se egli si
appellasse alle statistiche sulla delinquenza (che dicono quanti reati in media
vengono commessi ogni giorno in questa o in quella località) e dichiarasse che
ciò che ha fatto era statisticamente prevedibile, e che è stato un semplice
accidente se a farlo è stato lui e non un altro, ché qualcuno doveva pur farlo.
Certo, per chi s'interessa di politica e di sociologia è importante sapere che
per sua natura ogni regime totalitario e forse ogni burocrazia tende a
trasformare gli uomini in funzionari e in semplici rotelle dell'apparato
amministrativo, e cioè tende a disumanizzarli. E si potrebbe discutere a lungo
e proficuamente su quel «governo di nessuno» che è in realtà la forma politica
nota col nome di burocrazia. Si deve però aver ben chiaro che l'amministrazione
della giustizia può tener conto di questi fattori soltanto come di accessori
che completano il quadro del crimine - così come, processando un ladro, si tien
conto della sua situazione economica senza che ciò scusi il furto e tanto meno
lo cancelli.
È vero che la psicologia e
la sociologia moderna - per non parlare della burocrazia - ci hanno troppo
abituati a vedere la responsabilità di chi agisce alla luce di questo o di quel
tipo di determinismo, e non è detto che queste spiegazioni delle azioni umane,
apparentemente più profonde, siano sempre giuste. Ma ciò che è indiscutibile è
che nessuna procedura giudiziaria si potrebbe basare su di esse, e che,
misurata con quelle teorie, l'amministrazione della giustizia è un'istituzione
ben poco moderna, per non dire antiquata. Quando Hitler diceva che giorno
sarebbe venuto in cui in Germania la professione del giurista sarebbe stata
considerata una «disgrazia,» parlava con estrema coerenza della burocrazia
perfetta da lui vagheggiata. A quanto mi consta, per affrontare tutta questa
serie di questioni la giurisprudenza dispone di due sole categorie, che a mio
avviso sono entrambe assolutamente inadeguate. Si tratta del concetto di
«azione di Stato» e del concetto di azione commessa «per ordine superiore.» Per
lo meno, queste due categorie sono state le uniche ad essere adoperate al
processo Eichmann, in genere per iniziativa del difensore. La teoria
dell'«azione di Stato» dice che uno Stato sovrano non può essere giudicato da
un altro. Sul piano pratico essa era già stata respinta a Norimberga, dove in
partenza non aveva alcuna probabilità di essere accolta perché altrimenti si
sarebbe dovuto dire che anche un individuo come Hitler, il più vero e il più
grande responsabile, non poteva essere giudicato da nessuno - il che violava il
più elementare senso di giustizia. Tuttavia, il fatto che un argomento non
abbia probabilità di essere accettato sul piano pratico non significa che esso
non regga sul piano teorico. I soliti ragionamenti di ripiego, come quello che
il Terzo Reich era dominato da criminali a cui non si poteva riconoscere alcuna
sovranità o parità, servono a poco. Da un lato, infatti, tutti sanno che
l'analogia con criminali è relativa, tanto che in pratica non vale nulla; e
dall'altro è innegabile che quei crimini furono commessi nell'ambito di un
ordine «legale,» e che anzi fu questa la loro principale caratteristica. Forse
ci avvicineremo un po' di più al nocciolo vero del problema se ci renderemo
conto che dietro il concetto dell'«azione di Stato» si cela la teoria della
«ragione di Stato.» Secondo questa teoria, le azioni compiute dallo Stato - il
quale è responsabile della vita del paese e quindi anche delle leggi in esso
vigenti - non sono soggette alle stesse regole delle azioni dei cittadini. Come
il codice, sebbene ideato per eliminare la violenza e la guerra di tutti contro
tutti, ha sempre bisogno di strumenti di violenza per potersi imporre, così il
governo, per sopravvivere e per salvare la legalità, può esser costretto a
compiere azioni che generalmente sono considerate criminose. Le guerre vengono
spesso giustificate a questo modo, ma le azioni di stato criminose sono
frequenti anche all'interno. La storia delle nazioni civili ne offre molti
esempi: dall'assassinio dei Duca d'Enghien ordinato da Napoleone,
all'assassinio dei socialista Matteotti, probabilmente ordinato da Mussolini.
La ragion di Stato si appella - a torto o a ragione, secondo i casi - alla “necessità”,
e i crimini di Stato commessi in nome della necessità (crimini che sono tali
anche secondo le leggi del paese in cui si verificano) sono considerati misure
d'emergenza, concessioni fatte alla “Realpolitik” al fine di conservare il
potere e assicurare così la sopravvivenza dell'ordine legale vigente. In un
sistema politico e giuridico normale questi crimini sono eccezioni ma la storia
della politica del Terzo Reich dovrebbe averci insegnato che in uno stato
fondato su principi criminosi la situazione è esattamente inversa. (Il rapporto
tra eccezione e regola, fondamentale per riconoscere la criminalità era
l’opposto di quello normale. Sicché da questo punto di vista si può anche
comprendere come mai Eichmann talvolta si rifiutasse di obbedire a certi ordini
superiori, o vi obbedisse con esitazione: quegli ordini erano manifeste
eccezioni alla regola prevalente ) In un simile Stato un’azione non criminosa
(come per esempio l’ordine alla fine dell’estate 1944, di sospendere le
deportazioni di ebrei.) diventa una concessione fatta alla necessità, una
concessione imposta dalla realtà, nel caso specifico, l’imminente sconfitta.
Che sovranità ha uno stato di questo genere? Non ha esso violato
la parità accordatagli dal diritto internazionale, quella parità di cui si
parla nella formula “par in parem non habet jurisdictionem”? Possiamo noi
applicare a un regime in cui il crimine è legale ed anzi è la regola i princìpi
che valgono per i regimi in cui il crimine e la violenza sono eccezioni e
casi-limite?.
Quanto certi concetti giuridici siano inadeguati quando si
tratta di delitti come quelli che furono al centro dei processi contro i
criminali nazisti, lo si vede forse più chiaramente dalla teoria delle azioni
compiute per ordin superiore. Il tribunale di Gerusalemme respinse questa tesi,
avanzata dalla difesa, con una lunga serie di citazioni ricavate dai codici
penali e militari. Tutti quei codici concoravano su un punto : agli ordini
manifestamente criminali non si deve obbedire.
Un ordine, per essere riconosciuto da un individuo come
“manifestamente illegale,” deve violare con la sua eccezionalità i canoni del
sistema giuridico a cui egli è abituato.
Un aspetto sorprendente del ragionamento della Corte israeliana
è che il senso di giustizia che albergherebbe nell’anima di ognuno è presentato
unicamente come un surrogato della familiarità con la legge. Quell’idea parte
dal preupposto che la legge esprima soltanto ciò che la coscienza direbbe
all’uomo anche se non ci fosse la legge. Se dovessimo applicare coerentemente
questo ragionamento al caso di Eichmann, dovremmo concludere che Eichmann agì
esattamente come doveva: agì in armonia con la regola, eseguì gli ordini a lui
impartiti per la loro “manifesta” legalità, cioè regolarità; e non aveva
bisogno di ricorrere alla coscienza perché aveva una certa familiarità con le
leggi del suo paese. La verità era invece proprio l’opposto.
La coscienza o un senso di legalità che è riposto nel profondo
della coscienza di ognuno, anche di coloro che non hanno familiarità con i
libri di diritto, dev’essere la prima voce testimone della “manifesta
illegalità” purché l’occhio non sia cieco e il cuore non sia di pietra e
corrotto.
Una delle più importanti questioni morali di tutti i tempi :
Il problema della natura e della funzione dei giudizi umani.
In quei processi, dove gli imputati erano persone che avevano
commesso crimini “autorizzati” noi abbiamo preteso che gli esseri umani siano
capaci di distinguere il bene dal male anche quando per guidare se stessi non
hanno altro che il proprio raziocinio, il quale inoltre può essere
completamente frastornato dal fatto che tutti coloro che li circondano hanno
altre idee. E il problema è tanto più grave, in quanto noi sappiamo che quei
pochi che furono abbastanza “arroganti” da confidare soltanto nel proprio
raziocinio non erano affatto persone che si attenevano ai vecchi valori. Poiché
nel Terzo Reich tutta la società “rispettabile” aveva in un modo o nell’altro
ceduto a Hitler, virtualmente erano svanite le massime morali che determinano
il comportamento sociale, e assieme ad esse erano svaniti comandamenti religiosi (“non privare della
vita”) che guidano la coscienza. E quei pochi che sapevano distinguere il bene
dal male giudicavano completamente da soli, e lo facevano liberamente; non
potevano attenersi a norme e a criteri generali, non essendoci né norme né
criteri per fatti che non avevano precedenti. Dovevano decidere di volta in
volta.
Quanto l’uomo moderno si preoccupi di questa questione dei
giudzi umani, o, come più spesso si dice, della questione di coloro che “osano
ergersi a giudici,” l’hanno mostrato le polemiche sorte sul presente libro.
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, non si tratta né di
nihilismo né di cinismo, ma solo di un’enorme confusione in merito alle più
elementari questioni morali – quasi che in questo campo ammettere l’esistenza
di una moralità istintiva fosse completamente assurdo, nella notra epoca.
L’idea che un uomo non ha il diritto di giudicare se non è stato
presente e e non ha vissuto la vicenda in discussione è condivisa, sebbene sia
anche chiaro che in tal caso non sarebbe più possibile né amministrare la
giustizia né scrivere un libro di storia.
L’ idea che chi giudica deve essersi trovato nelle stesse
circostanze e avere sbagliato anche lui può invogliare al perdono, ma quelli
che oggi parlano di carità cristiana sembrano avere idee stranamente confuse
anche su questo punto. Così la Chiesa evangelica tedesca ha dichiarato nel
dopoguerra quanto segue: «Noi affermiamo che dinanzi al Dio di Misericordia
siamo corresponsabili del male che il nostro popolo ha fatto agli ebrei, per
avere omesso di aiutarli e avere taciuto» (citato da Aurel v. Jüchen in “Summa
Iniuria”, antologia di recensioni al dramma di Hochhuth, Rowohlt Verlag, p.
195). A me pare che un cristiano
sia colpevole di fronte al “Dio di Misericordia” se ripaga il
male col male: in altre parole, le varie Chiese avrebbero peccato contro la
misericordia se milioni di ebrei fossero stati uccisi per rappresaglia. Ma se
le Chiese furono corresponsabili di un crimine puro e semplice, non provocato,
come esse stesse riconoscono, allora sono colpevoli di fronte al “Dio di
Giustizia”. Il nostro non è un giuoco di parole. La giustizia, ma non la
misericordia, è una questione di valutazione, e su nulla l'opinione pubblica di
tutto il mondo sembra più d'accordo come sul fatto che nessuno ha il diritto di
giudicare “un altro individuo”. L'opinione pubblica mondiale permette che si
giudichino e magari si condannino soltanto tendenze, o collettività intere (più
vaste sono meglio è), insomma soltanto entità così grandi e generiche da
escludere che si possano fare distinzioni, che si possano far nomi. Si usa di solito
dire, con aria di superiorità, che è «da superficiali» insistere sui
particolari e menzionare individui, e che invece è segno d'intelligenza
ragionare in termini generali, badare al quadro generale.
Esempio di generalizzazione del giudizio (una forma di delega di
responsabilità):
L’accusa contro la cristianità, non contro un uomo facilmente
identificabile.
L'accusa contro la cristianità in generale, con i suoi duemila
anni di storia, non può essere provata, e se lo potesse, sarebbe una cosa
orribile. Ma nessuno sembra preoccuparsene; ci si preoccupa soltanto che sotto
accusa non sia una sola persona, un “individuo”, e arrivati a questo punto è
facile andare un altro passo oltre e dire: «Certo, le colpe sono gravi, ma
l'imputato è l'umanità intera.» (Così Robert Weltsch nel libro sopra citato.)
Un altro modo di evadere dal campo dei fatti accertabili e della
responsabilità personale consiste nel ricorrere a una delle infinite teorie,
basate su ipotesi astratte e non verificabili:
Teorie così generali che ogni avvenimento e ogni azione si può
giustificare con esse - tutto ciò che accade, accade perché non c'è altra
alternativa, e nessuno può agire in maniera diversa da come agisce. Tra questi
schemi che «spiegano» tutto senza spiegare nulla troviamo idee come quella idea
di una «colpa collettiva» dei popolo tedesco, derivata da un'interpretazione
“ad hoc” della storia tedesca, o quella non meno assurda di una specie
d'«innocenza collettiva» del popolo ebraico. Tutti questi “clichés” hanno una
cosa in comune: rendono superfluo ogni giudizio e possono essere adoperati
senza alcun rischio. Noi possiamo anche capire come mai la gente più
direttamente interessata - i tedeschi e gli ebrei - sia riluttante ad esaminare
troppo da vicino la condotta di gruppi o individui che sembravano o dovevano
non esser toccati dal crollo morale: la condotta delle Chiese cristiane, dei
capi ebraici, degli uomini che congiurarono contro Hitler nel luglio 1944; ma
questa comprensibile riluttanza non basta a spiegare la generale avversione a
giudicare in termini di responsabilità morale individuale. Oggi, forse, molti
riconoscono che non esiste una cosa che si chiama colpa collettiva, e tanto
meno una cosa che si chiama innocenza collettiva. In caso contrario nessuno
potrebbe mai essere colpevole o innocente.
Naturalmente con ciò non si nega che esista la «responsabilità
politica.» Questa, però, è indipendente da ciò che può fare un individuo che
appartiene al gruppo, e quindi non può essere giudicata in termini morali né
sottoposta all'esame di un tribunale penale. Ogni governo si assume la
responsabilità politica delle azioni, buone o cattive, dei governo che l'ha
preceduto, e ogni nazione si assume quella delle azioni, buone o cattive,
commesse in passato dal suo popolo.
Tutto questo significa soltanto che ogni generazione, per il
fatto di essere inserita in un tessuto storico continuo, è oppressa dalle colpe
dei padri allo stesso modo in cui gode i benefici delle loro buone azioni. Ma
non è di questo tipo di responsabilità che qui parliamo; questa responsabilità
non è personale e solo per metafora si può dire che uno si sente colpevole di
ciò che ha fatto suo padre o il suo popolo. (Dal punto di vista morale,
sentirsi colpevoli quando non si è fatto nulla di male non è meno errato che
sentirsi liberi da ogni colpa quando si è fatto del male.) E'
comprensibilissimo che certe responsabilità politiche internazionali possano un
giorno o l'altro essere giudicate da una Corte internazionale; ma è
inconcepibile che questa Corte sia un tribunale penale che si pronunzia sulla
colpevolezza o sull'innocenza di un individuo. E la questione della
colpevolezza o innocenza individuale, il problema di pronunziare una sentenza
giusta tanto per l'imputato quanto per la vittima, sono le sole cose che
contano in un tribunale penale. Il processo Eichmann non è stato un'eccezione,
per quanto la Corte si sia trovata di fronte a un crimine non considerato dai
codici e ad un criminale d'un tipo sconosciuto - sconosciuto almeno fino al tempo
dei processo di Norimberga. Il mio libro cerca soltanto di esaminare fino a che
punto la Corte di Gerusalemme è riuscita a concretare la giustizia
dell'umanità.
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CONSULTARE
L’OPERA AUTOGRAFA.
BIBLIOGRAFIA.
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