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lunedì 1 gennaio 2018

Rainer Maria Rilke,Poesie - colourfulshare

Poesie
Rainer Maria Rilke
Frammenti


Annunciazione
(Le parole dell’Angelo)

Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani
tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
Sono stanco ora, la strada è lunga,
perdonami, ho scordato
quello che il Grande alto sul sole
e sul trono gemmato,
manda a te, meditante
(mi ha vinto la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta.
Ho steso ora le ali, sono
nella casa modesta
immenso; quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.
Gli angeli tutti sono presi
da un nuovo turbamento:
certo non fu mai così intenso
e vago il desiderio.
Forse qualcosa ora s’annunzia
che in sogno tu comprendi.
Salute a te, l’anima vede:
ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno a aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.
Sono venuto a compiere
la visione santa.
Dio mi guarda, mi abbacina…
Ma tu, tu sei la pianta.



Giorno d’autunno

Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
Deponi l’ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.
Fa’ che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore.
Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell’aria fluttuano le foglie.



Alcesti

A un tratto il messo era comparso, come
un nuovo giunto, immerso nel tumulto
della festa di nozze, fra la gente.
Ed essi, i bevitori, non sentirono
il dio dal chiuso andare, che portava
la sua divinità come un mantello
umido, e parve loro uno dei tanti
mentre passava. Ma improvvisamente
vide in mezzo ai discorsi uno degli ospiti
a capo della tavola lo sposo
come non più giacente, ma rapito
in alto, rispecchiare dal profondo
un’ombra estranea che paurosamente
gli si volgeva… E subito fu chiaro,
fu calma, solo con un resto
a terra di torbido rumore, un gorgogliare
di balbettii cadenti, già corrotti,
di sorde risa trattenute. Allora
riconobbero il dio, l’agile dio,
che stava, pieno della sua missione,
implacabile, – e quasi si comprese.
Pure, quando fu detto, parve piú
d’ogni scienza, non cosa da comprendere.
Deve morire Admeto. Quando? Adesso.
Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani,
come per trattenere il dio fuggente.
Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni,
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte: questa.
Il dio negava. Gridò allora Admeto,
gridò vani richiami a lui, gridò,
come gridò sua madre al nascimento.
Ed ella venne a lui, la vecchia donna,
ed anche il padre venne, il vecchio padre,
e stettero invecchiati, incerti, presso
lui che gridava e a un tratto fissò in loro
lo sguardo, s’interruppe, inghiotti, disse:
«Padre,
importa molto a te di questo avanzo
di vita che ti vieta ormai l’amplesso?
Su, gettalo. E anche tu, tu, vecchia donna,
perché vivi tu ancora? Hai partorito».
E li teneva vittime all’altare
in una presa. A un tratto lasciò i vecchi,
li spinse via da sé, mentre chiamava
anelante, ispirato: Kreon, Kreon!
E solo questo, solo questo nome.
Ma sul suo viso quello che non disse
era impresso in attesa senza nome;
e ansante verso il giovane, il diletto
amico, oltre la tavola sconvolta
si protendeva: i vecchi, vedi, sono
consunti – misero riscatto – e poco
valgono, mentre tu nella pienezza…
Ma l’amico era come dileguato.
Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse più di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene… (e subito sarà
tra le braccia che s’aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch’ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d’oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.
Nessun morente più di me, che vengo
perché tutto, sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.
Come la brezza che si leva al largo,
il dio s’avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall’uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l’uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente…
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere più che quel sorriso.



Orfeo Euridice Hermes

Era l’ardua miniera delle anime.
Correvano nel buio come vene
d’argento, silenziose. Tra radici
sgorgava il sangue che poi sale ai vivi
nella tenebra duro come porfido.
Poi null’altro era rosso.
V’erano rocce
e boschi informi. Ponti sopra il vuoto
e quell’immenso grigio, cieco stagno
che premeva sul fondo come un cielo
di pioggia sui paesaggi della terra.
Fra i prati tenue e piena di promesse
correva come un lungo segno bianco
l’incerta traccia della sola strada.
E quell’unica strada era la loro.
Avanti l’uomo nel mantello azzurro
agile, con lo sguardo volto innanzi
muto e impaziente. Il passo divorava
la strada a grandi morsi. Gravi, rigide
cadevano le mani dalla veste
e ignoravano ormai la lieve lira
cresciuta alla sinistra come un cespo
di rose in mezzo ai rami dell’ulivo.
E i suoi sensi rompevano discordi:
lo sguardo andava innanzi, si aggirava
come un cane, era accanto e poi di nuovo
lontano, fermo sulla prima curva
l’udito indietro come resta un’ombra.
Talvolta egli credeva di tornare
ai due che indietro sulla stessa via
dovevano seguirlo. Poi di nuovo
alle spalle restava appena l’eco
dei suoi passi e il mantello alto nel vento.
Ma diceva a se stesso: Essi verranno –,
ad alta voce, e si sentiva spegnere.
E tuttavia venivano ma due
dal lentissimo passo. Se egli avesse
potuto volgersi un istante (e volgersi
era annullare tutta quell’impresa
che si compiva ormai) li avrebbe visti,
i due che taciturni lo seguivano.
Il dio dei viaggi e del lontano annunzio
che innanzi a sé reggeva la sottile
verga, e aveva sugli occhi il breve casco
e alle caviglie un palpitare d’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.
Lei così amata che più pianto trasse
da una lira che mai da donne in lutto;
così che un mondo fu lamento in cui
tutto ancora appariva: bosco e valle,
villaggio e strada, campo e fiume e belva;
e sul mondo di pianto ardeva un sole
come sopra la terra, e si volgeva
coi suoi pianeti un silenzioso cielo,
un cielo in pianto di deformi stelle –:
lei così amata.
Ma ora seguiva il gesto di quel dio,
turbato il passo dalle bende funebri,
malcerta, mite nella sua pazienza.
Era in se stessa come un alto augurio
e non pensava all’uomo che era innanzi,
non al cammino che saliva ai vivi.
Era in se stessa, e il suo dono di morte
le dava una pienezza.
Come un frutto di dolce oscurità
ella era piena della grande morte
e così nuova da non più comprendere.
Era entrata a una nuova adolescenza
e intoccabile: il suo sesso era chiuso
come i fiori di sera, le sue mani
così schive del gesto delle nozze
che anche il contatto stranamente tenue
della mano del dio, sua lieve guida,
la turbava per troppa intimità.
Ormai non era più la donna bionda
che altre volte nei canti del poeta
era apparsa, non più profumo e isola
dell’ampio letto e proprietà dell’uomo.
Ora era sciolta come un’alta chioma,
diffusa come pioggia sulla terra,
divisa come un’ultima ricchezza.
Era radice ormai.
E quando a un tratto il dio
la trattenne e con voce di dolore
pronunciò le parole: si è voltato –
Lei non comprese e disse piano: Chi?
Ma avanti, scuro sulla chiara porta,
stava qualcuno il cui viso non era
da distinguere. Immobile guardava
come sull’orma di un sentiero erboso
il dio delle ambasciate mestamente
si volgesse in silenzio per seguire
lei che tornava sulla stessa via,
turbato il passo dalle bende funebri,
malcerta, mite nella sua pazienza.



Dai Sonetti a Orfeo

E quasi una fanciulla era.
Da questa felicità di canto e lira nacque,
rifulse nella trasparente veste
primaverile e nel mio udito giacque.
E in me dormì. Tutto fu il suo dormire:
gli alberi che ammiravo, le distese
sensibili, le grandi praterie
presenti e lo stupore che mi prese.
Dormiva il mondo. O dio del canto, come
l’hai tu compiuta senza ch’ella prima
volesse essere desta? È nata e dorme.
E la sua morte? Non cadrà nel nulla
questo tuo canto, troverà una rima?
Ma da me dove inclina… ? Una fanciulla…
Cantare è per te esistere. Un impegno
facile al dio. Ma noi, noi quando siamo?
Quando astri e terra il nostro essere
tocca?
O giovane, non basta, se la bocca
anche ti trema di parole, ardire
nell’impeto d’amore. Ecco, si è spento.
In verità cantare è altro respiro.
È un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento.



Voi tutti al dubbio sottratti saluto,
bocche di nuovo dischiuse, che un tempo
sapeste il senso d’essere muti.
Noi lo sappiamo, non lo sappiamo?
Le due parole l’ora esitante
traccia confuse sul viso umano.



Te voglio ancora ricordare una volta
fiore, il cui nome non so, voglio ancora
mostrarti a loro, compagna a noi tolta,
bella compagna all’invitto clamore.
Danza: ma a un tratto in perplessa movenza
trattiene il corpo, in metallo gettato,
triste a spiare. Da un’alta potenza
musica cade al suo cuore mutato.
Prossimo il male. Già da tenebra stretto
cupo urge il sangue: dopo breve sospetto
sboccia nel suo naturale rigoglio.
Sempre travolto in cupo orrore risplende
terreno. Giunto con note tremende
varca l’estrema, tragica soglia.



Come il maestro nell’impeto a un foglio
qualunque affida la linea perfetta:
cosí talvolta lo specchio raccoglie
l’unico riso di giovinetta.
Quando al mattino da sola si ammira
o nel chiarore del lume sommesso…
Cadrà piú tardi nel puro respiro
dei veri volti solo un riflesso.
Quel che tra braci fu un giorno veduto
nel lento spegnersi fuliginose:
sguardi di vita per sempre perduti.
Oh, della terra chi sa gli smarriti
beni? Chi solo con note gloriose
celebri il cuore cui tutto dà vita.





Specchi: nessuno cosciente ha descritto
cosa nasconda la vostra essenza.
Come crivelli di fori fitti
siete voi specchi, intervalli del tempo.
Voi che la sala deserta occupate –,
ampi al crepuscolo come selve…
Il lampadario, splendido cervo,
si aggira oltre la soglia vietata.
Talvolta grandi pitture siete.
Sembrano donne in voi trasfuse –,
altre sdegnosi non accogliete.
Ma la più bella resta, il suo viso
penetrerà nelle guance dischiuse
un giorno il chiaro dissolto Narciso



Bocca di fonte, tu che dai, tu bocca
che hai solo una parola, e sgorga pura –
tu maschera di marmo alla figura
mutevole dell’acqua. Gli acquedotti
corrono da lontano. Dai riposi
dell’Appennino, a fiore delle tombe,
portano la tua voce, e si confonde
appena lungo i vecchi orli corrosi
del mento: giù una vasca la raccoglie.
Un orecchio che dorme; tu gli parli
ininterrotta e il marmo ascolta i suoni.
Orecchio della terra. Con sé sola
parla così. Se un’anfora si posa,
sembra alla terra che tu l’abbandoni.



Come ci prende il grido dei voli…
Forse un qualsiasi grido pensato.
Pure i bambini che giocano soli
sanno gridare passandoci a lato.
Gridano il caso. Nei vaghi interregni
di questo spazio del mondo (in cui puro
entra lo strido d’uccello, e s’insinua
l’uomo nel sogno) essi piantano acuto
il grido. – A noi che rimane? Tremanti
di risa agli orli, aquiloni strappati
sempre la vuota tempesta ci attira,
stracci nell’aria. – Ma tu, dio del canto,
ordina i gridi! Che a un segno destati
alto trasportino il capo e la lira.



O vieni e va’. Quasi bambina avanza
per un momento la figura al gesto
di quelle immagini astrali di danza
in cui talvolta la natura arresta
il suo sordo lavoro. Solo un tempo
la ridestò la musica d’Orfeo.
Tu aprivi allora le docili membra
turbata appena se al tuo fianco un vero
albero si muoveva ad ascoltare.
Sapevi il luogo dove coi suoi canti
la lira si levò –: l’orma terrena.
Per quello osasti i bei passi tentare
sperando un giorno dell’amico il viso
volgere, e il piede, a una festa serena.



Il mio grido.
Che importa
se si perda o ti chiami?
Si perde in un lamento
e lo spazio lo strema.
Altre voci tu senti.
Non t’ingannare:
appena dal mio cuore mi accosto
al mio viso che canta.
E vorrei farti male,
ma mi manca l’animo:
se sollevo verso te la mia pena
subito ricade mite
e fredda come neve.
La mia vita è lontana.
Dimmi: è con te?
Pensa : così finisce
nel rumore del giorno.
Ciascuno la rinnega,
nessuno più conosce
la mia vita.
Ed era la mia vita?
Non forse un’altra in cui pure
nessun gesto abbia
posato un suo segno?

La mia vita, forse
non è con te, ma langue
spezzata, e intanto piove,
piove e l’acqua la bagna,
e gela dentro.



Eros! Eros! Maschere, accecate
Eros. Chi sostiene il suo fiammante
viso? Come il soffio dell’estate
alla primavera spegne i canti
di preludio. E nelle voci ascolta
ora l’ombra, e si fa cupo… Un grido…
Egli getta il brivido indicibile
su di loro come un’ampia volta.
O perduto, o subito perduto!
Breve il bacio degli dèi ci sfiora.
Altro è il tempo, e il destino è cresciuto.
Ma una fonte piange e ti accora.



Sulla via assolata, dentro al vecchio
tronco cavo che da lungo tempo
serve a bere e piano in sé rinnova
uno specchio d’acqua,
la mia sete calmo:
l’acqua limpida e il suo flusso
prendo in me nel cavo della mano.
Bere è troppo, è un atto che tradisce,
mentre questo gesto in cui m’indugio
porta un’acqua chiara alla coscienza.
E cosí potrebbe riposarmi
se tu fossi qui, posare piano
la mia mano sulla fresca curva
della spalla o al limite del seno.



Che questo non sia più dinanzi a me
da cui distante oso volgere il viso:
strade aperte, cielo, terre – e il sorriso
di nessun volto caro che le confonda.
Tutta la pena dei possibili amori
giorno e notte ho sentito tornare:
confusi un tempo e remoti, ma uguali
nel rifiutarmi una gioia serena.
Nessuna notte futura più dolce
sarà di quella notte lontana,
quando allo sguardo di noi rassegnati
ogni discordia di nuovo fu piana.
Accanto a lei innamorata nel sonno
forse il distacco sembrava più lieve.
Il male per questo dolce volere
dell’amica che dorme, una donna.
Quando ogni cosa che soli ci ha avuti
stupiva come di un tradimento, –
ora tu sai che la candela brucia
se per angoscia il tuo lume si è spento
Sempre di nuovo, benché sappiamo il paesaggio
d’amore
e il breve cimitero con i suoi tristi nomi
e il pauroso abisso silente, dove per gli altri
è la fine: torniamo a coppie tuttavia
di nuovo tra gli antichi alberi, ci posiamo
sempre, di nuovo, tra i fiori contro il cielo.



Dai Quaderni di Malte Laurids Brigge
Frammenti

Urnekloster

La ritrovo ora nei miei elaborati ricordi d’infanzia non è più un edificio; è tutta divisa dentro di me: là una stanza, là un’altra stanza, e qui un pezzo di corridoio che non congiunge le due stanze ma si sostiene da sé, come un frammento. E tutto è frazionato in questo modo: le camere, le scale che scendono solenni e altre rampe strette e tortuose nella cui oscurità ci si inoltra come il sangue nelle vene; il solaio, i balconi sospesi in alto, le altane in cui si sbucava improvvisamente da una piccola porta: tutto questo è ancora dentro di me e non si cancellerà più. È come se l’immagine di quella casa fosse precipitata in me da un’altezza incredibile e si fosse frantumata sul fondo.


Tutta intera nel mio cuore, almeno così mi sembra, è soltanto la sala in cui ci si riuniva ogni sera alle sette per la cena.


Era più forte di tutto; con il buio. Con i suoi angoli sempre un poco in ombra, sembrava assorbire le immagini che ciascuno portava con sé senza restituire nulla in compenso. Ci si sedeva come disfatti senza più volontà, senza conoscenza, senza coraggio. Si aveva l’impressione che il posto fosse vuoto. Mi ricordo che questo stato di avvilimento in principio mi procurò un
certo malessere, una specie di mal di mare che riuscivo a vincere solo stirando una gamba fino a toccare col piede.

il ginocchio di mio padre seduto di fronte a me. Solo più tardi mi resi conto che egli aveva capito o almeno indovinato questa strana reazione, benché i rapporti quasi freddi che esistevano fra noi rendessero inspiegabile il mio contegno. Tuttavia fu quel leggero contatto che mi diede la forza di sopportare le prime lunghe cene.

Con la facoltà di adattamento quasi illimitata dei bambini, mi abituai così bene all’angoscia.

Non parlavo quasi con nessuno, ero felice di essere solo.

Bibliothèque Nationale

Sono seduto e leggo un poeta. C’è molta gente nella sala ma non si fa sentire. Sono tutti nei libri. Talvolta si muovono tra i fogli come uomini che dormano e si voltino fra due sogni. Fa bene stare così, fra uomini che leggono. Perché non sono sempre così?

Io sono seduto e leggo un poeta. Un curioso destino. Ci sono forse trecento
persone che leggono nella sala; ma è impossibile che ciascun di loro abbia un poeta. (Dio sa cos’hanno). Non ci sono trecento poeti. E vedi il destino; io, il più miserabile forse fra tutta questa gente, uno straniero: io ho un poeta. Benché sia povero.
Benché il vestito che porto tutti i giorni cominci a logorarsi in alcuni punti.
Finalmente mi trovo fra questi libri. Sono fuggito a voi come se fossi morto; siedo e leggo un poeta.


Sapete voi che cos’è un poeta?
Nessun ricordo? No. Non fate differenza fra quelli che conoscete? Lo so, voi non fate mai differenze. Ma è un altro poeta quello che io leggo, uno che non abita a Parigi. Del tutto diverso. Un poeta che ha una casa tranquilla nei monti. Che ha il suono di una campana nell’aria limpida. Un poeta felice che racconta delle sue finestre, delle vetrine della sua libreria dove si specchia assorta una cara profondità solitaria. Proprio il poeta che avrei voluto
diventare: perché egli sa molto delle fanciulle e anch’io avrei saputo molto di loro. Egli sa di fanciulle che sono vissute cent’anni fa; e non fa nulla che siano morte, perché egli sa tutto di loro. E questa è la cosa importante. Egli pronuncia i loro nomi, quei nomi leggeri, scritti a grandi caratteri slanciati, con gli svolazzi di un tempo.

Forse in un angolo della sua scrivania di mogano riposano le loro lettere sbiadite, i fogli sciolti dei loro diari in cui sono raccolti compleanni, gite d’estate, genetliaci. O forse in fondo alla sua camera da letto, nel comò panciuto, c’è un cassetto dove sono piegati i loro abiti primaverili; abiti bianchi che si mettevano per la prima volta a Pasqua, abiti di tulle sbuffanti che dovevano servire per un’estate (ma era impossibile aspettare l’estate).

Quella è una sorte veramente felice: vivere nelle stanze silenziose di una casa ereditata, in mezzo a cose stabili e tranquille, sentire fuori le prime cinciallegre che si cercano nel giardino verde e luminoso, e lontano l’orologio del villaggio.
Stare seduti e vedere una lunga striscia di sol meridiano, e sapere tutto delle ragazze di un tempo, ed essere un poeta. E pensare che anch’io sarei diventato un poeta così se avessi potuto abitare qua o là, in una delle tante case di campagna ormai chiuse e di cui nessuno si cura. Avrei adoperato solo una camera (la camera piena di luce, nel solaio). Là sarei vissuto con le vecchie cose, i ritratti di famiglia, i libri. E avrei avuto una poltrona a
fiori, e cani, e un robusto bastone per i sentieri pietrosi. E null’altro. Solo un libro legato in cuoio giallo avorio con un vecchio frontespizio a fiori: e avrei scritto in quel libro. Molto avrei scritto, perché avrei avuto molti pensieri e ricordi di molte fanciulle.

 Ma è stato altrimenti, Dio sa perché. I miei mobili marciscono in una soffitta dove ho potuto sistemarli, ed io stesso, sì anch’io, mio Dio, non ho un tetto, e mi piove sugli occhi.

 Talvolta passo davanti alle bottegucce di Rue de la Seine. Venditori di roba vecchia, piccoli librai antiquari e mercanti di incisioni su rame, tutti con le vetrine piene zeppe. Non entra mai nessuno da loro. All’apparenza non fanno affari. Ma se si guarda dentro stanno sempre seduti e leggono, noncuranti. Non si preoccupano del domani, non si agitano per il successo.

Ah, se questo bastasse! Certe volte vorrei comprarmi una vetrina così piena e rinchiudermi là dentro per vent’anni.

Che mi senta stanco e infreddolito, non ha molta importanza. Che abbia passato tutto il giorno a correre su e giù per le strade, è colpa mia. Avrei potuto benissimo rifugiarmi al Louvre. O forse no, non avrei potuto.
Sono sempre stato in strada. Sa il cielo in quanti sobborghi sono stato,
in quante strade, cimiteri, ponti, gallerie.
Ma è essenziale questo? E anche se è essenziale, spiega quello che è stato per me quella visione?
Questo ho visto.
Visto.
 E si crederà che esistono case sì fatte? No, si dirà che mento.
Ma questa volta è la verità; non ho lasciato da parte nulla, non ho aggiunto nulla. Del resto, dove avrei potuto trovare altro? Si sa che son povero. È cosa nota.

Agli angoli la gente  era più fitta, un uomo addosso all’altro, e non potevano fare altro movimento che un leggero dondolio.

Ma benché essi fossero immobili e io corressi come un pazzo all’estremità del marciapiede, dove restava un piccolo intervallo nella calca, mi pareva che fossero loro a correre e che io stessi fermo. Perché non cambiava nulla; mi guardavo intorno e vedevo sempre le stesse case da una parte e i baracconi dall’altra. E forse tutto era fermo e c’era solo una vertigine dentro di noi per cui tutto sembrava girare. Non avevo tempo di riflettere;

Sentii che mi mancava l’aria e che ormai respiravo solo i residui altrui: i polmoni mi si fermavano.

Ora è finita; ho superata la crisi. Sono seduto in camera mia accanto al lume; fa solo un po’ freddo perché non ho il coraggio di provare la stufa: se si mettesse a fumare e fossi costretto a uscire di nuovo? Sto seduto e rifletto: se non fossi così povero affitterei un’altra stanza, una stanza con dei mobili
non tanto consumati, non così piena della presenza dei vecchi inquilini. In principio mi era veramente difficile posare la testa su questa spalliera; c’è una zona grigio-umida nel verde della stoffa, che sembra fatta per tutte le teste. Per molto tempo ho usato la precauzione di stendere un fazzoletto sotto i capelli; ma ora sono troppo stanco: trovo che va bene anche così e che il piccolo incavo è fatto proprio per la mia testa, su misura.



George Trakl

Al ragazzo Elis


Elis, se il merlo chiama da nere foreste,
allora è il tuo tramonto.
Bevono le tue labbra il fresco di azzurre sorgenti.
Lascia, se la tua fronte piano sanguina,
le remote leggende
e il presagio oscuro del volo.
Tu che vai con passi taciti nella notte
carica di grappoli purpurei
levi piú belle nell’azzurro le braccia.
Batte un cespo di rovi
dove i tuoi occhi guardano, lunari.
Elis da quanto tempo tu sei morto.
Il tuo corpo è un giacinto
in cui fruga con ceree dita un monaco.
Il silenzio è una nera grotta; sbuca
di tanto in tanto timida una fiera,
abbassa lenta le palpebre gravi.
Nera rugiada cola alle tue tempie,
ultimo oro di stelle cadute.


Infanzia

Colmo di frutti il sambuco; tranquilla era
l’infanzia
nella grotta celeste. Su percorsi sentieri,
dove rossiccia stride ora l’erba selvatica,
medita il calmo intrico di rami; un frusciare di foglie.
Simile quando suona l’acqua azzurra sul
sasso.
Mite è il lamento del merlo. Un pastore
tacito segue il sole, scende dai colli autunnali.
L’anima non è piú che uno sguardo celeste.
Al limite del bosco viene una timida fiera,
posano in fondo le antiche campane e villaggi di tenebra.
Ma tu meglio conosci il senso degli anni
oscuri,
freddo e autunno nelle camere nude;
fuori sul sacro azzurro suonano passi di luce.
Una finestra cigola piano; commuove
la vista del cadente cimitero sul colle,
narrate leggende; ma spesso l’anima schiara
pensiero di uomini lieti, di primavere d’oro.



Hohenburg

Nessuno è in casa. L’autunno alle camere;
sonate chiare di luna
e risvegliarsi al confine di una foresta in penombra.
Sempre tu pensi al bianco viso dell’uomo
lontano i clamori del tempo;
sopra il dormente si curva facile il verde dei rami,
una croce e la sera.
Stringe il suo canto con braccia di porpora un astro
che sorge al segno di finestre vuote.
Cosí nel buio trema l’ignaro
quando sommesso leva gli occhi a creature
ora distanti; una argentea voce dà il vento nell’atrio.



Canto serale

La sera, se andiamo per oscure vie,
smorte ci incontrano le nostre ombre.
Ora chi ha sete
beva le bianche acque dello stagno,
dolci i lamenti della nostra infanzia.
Morti in riposo sotto il folto sambuco
guardiamo grigi gabbiani.
Nubi primaverili coprono la città buia
che tace i tempi di monaci eletti.
Quando io presi la tua mano esile
battesti piano gli occhi rotondi:
ora è perduto.
Ma se una buia armonia penetra l’anima
appari tu bianca ai paesi autunnali del cuore.



In primavera

Piano cadde da oscuri passi la neve,
nelle ombre degli alberi
levano palpebre tenui gli amanti.
Sempre all’oscuro grido dei marinai
seguono notte e astri;
e i remi battono piano in cadenza.
Presto su muri caduti in rovina
fioriranno le viole:

cosí verdeggiano piano le tempie al taciturno.