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lunedì 1 gennaio 2018

Aforismi sulla saggezza nella vita , Arthur Schopenhauer - colourfulshare

Aforismi sulla saggezza nella vita
Arthur Schopenhauer
Citazioni scelte
Un trattato sulla vita felice.

La felicità non è facile a conquistare; è molto difficile trovarla in noi — impossibile altrove.

Saggezza:
Nella vita, cioè intendo con ciò l’arte di rendere la vita quanto meglio è possibile piacevole e felice.
Questa potrebbe a sua volta essere definita una esistenza che, considerata dal punto di vista puramente esteriore, preferibile alla non-esistenza.

Di più questo trattato non ha la minima pretesa di esser completo, sia perché il tema è inesauribile, sia perché io avrei dovuto ripetere ciò che altri ha già detto.

Il libro di Cardano:
De utilitate ex adversis capienda
(dell’utilità che si può cavare dalle disgrazie),
lavoro degno d’esser letto, che tratti lo stesso argomento dei presenti aforismi; esso potrà servire a completare quanto io qui presento.

Insomma, certamente i saggi di tutti i tempi hanno sempre detto lo stesso, e gli sciocchi, cioè l’incommensurabile maggioranza di tutti i tempi, hanno sempre fatto lo stesso, ossia l’opposto, e sarà sempre così.
Anche Voltaire dice;
Noi lasceremo questo mondo tanto stupido e tanto cattivo quanto lo abbiamo trovato venendoci.

Aristotele (Etica a Nicomaco, I, 8) ha diviso i beni della vita
umana in tre classi:
beni esteriori, dell’anima e del corpo.
Non conservando che la divisione in tre io dico che ciò che distingue le sorti dei mortali può essere ridotto a tre condizioni fondamentali.
Esse sono:
 1.° Ciò che si è: dunque la personalità nel suo senso più lato. Per conseguenza qui si comprende la salute, la forza, la bellezza, il temperamento, il carattere morale, l’intelligenza ed il suo sviluppo.

 2.° Ciò che si ha: dunque proprietà e ricchezza d’ogni natura.

 3.° Ciò che si rappresenta: è noto che con questa espressione s’intende la maniera colla quale altri si figura un individuo, quindi ciò che questi è nell’altrui rappresentazione.
Tutto ciò consiste dunque nell’opinione altrui a suo riguardo, e si divide in onore, grado e gloria.

Le differenze della prima categoria, di cui abbiamo da occuparci, sono quelle che la natura stessa ha posto fra gli uomini; d’onde si può già inferire che la loro influenza sulla felicità o sull’infelicità sarà più essenziale e più penetrante che quella delle differenze che derivano dalle convenzioni umane e che noi abbiamo ricordato nelle due rubriche seguenti.
I veri vantaggi personali, quali una gran mente o un gran cuore, sono
in rapporto ad ogni vantaggio di grado, di nascita, pur anche regale, di ricchezza, ecc., ciò che i re veri sono rispetto ai re sul teatro.
Le cause che vengono da noi contribuiscono alla felicità più di quelle che nascono dalle cose.

Metrodoro
E, senza dubbio, per la felicità dell’individuo, la cosa principale sarà evidentemente quello che si trova o si produce in lui.
Infatti è là che risiede immediatamente il suo benessere o la sua infelicità; insomma è sotto questa forma che si manifesta da bel principio il risultato
della sua sensibilità, della sua volontà, del suo pensiero; tutto ciò che si trova al di fuori non ha che un’influenza indiretta.
Perciò le medesime circostanze, i medesimi avvenimenti esterni impressionano ogni individuo in modo affatto differente, e, quantunque tutti siano posti nello stesso mezzo, ognuno vive in un mondo differente. Perché ciascuno non ha direttamente a che fare se non colle sue proprie sensazioni, e coi movimenti della sua propria volontà.

Il mondo in cui si vive dipende dal modo d’intenderlo, che è differente per ogni testa;
secondo la natura delle intelligenze esso sembrerà povero, scipito e volgare, o ricco, interessante ed importante perché il medesimo fatto che si presenta in un modo così interessante nella testa d’un uomo di spirito, non offrirebbe più, concepito da un cervello grossolano e triviale, che una scena insipida della vita d’ogni giorno.
Tutto questo proviene dal fatto che ogni realtà, cioè ogni attualità compita, si compone di due metà, il soggetto e l’oggetto, ma così necessariamente e così strettamente unite come l’ossigeno e l’idrogeno nell’acqua. Identica la metà oggettiva, e differente la soggettiva, o viceversa, la realtà attuale sarà tutt’altra; la più bella e la migliore metà oggettiva, quando la
soggettiva è grossolana, di trista qualità, non darà mai che una cattiva realtà ed attualità, simile ad un bel sito visto col brutto tempo o riflesso da una camera oscura difettosa.
Le differenze di grado e di ricchezza danno a ciascuno la parte da rappresentare, a cui non corrisponde affatto una differenza interna di felicità e di benessere.
Come tutto ciò che succede, tutto ciò che esiste per l’uomo, non succede e non esiste immediatamente che nella sua coscienza, evidentemente la qualità della coscienza sarà l’essenziale prossimo, e nella maggior parte dei casi tutto dipenderà da questa meglio che dalle immagini che vi si presentano.
La metà oggettiva dell’attualità e della realtà è mutabile; la metà soggettiva la siamo noi stessi, in conseguenza essa è immutabile nella sua parte essenziale.
Così malgrado tutti i cambiamenti esterni la vita d’ogni uomo porta da un capo all’altro lo stesso carattere; la si può paragonare ad un seguito di variazioni sul medesimo tema.
Nessuno può sortire dalla propria individualità.
L’individualità dell’uomo si trova fissata anticipatamente la misura della sua possibile felicità. Sono in special modo i confini delle facoltà intellettuali che determinano una volta per sempre l’attitudine alle gioie d’ordine superiore.
Se tali facoltà sono limitate, tutti gli sforzi esterni, tutto quanto gli uomini o la fortuna facessero in suo favore, tutto sarà impotente a trasportare l’individualità oltre la misura della felicità e del benessere ordinario, essa dovrà contentarsi dei piaceri sensuali, d’una vita intima ed allegra in
famiglia, d’una società di bassa lega o di passatempi volgari.
L’istruzione stessa, quantunque abbia una certa azione, non saprebbe insomma allargare di molto questo cerchio, perché i piaceri più elevati, più vari e più durabili sono quelli dello spirito, per quanto falsa possa essere in gioventù la nostra opinione su tale argomento; e questi piaceri dipendono soprattutto dalla forza intellettuale. È dunque facile veder chiaramente quanto la nostra felicità dipenda da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre non si tiene conto il più delle volte che di ciò che abbiamo o di ciò che rappresentiamo. La sorte però può migliorarsi, inoltre chi possiede la ricchezza interna non le domanderà gran cosa.

In ogni tempo si riconosce che il bene supremo dei figli della terra è solamente la personalità.
Goethe
Che il soggettivo sia incomparabilmente più essenziale alla nostra felicità ed alle nostre gioie dell’oggettivo ci viene provato in tutto, dal
vegliardo che guarda con indifferenza la deità che il giovine idolatra, fino all’estremo vertice ove troviamo la vita dell’uomo di genio e del santo.
La salute soprattutto prevale talmente sui beni esteriori che in verità un mendicante sano è più felice di un re malato. Un temperamento calmo e giocondo, proveniente da una salute perfetta e da una eccellente organizzazione, una mente lucida, viva, acuta e giusta, una volontà moderata e dolce, e come risultato una buona coscienza, ecco i vantaggi che nessun grado, nessuna ricchezza saprebbero surrogare. Ciò che un uomo è per sé stesso, ciò che l’accompagna nella solitudine, e ciò che nessuno saprebbe dargli o togliergli, è evidentemente più essenziale per lui che tutto quello ch’egli può possedere o che può essere per gli occhi altrui. Un uomo di spirito, nella solitudine la più assoluta, trova nei suoi pensieri e nella sua fantasia di che spassarsi
dilettevolmente, mentre l’individuo povero di spirito potrà variare all’infinito le feste, gli spettacoli, i passeggi e i divertimenti senza riuscire a scacciar la noia che lo tortura.

Un buon carattere, moderato e dolce, potrà esser contento nell’indigenza mentre tutte le ricchezze del mondo non saprebbero soddisfare un carattere avido, invidioso e malvagio. In quanto all’uomo dotato in permanenza d’una individualità straordinaria, intellettualmente superiore, può far senza della maggior parte di quei piaceri a cui generalmente aspira la gente; anzi questi non sono per lui che un disturbo ed un peso. Orazio dice parlando di sé; V’è chi possiede gemme, marmi, avori, statuette etrusche, quadri, argento, vesti tinte di porpora di Getulia; v’è chi non si cura d’averne (Ep. II, L. II, v. 180 e seg.).
 E Socrate alla vista d’oggetti di lusso esposti per la vendita diceva: Quante cose vi sono di cui non ho bisogno! Così la condizione prima e più essenziale per la felicità della vita è ciò che noi siamo, la personalità; a spiegarlo basterebbe il fatto che essa agisce costantemente ed in ogni circostanza, che inoltre non è soggetta a peripezie come i beni delle altre due categorie, e che non può esserci tolta. In questo senso il suo valore può esser considerato come assoluto, in opposizione al valore solamente relativo degli altri beni. Ne risulta che l’uomo è molto meno suscettibile d’esser modificato dal mondo esterno di quello che non si sarebbe disposti a crederlo.
Solo il tempo, nel suo potere sovrano, esercita egualmente anche qui i suoi diritti; le facoltà fisiche ed intellettuali s’infiacchiscono sotto i suoi colpi: il carattere morale solo rimane inattaccabile.

Credo contrastante con il pensiero di Arthur Schopenhauer:
“La nostra personalità è fragile, è in pericolo almeno quanto la nostra vita.”
                                                                                                            Primo Levi

Ciò che è in noi, il soggettivo, è sottratto al nostro potere; stabilito per diritto divino, esso si conserva invariabile per tutta la vita. Così l’idea seguente contiene una inesorabile verità:
  

 «Come nel giorno che t’ha dato al mondo, il sole era là per salutare i pianeti, tu sei cresciuto senza interruzione secondo la legge con cui cominciasti. Tale è il tuo destino; tu non puoi sfuggire a te stesso; così parlavano già le Sibille, così i Profeti; né tempo, né potenza alcuna spezza l’impronta che si sviluppa nel corso della vita.»
 «Goethe.»

  
 Quanto possiamo fare in questo riguardo si è d’impiegare la personalità, quale ci fu data, al nostro maggior profitto; in conseguenza non coltivare che le aspirazioni che le si confanno, non cercare che lo sviluppo che le è appropriato evitandone qualunque altro, non sceglier quindi che lo stato, l’occupazione, il genere di vita che le convengono.

È più saggio adoprarsi per conservare la salute e per sviluppare le proprie facoltà che non per acquistare ricchezze, ciò che non bisogna però interpretare nel senso che occorra trascurare l’acquisto delle cose necessarie e convenienti.


Ma la ricchezza propriamente detta, vale a dire un grande superfluo, contribuisce poco alla nostra felicità, quanto la ricchezza può fornire al di là della soddisfazione dei bisogni reali e naturali ha un’influenza piccolissima sul nostro vero benessere.

Ciò che si è contribuisce di certo alla nostra felicità più di ciò che si ha.

La vacuità del loro interno, la scipitezza della loro intelligenza, la povertà del loro spirito, li spingono a cercare la compagnia, ma una compagnia composta di persone a loro simili, perché similis simile
gaudet. Allora comincia in comune la caccia ai passatempi ed ai divertimenti.
Un giovane lanciato così nel mondo, ricco al di fuori ma povero al di dentro, si sforza inutilmente di supplire al difetto della ricchezza interna coll’esterna; ei vuole ricever tutto dal di fuori.

La terza categoria è di una natura molto eterea a confronto della seconda, visto che essa non consiste che nell’opinione altrui. Tuttavia è ammesso che ciascuno possa aspirare all’onore, cioè ad un buon nome; ad un grado può aspirare unicamente chi serve lo Stato, e in quanto concerne la gloria non ve n’ha che infinitamente pochi che possano pretendervi. L’onore è considerato come un bene inapprezzabile, e la gloria come la cosa più eccellente che l’uomo possa acquistare; essa è l’oro degli eletti; invece solo gli sciocchi preferiranno il grado alle ricchezze. La seconda e la terza categoria hanno inoltre una sull’altra ciò che si dice un’azione reciproca.
Habes, haberis.

Vero, la buona opinione altrui, sotto tutte le forme, ci aiuta soventi volte ad acquistar la ricchezza.

Di ciò che si è
Noi abbiamo già conosciuto in modo generale che ciò che si è contribuisce alla nostra felicità più di ciò che si ha o di ciò che si rappresenta.
La cosa principale è sempre ciò che un uomo è, in conseguenza ciò che possiede in lui stesso, poiché la sua individualità l’accompagna dappertutto e dovunque, e colora di sua tinta tutti gli avvenimenti della vita.

Così l’espressione inglese: To enjoy one’s self è molto ben trovata; non si dice mica in inglese: Gli piace, si dice invece: Egli si piace.
(He enjoys himself)

La salute dello spirito e del corpo

Nella buona come nella cattiva fortuna, e salvo il caso di qualche grande disgrazia, ciò che tocca ad un uomo nella sua vita è d’importanza più piccola che la maniera con cui egli lo sente, vale a dire la natura ed il grado della sua sensibilità sotto tutti i rapporti. Ciò che abbiamo in noi stessi e da noi stessi, in una parola la personalità ed il suo valore, ecco il solo fattore immediato della nostra felicità e del nostro benessere. Tutti gli altri agiscono indirettamente; la loro azione quindi può essere annullata, ma quella della personalità mai.
Di qui viene che l’invidia più irreconciliabile e nello stesso tempo nascosta colla massima cura è quella che ha per oggetto i vantaggi personali. Inoltre la qualità della coscienza è la sola cosa permanente e persistente; l’individualità agisce costantemente, continuamente, e più o meno, in ogni momento; tutte le altre condizioni non hanno che un’influenza temporanea,
passeggera, d’occasione, e possono anche cangiare o sparire.
Aristotele dice: La natura è eterna, non le cose.
Quindi i beni soggettivi, quali un carattere nobile, una testa possente, un umore gaio, un corpo bene organizzato ed in perfetta salute, o, in generale, mens sana in corpore sano (Giovenale sat. X, 355), sono beni supremi, ed importantissimi alla nostra felicità; perciò dovremmo attendere molto più al loro sviluppo ed alla loro conservazione che non al possesso dei beni esterni e dell’onore esterno.

Ma ciò che sopra tutto contribuisce più direttamente alla nostra felicità è un umore allegro, questa buona qualità trova subito la ricompensa in sé stessa. Infatti chi è gaio ha sempre motivo d’esserlo per la stessa ragione ch’egli lo è. Niente può sostituire così completamente tutti gli altri beni come questa qualità, mentre essa stessa non può esser surrogata da cosa alcuna.

Nella mia prima giovinezza ho letto un giorno in un vecchio libro la frase; Chi ride molto è felice, chi piange molto è infelice;
l’osservazione è molto sciocca, ma a causa della sua verità così semplice non ho potuto dimenticarla, così dobbiamo, ogni volta che si presenta, aprire alla gaiezza porte e finestre, giacché essa non giunge mai di contrattempo, e non esitare a riceverla, come facciamo di sovente, volendo prima renderci conto se abbiamo bene in ogni riguardo motivo d’esser contenti, od anche per paura che essa non ci distragga da serie meditazioni o da gravi cure quando è molto incerto che queste possano migliorare la nostra condizione, mentre la gaiezza, è un beneficio immediato. Essa sola è, per così dire, il danaro contante della felicità. È certo d’altronde che niente contribuisce
alla gaiezza meno della ricchezza, e che niente vi contribuisce meglio della salute: si è nelle classi inferiori, fra i lavoranti e particolarmente fra i contadini che troviamo i visi allegri e contenti; nei ricchi e nei grandi dominano le sembianze melanconiche. Dovremmo perciò applicarci soprattutto a conservare questo stato perfetto di salute di cui la gaiezza appare come
fioritura. Per ottener questo si sa che bisogna fuggire ogni eccesso ed ogni disordine, evitare ogni emozione violenta e penosa, come pure ogni applicazione dello spirito soverchia o troppo prolungata; bisogna ancora prendere ogni giorno due ore d’esercizio rapido all’aria libera.
Non v’è salute se non ci si dà ogni giorno abbastanza movimento; tutte le funzioni della vita per compiersi regolarmente esigono il movimento.
Aristotele ha detto con ragione: la vita è nel movimento. Se, come succede nel genere di vita interamente sedentario di tante persone, il movimento esterno manca quasi totalmente, ne risulta una sproporzione innaturale e dannosa tra il riposo esterno ed il tumulto interno. Perché questo perpetuo moto all’interno richiede anche d’esser aiutato qualche poco dal moto all’esterno; tale stato sproporzionato è analogo a quello che nascerebbe quando fossimo tenuti a non lasciar scorgere al di fuori segno visibile di
un’emozione che ci fa bollire il sangue internamente. Gli alberi stessi, per prosperare, hanno bisogno d’esser agitati dal vento. È questa una regola assoluta che si può esprimere nel modo più conciso in latino:
Omnis motus, quo celerior, eo magis motus
(quanto più celere, tanto più ogni movimento è movimento)
Per meglio renderci conto quanto la nostra felicità dipenda da una disposizione all’allegria, e questa dallo stato di salute, non abbiamo che a confrontare l’impressione che producono su noi le stesse circostanze esterne o gli stessi avvenimenti, nei giorni di salute e di forza con quella che è prodotta, quando uno stato di malattia ci dispone ad esser di cattivo umore ed inquieti.

Non è già ciò che sono oggettivamente ed in realtà le cose, ma ciò che
esse sono per noi, nella nostra percezione, che ci rende felici o infelici. È quanto esprime assai bene questa sentenza d’Epitteto: Ciò che commuove gli uomini non son le cose, ma l’opinione sulle cose. In tesi generale i nove decimi della nostra felicità riposano esclusivamente sulla salute.
Con essa tutto diventa sorgente di piacere; senza di essa invece noi non sapremmo gustare un bene esterno di qual si sia natura; pur anche gli altri beni soggettivi, come le qualità dell’intelligenza, del cuore, del carattere, sono diminuite e guastate dallo stato di malattia.
Così non è senza ragione che noi prendiamo notizia scambievolmente sullo stato della nostra salute e che ci desideriamo reciprocamente di star bene, perché proprio in ciò v’ha quanto è più essenzialmente importante per là felicità umana. Ne segue adunque che è insigne pazzia sacrificare la propria salute a checchessia, ricchezza, carriera, studi, gloria e sopra tutto alla voluttà, ed ai piaceri fuggitivi. Al contrario tutto deve cedere il passo alla salute.
Per quanto grande sia l’influenza della salute su questa gaiezza così essenziale alla nostra felicità, non di meno questa non dipende unicamente dalla prima, perché con una salute perfetta si può avere un temperamento melanconico ed una disposizione predominante alla tristezza.
Poiché il genio è determinato da un eccesso della sensibilità, Aristotele ha osservato con ragione che tutti gli uomini illustri ed eminenti sono melanconici: Tutti gli uomini che sono nati o alla filosofia, o alla politica, o alla poesia o alle arti si mostrano melanconici.
Aristotele disse tutti gli uomini d’ingegno esser melanconici (Tusc. I, 33). Shakespeare ha dipinto molto piacevolmente questa grande diversità del
temperamento generale; La natura si diverte qualche volta a formare esseri curiosi.
È questa stessa diversità che Platone disegna colle parole
δυσκολος (dumore difficile), ed ευκολος (dumore facile).
La bellezza è analoga in parte alla salute. Questa qualità soggettiva, benchè non contribuisca che indirettamente alla felicità coll’impressione che produce sugli altri.

La bellezza è una lettera aperta di raccomandazione che ci guadagna i cuori
anticipatamente.
Non bisogna sdegnare i doni gloriosi degli immortali che soli possono dare e che nessuno può accettare o rifiutare a suo piacere.
Omero
Il dolore, la noia e l’intelligenza
Inoltre possiamo osservare che a misura che riusciamo ad allontanarci dall’uno, ci avviciniamo al secondo, e reciprocamente; di maniera che la nostra vita rappresenta in realtà una oscillazione più o meno forte tra i due.
Ciò deriva dal doppio antagonismo in cui ciascuno di essi si trova verso l’altro, antagonismo esterno od oggettivo, ed antagonismo interno o soggettivo. Infatti esteriormente il bisogno e la privazione generano il dolore; per contraccambio, gli agi e l’abbondanza fanno nascere la noia. Si è per questo che vediamo la classe inferiore del popolo lottare incessantemente contro il bisogno, dunque contro il dolore, ed al contrario, la classe ricca
ed altolocata alle prese permanentemente, spesso disperatamente, contro la noia, vuoto interno che è stampato su tanti visi e che si lascia scorgere per un’attenzione sempre svegliata su tutti gli avvenimenti, anche più insignificanti, del mondo esterno; questo vuoto è appunto la vera sorgente della noia, e chi ne soffre aspira con avidità ad eccitamenti esterni, allo scopo di mettere in movimento lo spirito ed il cuore. È principalmente questo vuoto interno che conduce tanta gente alla dissipazione e alla miseria.

Nessuna cosa mette in guardia contro tali traviamenti più sicuramente della ricchezza interna, la ricchezza dello spirito, perché questo lascia tanto meno posto alla noia quanto più avvicina alla superiorità. L’attività incessante dei pensieri, il loro continuo avvicendarsi in presenza delle diverse manifestazioni del mondo interno ed esterno, la potenza e la capacità di combinazioni sempre variate mettono una testa eminente, salvo nei
momenti di fatica, fuori affatto dall’attacco della noia. Ma d’altronde un’intelligenza superiore ha per condizione immediata una sensibilità più viva, e per radice un più grande impeto della volontà e per conseguenza della passione; dall’unione di queste due condizioni deriva una intensità più considerevole di ogni emozione ed una sensibilità esagerata per i dolori morali ed eziandio pei fisici, come pure una grande intolleranza di faccia al minimo ostacolo, od anche al minimo sconcerto.
Ciò che contribuisce altresì potentemente a questi effetti si è
la vivacità prodotta dalla forza dell’immaginazione.
L’uomo intelligente aspirerà prima d’ogni altra cosa a fuggire qualunque dolore, qualunque contesa, ed a trovare riposo, cercherà dunque una vita tranquilla, modesta, riparata per quanto è possibile contro gl’importuni; dopo aver mantenuto per qualche tempo relazioni con ciò che si chiama gli uomini, ei preferirà una esistenza ritirata, e, se sarà uno spirito
assolutamente superiore, sceglierà la solitudine. Nella misura in cui un uomo possiede in sé stesso, meno ha bisogno del mondo esterno.
Così la superiorità dell’intelligenza conduce all’insociabilità.
È nella solitudine, dove ciascuno è ridotto alle sue sole risorse, che si scorge quanto si ha per sé stessi. Là l’uomo altamente dotato, popola ed anima co’ suoi pensieri la contrada la più deserta.
Seneca (Ep. 9) disse con ragione: La stupidità dà fastidio a sé stessa.


La vita dello stolto è peggior della morte. Così in conclusione si vede che ogni individuo è tanto più socievole quanto è più povero di spirito ed in generale più volgare. Una verità è che nel mondo non si ha la scelta che tra l’isolamento e la società.

Ma vediamo un po’ cosa producono gli agi della maggior parte degli umani!: noia.

Ciò che dimostra abbastanza che tali agi non hanno alcun valore si è il modo con cui sono impiegati; essi non sono letteralmente che Ozio.

L’uomo volgare non si preoccupa che di passare il tempo, l’uomo di talento che d’impiegarlo.
La ragione per cui le teste povere sono tanto esposte alla noia, si è che il loro intelletto non è assolutamente altra cosa che l’intermediario dei motivi
per la loro volontà. Se, in un dato momento, non vi sono motivi da cogliere, allora la volontà si riposa e l’intelletto resta inerte, perché la prima, non meglio del secondo, non può entrare in attività di suo proprio impulso; il risultato è uno spaventevole stagnamento di tutte le forze nell’individuo
intero — la noia. Per combatterla si suggerisce piano piano alla volontà dei motivi piccoli, provvisori, scelti indistintamente, allo scopo di stimolarla, e di metter con ciò in attività anche l’intelletto che deve coglierli: questi motivi sono dunque in rapporto ai motivi reali e naturali ciò che la carta-moneta è in rapporto al danaro, perché il loro valore non è che convenzionale.
Tali motivi sono i giuochi di carte ed altri, inventati precisamente allo scopo che abbiamo indicato. In loro mancanza l’uomo povero di sé si metterà a stamburare sui vetri, od a dar colpi con tutto quanto gli cade sotto mano. Anche il sigaro porge facilmente di che supplire ai pensieri.

Si è per questo che in tutti i paesi i giuochi di carte sono arrivati ad essere l’occupazione principale d’ogni società; cosa che fornisce la misura di ciò che valgono queste riunioni e che costituisce la bancarotta dichiarata d’ogni pensiero. Non avendo idee da scambiare, si scambiano carte cercando di sottrarsi vicendevolmente alquanti fiorini. O miserabili!

I giuochi di carte esercitano un’influenza demoralizzatrice. In fatti lo spirito del giuoco consiste nel sottrarre ad altri ciò che possiede.

Ma l’abitudine di procedere così, contratta a giuoco, prende radici, fa invasione nella vita privata, e il giocatore arriva quindi insensibilmente a
proceder nella stessa guisa quando si tratta del tuo e del mio, ed a considerare come lecito ogni vantaggio che si ha in mano al momento, poiché  lo si può fare legalmente. La vita ordinaria ne fornisce prove ogni giorno.

Noi dobbiamo stimare felici coloro che, guadagnando sé stessi, guadagnano cosa
che ha prezzo.
Inoltre come è più felice quel paese che ha meno bisogno o non ha affatto bisogno d’importazione, così è felice l’uomo a cui basta la ricchezza interna, e che per i suoi divertimenti non domanda che poco, od anche nulla, al mondo esterno, non dobbiamo, a nessun titolo, aspettarci gran cosa dagli altri, e in generale dal di fuori. Ciò che un individuo può essere per un altro è molto
strettamente limitato; ciascuno finisce col restar solo, e chi è solo? diventa allora la grande questione.
Goethe ha detto in proposito, parlando in modo generale, che in ogni cosa ciascuno, in conclusione, è ridotto a sé stesso
(Poesia e verità, vol. III).
Oliviero Goldsmith dice egualmente: Intanto da per tutto, ridotti a noi stessi, siamo noi che facciamo o troviamo la nostra propria felicità.
(Il Viaggiatore, v. 431 e seg.)

Ognuno deve adunque essere e fornire a sé stesso ciò che v’ha di migliore e di più importante. Quanto più succederà così, tanto più per conseguenza l’individuo troverà in sé stesso le sorgenti dei suoi piaceri, e tanto più sarà felice. Si è quindi con ragione che Aristotele ha detto: La felicità appartiene a chi basta a sé stesso (Mor. ad Eudemo, VII, 2).
Infatti tutte le sorgenti esterne della felicità e del piacere sono di lor natura eminentemente incerte, equivoche, fuggevoli, aleatorie, quindi soggette ad arrestarsi facilmente pur anche nelle circostanze più favorevoli, e questo è pure inevitabile, atteso che noi non possiamo averle sempre alla mano. Anzi, con l’età, quasi tutte fatalmente si esauriscono; perché allora amore, voglia di divertirsi, passione pei viaggi e per cavalcare, attitudine a far figura nel mondo, tutto questo ci abbandona; la morte ci toglie perfino amici e parenti.
A questo momento, più che mai, è importante sapere ciò che si ha da sé stessi. Non v’ha che questo, infatti, che resisterà più lungamente. Intanto in ogni età, senza differenza, ciò è e resta la sorgente vera, e sola permanente della
felicità. Poiché non vi è molto da guadagnare a questo mondo: la miseria ed il dolore lo empiono, e per quelli che hanno sfuggiti questi mali, la noia è là che li insidia.

Inoltre d’ordinario è la perversità che regna, e la stoltezza che parla più
forte. Il destino è crudele, e gli uomini sono miserabili. In un mondo siffatto colui che ha molto in sé stesso è simile ad una camera dell’albero di Natale, illuminata, calda, gaia, in mezzo alle nevi ed ai ghiacci d’una notte di dicembre.
Per conseguenza, aver un’individualità ricca e superiore, e soprattutto molta
intelligenza costituisce senza dubbio la sorte più felice sulla terra, per quanto ciò possa esser differente dalla sorte la più brillante. Ad esempio quanta saggezza nell’opinione emessa su Descartes dalla regina Cristina di Svezia in età di appena diciannove anni:
“Il signor Descartes è il più felice di tutti i mortali, e la
sua condizione mi sembra degna d’invidia” (Vie de
Descartes par Baillet, l. VII, c. 10).

Descartes a quell’epoca viveva da vent’anni in Olanda nella più profonda solitudine, e la regina lo conosceva solamente per quanto le era stato raccontato e per aver letto una delle sue opere. Bisogna solo, e ne era precisamente il caso in Descartes, che le circostanze esterne siano abbastanza favorevoli per permettere di possedersi, e d’esser contenti di sé stessi; per questo l’Ecclesiaste diceva già:

La saggezza è buona con un patrimonio e ci aiuta a rallegrarci alla vista del sole (7, 12).
 L’uomo cui, per un favore della natura o della fortuna, questa sorte è stata accordata, starà attento con cura gelosa perché questa sorgente interna di felicità gli resti sempre accessibile. Per ciò occorre indipendenza. Quest’uomo o questa donna acquisterà l’indipendenza con la moderazione e con il risparmio, e tanto più facilmente perché questa persona non è ridotta, come
gli altri uomini, alle sole sorgenti esterne dei piaceri. Ed è per questo che la prospettiva delle cariche, dell’oro, dei favori regali, e l’approvazione del mondo non la indurranno a rinunziare a sé stessa per adattarsi alle vedute meschine od al cattivo gusto degli uomini.
Al caso, ei farà come Orazio nella epistola a Mecenate (L. 1, ep. 7).

È una gran pazzia perdere all’interno per guadagnare all’esterno.

La felicità consiste nell’esercitare le proprie facoltà (αρετην) in lavori capaci di risultato; egli spiega pure che αρετη indica ogni facoltà non comune. Ora la destinazione primitiva delle forze di cui la natura ha dotato l’uomo, è la lotta contro la necessità che l’opprime da per tutto.
Quando la lotta lascia un momento di tregua, le forze senza impiego divengono un peso per lui; ei deve allora giuocare con esse, cioè impiegarle senza uno scopo, altrimenti si espone all’altra sorgente dell’umana infelicità, alla noia.

Colui che fugge dal ricco palazzo, poiché si annoia, vi farà ritorno un momento dopo non trovandosi più felice altrove; un altro corre a briglia sciolta in villa; appena toccata la soglia è colpito dalla noia, si abbandona gravemente al sonno e cerca di dimenticar sé stesso, oppure d’improvviso desidera di nuovo la città e vi ritorna. (L. III, v. 1073 e seg.)

La sensibilità, forza fisiologica fondamentale si esercita senza scopo.
I piaceri della sensibilità sono gli atti del contemplare, pensare, sentire, creare nella poesia o nell’arte plastica, far musica, studiare, leggere, meditare, inventare.

Ciascuno comprenderà che il piacere nostro, motivato costantemente dall’impiego delle nostre proprie forze, come pure la nostra felicità, risultato del frequente rinnovarsi di questo piacere, saranno tanto più grandi quanto più la forza produttrice sarà di nobile specie.

Il primo posto, sotto questo rapporto, tocchi alla sensibilità il cui predominio deciso stabilisce la distinzione tra l’uomo e le altre specie animali.

Alla sensibilità appartengono le nostre forze intellettuali; ed è per ciò che il suo predominio ci rende atti a gustare i piaceri che hanno sede nell’intelletto, i piaceri dello spirito; piaceri che sono tanto più grandi
quanto il predominio della sensibilità è più accentuato. L’uomo normale, l’uomo ordinario non può prendere vivo interesse ad una cosa se questa non eccita la sua volontà, se non gli presenta un interesse personale. Ora ogni eccitamento persistente della volontà è, per lo meno, di natura mista, quindi combinato col dolore.

L’uomo dotato di forze intellettuali predominanti, invece è capace d’interessarsi vivamente alle cose per via dell’intelligenza pura, senza
immistione alcuna del volere; ne prova anzi il bisogno.
Tale interesse lo trasporta allora in una regione in cui il dolore è essenzialmente straniero, nell’atmosfera per così dire, degli dei dalla vita facile, Θεν ρεία ζωόντων. Mentre lesistenza del resto degli uomini passa così nel torpore, e che i sogni e le aspirazioni di essi sono dirette verso i meschini interessi del benessere personale colle loro miserie d’ogni sorte; mentre una noia insopportabile li coglie appena non sono più occupati a coltivare tali progetti, e che restano ridotti a sé stessi; mentre l’ardore
selvaggio della passione può solo scuotere questa massa inerte, l’uomo dotato di facoltà intellettuali preponderanti possiede un’esistenza ricca di pensieri, sempre animata, e sempre importante; oggetti degni ed interessanti lo occupano non appena ha l’agio di darsi a loro, ed ei porta con sè una sorgente di gioie le più nobili.
L’impulso esterno gli è fornito dalle opere della natura e dall’aspetto dell’attività umana, ed inoltre dalle produzioni così svariate delle menti più elevate di tutti i tempi e paesi, produzioni che egli solo può realmente gustare per intero, perché egli solo è capace di comprenderli e di sentirli
interamente. Si è dunque per lui, in realtà, che costoro hanno vissuto; si è dunque a lui, in fatto, che essi hanno indirizzato le loro parole, mentre gli altri, come uditori d’occasione, non comprendono che qualche poco qua e là, e solamente a mezzo, è certo che appunto per questo l’uomo superiore acquista un bisogno di più che gli altri uomini, il bisogno d’imparare, di vedere, di
studiare, di meditare, di applicarsi; il bisogno quindi di aver tempo disponibile. Ora, come Voltaire ha giustamente osservato, non essendovi veri piaceri se non in seguito a veri bisogni, questo bisogno dell’uomo intelligente è precisamente la condizione che mette alla sua portata piaceri il cui accesso
resta interdetto per sempre agli altri.
Un ente così privilegiato, a lato della sua vita personale, vive d’una seconda esistenza, d’una esistenza intellettuale che arriva grado a grado ad essere il suo vero scopo, l’altra non essendo più considerata che come mezzo; per il resto degli uomini si è la loro stessa esistenza, insipida, vuota e desolata che deve loro servire di scopo. La vita intellettuale sarà l’occupazione principale dell’uomo superiore; aumentando senza mai cessare il suo tesoro di
senno e di scienza, essa così acquista costantemente una connessione ed una gradazione, una unità ed una perfezione sempre più spiccate, come un’opera d’arte in via di formazione.
In cambio che penoso contrasto fa con questa la vita degli altri, puramente
pratica, diretta solo al benessere personale, vita che non ha aumento possibile se non in lunghezza senza poter guadagnare in profondità, e destinata nondimeno a servir loro di scopo per sé stessa, mentre per l’altro essa è un semplice mezzo!
 La nostra vita pratica, reale, dal momento che le passioni non la tengono in agitazione, è noiosa e scipita; quando esse la turbano diventa ben presto dolorosa; si è per questo che sono felici solamente coloro cui è toccato in sorte una somma d’intelletto eccedente quella misura che il servizio della loro volontà reclama. Così a lato della vita effettiva essi possono vivere d’una vita intellettuale che li occupa e li ricrea senza dolore, e tuttavia con vivacità. Il semplice agio, vale a dire un intelletto non occupato al servizio della volontà, non basta, abbisogna per ciò un eccedente positivo di
forza che solo ci rende atti ad un’occupazione puramente spirituale e non legata al servizio della volontà. Per lo contrario
l’ozio senza lo studio è morte e sepolcro dell’uomo vivo.
(Seneca, Ep. 82)
La vita intellettuale esistente a lato della vita reale presenterà gradazioni innumerevoli, dai lavori di coloro che colgono, rendendo presente, la cultura del passato ai lavori di coloro che creano le più alte opere della poesia e della filosofia.

Una tal vita intellettuale protegge non soltanto contro la noia, ma anche contro le sue perniciose conseguenze. Essa infatti ripara dalla cattiva compagnia e dai molti pericoli, disgrazie, perdite, e dissipazioni a cui si espone chi cerca interamente la sua felicità nella vita reale. Volendo parlare di me, per esempio, dirò che la mia filosofia non m’ha fruttato, ma mi ha risparmiato molto.

L’uomo normale invece o limitato, nei piaceri della vita, alle cose esterne, quali le ricchezze, il grado, la famiglia, gli amici, la società, ecc.; su esse egli stabilisce la felicità della sua vita, cosicché tale felicità crolla, quando le perde, o quando incontra qualche disinganno. Per disegnare questo stato dell’individuo possiamo dire che il suo centro di gravità cade fuori di lui; cerca, non importa dove, una soddisfazione che venga dal di fuori.

Prendiamo ora un uomo dotato di una potenza intellettuale che senza esser eminente, oltrepassi tuttavia la misura ordinaria e strettamente sufficiente. Vedremo quest’uomo, quando le sorgenti esterne dei piaceri venissero a mancare o più non lo soddisfacessero, coltivare da dilettante qualche ramo delle belle arti, oppure qualche scienza.

A questo titolo possiamo dire che il suo centro di gravità cade già in parte dentro di lui.

Ma il semplice dilettantismo nell’arte è ancora ben lontano dalla facoltà creatrice.

Credo personale contrastante con tale giudizio di Arthur Schopenhauer:
A tale proposito consiglio la lettura dello scritto:  
interiorità,  incontro con un “Artista”

Ciò resta riservato esclusivamente alla suprema altezza intellettuale, a quell’altezza che si chiama comunemente genio; essa sola può prender per tema, interamente ed assolutamente, l’esistenza e l’essenza delle cose; dopo di che tende, secondo la sua direzione individuale, ad esprimere i suoi profondi concetti coll’arte, colla poesia o colla filosofia.

Non è che per un uomo di tal tempra che l’occupazione permanente con sé stesso, coi suoi pensieri e colle sue opere riesce un bisogno irresistibile; per lui la solitudine è la ben venuta; di quest’uomo possiamo dire che il suo centro di gravità cade tutto intero dentro di lui. Questo ci spiega nello stesso
tempo come succede che tali uomini d’una specie così rara non portano ai loro amici, alla loro famiglia, al bene pubblico, l’interesse intimo ed illimitato di cui molti fra gli altri sono capaci, alla fine essi possono farne a meno possedendo sé stessi. Esiste adunque di più in essi un elemento isolante, la cui azione è tanto più energica in quanto che gli altri uomini non possono soddisfarli pienamente.

Considerato sotto un tal punto di vista l’uomo il più felice sarà dunque colui che la natura ha riccamente dotato dal lato intellettuale, tanto ciò che è in noi ha più importanza di ciò che è al di fuori.

La ricchezza dell’anima è la sola vera ricchezza;
tutti gli altri beni sono fecondi di dolori (Ant. I,67) Luciano

Ei reclama dunque unicamente la libertà di potere, per tutta la sua vita esser sé stesso ogni giorno, ed ogni ora. Per l’uomo destinato ad imprimere la traccia del suo spirito sull’umanità intera, non esistono che una sola felicità ed una sola infelicità, e sono di poter perfezionare il suo ingegno e
completar le sue opere.

Esercitare liberamente il proprio genio, ecco la vera felicità.
Chi è nato con un genio, trova in esso la sua più bella esistenza.

Sua destinazione naturale si è d’impiegare il suo tempo ad acquistare il necessario per la esistenza sua e per quella della famiglia. Egli è figlio
della miseria, non un’intelligenza libera.

D’altra parte però una intelligenza che oltrepassi di molto la misura normale è parimenti un fenomeno straordinario, quindi contro natura. Tuttavia, quando essa è data, l’uomo che ne è fornito, per trovare la felicità, ha precisamente bisogno di quegli agi che per gli altri sono qualche volta importuni e qualche volta funesti; in quanto a lui, senza agi sarà un Pegaso sotto il giogo; in una parola sarà infelice. Nondimeno se queste due anomalie, l’una esterna e l’altra interna, si trovano riunite, la loro unione produce un caso di suprema felicità, l’uomo così favorito condurrà allora una vita d’un ordine superiore, la vita d’un essere sottratto alle due sorgenti opposte dei dolori umani; il bisogno e la noia.

Le grandi facoltà intellettuali producono un aumento eccessivo dell’attitudine a sentire il dolore sotto tutte le forme; che inoltre il temperamento passionato che ne è la condizione, come pure la vivacità e la perfezione più grande di ogni percezione, che ne sono inseparabili, danno alle emozioni così prodotte una violenza senza confronto più forte; ora si sa che le emozioni
dolorose sono molto più frequenti che le piacevoli; finalmente bisogna anche ricordare che le alte facoltà intellettuali fanno di chi le possiede un uomo straniero agli altri uomini ed alle loro agitazioni, visto che più questi possiede in sé stesso, meno può trovare in altrui. Mille oggetti per i quali costoro prendono un piacere infinito, a lui sembrano vani.

Non si è forse preteso bene spesso e non senza qualche apparenza di ragione, che in fondo l’uomo più povero di spirito è il più felice?
Sofocle ha espresso su ciò giudizi diametralmente opposti: Il sapere è di molto la porzione più considerevole della felicità(Antigone). Un’altra volta disse: La vita del saggio non è la più piacevole (Ajace).

“Dove molta sapienza, ivi molto dolore” Ecclesiaste

Uomini costantemente occupati ovvero uomini senza bisogni spirituali.
Da ciò derivano molte conseguenze: la prima, in rapporto a lui stesso, si è che non avrà mai gioie spirituali, secondo la massima già citata che non vi sono veri piaceri se non con veri bisogni. Nessuna aspirazione ad acquistar
conoscenze e giudizi nuovi per le cose in sé stesse anima la sua esistenza e nessuna aspirazione ai piaceri estetici; queste due aspirazioni sono strettamente legate assieme.

Bever vino di Champagne, ecco per loro l’apice dell’esistenza; procurarsi tutto quanto contribuisce al benessere materiale, ecco lo scopo della loro
vita. Troppo felice quando tale scopo lo occupa abbastanza!

Se questi beni gli sono stati già concessi anticipatamente, essi diventa preda della noia;
Per cacciarla provano tutto ciò che si può immaginare: balli, teatri, società, giuochi di carte, giuochi d’azzardo, cavalli, donne, ebbrezza, viaggi, ecc. E
nullameno tutto questo non basta quando l’assenza di bisogni intellettuali rende impossibili i piaceri dello spirito. Così una serietà fosca li caratterizza.

Niente li diverte, niente li scuote, niente risveglia il loro interesse. I piaceri materiali sono presto esauriti; la società, composta di uomini costantemente occupati loro pari, viene loro a noia; il giuoco delle carte finisce col stancarli. Li restano rigorosamente parlando le soddisfazioni della vanità alla loro maniera: esse consisteranno a sorpassare gli altri nelle ricchezze, nel grado, nell’influenza o nel potere, ciò che allora vale la loro stima; oppure cercheranno di potersi almeno fregare intorno a coloro
che brillano per tali vantaggi, e di riscaldarsi ai riflessi del loro splendore.

La seconda conseguenza che risulterebbe dalla proprietà fondamentale che abbiamo riscontrata nell’ uomo costantemente occupato, si è che in rapporto agli altri, siccome è privo di bisogni intellettuali, e limitato ai soli materiali, cercherà gli uomini che potranno soddisfare questi ultimi, e non coloro che potrebbero provvedere ai primi. Sicché non sono certamente le alte qualità intellettuali che chiede loro; che anzi quando le incontra eccitano la sua antipatia, e forse anche il suo odio, poiché ei non prova in loro presenza se non un sentimento importuno d’inferiorità ed un’invidia sorda, secreta, che nasconde colla più gran cura, che cerca di dissimulare a sé  stesso, ma che giusto per questo cresce talora fino ad una rabbia muta. Non è mica sulle facoltà dello spirito che costui penserà mai a misurare la sua stima o la sua considerazione; ei le riserverà esclusivamente al grado ed alla
ricchezza, al potere ed all’influenza, cose che passano ai suoi occhi come le sole qualità vere, le sole in cui può aspirare di eccellere. E tutto ciò perché il filisteo è un uomo privo di bisogni intellettuali. Il suo estremo soffrire deriva dal fatto che le idealità non gli portano alcun divertimento, e che, per sfuggire la noia, ei deve sempre ricorrere alle realtà contingenti che sono ben presto esaurite, ed allora in luogo di far piacere, stancano; e dall’altra portano con sé sciagure d’ogni fatta, mentre le idealità sono
inesauribili e per sé stesse innocue.
 In tutta questa dissertazione sulle condizioni personali che contribuiscono alla nostra felicità, ebbi in vista le qualità fisiche, e principalmente le qualità intellettuali. Si è nella mia memoria sul Fondamento della morale che ho esposto come la perfezione morale, a sua volta, influisca direttamente
sulla felicità: a quest’opera invito il lettore.

Epicuro, il grande maestro di felicità, ha mirabilmente e giudiziosamente diviso i bisogni umani in tre classi.
Primo, i bisogni naturali e necessari: quelli che non soddisfatti producono dolore; essi dunque non comprendono che cibo e vesti.

Secondo, i bisogni naturali, ma non necessari:
cioè il bisogno di soddisfazione sessuale. Tale bisogno è già più difficile da soddisfare.

Terzo, quelli che non sono né naturali, né necessarî:
e sarebbero i bisogni del lusso, dell’abbondanza, del fasto e della splendidezza; il loro numero è infinito, e la loro soddisfazione è molto difficile.

La ricchezza è come
l’acqua salata: più se ne beve, più cresce la sete; lo stesso
succede della gloria.

L'Utilità Marginale.

Si attribuisce valore ad un bene non in base alla soddisfazione totale conseguente al suo possesso, bensì in base alla soddisfazione conseguente all'ultima aggiunta, quella meno desiderata al nostro consumo.
Ordinariamente l'acqua, diversamente dai diamanti, è largamente disponibile; in tali circostanze l'ultima goccia di essa ha un'utilità nulla. Ma se ci troviamo nel deserto, in una condizione di indubbia scarsità di acqua, non c'è nulla contro cui si potrebbe scambiare un'altra goccia.

Il fatto è che dopo la perdita della ricchezza o dell’agiatezza, appena vinto il primo dolore, il nostro umore abituale non sarà molto diverso da quello che era per lo avanti, si spiega riflettendo che, il fattore del nostro avere essendo stato diminuito dalla sorte, riduciamo subito, da noi stessi,
considerevolmente il fattore delle nostre pretese.
Una volta compiuta questa operazione, il dolore si fa sempre meno sensibile,
e finisce collo sparire;  la piaga non si cicatrizza talvolta, ovvero nel caso in cui si soffra, in una disgrazia, un avvenimento doloroso. Nell’ordine inverso, in presenza d’un avvenimento felice, il peso che comprime le nostre pretese s’innalza e permette loro di dilatarsi: in ciò consiste il piacere. Ma questo pure non dura che il tempo necessario perchè l’operazione si compia; noi ci avvezziamo poi alla scala così aumentata delle pretese, e diveniamo indifferenti al possesso corrispondente della ricchezza. È quanto esprime un
passo di Omero (Odissea, XVIII, 130-137) di cui presentiamo gli ultimi versi: Tale invero è lo spirito degli uomini terrestri: Simile ai giorni mutevoli.

La fonte dei nostri dispiaceri sta negli sforzi da noi sempre rinnovati per elevare il fattore delle aspirazioni, mentre l’altro fattore colla sua immobilità vi si oppone.
 Non bisogna stupirsi di vedere, nella specie umana, povera e piena di bisogni, la ricchezza più altamente e più sinceramente apprezzata, forse più venerata, di qualunque altra cosa.

Si fa spesso rimprovero agli uomini di volgere i loro voti specialmente al danaro e di amarlo più d’ogni altra cosa al mondo.
Pure è ben naturale, quasi inevitabile, di amare ciò che è pronto ad assumere in ogni momento la forma dell’oggetto attuale delle nostre voglie sì mobili, o dei nostri bisogni sì diversi. Ogni altro bene, infatti, non può soddisfare che un solo desiderio, che un solo bisogno. Il solo danaro è il bene assoluto, perché esso non provvede unicamente ad un solo bisogno «in concreto,» ma al bisogno in generale «in abstracto».

Un proverbio tedesco dice con ragione: «Ein Handwerk hat einen goldenen Boden» vale a dire un buon mestiere vale molto oro. Così non avviene degli artisti e dei virtuosi d’ogni specie.

In generale, si troverà che ordinariamente quelli che hanno già lottato colla vera miseria e col bisogno, li temono incomparabilmente meno, e sono più portati alla dissipazione di coloro che non conoscono questi mali se non per averne sentito parlare. Alla prima categoria appartengono tutti coloro che; non importa per qual colpo della sorte, o per qualunque talento speciale, sono passati rapidamente dalla povertà all’agiatezza; alla seconda quelli che, nati con beni di fortuna, li hanno conservati. Costoro stanno in apprensione per l’avvenire più dei primi e sono più economi. Se ne potrebbe dedurre che il bisogno non è cosa tanto brutta come sembrerebbe visto da lontano. Però la
ragione vera dev’essere piuttosto la seguente: all’uomo nato con un patrimonio, la ricchezza appare come qualche cosa d’indispensabile, come l’elemento della sola esistenza possibile, allo stesso titolo dell’aria; così ei ne avrà cura come della sua vita istessa, e sarà, in generale, ordinato, previdente ed economo. Al contrario a colui che fin dalla nascita visse in povertà, si è questa che sembrerà la condizione naturale; le ricchezze che gli potranno toccare più tardi, non importa come, gli pareranno un superfluo.

Aggiungiamo ancora che questa gente possiede, non tanto nella testa quanto nel cuore, una ferma ed eccessiva confidenza da una parte nella sua buona fortuna e dall’altra nelle sue proprie risorse, che le hanno di già dato aiuto per cavarsi dalle strettezze e dall’indigenza; questa gente non considera la miseria, come fanno i ricchi di nascita, quale un abisso senza fine, ma la
crede un basso-fondo che basta battere col piede per rimontarne alla superficie. Con questa stessa particolarità umana si può spiegare perché le persone povere siano molto spesso più esigenti e più prodighe di quelle che hanno portato con sé ricchezze; infatti, quasi sempre, le persone ricche non possiedono solamente beni di fortuna, ma anche uno zelo, o, per così dire, un certo istinto ereditario di conservare le ricchezze che fa difetto alle povere.


Una persona Ricca spende con giudizio;
ma quella che si trova per la prima volta in possesso della ricchezza, trova tanto gusto nello spendere che getta il danaro con grande profusione.
Non credo proprio far cosa indegna della mia penna raccomandando qui la cura di conservar la propria fortuna, guadagnata od avuta in eredità; è un vantaggio inapprezzabile il possedere tutta fatta una sostanza quand’anche essa non bastasse a lasciarci vivere agiatamente solo e senza famiglia, in una vera indipendenza, vale a dire senza aver bisogno di lavorare; ecco ciò che costituisce il privilegio che affranca dalle miserie e dai tormenti propri della vita umana; ecco l’emancipazione della servitù generale che è il destino dei figli della terra. Non è che con questo favore della sorte che siamo veramente uomini nati liberi; a questa sola condizione si è realmente sui juris, padroni del proprio tempo e delle proprie forze, e si potrà dire ogni mattina:
La giornata m’appartiene.
Ma la fortuna patrimoniale arriva al suo più alto valore quando tocca a colui che, dotato di forze intellettuali superiori, intende ad uno scopo la cui realizzazione non mira ad un lavoro per vivere;
messo in tali condizioni quest’uomo è doppiamente dotato dalla sorte; ei può ora vivere a suo genio, e pagherà al centuplo il suo debito all’umanità producendo ciò che nessun altro potrebbe produrre, e creando cose che formeranno il bene e nello stesso tempo l’onore della comunità umana.

Quanto a chi possedendo un patrimonio, non produce alcunché di simile, in qualunque misura si sia, nemmeno questi sarà felice perché il fatto d’esser liberato dal bisogno lo trasporta all’altro polo della miseria umana, alla noia, che lo tortura in tal maniera ch’ei sarebbe assai più contento se il bisogno gli avesse imposto un’occupazione. La noia lo farà cadere più facilmente in quelle stravaganze che gli toglieranno la fortuna di cui non è degno.
In realtà una folla di persone non è nell’indigenza se non per aver speso il suo danaro, finché ne aveva, a fine di procurarsi un sollievo momentaneo alla noia che la opprimeva.

Il povero:
Egli solo soffre tutto col sorriso sulle labbra; egli solo riconosce che i meriti non hanno alcun valore; egli solo può esser iniziato a tempo, vale a dire fin dalla prima giovinezza, a quella verità nascosta che Goethe ci ha svelato in questi termini:
Che nessuno si lagni della bassezza, perché essa è la potenza.
Chi invece ebbe dai genitori una fortuna sufficiente per vivere è uso a camminare colla testa alta; egli non ha imparato tutti questi giuochi di flessibilità.

Non facilmente emergono coloro al cui merito pone ostacolo la povertà.

Di ciò che si rappresenta
Dell’ opinione altrui.

Ciò che rappresentiamo, o, in altri termini, la nostra esistenza nell’opinione altrui non ha importanza alcuna per la nostra felicità.

Fa stupore il vedere quanto egli sia infallantemente angosciato e molte volte dolorosamente ferito da ogni lesione alla sua ambizione, in qualunque senso, a qualunque grado, o sotto qualunque rapporto si sia, da ogni sdegno, da ogni trascuranza, dalla più piccola mancanza di riguardi.

Servendo di base al sentimento dell’onore, questa proprietà può avere un’influenza salutare sulla buona condotta di moltissime persone, a guisa di
succedaneo della loro moralità; ma in quanto alla sua azione sulla felicità reale dell’uomo, e soprattutto sulla quiete dell’animo e sull’indipendenza, le due condizioni sì necessarie alla felicità, essa è piuttosto perturbatrice e dannosa che favorevole. Si è per questo, che, dal nostro punto di vista, è prudente metterle un limite e, con saggie riflessioni, moderare questa grande sensibilità riguardo l’opinione altrui tanto nel caso che carezzi quanto nel caso che ferisca, in tutti e due pende dal medesimo filo.
Altrimenti restiamo schiavi dell’opinione e del sentimento degli altri:
  
 Sic leve, sic parvum est, animum quod laudis avarum subruit ac reficit.
  
 (Talmente tenue, talmente piccolo è ciò che perturba e riconforta un’anima avida di lode).
 Per conseguenza un giusto apprezzamento del valore di ciò che si e in sé stesso e per sé stesso confrontato con ciò che si è solamente agli occhi altrui contribuirà molto alla nostra felicità. Il primo termine del confronto comprende quanto riempie il tempo della nostra esistenza, il contenuto intimo di questa, e quindi tutti i beni che abbiamo esaminati nei capitoli intitolati


Di ciò che si è e di ciò che si ha

Il luogo dove si trova la sfera d’azione di tutto questo è proprio la coscienza dell’uomo. Invece il luogo di tutto ciò che siamo per gli altri è la coscienza
altrui; è la figura sotto la quale noi vi appariamo, come pure le nozioni che vi si riferiscono.
Ora queste sono cose che, direttamente, non esistono affatto per noi; tutto ciò non esiste che indirettamente, vale a dire se non in quanto stabilisce la condotta degli altri verso di noi. Ed anche questo non entra realmente in considerazione che in quanto influisce su ciò che potrebbe modificare quello che siamo in noi e per noi stessi. Ciò posto, quanto succede in una
coscienza straniera ci è, a tal titolo, perfettamente indifferente, e, a nostra volta, noi vi diverremo indifferenti a misura che conosceremo abbastanza la superficialità e la futilità dei pensieri, i ristretti limiti delle nozioni, la piccolezza dei sentimenti, l’assurdità delle opinioni e il numero considerevole di errori che s’incontra a
 misura che impareremo per esperienza con qual disprezzo si parla, all’occasione, di ciascuno di noi quando non si teme o non si crede che lo sapremo — ma soprattutto allorquando avremo inteso una sol volta con qual disdegno si parla dell’uomo, il più degno di stima. Comprenderemo allora che attribuire un alto valore all’opinione degli uomini è far loro troppo onore.
In ogni caso, è proprio esser ridotti ad una meschina risorsa il non trovare la felicità in ciò che si è non realmente, ma nell’immaginazione altrui. In tesi generale è la nostra natura animale che costituisce la base del nostro essere, e per conseguenza anche della nostra felicità.
 L’essenziale per il benessere è dunque la salute, e poi i mezzi necessari al nostro mantenimento, e per conseguenza una vita libera da cure moleste. L’onore, il fasto, la grandezza, la gloria, qualunque valore si attribuisca loro, non possono entrar in concorrenza con questi beni essenziali, né  surrogarli; ben altrimenti, toccando il caso, non si esiterebbe un momento solo a cangiarli con gli altri. Sarà dunque molto utile per la nostra
felicità il conoscere per tempo questo fatto così semplice che ognuno vive anzitutto ed effettivamente nella sua propria coscienza e non nell’opinione degli altri, e che allora naturalmente la nostra condizione reale e personale, quale la determinano la salute, il temperamento, le facoltà intellettuali, le rendite, la moglie, i figli, l’abitazione, ecc., è cento volte più importante per la nostra felicita di ciò che piace agli altri fare di noi.
L’illusione contraria rende infelice. Esclamare con enfasi:
«L’onore vale più della vita» è dire realmente: «La vita e la salute sono niente; ciò che gli altri pensano di noi, ecco l’importante». Tutt’al più questa massima può esser considerata come una iperbole in fondo alla quale si trova la prosaica verità che per mantenersi e per andar avanti fra gli nomini,
l’onore, vale a dire la loro opinione a nostro riguardo, è spesso d’un’utilità indispensabile.
Quando si vede invece come quasi tutto ciò che gli uomini cercano durante l’intera loro vita, a prezzo di sforzi incessanti, di mille pericoli e di mille amarezze, ha per scopo finale di elevarli nell’opinione altrui; non solo le cariche, i titoli e le onorificenze, ma la ricchezza ancora, sostanza, ricercate principalmente a questo fine,
 quando si vede che il risultato definitivo a cui si tende è di ottenere più rispetto da parte degli altri, tutto ciò non prova, ahimè! se non la grandezza dell’umana follia.
 Annettere troppo valore all’opinione altrui è una superstizione universalmente dominante; che essa abbia le sue radici nella nostra stessa natura, o che abbia seguito la nascita della società e della civiltà, egli è certo che esercita in ogni caso sulla nostra condotta un’influenza smisurata ed ostile alla nostra felicità.

Possiamo seguire tale influenza dal punto in cui si mostra sotto la forma d’una deferenza ansiosa e servile per il che se ne dirà?

Il precetto d’aver da tenere svegliato o stimolato il sentimento dell’onore occupa il posto principale in ogni ramo dell’arte dell’educazione; ma riguardo alla felicità dell’individuo, ed è questo che qui ci occupa, succede tutt’altra
cosa, e noi dobbiamo dunque dissuaderci dall’attribuire un valore troppo alto all’opinione altrui. Se nondimeno, come ce lo insegna l’esperienza, il fatto si presenta ogni giorno; se ciò che la maggior parte degli uomini stima di più si è precisamente l’opinione altrui a loro riguardo, e se essi se ne preoccupano più che di quanto, succedendo nella loro propria coscienza, esiste
immediatamente per loro; se dunque, per un rovesciamento dell’ordine naturale, si è l’opinione altrui che sembra loro esser la parte reale dell’esistenza, l’altra non apparendo esserne che la parte ideale; se fanno di ciò che è derivato e secondario l’oggetto principale, e se l’immagine del loro essere nella testa degli altri sta loro più a cuore che il loro essere stesso; tale apprezzamento diretto di ciò che direttamente non esiste per alcuno costituisce quella follia a cui si è dato il nome di vanità, «vanitas» per indicare con questa parola il vuoto ed il chimerico di tale tendenza. Si può facilmente comprendere anche, per quanto dicemmo più indietro, che essa appartiene alla categoria di quegli errori che consistono nell’obliare lo scopo per i mezzi, come l’avarizia.

In fatti il prezzo che noi annettiamo all’opinione altrui e la nostra costante preoccupazione a questo riguardo passano quasi ogni limite ragionevole, talmente che tale preoccupazione può esser considerata come una specie di mania generalmente diffusa, o piuttosto innata. In tutto ciò che facciamo, come in tutto ciò che ci asteniamo di fare, noi prendiamo in considerazione
l’opinione altrui quasi prima d’ogni altra cosa, e si è da una tal cura che in seguito ad un esame profondo vedremo nascere la metà circa dei tormenti e delle angosce che abbiamo provato.

E quante vittime non fa di frequente! Essa si mostra già nel fanciullo poi
in ogni stadio della vita.

Per noi tutti, ben di sovente, le nostre preoccupazioni, i nostri affanni, le cure angosciose, le nostre collere, le nostre inquietudini, i nostri
sforzi, ecc., hanno in vista quasi interamente l’ opinione altrui.

L’invidia e l’odio partono egualmente, in gran parte, dalla stessa radice.

Il solo mezzo di liberarci da questa follia universale sarebbe di riconoscerla distintamente per una follia, e, a tale scopo, renderci conto ben chiaramente fino a qual punto le opinioni, nelle teste degli uomini, siano in massima parte e molto di frequente false, storte, erronee ed assurde; quanto l’opinione altrui abbia poca influenza reale su noi nella maggior parte dei casi e delle cose; quanto in generale essa sia cattiva, talmente che non vi sarebbe chi non si ammalerebbe dalla collera se sentisse in che tono si parla e cosa si dice di lui; quanto infine l’onore istesso non abbia, propriamente parlando, che un valore indiretto e non immediato, ecc. Se potremo riuscire ad ottenere la guarigione di questa pazzia generale, guadagneremo infinitamente in calma di spirito ed in soddisfazione, ed acquisteremo nel tempo stesso un contegno più fermo e più sicuro, e un portamento molto più sciolto e più naturale. L’influenza affatto benefica d’una vita ritirata sulla nostra tranquillità d’animo e sulla nostra soddisfazione proviene in gran parte perché essa ci sottrae all’obbligo di vivere costantemente sotto lo sguardo altrui e, per
conseguenza, ci toglie la preoccupazione incessante sulla loro possibile opinione: ciò che ha per effetto di renderci a noi stessi. In tal maniera sfuggiremo egualmente a molti mali effettivi la cui causa unica è questa aspirazione puramente ideale, o, per dire più correttamente, questa deplorabile demenza; ci resterà pure la facoltà di prestare maggior cura ai beni reali, che potremo allora gustare senza essere disturbati.

Dalla follia della natura umana or ora descritta, germogliano ambizione, la vanità e l’orgoglio. Tra i due ultimi la differenza consiste in ciò che l’orgoglio è la convinzione già fermamente acquistata del nostro alto valore
sotto ogni rapporto; la vanità invece è il desiderio di far nascere questa convinzione negli altri e, d’ordinario, colla secreta speranza di poter in seguito appropriarsela. Così l’orgoglio è l’alta stima di sé, procedente dall’interno,
dunque diretta; la vanità invece è la tendenza ad acquistarla dal di fuori, dunque indirettamente. Per ciò la vanità rende loquaci, l’orgoglio taciturni. Ma il vanitoso dovrebbe sapere che l’alta opinione degli altri, a cui aspira, si ottiene molto più presto e più sicuramente serbando un continuo silenzio che parlando, quand’anche s’avesse da dire le più belle cose del mondo.
Non è orgoglioso chiunque lo voglia; tutt’al più può affettare orgoglio chiunque lo voglia; ma quest’ultimo si tradirà ben presto nella parte che vuol rappresentare, siccome in ogni parte presa a prestito. Ciò che rende realmente orgoglioso si è la ferma, l’intima, l’incrollabile convinzione di meriti eminenti e d’un valore straordinario. Tale convinzione può essere erronea,
oppure basarsi su meriti semplicemente esterni e convenzionali ciò poco importa all’orgoglio, purché essa sia reale e sincera.
Poiché l’orgoglio ha le sue radici nella convinzione, sarà, come ogni idea, al di fuori della nostra libera volontà. Il suo peggior nemico, voglio dire il suo maggior ostacolo, è la vanità che briga l’approvazione altrui per fondar poi su questa la propria alta stima di sé stessa, mentre l’orgoglio suppone un’opinione già fermamente stabilita.

Ogni persona che possiede meriti di qualsivoglia specie farà molto bene a metterli in chiara luce da sé stesso, allo scopo di non lasciarli cadere in un completo oblio; colui che benevolmente, non cerca di approfittarsene e si conduce con la gente come se fosse affatto suo simile, non tarderà ad esser considerato da essa in tutta sincerità come un suo pari. Vorrei raccomandare di condursi in siffatta guisa a coloro soprattutto i cui meriti sono dell’ordine
 il più elevato, meriti reali, in conseguenza puramente personali,
atteso che essi non possono esser richiamati ad ogni momento alla memoria.

Sume superbiam quaesitam meritis
(Assumi la superbia richiesta dai meriti) Orazio

La modestia è proprio una virtù inventata principalmente per uso e consumo dei disonesti, poiché esige che ciascuno parli di sé come se fosse un disonesto: ciò implica lo stabilirsi di un’eguaglianza di livello.

Intanto l’orgoglio a più buon mercato è l’orgoglio nazionale. Esso tradisce presso chi ne è tocco l’assenza di ogni qualità individuale di cui potesse andar fiero, se così non fosse, questi non sarebbe ricorso ad una qualità che divide con tanti milioni d’individui. Chiunque possiede meriti personali distinti riconoscerà invece più chiaramente i difetti della sua nazione, poiché l’ha sempre sotto gli occhi. Ma ogni miserabile che non ha al mondo cosa di cui possa andar fiero getta su quest’ultima risorsa, d’esser fiero cioè della nazione
 alla quale si trova appartenere per azzardo; si è con ciò che vuol rifarsi, e, nella sua gratitudine, è pronto a difendere πνιξ και
λαξ (a pugni ed a calci) tutti i difetti e tutte le sciocchezze proprie alla sua nazione.

Così, su cinquanta individui, per esempio, se ne troverà appena uno solo che leverà la voce per approvarvi quando parlerete con giusto disprezzo del bigottismo stupido e degradante della sua nazione; ma questo solo individuo sarà certamente una buona testa.

Del resto l’individualità, in ogni persona, è cosa ben altrimenti importante della nazionalità, e merita mille volte più di questa d’esser presa in considerazione.

La folla ha occhi ed orecchie, ma nient’altro; soprattutto il senno le è infinitamente scarso, e corta pure la memoria. Certi meriti sono affatto fuori della portata del suo comprendimento; e ve n’ha di quelli che essa comprende ed acclama al loro apparire, ma che ben presto dimentica. Ciò essendo, trovo

convenientissimo di gridare, ovunque e sempre, alla folla con l’organo d’una croce o d’una stella: «L’uomo che vedete non è vostro pari, egli ha dei meriti!»