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lunedì 9 luglio 2018

L’occhio della mente, Oliver Sacks,

 

 

Oliver Sacks

 

 

 

L’ occhio della

mente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

frammento di lettura

 

 

                                                                     

 

 

 

 

INDICE

p.

I           Lilian Kallir                                                                                                                                                     3

II          Patricia                                                                                                                                                           6

III         Howard Engel : alexia sine agraphia                                                                                                             9

IV         Senza volto. La prosopoagnosia                                                                                                                  12

V          Sue Barry. Reimparare a camminare.                                                                                                           14

VI         Oliver Sacks. La realtà scomparsa                                                                                                               18

VII        John Hull. Il dono oscuro                                                                                                                            21

VIII      Cecità                                                                                                                                                            22

IX         Teorie della percezione e dell’immaginazione                                                                                            25

              La “duplicità del pensiero” : Raffigurazione e descrizione.

              L’immaginazione, la consapevolezza visiva e la soglia della coscienza

              Il sogno

              Il contenuto visivo del tatto

X           Il potere evocativo e creativo del linguaggio                                                                                             28

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa scrittura (frammento di lettura), benché compendi il significato originario dell’opera di Oliver Sacks non coincide con l’opera autografa.  

 

Siate curiosi di osservare la fonte originaria.

I

Lilian Kallir

 

Non riesco a leggere le parole e la musica mi pone lo stesso problema.

Sebbene in apparenza non avesse alcuna difficoltà a redigere una lettera mi aveva detto di non essere assolutamente in grado di leggere.

Era una pianista, mi disse, e in effetti io la conoscevo di nome come brillante interprete di Chopin e Mozart (aveva tenuto il suo primo concerto in pubblico all’età di quattro anni, e Gary Graffman, il famoso pianista, l’aveva definita «uno dei più grandi talenti musicali naturali che io abbia mai conosciuto»).

 

1991, Durante un concerto

Esaminando la partitura Lilian aveva provato un grande smarrimento nel trovarla totalmente inintelligibile. Sebbene vedesse, chiari e ben definiti, pentagrammi, linee e singole note, nulla di tutto ciò le pareva coerente, né aveva per lei la minima logica. Lilian pensò che la difficoltà dovesse avere a che fare con gli occhi; eseguì comunque il concerto a memoria in modo impeccabile, e liquidò lo strano incidente come una di quelle «cose che capitano».

In generale, tuttavia, il problema andò peggiorando, e sebbene Lilian (così mi chiese di chiamarla) continuasse a insegnare, a tenere concerti in giro per il mondo e a registrare dischi, doveva fare sempre più affidamento sulla memoria e sul suo vasto repertorio musicale – giacché ormai le era impossibile imparare nuovi brani leggendo una partitura.

«In passato ero bravissima» mi disse. «Suonavo un concerto di Mozart a prima vista senza difficoltà, ma ora non ci riesco più».

Durante i concerti, Lilian aveva vuoti di memoria che tuttavia, da abile improvvisatrice qual era, riusciva quasi sempre a mascherare.

Lilian era in grado di condurre ancora un’intensa vita artistica grazie alla memoria e all’ingegno.

 

1994

 

Lilian cominciò ad avere difficoltà con le parole. Anche qui, c’erano giorni buoni e meno buoni, e perfino casi in cui la capacità di leggere pareva cambiare da un momento all’altro: sulle prime, una frase poteva sembrarle strana, inintelligibile; e poi, all’improvviso, tutto si schiariva, e non aveva alcuna difficoltà a leggerla.

L’alessia pura, ovvero non accompagnata da difficoltà di scrittura (alexia sine agraphia), non è poi così rara; di solito però insorge all’improvviso, in seguito a un ictus o a un’altra lesione cerebrale.

Meno spesso, l’alessia si sviluppa gradualmente, quale conseguenza di una malattia degenerativa come l’Alzheimer. Lilian però era la prima persona in cui mi fossi imbattuto la cui alessia si era manifestata a partire dalla notazione musicale: un’alessia musicale.

I neurologi che l’avevano esaminata pensavano che Lilian fosse affetta da una patologia degenerativa, una cosiddetta «atrofia corticale posteriore», che, sebbene al momento confinata alle parti posteriori del cervello, con ogni probabilità sarebbe andata lentamente e costantemente peggiorando.

 

Lilian aveva continuato a tenere concerti, sebbene non in modo altrettanto brillante, né con la stessa frequenza di un tempo.

Il suo repertorio si era ridotto, poiché ormai non le riusciva più di controllare visivamente nemmeno le partiture che conosceva bene. «La mia memoria non era più alimentata» osservò. Alimentata visivamente: questo intendeva dire; pensava infatti che la memoria e l’orientamento facenti capo all’udito si fossero invece sviluppati, al punto che adesso, molto più di prima, era in grado di apprendere e riprodurre un brano a orecchio. In questo modo, Lilian riusciva non solo a ripetere un brano musicale (a volte dopo un solo ascolto), ma anche ad arrangiarlo mentalmente. Ciò nondimeno, c’era stato, a conti fatti, un impoverimento del suo repertorio e un diradamento delle sue esibizioni in pubblico.

Continuava a suonare in contesti più informali e a tenere corsi di specializzazione al conservatorio.

Lilian vedeva solo singoli aspetti di un oggetto o di un’immagine, e non era in grado di farne una sintesi, di coglierli nel loro insieme, e meno che mai di interpretarli correttamente. Le mostrai poi la fotografia di un volto, ma riuscì solo a percepire che la persona ritratta portava gli occhiali, e nient’altro.

Non è un’immagine sfocata, sono dettagli nitidi, puliti, definiti, ma inintelligibili.»

La difficoltà che Lilian incontrava nel riconoscere i disegni era dovuta semplicemente a loro caratteristiche, quali la «schematicità», la bidimensionalità, la povertà di informazioni? Oppure rifletteva una difficoltà di ordine superiore riguardante la percezione della rappresentazione in quanto tale?

Quando le domandai che cosa pensasse di se stessa e della sua situazione, la risposta fu: «Mi pare che io la stia affrontando molto bene, il più delle volte... sapendo che non migliorerà, ma potrà solo peggiorare lentamente. Ho smesso di consultare i neurologi. Sono una persona capace di reagire. Non ne parlo ai miei amici. Non voglio caricarli di un peso, e la mia piccola storia non promette molto bene. Un vicolo cieco ... Ho un buon senso dell’umorismo. E questo è tutto, in due parole. Se ci penso, è deprimente: ogni giorno frustrazioni su frustrazioni. Ma ho ancora davanti molti giorni – e anni – buoni.»

Le prestazioni di Lilian nei test formali di riconoscimento visivo erano state così scarse che non riuscivo a immaginarla alle prese con la vita quotidiana.

Lilian affrontava da sola tutto questo e molto di più: conduceva una vita sociale attiva, viaggiava, andava ai concerti e insegnava.

I suoi risultati relativamente positivi nel nominare gli oggetti solidi, al contrario dei disegni che li raffiguravano, mi spinsero di nuovo a chiedermi se Lilian non potesse essere affetta da un’agnosia specifica per le rappresentazioni.

Il riconoscimento di queste ultime probabilmente richiede una sorta di apprendimento, la comprensione di un codice o di una convenzione oltre a quelli necessari per il riconoscimento degli oggetti.

Per riconoscere le rappresentazioni visive, il cervello deve costruire un sistema specifico e complesso, e quella capacità può andare perduta in seguito a lesioni di tale sistema conseguenti a un ictus o a una malattia – proprio come può andare perduta la comprensione della scrittura, o qualsiasi altra abilità acquisita.

Sebbene non riuscisse a riconoscere quasi nulla servendosi della vista, Lilian aveva organizzato l’ambiente in modo tale da ridurre al minimo gli errori, utilizzando una sorta di sistema di classificazione informale in luogo di una gnosi percettiva diretta. Gli oggetti erano categorizzati non in base al loro significato, ma per colore, dimensione e forma, posizione, contesto e associazione – proprio come un analfabeta potrebbe disporre i libri di una biblioteca. Ogni cosa aveva il suo posto, e Lilian lo aveva memorizzato. Era sempre vigile – controllava posizione e movimenti, seguiva gli spostamenti di ogni oggetto in modo da non perderlo.

Prima di andarmene, pregai Lilian di mettersi al pianoforte e di suonare qualcosa per me. Lei esitò. Era chiaro che aveva perso buona parte della sua sicurezza. Attaccò splendidamente con una fuga di Bach, ma dopo qualche battuta si fermò, con l’aria mortificata. Vedendo una raccolta di mazurche di Chopin sul pianoforte le chiesi di suonarmi quelle, e Lilian, incoraggiata, chiuse gli occhi e ne eseguì due, tratte dall’opera 50, senza incertezze, con gran brio e sentimento.

«Mi distrae vedere la musica stampata, la gente che volta le pagine, le mie mani sulla tastiera»; in tali circostanze, mi spiegò, poteva compiere qualche errore, soprattutto con la mano destra. Doveva quindi chiudere gli occhi e suonare così, senza fare appello alla vista e servendosi soltanto della sua «memoria musicale» e del suo eccellente orecchio.

L’esame confermò che adesso esisteva effettivamente una certa riduzione delle aree visive in entrambi i lati del cervello. C’erano segni di danni reali anche altrove?

Era difficile dirlo, sebbene sospettassi che potesse essersi verificata una qualche riduzione anche a carico dell’ippocampo – una parte del cervello essenziale per la memorizzazione di nuovi dati. Il danno era però ancora largamente confinato alla corteccia occipitale e occipitotemporale, ed era chiaro che la progressione della malattia era lentissima.

L’atrofia corticale posteriore, o PCA, fu descritta nel 1988 da Frank Benson.

Le persone con PCA conservano aspetti elementari della percezione visiva, come l’acuità o la capacità di rilevare il movimento o il colore. Esse tendono tuttavia a soffrire di disturbi visivi complessi; per esempio, hanno difficoltà nella lettura o nel riconoscimento di volti e oggetti, e in qualche caso anche allucinazioni. Il disorientamento visivo può diventare molto grave: alcuni pazienti si perdono nel loro stesso quartiere, o addirittura nelle loro abitazioni; Benson definì tale disturbo «agnosia ambientale». In genere a queste difficoltà ne seguono altre: confusione fra destra e sinistra, problemi nella scrittura e nell’esecuzione di calcoli, e perfino un’agnosia circoscritta alle dita delle proprie mani: una tetrade di problemi a volte indicata come sindrome di Gerstmann. A volte i pazienti riescono a riconoscere e ad abbinare i colori, ma non a nominarli: una cosiddetta «anomia cromatica».

Più raramente può presentarsi una difficoltà nell’individuare e seguire un obiettivo in movimento. A dispetto di tutti questi problemi, memoria, intelligenza, intuito e personalità tendono a essere risparmiati fino agli stadi avanzati della malattia.

Benson scrive che tutti i suoi pazienti «riuscivano a raccontare la propria storia, erano consapevoli degli eventi attuali e sembravano cogliere con lucidità la propria difficile situazione.»

Sebbene la PCA sia chiaramente una patologia degenerativa del cervello, la sua natura sembra del tutto diversa dalle forme più comuni di Alzheimer, in cui tendono a verificarsi imponenti alterazioni della memoria, del pensiero, della comprensione e dell’uso del linguaggio, e spesso anche del comportamento e della personalità – e dove in genere (e forse è una fortuna) il paziente perde, già nelle fasi precoci, la percezione di ciò che gli sta accadendo.

Lilian era tuttora in grado di identificare gli oggetti per inferenza, servendosi della capacità di percepire il colore, la forma, la consistenza superficiale e il movimento, capacità rimasta intatta insieme alla memoria e all’intelligenza.

Dipendeva sempre di più dalla memoria, dal pensiero, dalla logica e dal buon senso per cavarsela in quello che altrimenti sarebbe stato (visivamente) un mondo inintelligibile.

Volevo che provasse il mio pianoforte a coda, un Bechstein del 1894.

Sedette al piano e suonò un pezzo: un brano che trovai sconcertante, perché per certi versi mi pareva familiare, e al tempo stesso non lo era. Lilian mi spiegò che si trattava di un quartetto di Haydn che aveva ascoltato alla radio e di cui si era innamorata un paio d’anni prima – provando immediatamente il desiderio di suonarlo. Così l’aveva arrangiato per pianoforte, a mente, nell’arco di una notte. Prima dell’alessia le era capitato, in alcune occasioni, di fare qualche arrangiamento per pianoforte, però usando carta e penna, e tenendo la partitura originale davanti a sé; quando ciò divenne impossibile, scoprì di essere in grado di fare lo stesso lavoro interamente a orecchio. Lilian pensava che la sua memoria e la sua immaginazione musicali fossero diventate più forti, più tenaci, e al tempo stesso anche più flessibili – al punto che adesso riusciva a tenere a mente brani anche molto complessi, per poi riarrangiarli ed eseguirli mentalmente, in un modo che sarebbe stato impossibile prima dell’alessia. Le sue facoltà di memoria e immaginazione musicale, che si andavano continuamente rafforzando, erano diventate essenziali per lei, e le avevano consentito di andare avanti fin da quando – nove anni prima – erano insorte le prime difficoltà visive.

Lilian era dipendente da ciò che le era familiare e aveva memorizzato.

Col tempo, tornando più volte a visitare un luogo, forse avrebbe acquisito a poco a poco una maggiore dimestichezza; sarebbe comunque stata un’impresa di enorme complessità, che avrebbe richiesto una pazienza infinita, un grande investimento di risorse e un intero sistema del tutto nuovo di categorizzazione e memorizzazione.

«Non migliora affatto... gli occhi vanno malissimo». (Lilian sa, naturalmente, che i suoi occhi non hanno proprio nulla, e che a declinare è la funzionalità delle parti visive del suo cervello – anzi, fu lei la prima a rendersi conto di questo –, ma trova più semplice, più naturale, parlare dei suoi «occhi malati».

Anche l’anomia, la difficoltà nel trovare le parole, era peggiorata.

«Quando sono da sola, va malissimo. Non che mi stia lamentando – è una constatazione.»

Era, effettivamente, una questione molto delicata. In che misura il marito sarebbe dovuto intervenire quando Lilian si scontrava con la propria confusione percettiva? In che misura dovremmo imbeccare un amico o un paziente quando dimentica un nome? In che misura io stesso – privo come sono di senso d’orientamento – desidero essere salvato quando prendo una direzione completamente sbagliata, e non preferisco invece combattere per arrivarci da solo? Fino a che punto ognuno di noi ha piacere di «sentirsi dire» le cose? Questo interrogativo era particolarmente tormentoso nel caso di Lilian perché, sebbene avesse bisogno di risolvere i problemi e di difendersi da sola, le sue difficoltà visive stavano diventando sempre più gravi e a volte, come osservava Claude, minacciavano di gettarla in un disorientamento terrificante. Dissi a Claude che non potevo suggerirgli alcuna regola, ma solo consigliargli di avere tatto: ogni situazione avrebbe richiesto una soluzione specifica.

Nel 2006, Ian McDonald pubblicò uno straordinario resoconto di prima mano di una «alessia musicale con recupero». Fu la prima descrizione di carattere così personale a essere pubblicata: un documento doppiamente interessante in quanto McDonald era al tempo stesso un neurologo e un raffinato musicista dilettante. La sua alessia musicale (insieme ad altri problemi, fra i quali difficoltà di calcolo, prosopagnosia e disorientamento topografico) era stata causata da un ictus embolico, dal quale si sarebbe poi completamente ripreso. McDonald sottolineava che, sebbene la sua capacità di leggere la musica avesse mostrato un graduale miglioramento associato soprattutto all’esercizio, l’alessia musicale fluttuava considerevolmente da un giorno all’altro.

Quando un sistema è danneggiato, vi è una riduzione della riserva funzionale, una minore ridondanza, e il sistema stesso viene più facilmente sviato da fattori accidentali come la fatica, lo stress, i farmaci, o le infezioni. Questi sistemi danneggiati sono anche soggetti a fluttuazioni spontanee, come capitava in continuazione ai pazienti che ho descritto in Risvegli.

Negli undici o dodici anni da quando era cominciata la sua malattia, Lilian si era dimostrata intelligente e capace di reagire. Si era aiutata, in modo assai brillante, con ogni tipo di risorsa – visiva, musicale, emotiva, intellettuale. I suoi parenti, gli amici, soprattutto il marito e la figlia, ma anche i suoi allievi, i colleghi e la gente disposta a darle una mano al supermercato o per la strada l’avevano aiutata a fronteggiare la situazione. I suoi adattamenti all’agnosia erano stati straordinari:

Una grande dimostrazione di quanto si possa fare, a dispetto di gravi difficoltà percettive e cognitive, per tenere coesa una vita. Ma era nella sua arte, nella sua musica, che Lilian non solo affrontava la malattia, ma la trascendeva. Questo era palese quando suonava il pianoforte, uno strumento che al tempo stesso esige e offre una sorta di integrazione superiore, un’integrazione totale di sensi e muscoli, corpo e mente, memoria e fantasia, intelletto ed emozione, un’integrazione del proprio sé intero, dell’essere vivi. Grazie al cielo, le facoltà musicali di Lilian erano rimaste intatte, risparmiate dalla malattia.

Il fatto che suonasse per me il pianoforte aveva sempre aggiunto un che di unico alla mia visita; fatto non meno importante, richiamava Lilian alla sua identità di artista, mostrandole quanta gioia potesse ancora dare e ricevere, indipendentemente da quali e quanti fossero i problemi che la assediavano.

 

2002

 

Il suo comportamento, ora, sembrava molto più «cieco», e rifletteva non solo la crescente incapacità di decifrare ciò che aveva di fronte, ma anche la completa mancanza di orientamento visivo.

Il peggioramento della sua invalidità li aveva resi più vicini di quanto fossero mai stati.

Tuttavia, quando accennai al quartetto di Haydn che aveva eseguito per me anni prima, il suo volto si illuminò. «Ero assolutamente incantata da quel pezzo» mi disse. «Non lo avevo mai sentito prima. Non lo suonano mai». E tornò a descrivermi come, incapace di levarselo dalla testa, lo avesse arrangiato per pianoforte, tutto a mente, in una notte. Le chiesi di eseguirlo per me un’altra volta. Lilian dapprima esitò; poi si lasciò convincere, fece per dirigersi al pianoforte, ma sbagliò direzione. Claude allora la corresse, con garbo. Al piano, Lilian in un primo momento annaspò, prendendo le note sbagliate; sembrava ansiosa e confusa. «Dove sono?» si lamentò, io ebbi un tuffo al cuore. Poi, però, orientandosi sulla tastiera, cominciò a suonare splendidamente – e la melodia si librò nell’aria, struggendosi e avvolgendosi su se stessa. Claude ne fu meravigliato, e si commosse. «Sono due o tre settimane che non tocca il pianoforte» mi disse in un sussurro. Mentre suonava, Lilian guardava fisso verso l’alto, e cantava la melodia fra sé, a bassa voce. Suonò con arte consumata, mettendoci tutta l’energia e il sentimento che aveva sempre dimostrato, mentre la musica di Haydn andava montando in una furiosa turbolenza, una sorta di diverbio musicale. Poi, mentre il quartetto si avviava agli accordi finali e risolutivi, Lilian disse semplicemente: «Tutto è perdonato».

 

II

Patricia

 

Patricia era una donna brillante e piena di energia; agente di diversi artisti, e lei stessa pittrice dilettante di talento, dirigeva una galleria a Long Island. Aveva allevato tre figli e adesso, prossima alla sessantina, continuava a condurre una vita non solo attiva ma – come dicevano le figlie – perfino «appassionante».

Nel 1989, il marito di Patricia morì improvvisamente per un infarto.

Aveva accettato la cosa serenamente, ma dopo la morte del marito, come disse una delle figlie, «Sembrava come stordita, fu presa da una forte depressione, dimagrì, cadde in metropolitana, ebbe vari incidenti con la macchina, e continuava a presentarsi sulla soglia di casa nostra a Manhattan, come se si fosse persa».

Adesso però era discesa su di lei una malinconia costante.

«fissava... ma non sembrava vedere». «A volte i suoi occhi mi seguivano, o sembravano seguirmi. Noi non sapevamo che cosa stesse accadendo, se lei fosse davvero lì».

Questi stati possono generare crudeli illusioni, perché spesso c’è la sensazione che la persona sia sul punto di riprendersi, mentre invece tali situazioni possono protrarsi anche per mesi o addirittura indefinitamente.

Patricia adesso era cosciente, riconosceva le figlie, era consapevole della sua condizione e dell’ambiente circostante. Aveva la sua personalità; era tuttavia rimasta paralizzata sul lato destro e, cosa più grave, non poteva più esprimere i suoi pensieri e i suoi sentimenti a parole; poteva solo comunicare con gli occhi e mimare, indicare o fare gesti. Anche la sua comprensione del linguaggio verbale era molto compromessa. In breve, adesso Patricia era afasica.

«Afasia» significa, etimologicamente, una perdita della parola; tuttavia, non è la parola come tale ad andare perduta, ma il linguaggio vero e proprio – la sua espressione o la sua comprensione: del tutto o solo in parte.

Vi sono molte forme diverse di afasia, a seconda delle parti del cervello implicate; di solito viene tracciata un’ampia distinzione tra afasie espressive e afasie ricettive: se sono presenti entrambe, si parla di afasia «globale».

Nelle sue forme più leggere, l’afasia espressiva è caratterizzata dalla difficoltà nel trovare le parole o dalla tendenza a usare quelle sbagliate, senza che vi sia una compromissione della struttura generale della frase.

Nelle forme più gravi di afasia espressiva, l’individuo è incapace di produrre frasi finite grammaticalmente complete, e si riduce a emissioni brevi, povere, «telegrafiche»; se l’afasia è molto grave, la persona è pressoché muta.

Hughlings Jackson, un pioniere nello studio dell’afasia negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, riteneva che tali pazienti mancassero del linguaggio «proposizionale», e che avessero perso anche il discorso interiore, così da non essere in grado di parlare o «proposizionare» nemmeno fra sé e sé. Egli credeva pertanto che nell’afasia la capacità di pensiero astratto andasse perduta.

Esperienze che confermano le idee di Hughlings Jackson sulla perdita del discorso interiore e dei concetti :

“Ero totalmente (globalmente) afasico. Riuscivo a capire in modo vago quello che gli altri mi dicevano a condizione che parlassero lentamente e che quello che dicevano rappresentasse una forma d’azione molto concreta ...

Avevo completamente perso la capacità di parlare, di leggere e di scrivere.  Nei primi due mesi, persi anche la capacità di usare le parole interiormente, nel mio pensiero ... Avevo anche perso la capacità di sognare. Per circa otto-nove settimane, quindi, vissi in un vuoto totale di concetti autoprodotti ... Potevo affrontare solo il presente immediato ... A mancare era [la] componente intellettuale di me stesso – la conditio sine

qua non della mia personalità –, gli elementi essenziali che sono così importanti per poter essere un individuo unico ... Per un lungo periodo mi considerai un uomo a metà.”

Injured Brains of Medical Minds, Narinder Kapur (Esperienza di Scott Moss.)

 

 

“Mi ritrovai orbato del senso di quasi tutte le parole. E se pure qualcuna era rimasta accessibile, si dimostrava pressoché inutile, giacché io non ricordavo più come coordinarle affinché esprimessero il mio pensiero ... Non ero più in grado di afferrare il pensiero altrui poiché la medesima amnesia che mi impediva di parlare mi rendeva incapace di comprendere i suoni abbastanza rapidamente da intenderne il senso ...

Interiormente, mi sentivo lo stesso di sempre. Questo isolamento mentale di cui faccio menzione, il mio abbattimento morale, l’impedimento nel parlare, e l’apparenza di stupidità cui esso dava luogo, condussero molti a credere che le mie facoltà intellettive si fossero indebolite ... Ero solito discutere fra me delle mie occupazioni e dei miei amati studi. Non provavo alcuna difficoltà nell’esercizio del pensiero ... La mia memoria per i fatti, i princìpi, i dogmi, le idee astratte era la stessa di quando ero sano ... Mi toccò ammettere che l’esercizio interiore del pensiero poteva fare a meno delle parole.”

In alcuni pazienti, quindi, anche se del tutto incapaci di parlare o di comprendere l’eloquio altrui, le facoltà intellettive – la capacità di pensare in modo logico e sistematico, di pianificare, di ricordare, di anticipare, di fare congetture – possono essere perfettamente conservate. Eppure, tra la gente comune – e fin troppo spesso anche tra i medici – persiste la sensazione che l’afasia sia una sorta di disastro definitivo che, di fatto, pone termine alla vita interiore non meno che a quella sociale di una persona.

Gli afasici sono privi di una dimensione sociale fondamentale, così che spesso si sentono completamente isolati. A questo proposito, si usa a volte l’espressione opaca «riabilitazione sociale», ma in realtà il paziente è «richiamato alla vita»: come direbbe Dickens, recalled to life :

“Non sarà che l’essere vivente vive nella misura in cui è generato e rigenerato. Allora, generare i figli, generare una persona non avviene una volta per tutte. Avviene ogni santo giorno in cui qualcuno decide di mettere di nuovo al mondo quella persona. Soltanto così guadagniamo tempo e facciamo guadagnare tempo agli altri. Perché non smettiamo di crescere e di farli crescere. La vita non somiglia ad una linea retta, somiglia ad una spirale. Tutte le volte che noi siamo vicini al centro che genera questo nucleo di novità che ciascuno di noi è, perché nascere è essere un inedito al mondo: Nessuno di noi ha le impronte digitali uguali, nessuno di noi ha l’iride degli occhi uguale.”

The art of being fragile, Alessandro D'Avenia

Anche se la maggior parte di questi pazienti non ha possibilità di guarigione, ma solo di un limitato miglioramento, molti di loro possono tuttavia essere aiutati a ricostruire la propria vita, a sviluppare altri modi di fare le cose, e a sfruttare i propri punti di forza, trovando ogni genere di compensazione e adattamento. (Questo, naturalmente, dipende dal grado e dal tipo di danno neurologico subìto, e dalle risorse di cui il singolo paziente dispone, dentro e fuori di sé).

Molti reagiscono con orrore misto a tristezza, amarezza o rabbia. (A volte, questo dà luogo a una vera e propria «psicosi da ricovero».)

Molti di questi malati riescono a compensare potenziando notevolmente altre facoltà e capacità non linguistiche: fra queste, soprattutto, la capacità di leggere significati e intenzioni altrui dalle espressioni facciali, dalle inflessioni vocali e dal tono di voce, come pure dai gesti, dalle posizioni, e dai piccoli movimenti che normalmente accompagnano la parola.

Tale compensazione può conferire all’afasico capacità sorprendenti – in particolare una capacità amplificata di percepire artifici istrionici, equivoci o menzogne.

Nel 2000 Nancy Etcoff pubblicò su «Nature» uno studio in cui mostravano come persone con afasia fossero di fatto «significativamente più abili rispetto alle persone senza compromissioni del linguaggio nell’individuare le falsità riguardanti gli stati emotivi». Lo sviluppo di tali capacità, osservavano i ricercatori, richiedeva apparentemente un certo tempo, giacché esse non erano evidenti in pazienti afasici soltanto da qualche mese.

Se le persone afasiche arrivano a eccellere nella comprensione della comunicazione non verbale, è anche vero che possono diventare molto abili nel trasmettere allo stesso modo i propri pensieri.

Molti pazienti afasici hanno delle difficoltà ad aprirsi agli altri: forse, per poter iniziare un contatto con altre persone, sono timidi, depressi oppure invalidi a causa di altre patologie.

 

1996

A cinque anni dall’ictus, l’afasia ricettiva di Patricia si era ormai attenuata; adesso era in grado di comprendere un breve discorso, sebbene fosse ancora incapace di esprimersi a parole.

I suoi sistemi rappresentazionali non verbali erano rimasti intatti. È noto da tempo che l’afasia non compromette l’abilità musicale, l’immaginazione visiva o l’attitudine alla meccanica; Nicolai Klessinger e i suoi colleghi della University of Sheffield hanno inoltre dimostrato che il ragionamento numerico e la sintassi matematica possono essere perfettamente integri anche in pazienti incapaci di comprendere, o di produrre, il linguaggio grammaticale.)

Spesso si dice che quando sono passati dodici-diciotto mesi da un ictus o da una lesione cerebrale, non sono possibili ulteriori progressi. A volte può essere proprio così, tuttavia ho potuto constatare in molti pazienti la falsità di questa generalizzazione. Negli ultimi decenni, poi, le neuroscienze hanno confermato che il cervello ha più capacità di riparazione e rigenerazione di quanto si pensasse un tempo. Vi è anche molta più «plasticità», una maggiore capacità, da parte delle aree cerebrali non danneggiate, di assumere su di sé alcune funzioni delle aree compromesse, purché il danno non sia troppo esteso. E a livello personale vi sono capacità di adattamento che permettono di trovare modi nuovi o diversi di fare le cose, quando quello originale non è più disponibile.

Wittgenstein distingueva due metodi di comunicazione e rappresentazione: «dire» e «mostrare». «Dire», nel senso di formulare proposizioni, è un’attività assertiva e richiede uno stretto abbinamento della struttura logico-sintattica con il contenuto asserito.

«Mostrare», invece, non è un’attività assertiva; presenta l’informazione direttamente, in modo non simbolico; come lo stesso Wittgenstein fu costretto ad ammettere, manca tuttavia di una struttura grammaticale o sintattica di base.

Noam Chomsky ha rivoluzionato lo studio del linguaggio; Stephen Kosslyn ha rivoluzionato quello dell’immaginazione; e là dove Wittgenstein parla di «dire» e «mostrare», Kosslyn parla di modalità di rappresentazione «descrittiva» e «raffigurativa». Il cervello normale dispone di entrambe queste modalità, che sono complementari; si può quindi ricorrere a volte all’una e a volte all’altra, e spesso a entrambe.

A distanza di otto anni dal suo ictus, rimasi colpito soprattutto dalla pienezza e dalla ricchezza delle sue esperienze quotidiane e dal suo vorace amore per la vita:

Tutto questo a dispetto di quello che si sarebbe potuto considerare un danno cerebrale devastante.

musicoterapia

In alcuni pazienti con afasia espressiva la musicoterapia è preziosa; quando scoprono di poter cantare le parole sulla melodia di una canzone, si sentono rassicurati: non hanno perso completamente il linguaggio, hanno ancora accesso alle parole che sono da qualche parte dentro di loro. Il problema è allora se le capacità di linguaggio incluse nel canto possano essere poi estratte dal loro contesto musicale e utilizzate per la comunicazione. A volte ciò è possibile in misura limitata, reincludendo le parole stesse in canto.

mimesi

La mimesi – la rappresentazione deliberata e consapevole, mediante la mimica e l’azione, di scene, pensieri, sentimenti, intenzioni, eccetera – sembra essere una capacità specificamente umana, come il linguaggio (e forse la musica).

Rispetto al linguaggio, la mimesi ha una rappresentazione cerebrale molto più estesa e robusta, e questo probabilmente spiega perché sia tanto spesso risparmiata in pazienti che hanno perso il primo. Ciò può consentire una comunicazione straordinariamente ricca.

A volte le figlie di Patricia si meravigliavano nel constatare la sua capacità di recupero. «Come mai non è depressa,» diceva Dana «considerando la sua storia precedente di depressione? Al principio mi chiedevo come potesse vivere in quel modo... Pensavo che si sarebbe uccisa».

Il danno cerebrale che aveva subìto, per quanto esteso, non aveva compromesso la sua determinazione o la sua personalità.

Era grata di essere viva e di poter fare quello che faceva, e proprio questo – pensava Dana – spiegava perché l’umore e il morale fossero tanto buoni.

«È come se la negatività fosse stata spazzata via». Disse Patricia.

«È molto più coerente, apprezza la vita e i doni... anche le altre persone. È consapevole di essere privilegiata, ma questo la rende più gentile, più premurosa nei confronti degli altri che magari sono meno

invalidi di lei dal punto di vista fisico, ma molto meno “adattati”, “fortunati” o “felici”. È proprio tutt’altro che una vittima» concluse la figlia Lari. «In realtà si sente come se avesse ricevuto una benedizione.»

 

III

Howard Engel : alexia sine agraphia

 

Il 31 luglio 2001, il «Globe and Mail» aveva il suo aspetto di sempre per quanto riguarda impaginazione, immagini, titoli vari e didascalie. L’unica differenza era che io non riuscivo più a leggere quello che dicevano. Le lettere, questo lo capivo, erano le solite ventisei che avevo imparato da bambino. Solo che, quando le mettevo a fuoco sembravano ora codici non intelligibili.

«Il caso del pittore che non vedeva i colori.»

Howard Engel aveva avuto un ictus.

Accanto all’incapacità di leggere: nel quadrante superiore destro del campo visivo, Howard aveva un grosso punto cieco e trovava difficile riconoscere colori, facce e oggetti della vita quotidiana.

Sebbene non potesse leggere, riusciva ancora a scrivere; il termine medico, gli aveva detto la donna, era alexia sine agraphia. Howard era incredulo: di certo la lettura e la scrittura erano attività gemelle; com’era possibile perderne una e non l’altra?

Noi pensiamo alla lettura come a un atto indivisibile senza soluzione di continuità, e mentre leggiamo prestiamo attenzione al significato e forse alla bellezza del linguaggio scritto, inconsapevoli dei molti processi che lo rendono possibile. Occorre imbattersi in una condizione come quella di Howard Engel per rendersi conto che la lettura, di fatto, dipende da un’intera gerarchia (o cascata) di processi, che può interrompersi in qualsiasi punto.

Nel 1890, il neurologo tedesco Heinrich Lissauer usò l’espressione «cecità psichica» a proposito di alcuni pazienti i quali, dopo un ictus, divenivano incapaci di riconoscere visivamente oggetti che pure erano loro familiari. Il termine attualmente in uso, «agnosia visiva», fu introdotto da Sigmund Freud l’anno dopo.

Le persone con questa condizione, l’agnosia visiva, possono essere perfettamente normali per quanto riguarda acuità visiva, percezione cromatica, campi visivi, eccetera, ma del tutto incapaci di riconoscere o identificare ciò che stanno vedendo.

L’alessia è una forma specifica di agnosia visiva, un’incapacità di riconoscere il linguaggio scritto. Nel 1861 il neurologo francese Paul Broca identificò un centro cerebrale per quelle che chiamò «immagini motorie» delle parole; qualche anno dopo, il suo collega tedesco Carl Wernicke identificò le loro «immagini uditive». Ai neurologi dell’Ottocento sembrò quindi logico supporre che potesse esistere anche un’area del cervello dedicata alle immagini visive delle parole: un’area che, se danneggiata, avrebbe prodotto l’incapacità di leggere, una «cecità verbale».

La sua incapacità di esprimersi lo spaventa. Pensa di essere «diventato matto», rendendosi ben conto che i segni che non riesce a nominare sono lettere.

Lettura consigliata: “Israel Rosenfield, L’invenzione della memoria.”

Si possono trovare aree danneggiate, ma non è sempre possibile capire le loro molteplici connessioni con altre aree del cervello o determinare che cosa controlli ciascuna area. Déjerine era ben consapevole di questo; nondimeno, mettendo in relazione un sintomo neurologico specifico – l’alessia – con il danno di una particolare area del cervello, credette, in linea di principio, di aver dimostrato la presenza di quello che denominò un «centro visivo per le lettere».

La scoperta di Déjerine di quest’area essenziale per la lettura sarebbe stata confermata nel corso del secolo successivo da decine e decine di casi e referti autoptici simili, tutti riconducibili a pazienti con alessia, a prescindere dalla causa di quest’ultima.

Dehaene, psicologo e neuroscienziato, si è specializzato nello studio dei processi implicati nella percezione visiva, soprattutto nel riconoscimento e nella rappresentazione di parole, lettere e numeri. Gli studi di Dehaene hanno dimostrato come l’area della forma visiva delle parole possa essere attivata in una frazione di secondo da una singola parola scritta e come tale attivazione iniziale, puramente visiva, si diffonda poi ad altre aree del cervello, soprattutto ai lobi temporali e frontali.

La lettura, naturalmente, non si esaurisce nel riconoscimento delle forme visive delle parole: sarebbe più accurato dire che questo è l’inizio. Il linguaggio scritto intende trasmettere non solo il suono delle parole, ma il loro significato, e l’area della forma visiva delle parole ha intime connessioni sia con le aree cerebrali uditive e del linguaggio, sia con le aree che servono la memoria e l’emozione.

L’area della forma visiva delle parole è un nodo essenziale in una complessa rete cerebrale di connessioni reciproche: una rete, a quanto pare, peculiare del cervello umano.

Vi sono due forme di alessia: una forma grave che impedisce anche il riconoscimento dei singoli caratteri; e una forma più leggera, in cui è possibile riconoscere le lettere ma soltanto una per una, e non simultaneamente come parole.

Ogni lettera aumenta il peso del carico che sto cercando di sollevare.

Il modo in cui forse tutti noi impariamo a leggere prima di cominciare a percepire le parole, perfino le frasi, come un tutto. Le coppie e forse i gruppi di lettere sono particolarmente importanti nella costruzione e nella lettura delle parole e, a prescindere dal fatto che la lettura sia appresa per la prima volta oppure riappresa dopo un ictus, sembra esservi un naturale procedere da uno stadio in cui si vedono le lettere singole, a uno stadio in cui si vedono sequenze di lettere.

I disturbi relativi all’area della forma visiva delle parole che possiamo definire «positivi»: eccessi o distorsioni della funzione, prodotti da iperattività della medesima area. In questo senso, l’opposto dell’alessia è l’allucinazione lessicale o testuale: lettere fantasma. Individui con disturbi della via visiva (a qualsiasi livello, dalla retina alla corteccia) possono essere soggetti ad allucinazioni visive.

Secondo Dominic ffytche queste allucinazioni lessicali sono associate a una cospicua attivazione della regione occipitotemporale sinistra, specialmente a livello dell’area della forma visiva delle parole: la stessa che, se danneggiata, produce l’alessia.

Tutti noi affrontiamo un mondo intero di stimoli visivi, uditivi e di altra natura, e la nostra sopravvivenza dipende dal saperli valutare con rapidità e accuratezza. La comprensione del mondo deve essere fondata su un sistema – rapido e sicuro – per analizzare l’ambiente. Sebbene vedere oggetti e definirli visivamente sembri essere un’operazione istantanea e innata, in realtà si tratta di una grande impresa percettiva, che richiede un’intera gerarchia di funzioni. Noi non vediamo gli oggetti come tali: vediamo forme, superfici, contorni e confini, che si presentano in condizioni di luce e in contesti diversi, e che cambiano prospettiva a seconda del loro, o del nostro movimento. Da questo caos visivo, complesso e mutevole, dobbiamo estrarre invarianti che ci permettano di dedurre o ipotizzare la natura dell’oggetto. Sarebbe antieconomico supporre che vi siano singole rappresentazioni o engrammi individuali per ciascuno dei miliardi di oggetti che sono intorno a noi. Piuttosto, è necessario invocare la capacità di combinazione; occorre un insieme finito (un vocabolario) di forme che possano essere combinate in un numero infinito di modi, proprio come le ventisei lettere dell’alfabeto possono essere assemblate (nel rispetto di regole e vincoli determinati) dando luogo a tutte le parole o le frasi di cui un linguaggio può aver bisogno.

Il mondo degli oggetti deve essere appreso attraverso l’esperienza e l’azione: guardando, toccando, manipolando, legando le sensazioni che essi trasmettono al tatto con il loro aspetto. Il riconoscimento di oggetti visivi dipende dai milioni di neuroni localizzati nella corteccia inferotemporale, dove la funzione neuronale è molto plastica, aperta e altamente reattiva all’esperienza, all’addestramento e all’educazione. I neuroni inferotemporali evolsero visivo per il riconoscimento visivo generale, ma possono essere reclutati ad altri fini: in modo particolare, per la lettura.

Tale ridestinazione dei neuroni è facilitata dal fatto che tutti i sistemi di scrittura (naturali) sembrano condividere con l’ambiente alcuni aspetti topologici, per la decodificazione dei quali è evoluto il nostro cervello. Mark Changizi, Shinsuke Shimojo e i loro colleghi del Caltech hanno esaminato da un punto di vista computazionale più di cento sistemi di scrittura antichi e moderni, compresi i sistemi alfabetici e gli ideogrammi cinesi.

Hanno dimostrato che, sebbene molto diversi da un punto di vista geometrico, tutti condividono alcune somiglianze topologiche fondamentali.

(Questa marcatura visiva non è evidente nei sistemi di scrittura artificiali come la stenografia, che sono ideati per enfatizzare la velocità più del riconoscimento visivo). Mark Changizi, Shinsuke Shimojo e i loro colleghi del Caltech hanno scoperto invarianti topografici simili in tutta una gamma di ambienti naturali, e questo li ha indotti a ipotizzare che le forme delle lettere «siano state selezionate per ricordare gli insiemi eterogenei di contorni presenti nelle scene naturali, attingendo quindi dai nostri meccanismi preesistenti di riconoscimento degli oggetti».

La scrittura, che è uno strumento culturale, è evoluta avvantaggiandosi della preferenza dei neuroni inferotemporali per certe forme. «La forma delle lettere» scrive Dehaene «non è una scelta culturale arbitraria. Il cervello vincola le caratteristiche di un sistema di scrittura efficiente in modo così rigoroso che vi è ben poco spazio per il relativismo culturale. Il nostro cervello da primati accetta soltanto un insieme limitato di forme scritte».

I primissimi linguaggi scritti usavano simboli pittorici o iconici, che poi divennero sempre più astratti e semplificati. In Egitto esistevano migliaia di geroglifici distinti e il cinese classico prevedeva decine di migliaia di ideogrammi; leggere (e scrivere) una tal lingua richiede un grandissimo addestramento e, possiamo presumere, una porzione più ampia della corteccia visiva appositamente dedicata. Questo, secondo Dehaene, potrebbe spiegare perché la maggior parte delle lingue abbia tendenzialmente favorito i sistemi alfabetici.

Eppure, alcune facoltà, alcune qualità, possono essere tipiche degli ideogrammi. In un’intervista, Jorge Luis Borges, che conosceva bene la poesia giapponese, parlò della connotazione multipla degli ideogrammi kanji:

 

 

«I giapponesi hanno raggiunto una saggia ambiguità nella loro poesia. E questo, io credo, è dovuto alla loro particolare forma di scrittura, per via delle possibilità offerte dai loro ideogrammi. Ciascuno di essi, secondo le sue caratteristiche, può avere diverse connotazioni. Prendiamo, per esempio, la parola “oro”. Questa parola rappresenta o suggerisce l’autunno, il colore delle foglie, oppure il tramonto, per via del colore giallo».

L’origine della scrittura e della lettura non può essere interpretata come un adattamento evolutivo diretto. Essa dipende dalla plasticità del cervello, e dal fatto che anche nell’arco della breve durata della vita umana, l’esperienza – la selezione esperienziale – è un agente di cambiamento potente come la selezione naturale.

Noi siamo alfabetizzati non in virtù di un intervento divino, ma grazie a un’invenzione e a una selezione culturali che fanno un uso nuovo, intelligente e creativo di una inclinazione neurale preesistente.

Mentre l’area della forma visiva delle parole è essenziale nel riconoscimento di parole e caratteri, ai livelli di lettura «superiori» (ad esempio la deduzione di parole e di significati dal loro contesto) sono implicate molte altre aree del cervello.

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Immaginare è vedere con l’occhio della mente.

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Howard Engel scriveva una parola in aria con l’indice, facendo in modo che un atto motorio prendesse il posto di un atto sensorio.

Howard Engel poteva leggere solo nell’atto dello scrivere.

“Non pensavo assolutamente di scrivere un libro. Non solo la cosa andava ben oltre le mie capacità: era anche al di là della mia immaginazione. Senza che io lo sapessi, però, un’altra parte del mio cervello stava cominciando a comporre la trama di una storia.”

“Scrivi di quello che conosci…”

“Potevo fare un libro che descrivesse com’era trovarsi tagliato fuori da tutto.”

L’immaginazione è la fonte del flusso creativo.

“I problemi non sono spariti, ma io sono diventato più bravo a risolverli»”

Howard Engel

 

IV

Senza volto. La prosopoagnosia.

 

Le emozioni – quelle esplicite e istintive e anche quelle nascoste o rimosse di cui parlò Freud – sono esibite sul nostro volto insieme a pensieri e intenzioni. Più di qualsiasi altra parte del corpo, è il viso a esser giudicato «bello» in senso estetico, e «fine» o «distinto» in senso morale o intellettuale. Vi è poi un altro fatto importantissimo: è grazie al nostro volto che siamo riconoscibili come individui. Noi portiamo impressi sul volto le nostre esperienze e il nostro carattere.

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«Quando il bambino sorride, di solito coinvolge l’adulto, spingendolo a interagire con lui – a sorridergli, a parlargli, a prenderlo in braccio; in altre parole, lo spinge a iniziare il processo di socializzazione ... La relazione di comprensione reciproca è possibile solo grazie al continuo dialogo tra i volti».

Everett Ellinwood

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Secondo gli psicoanalisti, il volto è il primo oggetto ad acquisire significato e importanza visivi.

Franco Magnani : l’artista della memoria.

Negli ultimi decenni si è andata consolidando la consapevolezza della plasticità del cervello: del fatto, cioè, che una parte o un sistema del cervello può assumere su di sé le funzioni di una parte o di un sistema difettoso o danneggiato. Questo però non sembra verificarsi nel caso della prosopoagnosia o dell’agnosia topografica; in genere, infatti, si tratta di disturbi che durano tutta la vita e che non si attenuano con l’età. Pertanto, le persone con prosopagnosia devono essere creative.

Confutazione del dualismo di Cartesio:

 

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I medici, però, osservando le conseguenze degli ictus e di altre lesioni cerebrali, già da tempo avevano buone ragioni per sospettare l’esistenza di un legame tra il cervello e le funzioni della mente. Verso la fine del Settecento, l’anatomista Franz Joseph Gall ipotizzò che tutte le funzioni mentali dovessero scaturire dal cervello: non dall’«anima», come molti pensavano, né dal cuore. Gall immaginò piuttosto che all’interno del cervello vi fosse un insieme di sistemi neurali ciascuno dei quali responsabile di una facoltà morale o mentale diversa. Secondo Gall, tali facoltà comprendevano quelle che noi oggi chiameremmo funzioni percettive, come la sensazione del colore o del suono; le facoltà cognitive, come la memoria, il talento innato per la meccanica, o anche la parola e il linguaggio; e i tratti «morali» come l’amicizia, la benevolenza o l’orgoglio. Per queste idee eretiche, fu esiliato da Vienna e riparò infine nella Francia rivoluzionaria, dove sperava che un approccio scientifico potesse essere accolto con favore. L’idea di Gall, e cioè che le diverse funzioni avessero una localizzazione precisa nel cervello, ebbe un impatto duraturo.

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Paul Broca. Questi eseguì l’autopsia di molti pazienti con afasia espressiva, e dimostrò che essi presentavano tutti un danno circoscritto al lobo frontale sinistro. Nel 1865 Broca poté affermare, con parole divenute poi famose, che «noi parliamo con il nostro emisfero sinistro»: sembrò così che l’idea di un cervello omogeneo e indifferenziato fosse stata messa a riposo.

Broca credeva di aver localizzato un «centro verbo-motorio», in un’area particolare del lobo frontale sinistro, che noi oggi chiamiamo «area di Broca».

“Localizzare il danno responsabile della perdita della parola e localizzare la parola stessa sono due cose differenti».

Hughlings Jackson

In genere si pensava che da questo dibattito Jackson fosse uscito perdente; d’altra parte, egli non era l’unico a nutrire qualche riserva. Freud, nel suo libro L’interpretazione delle afasie, del 1891, ipotizzò che l’uso del linguaggio richiedesse la cooperazione di molte aree cerebrali interconnesse e che l’area di Broca fosse solo un nodo all’interno di una vasta rete. Il neurologo Henry Head, nel suo monumentale trattato del 1926, intitolato Aphasia and Kindred Disorders of Speech, sosteneva una visione olistica del linguaggio.

Si dimostrò l’esistenza di una correlazione tra funzioni neurologiche e cognitive da una parte e centri cerebrali specifici dall’altra.

A quel punto, la neurologia si spinse baldanzosamente oltre, identificando «centri» di ogni genere: al centro verbo-motorio di Broca fecero seguito il centro uditivo-verbale di Wernicke e il centro visuo-verbale di Déjerine, tutti localizzati nell’emisfero sinistro, l’emisfero del linguaggio; e un centro per il riconoscimento visivo nell’emisfero destro.

Pressoché tutti i pazienti con prosopagnosia acquisita possiedono un danno che interessa una struttura denominata giro fusiforme.

Il fatto che i singoli neuroni di quest’area potessero avere delle preferenze fu dimostrato per la prima volta nel 1969.

A questo livello puramente visivo, i volti sono distinti come configurazioni rilevando, in una certa misura, le relazioni geometriche esistenti fra occhi, naso, bocca e altri lineamenti (come hanno stabilito Freiwald, Tsao e Livingstone).

Essi scrivono che cellule inferotemporali diverse «sono selettive per parti diverse del volto e per diverse interazioni fra le parti, e che la stessa cellula può dare una risposta massimale a diverse combinazioni delle parti di un volto. Pertanto, non esiste un unico protocollo per rilevare la forma di una faccia ... Questa grande varietà di regolazioni offre al cervello un ricco vocabolario per descrivere le facce e mostra come uno spazio parametrico a elevata dimensionalità possa essere codificato perfino in una piccola regione [della corteccia inferotemporale]».

Il riconoscimento di volti o di altri oggetti particolari è realizzato solo a un livello corticale superiore, nell’area multimodale del lobo temporale mediale; quest’ultima ha ricche connessioni reciproche non solo con l’area fusiforme per il riconoscimento dei volti, ma anche con altre aree che partecipano all’associazione sensoriale, all’emozione e alla memoria.

 

 Le cellule dell’area multimodale del lobo temporale mediale presentano una specificità straordinaria. Ognuna di queste cellule è connessa a migliaia di altre, ognuna delle quali a sua volta è connessa ad altre migliaia. (Alcune singole cellule, inoltre, possono rispondere a più di un oggetto). Pertanto, la risposta di una singola cellula rappresenta in effetti il vertice di una immensa piramide computazionale, che attinge probabilmente da input diretti e indiretti provenienti dalla corteccia visiva, uditiva o tattile, dalle aree per il riconoscimento dei testi, dalle aree mnemoniche o emozionali.

A questo stadio, però, non vi è alcuna preferenza per i singoli volti: volti generici o disegni di volti possono anzi evocare le stesse risposte di quelle reali.

Pare che esista un’abilità innata, e presumibilmente determinata a livello genetico, per il riconoscimento delle facce; e pare che tale capacità venga messa a fuoco entro il primo o il secondo anno di vita, così che noi sviluppiamo una particolare abilità nel riconoscere il tipo di volti in cui avremo maggiori probabilità di imbatterci. Una certa capacità, dalla visione stereoscopica alle abilità linguistiche, una certa predisposizione o potenzialità è incorporata geneticamente, per svilupparsi appieno deve essere alimentata, stimolata ed esercitata in un ambiente ricco. La selezione naturale può rendere possibile la predisposizione iniziale, ma affinché le nostre capacità cognitive e percettive giungano a una piena realizzazione, occorrono esperienza e selezione esperienziale.

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Elkhonon Goldberg, tuttavia, mette in dubbio l’intero concetto di centri o moduli discreti, con funzioni fisse, cablati nella corteccia cerebrale. Egli ritiene invece che probabilmente ai livelli corticali superiori vi sia molto più spazio per gradienti all’interno dei quali aree diverse – la cui funzione viene sviluppata dall’esperienza e dall’addestramento – si sovrappongono o sfumano l’una nell’altra. Nel suo libro La sinfonia del cervello, Goldberg ipotizza che il principio del gradiente possa costituire un’alternativa evolutiva al principio del modulo, permettendo un grado di flessibilità e di plasticità impossibile per un cervello organizzato esclusivamente secondo quest’ultimo.

Secondo Goldberg, mentre la modularità può essere caratteristica del talamo – un gruppo di nuclei con funzioni, afferenze ed efferenze fisse –, un’organizzazione mediante gradienti è più caratteristica della corteccia cerebrale, e diventa sempre più importante a mano a mano che si sale dalla corteccia sensoriale primaria alla corteccia associativa, fino alla corteccia frontale che rappresenta il livello più alto di tutti. Le due modalità di organizzazione – mediante moduli e mediante gradienti – possono pertanto coesistere e completarsi a vicenda.

Il cervello è qualcosa di più di un insieme di moduli autonomi, ciascuno dei quali essenziale per una specifica funzione mentale. Ognuna di queste aree funzionalmente specializzate deve interagire con decine o centinaia di altre, e la loro integrazione complessiva crea un insieme paragonabile a un’orchestra enormemente complicata, costituita da migliaia di strumenti: un’orchestra che si dirige da sola, seguendo una partitura e un repertorio in continuo cambiamento.

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Soprattutto, però, il riconoscimento dei volti non dipende soltanto dall’abilità di analizzare gli aspetti visivi di un volto (le sue particolari caratteristiche e la configurazione generale di queste ultime) e dall’abilità di confrontarlo con altri, ma anche dalla capacità di fare appello ai ricordi, alle esperienze e ai sentimenti associati a quella faccia. Come sottolinea Pallis, il riconoscimento di luoghi o volti specifici è legato a un dato sentimento, ovvero ad associazioni e significati particolari. Se da un lato il riconoscimento puramente visivo dei volti è mediato dall’area fusiforme dedicata e dalle sue connessioni, dall’altro la familiarità emozionale è mediata a un livello superiore, multimodale, dove esistono intime connessioni con l’ippocampo e l’amigdala, ovvero con aree dedicate alla memoria e all’emozione. Il riconoscimento si basa sulla conoscenza; la familiarità, sul sentimento; nessuno dei due, però, implica l’altro. Le due cose hanno una base neurale diversa e possono essere dissociate; pertanto, sebbene nella prosopagnosia vadano perduti entrambi, in altre condizioni è possibile avere il senso di familiarità ma non il riconoscimento, oppure il riconoscimento ma non il senso di familiarità.

Ken Nakayama, che studia la percezione visiva a Harvard, sospetta tuttavia da tempo che la prosopagnosia sia un disturbo relativamente comune, oggetto di scarse segnalazioni da parte dei pazienti. Nakayama e Duchaine hanno esplorato la base neurale del riconoscimento delle facce e dei luoghi, aggiungendo nuove conoscenze ad ogni livello, da quello genetico a quello corticale. Hanno anche studiato gli effetti psicologici e le conseguenze sociali della prosopagnosia dello sviluppo e dell’agnosia topografica. L’intervallo di variazione sembra estendersi anche nella direzione positiva. Russell, Duchaine e Nakayama hanno studiato i modi di percezione di persone con abilità straordinarie di riconoscimento.

La differenza fra i migliori e i peggiori riconoscitori:

I migliori riconoscitori hanno capacità di riconoscimento due o tre deviazioni standard al di sopra della media, mentre i prosopagnosici più gravi hanno capacità di riconoscimento due o tre deviazioni standard al di sotto di essa. Pertanto, questa differenza è paragonabile a quella esistente fra le persone con un QI di 150 e quelle con un QI di 50, mentre tutti gli altri si collocano ai livelli intermedi del continuum. Come nel caso di qualsiasi curva a campana, la grande maggioranza delle persone si trova nella zona centrale della distribuzione.

 

V

Sue Barry. Reimparare a camminare.

Wheatstone confermò la sua congettura grazie a un metodo sperimentale tanto semplice quanto brillante. Eseguì coppie di disegni di un oggetto solido, ritraendolo così come era visto dalla prospettiva leggermente diversa dei due occhi, e poi costruì uno strumento con il quale assicurarsi che, grazie a un sistema di specchi, ciascun occhio vedesse solo il proprio disegno. Chiamò il suo strumento «stereoscopio» (dal greco stereós, «solido», e quindi «tridimensionale»). Se si guardava nello stereoscopio, i due disegni piatti si fondevano producendo un unico disegno tridimensionale sospeso nello spazio.

La fotografia fu inventata solo qualche mese dopo la pubblicazione, nel 1838, dell’articolo in cui Wheatstone descriveva il suo stereoscopio; ben presto le stereofotografie conquistarono il favore del grande pubblico.

Michael Faraday presentando una serie di disegni immobili in rapida successione, dimostrò che a una certa velocità critica il cervello poteva fondere le immagini, creando così una sensazione di movimento.

James Clerk Maxwell rimase affascinato dall’ipotesi di Thomas Young, secondo la quale nella retina esisterebbero tre – e solo tre – tipi di recettori cromatici, ciascuno dei quali sensibile alla luce di una determinata lunghezza d’onda (approssimativamente corrispondente al rosso, al verde e al blu). Maxwell mise allora a punto un test elegante per verificare tale ipotesi; fotografò attraverso filtri di diverso colore (rosso, verde e violetto) e poi proiettò le tre fotografie attraverso i filtri corrispondenti. Quando le tre immagini monocromatiche erano perfettamente sovrapposte, improvvisamente la fotografia diventava a colori.

Nel 1861, in uno dei tanti articoli sugli stereoscopi usciti sull’«Atlantic Monthly», Oliver Wendell Holmes (inventore del famoso «stereovisore portatile di Holmes») commentò il particolare piacere che il pubblico sembrava trarre da quella magica illusione di profondità:

L’esclusione degli oggetti circostanti e l’assoluta concentrazione ... producono un’esaltazione simile al sogno ... in cui sembra di abbandonare il proprio corpo e navigare come spiriti disincarnati da una strana scena all’altra.

Oltre alla visione stereoscopica, vi sono naturalmente molti altri modi per giudicare la profondità: l’occlusione degli oggetti distanti da parte di quelli più vicini, la prospettiva (il fatto cioè che le linee parallele allontanandosi convergano, e che gli oggetti distanti ci appaiano più piccoli), l’ombreggiatura (che delinea la forma degli oggetti), la cosiddetta «prospettiva aerea» (lo sfumare degli oggetti più distanti, che assumono una tinta bluastra a causa dell’aria interposta fra noi e loro) e, cosa più importante, la parallasse di movimento, ovvero il mutevole aspetto delle relazioni spaziali quando ci muoviamo nell’ambiente. Tutti questi indizi possono concorrere a darci un senso di realismo, di spazio e di profondità. Tuttavia, il solo modo che consenta di percepire davvero la profondità – di vederla, più che stimarla – consiste nell’utilizzare uno stereoscopio binoculare.

Moltissima gente non è particolarmente consapevole di ciò che la visione stereoscopica aggiunge al mondo visivo, ma noi ne traiamo un gran piacere. Alcune persone possono anche non notare grandi differenze quando tengono un occhio chiuso; noi siamo profondamente consapevoli di un enorme cambiamento, in quanto il nostro mondo perde improvvisamente spaziosità e profondità, e diventa piatto come una carta da gioco.

Può darsi che la nostra stereoscopia sia più acuta; forse, soggettivamente, noi viviamo in un mondo più profondo; oppure, semplicemente, siamo più consapevoli della profondità, così come altri possono essere più sintonizzati sul colore o la forma.

Ci interessa capire come funziona la visione stereoscopica. Il problema non è banale, perché se potessimo capirla, non solo comprenderemmo un espediente visivo semplice ed elegante, ma coglieremmo anche qualcosa sulla natura della consapevolezza visiva, e della coscienza stessa.

 

Le illusioni sono ipotesi percettive

Richard Gregory, che ha studiato per molti anni le illusioni visive, insisteva che le percezioni fossero, in realtà, ipotesi percettive. (così come, negli anni Sessanta dell’Ottocento, Hermann von Helmholtz le aveva definite «inferenze inconsce»).

 

 

 

 

 “Adesso che sono confinato in un mondo bidimensionale ho perduto il mio orientamento spaziale. Non ho più la sensazione, che un tempo avevo, di sapere esattamente dove mi trovo nello spazio e nel mondo.

Non posso concepire di passare il resto della mia vita in questo modo ... La percezione binoculare stereoscopica della profondità non è semplicemente un fenomeno visivo. È uno stile di vita ... In un mondo bidimensionale, la vita è molto diversa, e di qualità decisamente inferiore, rispetto a com’è in un mondo tridimensionale”.

Paul Romano

“Oltre la porta, aperta, della mia camera, c’era la porta della camera di fronte; oltre quella porta, un paziente seduto su una sedia a rotelle; al di là del paziente, sul davanzale, un vaso di fiori, e, al di là del vaso, oltre la strada, le finestre dell’edificio dirimpetto, sormontate da timpani; tutto questo scenario (che abbracciava forse una sessantina di metri di profondità) ... sembrava si distendesse nello spazio come una gigantografia a colori, ricca di particolari, ma del tutto bidimensionale.”

Oliver Sacks

Gli articoli di David Hubel e Torsten Wiesel sui meccanismi neurali della visione.

Quel lavoro, che in seguito valse loro un premio Nobel, rivoluzionò le nostre conoscenze sui meccanismi attraverso i quali impariamo a vedere: In particolare, sul fatto che l’esperienza visiva precoce è essenziale per lo sviluppo, nel cervello, di cellule o meccanismi speciali indispensabili per una visione normale. Fra questi vi sono le cellule binoculari della corteccia visiva, necessarie per generare il senso della profondità a partire dalle disparità retiniche. Hubel e Wiesel dimostrarono che, se la normale visione binoculare era resa impossibile – da una patologia congenita.

Un numero significativo di esseri umani sviluppa condizioni simili, indicate collettivamente come strabismo: un disallineamento degli occhi che a volte è troppo leggero per essere notato, eppure è sufficiente per interferire con lo sviluppo della visione stereoscopica.

Chi non ha mai avuto la visione stereoscopica e vive adeguatamente senza di essa può avere grandi difficoltà a comprendere perché si dovrebbe attribuirle un valore rilevante.

Non è possibile comunicare che cosa sia una definita qualità soggettiva a chi non la possiede.

 

Sue Barry

Acquisì la percezione della profondità.

Avevo chiesto a Sue se le riuscisse di immaginare come sarebbe stato il mondo, se avesse potuto vederlo stereoscopicamente, e lei aveva detto che sì, pensava di poterlo fare: dopotutto, era una professoressa di neurobiologia, aveva letto gli articoli di Hubel e Wiesel e molto altro ancora sull’elaborazione visiva, la visione binoculare e la visione stereoscopica. Pensava che questa conoscenza le avesse fornito una comprensione particolare di ciò che le mancava: Sue sapeva come doveva essere la visione stereoscopica, anche se non l’aveva mai sperimentata.

“Lei mi chiese se potessi immaginare come sarebbe stato il mondo visto con due occhi. Io dissi che pensavo di sì ...”

Mi sbagliavo. Sue adesso poteva dirlo, infatti aveva acquisito la visione stereoscopica, ed essa andava ben oltre qualsiasi cosa avesse potuto immaginare.

Nessuno mi disse che non avevo la visione binoculare e io rimasi felicemente ignorante finché non entrai all’università”. Poi aveva seguito un corso di neurofisiologia: “Il professore descrisse lo sviluppo della corteccia visiva, le colonne di dominanza oculare, la visione mono- e binoculare.”

“Io ero veramente sbalordita: non avevo idea che esistesse un altro modo di vedere il mondo, a me precluso.”

Dopo lo sbalordimento iniziale, Sue aveva cominciato a fare ricerche per proprio conto sulla visione stereoscopica:

“Andai in biblioteca e affrontai la lettura degli articoli scientifici. Provai tutti i test per la visione stereoscopica che mi riuscì di trovare, e li fallii tutti.”

A questo punto, Sue si era chiesta se esistesse una qualsiasi terapia grazie alla quale acquisire la visione binoculare, ma «i medici mi dissero che tentare una terapia della visione sarebbe stata una perdita di tempo e denaro. Era proprio troppo tardi. Avrei potuto sviluppare la visione binoculare solo se i miei occhi fossero stati riallineati entro i due anni di età; e poiché avevo letto il lavoro di Hubel e Wiesel sullo sviluppo delle capacità visive e sui periodi critici, presi per buono il loro parere».

 

La terapia per acquisire la visione stereoscopica:

Sue iniziò una lunga seduta in cui, usando un paio di occhiali Polaroid per fare in modo che ciascun occhio guardasse un’immagine diversa, Sue cercò di fondere le due immagini.

All’inizio, non capiva che cosa significasse «fusione», né come si potessero far coincidere le due immagini; ma dopo aver provato per diversi minuti, scoprì di essere in grado di farlo, anche se soltanto per un secondo alla volta. Sebbene stesse guardando una coppia di stereoimmagini, non aveva alcuna percezione della profondità; tuttavia, aveva fatto il suo primo passo, ottenendo ciò che si definisce la «fusione piatta».

Sue si interrogava sulla possibilità – nel caso in cui fosse riuscita a tenere gli occhi allineati più a lungo – di ottenere non soltanto la fusione piatta, ma anche quella stereo. Le furono assegnati ulteriori esercizi per rafforzare la motilità oculare (inseguimento) e mantenere la fissazione dello sguardo, e Sue lavorò su di essi a casa, diligentemente. Tre giorni dopo, accadde qualcosa di strano:

“Oggi ho notato che la lampada che pende dal soffitto in cucina ha un aspetto diverso. Sembra occupare uno spazio fra me e il soffitto. Anche i suoi bordi sono più arrotondati. È un effetto lieve, ma rilevabile.”

La sua nuova visione, scriveva Sue, era qualcosa di «assolutamente meraviglioso». «Proprio non avevo idea di che cosa mi stessi perdendo». E aggiunse: «Cose comunissime sembravano straordinarie».

“Continuo a fissare le cose… il mondo ha veramente un aspetto diverso.”

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“Le foglie non si limitavano a sovrapporsi l’una all’altra come al solito. Riuscivo a vedere lo SPAZIO fra le foglie. Lo stesso vale per i rametti sugli alberi, i ciottoli sulla strada, le pietre di un muro a secco. Tutto ha più consistenza.”

“La lettera di Sue proseguiva su questi toni lirici, descrivendo esperienze del tutto nuove per lei, che andavano ben oltre qualsiasi cosa potesse aver immaginato o dedotto in precedenza. Aveva scoperto da sola che non esiste un sostituto dell’esperienza, che fra la «conoscenza per descrizione» e la «conoscenza diretta» di Bertrand Russell vi è un abisso, e non esiste alcun modo per passare dall’una all’altra.”

v   

“I fiori ora sembrano turgidi, profondamente reali, là dove prima erano piatti.”

v   

“Mi piacerebbe prendermi un’intera giornata solo per andarmene in giro a GUARDARE le piante e i fiori da tutte le angolazioni.”

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Nella sua lettera, Sue aveva scritto: «Io penso di aver desiderato per tutta la vita di vedere le cose con una maggiore profondità, anche prima di sapere che non ero in grado di farlo.» Questo commento curioso e toccante mi indusse a chiedermi se Sue non avesse conservato un qualche vago ricordo, a malapena consapevole, di un tempo in cui aveva visto le cose con una maggiore profondità (infatti non avrebbe dovuto provare alcun senso di perdita o nostalgia per qualcosa che non aveva mai sperimentato.

La consapevolezza, il sapere o avere un’idea di quello che si deve vedere sono essenziali in molti aspetti della percezione.

 

“Quando si guarda uno stereogramma, il processo computazionale in corso nel cervello si basa non soltanto sull’indizio binoculare della disparità, ma anche su indizi monoculari come le dimensioni, occlusione e la parallasse. Gli indizi monoculari possono essere in conflitto con quelli binoculari, così che – per arrivare a una media ponderata – il cervello deve bilanciare le due serie di indizi. Il risultato finale sarà diverso in individui diversi, perché anche nella popolazione normale vi è una variazione amplissima: alcuni individui si affidano prevalentemente agli indizi binoculari, altri a quelli monoculari, mentre i più si servono di una qualche combinazione dei due. Nel guardare un’immagine stereo come quella del diapason, un individuo fortemente binoculare percepirà una insolita profondità spaziale; un individuo più monoculare percepirà una profondità minore; e altri, affidandosi a entrambi gli indizi, monoculari e binoculari, percepiranno una profondità intermedia.”

Shinsuke Shimojo

La spiegazione di Shimojo dava sostanza all’ostinata convinzione di molti di noi della New York Stereoscopic Society: la convinzione di vivere in un mondo più «profondo», dal punto di vista visivo, della maggior parte delle altre persone.

 

L’intensificazione della percezione della profondità

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Se si proietta una stereofotografia per una frazione di secondo su uno schermo, un individuo con una normale visione stereoscopica percepisce comunque immediatamente una certa profondità. Ma ciò che si vede in simili circostanze non è la profondità completa; la percezione di quest’ultima richiede infatti diversi secondi, addirittura minuti, nel corso dei quali l’immagine sembra diventare via via più profonda mentre si continua a fissarla, come se il sistema stereo impiegasse un certo tempo per riscaldarsi ed entrare a pieno regime.

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Questa intensificazione sembra caratteristica del sistema deputato alla stereovisione (i colori, invece, non diventano più intensi a mano a mano che li si guarda). La causa di questo fenomeno è sconosciuta; è stato tuttavia ipotizzato che esso implichi, nella corteccia visiva, il reclutamento di nuove cellule binoculari.

Vi è, inoltre, un chiaro effetto dell’esercizio: coloro che allenano le proprie facoltà stereoscopiche – per esempio lavorando con uno stereomicroscopio – possono andare incontro a impressionanti miglioramenti dell’acuità e della profondità della stereovisione, nell’arco di periodi più lunghi. Anche in questo caso, il meccanismo di fondo è sconosciuta.

Sue si serve di una metafora per descrivere il modo in cui apprende la visione stereoscopica, paragonandosi a qualcuno che stia reimparando a camminare.

Stereogrammi a punti casuali.

Ha inoltre sviluppato un’abilità che non aveva quando la visitammo la prima volta, ossia la capacità di vedere gli stereogrammi a punti casuali.

A un primo sguardo, sembra che essi non contengano alcuna immagine. Se però li si continua a fissare attraverso lo stereoscopio, ci si accorge di una sorta di strana turbolenza fra i punti e poi, all’improvviso, molto al di sopra o al di sotto del piano del foglio, appare una sorprendente illusione: un’immagine definita. Tale illusione richiede un certo esercizio e molte persone, anche quelle con una normale visione binoculare, non riescono a coglierla. Si tratta tuttavia del test più autentico per saggiare la visione stereoscopica.

Béla Julesz, lo straordinario ricercatore che studiò la stereoscopia a punti casuali riteneva che essa implicasse ulteriori meccanismi neurali rispetto a quelli impiegati nella comune visione stereo. A suggerirlo è il fatto che può occorrere un minuto o anche più per «capire» gli stereogrammi a punti casuali, mentre quelli comuni possono essere visti istantaneamente.

Noctiluca scintillans

L’acqua era un incendio di creature luminescenti: Dalla costa vedevamo l’acqua emettere scintille come se fosse stata piena

di lucciole, e quando ci immergemmo, nuvole di minuscoli fuochi d’artificio si accesero intorno al nostro corpo mentre nuotavamo.

«È come nuotare in una galassia. Adesso le vedo in 3D – prima mi sembravano tutte pulsare su una superficie piatta».

Sue azzardò un paragone con quella di un individuo nato del tutto privo di visione cromatica, capace di vedere soltanto gradazioni di grigio, al quale fosse data poi, all’improvviso, la possibilità di vedere tutti i colori. Questa persona, scriveva, «probabilmente sarebbe sopraffatta dalla bellezza del mondo. Potrebbe mai smettere di guardare?».

Sebbene apprezzassi la poesia dell’analogia di Sue, non ero sicuro che l’idea funzionasse. (Il mio amico e collega Knut Nordby, completamente privo di visione cromatica, pensava che ricevere il colore come «aggiunta» dopo una vita intera senza di esso sarebbe stato motivo di una spaventosa confusione, una cosa impossibile da integrare con il suo mondo visivo già completo. Egli sosteneva che per una persona come lui il colore sarebbe risultato inintelligibile, privo di associazioni e di significato.

Sue aveva accolto la nuova esperienza e l’aveva percepita non come un’aggiunta arbitraria, ma come un arricchimento, un approfondimento naturale e bellissimo delle sue facoltà visive preesistenti.

Tuttavia, termini come «arricchimento» o «approfondimento», secondo Sue, non rendevano neanche lontanamente giustizia alla sua esperienza di acquisizione della stereoscopia. Non era semplicemente un aumento quantitativo: era qualcosa di interamente nuovo.

Questa differenza si estende addirittura alla percezione di rappresentazioni bidimensionali come fotografie, film, o dipinti. Sue adesso trova tutte queste cose molto più «realistiche».

“Mi sembra che sua riacquisizione della stereopsia] abbia avuto luogo troppo velocemente per essere dovuta a un ripristino delle connessioni, e penserei piuttosto che l’apparato sia sempre stato presente, e che per svilupparsi necessitasse solo del ristabilirsi della fusione». Tuttavia, aggiunse poi, «si tratta soltanto di un’ipotesi!”. David Hubel

“Dopo quasi tre anni la mia nuova visione continua a sorprendermi e ad affascinarmi. Un giorno d’inverno, intorno a me stava cadendo lenta la neve, in grandi fiocchi bagnati. Vedevo lo spazio fra un fiocco e l’altro, e tutti insieme essi producevano una meravigliosa danza tridimensionale. In passato, la neve sembrava cadere su una superficie piatta, su un unico piano a poca distanza da me, e io mi sentivo una spettatrice di fronte alla nevicata. Adesso invece mi sentivo dentro di essa, in mezzo ai fiocchi. Il mio sguardo si rapprese, mi incantai: Rimasi a guardare la neve cadere per qualche minuto e, mentre guardavo, fui sopraffatta da un profondo senso di gioia. Una nevicata può essere meravigliosa – soprattutto quando la vedi per la prima volta».”

 

VI

Oliver Sacks

La realtà scomparsa

 

“Ero abituato a ricostruire ogni luce, a integrarla con i miei ricordi, a vivere in una strana semioscurità. Quasi mi piaceva. Distinguevo ancora abbastanza bene i contorni delle forme, le riempivo con la fantasia come fa il pittore con la cornice vuota. Dalla voce e dai movimenti intuivo i possibili tratti del viso che avevo di fronte. Chi mi era vicino talvolta si meravigliava che io, incapace com’ero di distinguere i colori e le sfumature, notassi smorfie fugaci, invisibili a un occhio sano. Anch’io ne ero stupito. D’un tratto il terrore di essere forse già del tutto cieco mi agghiacciò ... Dalle parole e dalle voci ricostruivo la realtà scomparsa come quando, nell’attimo in cui stiamo per addormentarci, la nostra anima adopera i fosfeni danzanti davanti all’occhio per costruire figure e forme simili alla vita. Stavo sulla soglia che divide la realtà dalla fantasia e cominciavo a non sapere più dove mi trovassi – l’occhio del corpo e quello dell’anima si sovrapponevano e non ero più sicuro di quale dei due dirigesse l’altro.”

Proprio come la visione cromatica, la percezione della profondità mi è sempre sembrata naturale, parte integrante del mio mondo visivo. Mi dava il senso della solidità degli oggetti e della realtà dello spazio: del meraviglioso mezzo trasparente in cui essi risiedono. Ero perfettamente consapevole di come il mio mondo visivo crollasse istantaneamente se chiudevo un occhio e di come si riespandesse nel momento stesso in cui lo riaprivo. Sembrava che, dal punto di vista visivo, io vivessi in un mondo più profondo della maggior parte delle persone.

Le mie esperienze con Sue e il piacere da lei provato – descritto poi in toni lirici, quando acquisì la stereoscopia dopo una vita intera di cecità nei confronti della terza dimensione – rinforzarono il mio apprezzamento per la visione stereoscopica. In effetti, ho passato gran parte del 2004 e del 2005 a occuparmi dell’argomento, riflettendo e scrivendo sul tema e mantenendo la mia corrispondenza con Sue.

Poi, nel giugno del 2007 persi tutta la visione centrale in quell’occhio e, insieme ad essa, la stereoscopia. Il completo e improvviso appiattimento del mondo visivo che sperimentavo da bambino chiudendo un occhio divenne ora una condizione permanente. Alcune persone hanno da sempre una scarsa visione stereoscopica, oppure fanno un uso talmente marginale degli indizi binoculari che, se perdono la stereoscopia, a malapena se ne accorgono. La mia situazione era molto diversa. La stereoscopia era stata una parte fondamentale della mia vita visiva, e la sua perdita ebbe un impatto profondo a molti livelli: dalle difficoltà pratiche della vita quotidiana, all’intero concetto di «spazio». Questi cambiamenti furono così radicali che, in effetti, mi occorse del tempo per riconoscerli in tutta la loro portata.

Se non ci sono ombre o altri indizi che mi aiutino, per me i gradini sono solo linee sul pavimento: non ho idea di quanto siano alti, e meno che mai se salgano o scendano. Particolarmente insidiosi sono quelli che io non posso prevedere, come un paio di gradini in una piazza all’aperto, o nel soggiorno a casa di qualcuno (spesso questi gradini mancano del corrimano, che potrebbe servire da indizio visivo). Scendere da una scalinata è un rischio reale e a volte terrificante, e io ho bisogno di

«sentire» il mio percorso con cautela, verificando ogni gradino con il piede. A volte la sensazione visiva di appiattimento può essere così convincente da competere con ciò che mi dice il piede. Anche quando tutti gli altri sensi – compreso il buon senso – mi dicono che c’è un altro gradino, se non riesco a vederne la profondità, io esito confuso. Dopo una lunga pausa, muovo il piede, ma il potere dominante della visione rende la cosa tutt’altro che semplice.

A volte ho esperienze pseudostereoscopiche, come quando qualcosa di piatto, per esempio un giornale steso sul pavimento, mi sembra sospeso a mezz’aria.

Entrambe le volte avevo fumato un po’ di cannabis e mi ero ritrovato totalmente assorbito, a fissare dei fiori in una sorta di rapimento: una volta si trattava di narcisi in un vaso, l’altra di campanelle che crescevano arrampicandosi su una staccionata.

In entrambi i casi, mi sembrò che i fiori lievitassero davanti ai miei occhi, slanciandosi nello spazio che li circondava, assumendo la loro piena e appropriata magnificenza tridimensionale. Quando l’effetto della cannabis si esaurì, tornarono a sgonfiarsi. Questa visione era «reale» o un’illusione? Dal punto di vista qualitativo, era del tutto diversa dalla pseudostereovisione, ossia dalle illusioni confondenti di profondità e distanza che a volte mi capitavano con le linee sul pavimento, quando in realtà non c’era nessuna profondità. I fiori avevano una profondità, e io li vedevo come quando avevo due occhi sani. A prescindere dal fatto che fosse una percezione aberrante o un’illusione, comunque era veridica, consonante con la realtà. Alcuni dei miei corrispondenti, consumando cannabis, hanno a volte sperimentato l’effetto opposto: una perdita della visione stereoscopica, così che il loro mondo visivo sembra bidimensionale, come se fosse dipinto.

Vedo un mondo caotico. Non c’è spazio da nessuna parte: nessuno spazio fra le cose.

Sebbene nella maggior parte dei casi io trovi detestabile il fatto che tutto mi appaia piatto, e lamenti la perdita della profondità, talvolta apprezzo il mio mondo bidimensionale. A volte una stanza, una strada tranquilla o una tavola apparecchiata mi appaiono simili a nature morte, bellissime composizioni visive, come immagino possano vederle un pittore o un fotografo, vincolati a una tela o a una pellicola piatte. Adesso che sono più consapevole dell’arte della composizione, scopro un piacere nuovo nel guardare             quadri o fotografie. In questo senso, sono più belli, sebbene ormai non mi diano più neppure l’illusione della profondità.

Un pomeriggio andai in un ristorante giapponese; una delle attrattive era la vista. A metà giornata, in quel momento dell’anno, i raggi del sole proiettavano un’ombra dettagliata dell’albero e delle sue foglie delicate sulla parete gialla che si ergeva dietro di esso, a circa un metro e mezzo di distanza. Senza stereoscopia, però, io vedevo l’albero e la sua ombra sullo stesso piano, come se fossero stati entrambi dipinti sulla parete: una vista al tempo stesso inquietante e raffinata, poiché la realtà tridimensionale si era trasformata in un dipinto giapponese.

A maggior distanza, può darsi che – nell’immediato – la visione stereoscopica sia meno importante; tuttavia, il non saper giudicare la distanza mi espone a illusioni e dubbi profondi e spesso assurdi. Non è solo il senso della profondità e della distanza a essere compromesso; a volte, lo è anche quello della prospettiva, così fondamentale per rendersi conto che ci troviamo in un mondo di oggetti solidi disposti nello spazio.

La mia incapacità di vedere la profondità o la distanza mi porta a combinare o a fondere oggetti vicini e lontani generando strani ibridi o chimere. Un giorno rimasi sconcertato nel trovarmi una rete grigia fra le dita, prima di capire che stavo guardando il tappeto grigio, poco meno di un metro più in basso; lo avevo visto sullo stesso piano delle mie mani e lo avevo interpretato come parte di esse.

Un tempo lo spazio era un regno ospitale dotato di profondità, nel quale io potevo collocarmi e vagare a mio piacimento. Potevo entrarci, lo abitavo, avevo una relazione spaziale con tutto quanto potevo vedere. Ora quel tipo di spazio non esiste più per me: né visivamente, né mentalmente.

Il più delle volte, riesco a «vedere oltre» le mie illusioni e fusioni. Ma questo non altera la sensazione che un fondamentale aspetto del mondo visivo mi sia stato portato via e che le cose non avranno più l’aspetto che avevano prima: non appariranno mai «giuste». La realtà visiva che io affronto è completamente sbagliata:

Io so bene come erano le cose, e come dovrebbero essere.

Adesso, l’unico momento in cui vedo in profondtà è nei sogni; Mi sveglio da questi sogni per tornare a una realtà incorreggibilmente e irreversibilmente piatta – piatta da impazzire.

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Noi non rendiamo giustizia come dovremmo a ciò che possediamo; il più delle volte, infatti, ne abbiamo una scarsa consapevolezza esplicita.

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La visione periferica, però, che circondando quella centrale ci offre un contesto: la percezione del fatto che qualsiasi cosa stiamo guardando è situata in un mondo più ampio. E la visione periferica è sintonizzata soprattutto sul movimento: ci avverte di movimenti inattesi sull’uno o sull’altro lato – la visione centrale, dunque si fissa sugli oggetti.

“Quando la cecità è grave, il paziente può comportarsi quasi come se l’universo avesse cessato di esistere in una qualsiasi forma significativa ... I pazienti con cecità unilaterale si comportano non solo come se nulla stesse effettivamente accadendo nell’emispazio sinistro, ma anche come se non ci si potesse aspettare che mai vi accada nulla della benché minima importanza.”

M.-Marsel Mesulam

Non ho alcuna consapevolezza da quel lato, e qualsiasi cosa entri nel mio campo visivo da lì è inattesa e mi sorprende. Non riesco a superare il senso di sconcerto, addirittura di shock, che provo quando oggetti o persone appaiono improvvisamente alla mia destra. Una quantità di spazio non esiste più per me, e l’idea che in quello spazio possa esserci qualcosa è anch’essa, allo stesso modo, scomparsa.

Mi aspettavo, col tempo, di adattarmi alla mia semicecità, al mio emispazio, ma non è andata così. Ogni volta che qualcuno o qualcosa improvvisamente si materializza alla mia destra, è inaspettato esattamente come la prima volta. Mi trovo ancora in un mondo di subitaneità e discontinuità, un mondo di apparizioni e sparizioni improvvise. “Lì” non riuscivo nemmeno più ad immaginarlo, “lì”, per me non esisteva più. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, lontano dalla mente.

La cecità e l’anestesia

La consapevolezza di sé, il senso del proprio corpo, termina bruscamente, in effetti, là dove inizia l’effetto dell’anestesia, e tutto quanto si trova sotto non è più percepito come parte di sé, poiché non invia più al cervello alcuna informazione che ne testimoni l’esistenza: è scomparso, portando via anche il suo posto, il suo spazio. L’imaging funzionale ha dimostrato che le parti del corpo anestetizzate perdono la loro rappresentazione nella corteccia sensoriale. Lo stesso sembra accadere al lato destro del mio campo visivo: non invia più alcun segnale al cervello, e non vi ha più alcuna rappresentazione Per quanto riguarda il cervello, non esiste.

Il nulla visivo e mentale

Nel mio campo visivo destro e nel mio cervello c’è un ampio nulla, un nulla di cui non ho e non posso avere una consapevolezza diretta. Le persone e gli oggetti continuano a «dissolversi nell’aria» o a «piovere dal cielo» – queste per me non sono semplici metafore, ma il modo più accurato con cui riesco a descrivere la mia esperienza del “nulla” e del “da nessuna parte”.

 

 

 

 

 

 

VII

John Hull

Il dono oscuro

In quale misura noi siamo gli autori, i creatori, delle nostre esperienze? Fino a che punto esse sono predeterminate dal cervello o dai sensi che abbiamo in dotazione dalla nascita, e in quale misura, invece, siamo noi stessi a plasmare il nostro cervello attraverso l’esperienza? Gli effetti di una grave deprivazione percettiva come la cecità possono inaspettatamente fare luce su queste domande. Perdere la vista, soprattutto in età adulta, pone l’individuo di fronte a un’impresa di immense proporzioni che minaccia di sopraffarlo: una volta che i vecchio mondo è andato distrutto, infatti, occorre trovare un nuovo modo di vivere e di organizzare la propria realtà. Nel 1990 ricevetti un libro straordinario, Il dono oscuro: nel mondo di chi non vede. Il suo autore, John Hull, era un professore di scienze religiose che viveva in Inghilterra, Nel 1983, all’età di quarantotto anni, era diventato completamente cieco.

John dopo esser diventato cieco sperimentò una graduale attenuazione della memoria e dell’immaginazione visive, processo che si spinse fino alla loro pressoché totale estinzione (salvo che nei sogni): uno stato che egli chiamava «cecità profonda».

Con questa espressione, John non si riferiva solo alla perdita di immagini mentali e ricordi visivi, ma anche alla perdita dell’idea stessa del vedere mentre svaniva perfino la sensazione che gli oggetti possedessero un «aspetto» o delle caratteristiche visive.

All’inizio ne aveva sofferto moltissimo: non riusciva più a evocare il volto della moglie o dei figli, né l’aspetto di luoghi e paesaggi che conosceva bene e che amava; poi, però, aveva finito per accettare la situazione con straordinaria serenità d’animo, arrivando anzi a considerarla una risposta naturale alla perdita della vista. Sembrava pensare che la perdita dell’immaginazione visiva fosse un prerequisito per il pieno sviluppo e il potenziamento degli altri sensi.

Due anni dopo aver perso del tutto la vista, nei suoi ricordi e nella sua immaginazione John pareva lontano dal mondo visivo quanto lo sarebbe stato un cieco dalla nascita. Con un approccio profondamente religioso, e un linguaggio che a volte ricorda san Giovanni della Croce, John si addentra in questo stato, cui finisce per arrendersi, con una serena accettazione e una sorta di letizia. E parla di questa cecità «profonda» come di «un mondo completamente a sé stante, e dotato di una propria autenticità e autonomia ...

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“Il fatto di essere una persona che vede con tutto il corpo mi colloca entro una precisa categoria di persone, che insieme alle altre costituisce uno degli ordini naturali dell’esistenza umana».

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 «Vedere con tutto il corpo» per John significa spostare la propria attenzione, il proprio centro di gravità, sugli altri sensi, che diventano più ricchi e potenti. E così racconta di come il suono della pioggia, al quale prima non aveva mai prestato grande attenzione, potesse ora descrivere per lui un intero paesaggio, perché in giardino le gocce che cadono sul vialetto hanno un suono diverso da quelle che cadono sul prato, sui cespugli o sulla siepe che separa il giardino dalla strada:

La pioggia ha un modo tutto suo di dare risalto ai contorni e di elargire una nota di colore a cose che fino a un attimo prima erano invisibili; invece di un mondo intermittente, e quindi frammentario, le gocce incessanti della pioggia creano un’esperienza acustica senza soluzione di continuità ... La pioggia ... dispiega in tutta la sua pienezza e simultaneità questo scenario ... restituisce il senso della prospettiva e dei rapporti reciproci tra una parte e l’altra del mondo.

Grazie alla nuova intensità della sua esperienza o attenzione (Il concetto di attenzione in Simone Weil: L’indicibile tenerezza.)

uditiva, unita all’acuirsi degli altri sensi, John arriva a provare una sorta di intimità con la natura, cioè una sensazione legata all’essere-nel-mondo che va al di là di qualsiasi cosa egli conoscesse quando ancora vedeva.

La cecità è diventata, per lui, «un dono oscuro, paradossale».

Non si tratta solo di «compensazione», sottolinea lui stesso, ma di un intero nuovo ordine, di una nuova modalità dell’essere umano. Egli si svincola dunque sia dalla nostalgia del mondo visivo, sia dallo sforzo, dall’ipocrisia, di esibire una pretesa «normalità», e trova un nuovo centro, una nuova libertà e una nuova identità.

Le sue lezioni diventano più chiare e hanno un orizzonte più ampio; la sua scrittura diventa più intensa e profonda; dal punto di vista intellettuale e spirituale lui stesso si fa più audace, più fiducioso. Sente, finalmente, di poggiare su basi solide

Nonostante il senso di disperazione inizialmente schiacciante che si abbatte su chi perde la vista, alcune persone, come Hull, hanno trovato nel limite della cecità la pienezza della loro forza creativa e della loro identità. Penso soprattutto a John Milton, il quale cominciò a perdere la vista intorno ai trent’anni e scrisse le sue più grandi opere poetiche quando ormai era diventato completamente cieco.

Milton meditò sulla cecità – su come la vista, dapprima puntata verso l’esterno, possa in seguito concentrarsi su ciò che è all’interno – nel Paradiso perduto e in un sonetto molto personale, On his blindness.

Jorge Luis Borges, un altro poeta divenuto cieco, raccontò i molteplici, paradossali effetti della propria cecità;

J.T. Fraser, prefazione all’edizione in Braille del suo libro Il tempo: una presenza sconosciuta.

Nel suo libro L’invenzione delle nuvole, Richard Hamblyn racconta di come Luke Howard, il chimico dell’Ottocento che per primo classificò le nubi, intrattenesse rapporti epistolari con molti altri naturalisti del suo tempo, compreso John Gough, un matematico che aveva perso la vista all’età di due anni.

Gough, scrive Hamblyn, era «un noto botanico, che con la lettura tattile era giunto a padroneggiare perfettamente l’intero sistema di Linneo. Ma padroneggiava anche la matematica, e l’arte di scrivere nell’oscurità». (Hamblyn aggiunge che Gough «avrebbe anche potuto diventare un buon violinista se suo padre non gli avesse fatto smettere di suonare lo strumento avuto da un musicista girovago».

Iperacutizzazione sensoriale ed immaginazione

Bernard Morin, il matematico che negli anni Sessanta dimostrò come una superficie sferica potesse venire rivoltata dall’interno all’esterno, era diventato cieco all’età di sei anni. Egli riteneva che i suoi risultati nel campo della matematica richiedessero uno speciale senso spaziale: una percezione e un’immaginazione tattile che si spingessero ben oltre la probabile dotazione di un matematico vedente.

Il cervello conserva la capacità di andare incontro a drastici cambiamenti in risposta alla deprivazione sensoriale.

 

VIII

Cecità

v  Sebbene io sia completamente cieca... mi considero una persona molto visiva. «Vedo» ancora gli oggetti intorno a me. Non mi sento a mio agio in un ambiente nuovo finché non mi sono fatta un’immagine mentale del suo aspetto.

v  Ricevetti la lettera di uno psicologo australiano, Zoltan Torey, il quale mi scriveva non a proposito della cecità, ma per parlarmi di un libro che aveva scritto sul problema cervello-mente e sulla natura della coscienza. Nella lettera Torey mi raccontava anche di aver perso la vista a ventuno anni. Ma sebbene gli fosse stato «consigliato di passare da una modalità visiva a una uditiva», lui si era mosso in direzione opposta, decidendo piuttosto di acuire, nella maggior misura possibile, il suo occhio interiore: le sue facoltà di immaginazione visiva. Stando a quanto raccontava, ci era riuscito benissimo, sviluppando una notevole capacità di produrre, trattenere e manipolare immagini mentali – al punto che era stato in grado di costruirsi un mondo visivo virtuale che gli sembrava reale e intenso come quello che aveva perduto, e a volte addirittura più reale e più intenso. Grazie a questa immaginazione visiva, Torey riusciva a fare cose che sarebbero sembrate impossibili per un non vedente.

Nell’opera letteraria “Out of Darkness” Torey descrive i ricordi visivi più lontani della sua infanzia e della sua giovinezza spensierata e privilegiata: Divenne adulto in un ambiente molto stimolante dal punto di vista intellettuale, popolato com’era di scrittori, artisti ed esponenti delle più diverse professioni. Il padre di Torey dirigeva un grande studio cinematografico e spesso passava al figlio dei copioni da leggere.

«Questo» scrive Torey «mi dava l’opportunità di visualizzare storie, trame e personaggi – di allenare l’immaginazione, insomma: una capacità che negli anni a venire sarebbe diventata per me un’ancora di salvezza e un punto di forza».

«Fin dal primo istante decisi che avrei scoperto quanto lontano può spingersi, nella ricostruzione di una vita, un uomo privato di una parte dell’esperienza sensoriale». Messa in questi termini, la cosa suona astratta. Ma nel libro si percepiscono le terribili sensazioni alla base di questa decisione:

l’orrore dell’oscurità – che spesso Torey chiama l’«oscurità vuota», o «la nebbia grigia che mi stava inghiottendo» – e il desiderio appassionato di aggrapparsi alla luce e alla vista per conservare, anche solo nella memoria e nell’immaginazione, un mondo visivo intenso e vitale. Il suo libro contiene tutto questo già nel titolo, e la nota di ribellione affiora fin dall’inizio.

Torey mantenne un atteggiamento prudente e «scientifico» nei confronti della propria immaginazione visiva, sforzandosi di controllare l’accuratezza delle sue immagini con ogni mezzo disponibile. «Imparai ad accettare l’immagine in via provvisoria» scrive «e a riconoscerle credibilità e status solo in presenza di un’altra informazione che facesse pendere la bilancia in suo favore». Ben presto cominciò a fidarsi della propria immaginazione visiva, al punto da scommettere su di essa la propria vita.

Il problema mente – cervello è un perpetuo gioco di destrezza fra routine interagenti.

v  Sabriye Tenberken ha viaggiato, spesso da sola, per tutto il Tibet, dove per secoli i non vedenti sono stati trattati come meno che umani: erano loro negati l’istruzione, un lavoro, il rispetto e perfino un ruolo nella comunità. Nell’arco degli ultimi dieci anni, quasi senza aiuto, Sabriye è riuscita a trasformare la loro situazione ideando una versione tibetana del Braille, fondando le prime scuole per non vedenti e integrando i diplomati di queste scuole nelle rispettive comunità.

Lei stessa aveva una grave compromissione della vista quasi dalla nascita, ma fino a dodici anni era riuscita a discernere volti e paesaggi. In Germania, da bambina, aveva una particolare predilezione per i colori, e le piaceva dipingere: quando non riuscì più a distinguere forme e sagome, continuò a servirsi dei colori per identificare gli oggetti. Sabriye Tenberken ha anche un’intensa e persistente sinestesia, condizione che la cecità, a quanto pare, ha accentuato: “Da quando ho cominciato a pensare, ho sempre associato numeri e parole a colori.”

Quando andò in Tibet, Sabriye era cieca già da più di dieci anni; nonostante ciò, continuava a servirsi di tutti gli altri

sensi, integrandoli con descrizioni verbali, ricordi visivi e una forte sensibilità pittorica e sinestesica per costruire «quadri» di paesaggi e interni, di ambienti e scene – quadri che risultano sbalorditivi per vivacità e dettaglio. La sua è un’immaginazione artistica – che può essere impressionistica, romantica, per nulla verista –, mentre quella di Torey è un’immaginazione virtuale e geometrica, e deve essere concreta e precisa fin nei minimi dettagli.

v  “Un bambino di otto anni non ha ancora abitudini: non le ha a livello fisico, e non le ha a livello mentale. Il suo corpo è infinitamente flessibile”.

In un primo momento Jacques Lusseyran cominciò a perdere la sua immaginazione visiva:

Pochissimo tempo dopo essere diventato cieco dimenticai i volti delle persone che mi erano care.

v   

“Pensavo che i vedenti passassero troppo tempo a badare a queste cose vuote ... Io ormai non ci pensavo più.”

v   

La visione interiore di Jacques ha inizio con una sensazione di luminosità, di fulgore senza forma, un fiume di luce che scorre e inonda. In questo contesto quasi mistico, i termini neurologici suonano necessariamente riduttivi. Ciò nondimeno, si potrebbe interpretare quest’esperienza come un fenomeno di disinibizione, un’attivazione spontanea, quasi eruttiva, della corteccia visiva, deprivata dei suoi normali input visivi. (Questo fenomeno è forse analogo al tinnito o all’arto fantasma, sebbene in questo caso un bambino religioso e dotato di un’immaginazione precoce gli avesse probabilmente conferito una qualche componente spirituale superiore). In seguito, però, è chiaro che Jacques dimostra di possedere una prodigiosa capacità di immaginazione visiva, non limitata a una luminosità indefinita.

 

“Il mio schermo era sempre abbastanza grande. Intendo dire che non si trovava in nessun luogo dello spazio, era ovunque nello stesso tempo ... Nomi, figure e oggetti in generale non apparivano su di esso privi di forma, o in bianco e nero, ma con tutti i colori dell’arcobaleno. Nulla entrava nella mia mente senza impregnarsi di una certa quantità di luce ... Di lì a qualche mese, il mio mondo personale si era trasformato nello studio di un pittore.”

 

Il giovane riuscì a sfruttare le sue fenomenali capacità di visualizzazione anche in contesti all’apparenza non visivi quali l’apprendimento del metodo Braille, e per la sua ottima carriera scolastica. E quelle capacità furono altrettanto essenziali nel suo rapporto con il mondo esterno reale.

 

Jacques descrive le sue passeggiate con Jean, un amico vedente, e racconta di quando – mentre si arrampicavano insieme su un colle che dominava la valle della Senna – se ne era uscito così:

 

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“Guarda! Stavolta ce l’abbiamo fatta, siamo in cima ... Se non hai il sole negli occhi, vedrai tutta l’ansa del fiume!”. Sbalordito, spalancando gli occhi, Jean aveva gridato: «Hai ragione!».

Questa scena s’era ripetuta spesso tra me e lui, e in varianti sempre diverse...  Ogni volta che qualcuno menzionava un evento, quello immediatamente si proiettava sullo schermo, che era una sorta di tela interiore...

Paragonando il suo mondo al mio, [Jean] lo trovava meno ricco di immagini e meno colorato. Il che lo indispettiva. «Insomma,» diceva allora «chi di noi due è cieco, tu o io?».

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v  Dennis Shulman è uno psicologo clinico e psicoanalista che tiene conferenze su argomenti biblici. Perse gradualmente la vista negli anni dell’adolescenza, e al momento di entrare al college era ormai completamente cieco.

Dopo trentacinque anni di cecità, io vivo ancora in un mondo visivo. Io “vedo”, ma con l’aspetto della realtà che avevo visto l’ultima volta.

 

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Che cosa accade quando la corteccia visiva non è più limitata, o vincolata, da input visivi? La semplice risposta è che, una volta isolata dal mondo esterno, la corteccia visiva diventa ipersensibile a stimoli interni di ogni tipo, quali la sua stessa attività autonoma, i segnali provenienti da altre aree del cervello (uditive, tattili e verbali), e i pensieri, i ricordi e le emozioni. L’adattabilità non si estingue con la gioventù.

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Se una persona con buone capacità di visualizzazione e dotata di una forte immaginazione visiva perde la vista, le sue capacità di immaginazione sono conservate o addirittura potenziate? Al contrario, coloro che hanno scarse abilità di visualizzazione, se perdono la vista tendono a spostarsi verso la «cecità profonda» o le allucinazioni? Qual è l’intervallo di variazione dell’immaginazione visiva nelle persone vedenti?

Io, con l’occhio della mente, potevo a malapena vedere qualcosa: al massimo immagini vaghe ed evanescenti, sulle quali non avevo peraltro alcun controllo.

Sebbene io non abbia buone capacità di visualizzazione, se chiudo gli occhi, posso «vedere» le mie mani che si muovono sulla tastiera del pianoforte mentre suono un pezzo che conosco bene. (Questo accade perfino quando mi limito a suonare il pezzo mentalmente). Allo stesso tempo io sento le mie mani che si muovono e non sono del tutto sicuro di poter distinguere il «sentire» dal «vedere». In questo contesto, le due cose sembrano inseparabili, e sarebbe preferibile servirsi di un termine intersensoriale come «vedere-sentire».

 Lo psicologo Jerome Bruner definisce un’immaginazione di questo tipo «enattiva» – un aspetto che è parte integrante di una performance (reale o immaginaria che sia) –, contrapponendola a una visualizzazione «iconica», ovvero la visualizzazione di qualcosa che è fuori da noi stessi. I meccanismi cerebrali alla base di questi due tipi di immaginazione sono del tutto diversi.

L’importanza, nel pensiero, della produzione di immagini visive mentali fu esplorata da Francis Galton nel suo libro del 1883 Inquiries into Human Faculty and Its Development.

Per quanto riguarda l’importanza dell’immaginazione visiva, Galton è ambiguo e prudente. Mentre sostiene che «gli uomini di scienza, come categoria, hanno scarse capacità di rappresentazione visiva», in un altro passo afferma che

«una spiccata capacità di visualizzazione è di grande importanza in rapporto ai processi superiori del pensiero generalizzato». Secondo Galton, «è indubbio che meccanici, ingegneri e architetti possiedano di solito la facoltà di vedere immagini mentali con straordinaria chiarezza e precisione», ma aggiunge: «Devo altresì dire che la carenza di tale facoltà sembra essere compensata con grande efficacia da altre modalità di rappresentazione mentale ... così che uomini che se ne dichiarano del tutto privi sono in condizione di descrivere bene quanto hanno visto e di esprimersi altrimenti come se fossero in grado di visualizzare più e meglio degli altri. Costoro possono anche diventare pittori, perfino entrare alla Royal Academy».

Per Galton creare un’immagine mentale significava rappresentare una persona o un luogo familiare con l’occhio della mente; era la riproduzione o la ricostruzione di un’esperienza. Vi sono tuttavia anche immagini mentali di un tipo assai più astratto e visionario, immagini di qualcosa che non è mai stato visto fisicamente con gli occhi ma che possono essere evocate dall’immaginazione creativa e servire da modelli per indagare la realtà.

In una conferenza del 1870, e cioè qualche anno prima della pubblicazione delle Inquiries di Galton, il fisico John Tyndall accennò proprio a queste immagini più astratte: «Nello spiegare i fenomeni scientifici, di solito noi ci formiamo immagini mentali dell’ultrasensibile ... Senza l’esercizio di questa facoltà, la nostra conoscenza della natura sarebbe una mera invenzione di coesistenze e sequenze».

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Il filosofo Colin McGinn scrive che «le immagini non sono semplicemente variazioni di piccola entità e trascurabile interesse teorico sul tema della percezione e del pensiero; esse sono una robusta categoria mentale che deve essere indagata indipendentemente ... Le immagini mentali ... dovrebbero essere aggiunte come una terza grande categoria ... ai due pilastri della percezione e della cognizione».

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 Alcune persone, sono chiaramente dotate di straordinarie capacità di visualizzazione in questo senso astratto, ma la maggior parte di noi si serve di una qualche combinazione di visualizzazione esperienziale e di visualizzazione astratta.

Temple Grandin è una formidabile visualizzatrice:

 

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Se qualcuno osserva che è una giornata piovosa, lei vede, con l’occhio della mente, sempre la stessa “fotografia” della pioggia, la sua rappresentazione iconica e letterale della pioggia. La sua memoria visiva estremamente accurata le permette di muoversi mentalmente all’interno dello stabilimento che sta progettando, osservandone i dettagli strutturali ancor prima che esso venga costruito. Da bambina dava per scontato che tutti pensassero in quel modo, e adesso l’idea e adesso l’idea che alcune persone non siano in grado di evocare immagini visive a proprio piacimento la sconcerta. Quando le dissi che io non sono capace di farlo, mi chiese: «Ma allora come fai a pensare?»

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Lev Vygotskij – il grande psicologo russo – usava spesso l’espressione «pensare in puri significati». Io non riesco a decidere se si tratti di un’affermazione priva di senso o di una profonda verità: è esattamente il tipo di barriera sulla quale finisco per incagliarmi quando penso al pensiero.

L’immaginazione visiva suscitava la perplessità dello stesso Galton:

Presentava una grandissima variazione, e sebbene a volte sembrasse una componente essenziale del pensiero, in altri casi pareva irrilevante. Da allora, il dibattito sull’immaginazione mentale è stato caratterizzato da quest’incertezza. Wilhelm Wundt – contemporaneo di Galton e uno dei primi psicologi sperimentali – riteneva, guidato dall’introspezione, che l’immaginazione fosse una parte essenziale del pensiero.

IX

Teorie della percezione e dell’immaginazione

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Altri sostenevano che il pensiero fosse privo di immagini e consistesse interamente di proposizioni analitiche o descrittive; quanto ai comportamentisti, non credevano nemmeno nel pensiero: per loro, vi era soltanto il «comportamento». La sola introspezione era un metodo di osservazione scientifica attendibile? Poteva produrre dati coerenti, ripetibili e misurabili? Fu soltanto al principio degli anni Settanta che questa difficoltà fu affrontata da una nuova generazione di psicologi. Roger Shepard e Jacqueline Metzler chiesero ad alcuni soggetti di eseguire mentalmente la rotazione dell’immagine di una figura geometrica - Essi riuscirono a determinare, in questi primi esperimenti quantitativi, che la rotazione di un’immagine richiede una specifica quantità di tempo, proporzionale all’entità, in gradi, della rotazione. Una rotazione di sessanta gradi, per esempio, richiedeva un tempo doppio rispetto a una rotazione di trenta gradi, e una rotazione di novanta gradi richiedeva un tempo triplo. La rotazione mentale aveva dunque una sua velocità, si svolgeva in modo continuo e uniforme, e richiedeva uno sforzo come qualsiasi atto volontario.  Stephen Kosslyn affrontò il tema dell’immaginazione visiva da un’altra angolatura, e nel 1973 pubblicò un articolo molto importante in cui metteva a confronto le prestazioni di soggetti «visualizzatori» e «verbalizzatori» ai quali veniva richiesto di ricordare una serie di disegni mostrati loro in precedenza. Secondo le ipotesi di Kosslyn, se le immagini mentali avevano una natura spaziale ed erano organizzate come figure, allora i «visualizzatori» sarebbero dovuti riuscire a concentrarsi selettivamente su parte dell’immagine, e sarebbe occorso loro del tempo per spostare l’attenzione da una parte all’altra di essa. Il tempo necessario, pensava Kosslyn, sarebbe stato proporzionale alla distanza che l’occhio della mente doveva percorrere.

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Kosslyn riuscì a dimostrare che in effetti tutte e tre le ipotesi erano corrette, e questo indicava che le immagini visive erano essenzialmente spaziali, organizzate nello spazio come figure.

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Il suo lavoro si è dimostrato immensamente fecondo, ma il dibattito sul ruolo dell’immaginazione visiva continua, giacché Zenon Pylyshyn e altri hanno affermato che la rotazione mentale delle immagini e la loro «scansione» potrebbero essere interpretate come il risultato di operazioni non visive e puramente astratte nel cervello/mente.

Negli anni Novanta, Kosslyn e altri erano ormai in grado di combinare gli esperimenti sull’immaginazione con le scansioni PET e fMRI: una procedura che consentì loro di mappare le aree del cervello attivate quando i soggetti erano impegnati in compiti che richiedevano la produzione di immagini mentali. Essi scoprirono che tale produzione di immagini attivava, nella corteccia visiva, molte delle aree coinvolte anche nella vera e propria percezione, dimostrando così che l’immaginazione visiva non era una realtà soltanto psicologica ma anche fisiologica, e che si serviva di almeno alcune delle stesse vie neurali usate anche dalla percezione visiva.

I dati della fMRI dimostrarono anche che i due emisferi del cervello si comportano in modo differente nei confronti dell’immaginazione. Infatti l’emisfero sinistro era impegnato nella formazione di immagini generiche e categoriche.

Il fatto che la percezione e l’immaginazione condividano una base neurale comune nelle parti visive del cervello è indicato anche da studi clinici : Fu dimostrato che un’emianopsia può tagliare a metà non soltanto il campo visivo, ma anche l’immaginazione visiva.

Le prime osservazioni cliniche sui paralleli esistenti fra la percezione e l’immaginazione visive possono essere fatte risalire ad almeno cent’anni or sono. Nel 1911, i neurologi inglesi Henry Head e Gordon Holmes considerarono danni che non portavano alla cecità totale, ma alla formazione di punti ciechi nel campo visivo. Interrogando meticolosamente i loro pazienti, essi scoprirono che analoghi punti ciechi, localizzati esattamente nelle stesse posizioni, si manifestavano anche nell’immaginazione mentale dei pazienti.

Nel 1992 Martha Farah e i suoi colleghi riferirono di un paziente che aveva perso la visione su un lato e nel quale anche l’angolo visivo dell’occhio della mente si era ridotto in modo perfettamente sovrapposto alla perdita percettiva.

La dimostrazione più convincente del fatto che almeno alcuni aspetti dell’immaginazione e della percezione visive possono essere inseparabili mi si presentò quando, nel 1986, fui consultato da un pittore diventato completamente cieco al colore in seguito a un trauma cranico. L’improvvisa incapacità di percepire i colori fu per lui un motivo di sofferenza, ma ancor più dolorosa fu la totale incapacità di evocarli nella memoria o nell’immaginazione.

Mentre sembra chiaro che ai livelli superiori la percezione e l’immaginazione condividono alcuni meccanismi neurali, tale condivisione è meno evidente nella corteccia visiva primaria, e da qui deriva la possibilità di una dissociazione come quella che ha luogo nella sindrome di Anton. In questa condizione i pazienti, che hanno un danno occipitale, sono ciechi ma credono di vedere ancora. La sindrome di Anton è a volte attribuita alla conservazione di una certa capacità di immaginazione visiva nonostante il danno occipitale, e al fatto che i pazienti scambiano questa immaginazione per percezione. Potrebbero tuttavia essere in gioco altri meccanismi, più strani. La negazione della cecità – o, più accuratamente, l’incapacità di rendersi conto d’aver perso la vista – è molto simile a un’altra «sindrome da disconnessione», nota come anosognosia:

Con questa patologia, che fa seguito a un danno del lobo parietale destro, i pazienti, oltre alla consapevolezza del loro lato sinistro e della metà sinistra dello spazio, perdono anche quella dell’esistenza di qualsiasi problema.

Kosslyn e altri, ipotizzarono che la percezione visiva dipenda dall’immaginazione visiva, poiché abbina ciò che l’occhio vede – l’output retinico – alle immagini memorizzate nel cervello.

La “duplicità del pensiero” : Raffigurazione e descrizione.

Secondo questi scienziati, il riconoscimento visivo non potrebbe aver luogo senza tale abbinamento. Kosslyn ipotizza inoltre che la produzione di immagini mentali possa rivelarsi essenziale per il pensiero stesso, e più in particolare per attività quali la risoluzione di problemi, la pianificazione, la progettazione e la teorizzazione. Conferme di ciò arrivano da studi nei quali si è chiesto ad alcuni soggetti di rispondere a domande che sembrerebbero fare appello all’immaginazione visiva oppure di risolvere problemi che possono essere affrontati o per mezzo dell’immaginazione, o per mezzo di un pensiero più astratto, non visivo.

Kosslyn parla qui di una duplicità nel modo di pensare degli esseri umani, contrapponendo l’uso di rappresentazioni «raffigurative» dirette e non mediate, e rappresentazioni «descrittive», analitiche e mediate da simboli verbali o di altra natura. A volte, in base alle sue ipotesi, una modalità sarà favorita rispetto all’altra, a seconda dell’individuo e del problema da risolvere. Altre volte entrambe le modalità procederanno insieme (sebbene probabilmente la raffigurazione superi la descrizione) e altre volte ancora si potrà cominciare con una raffigurazione – ovvero con immagini – per poi proseguire verso una rappresentazione puramente verbale o matematica.

A proposito del suo pensiero, Einstein descrisse questo processo:  «Le entità psichiche che sembrano servire da elementi del pensiero sono piuttosto alcuni segni e immagini più o meno chiare che possono essere riprodotti e combinati “volontariamente” ... Gli elementi sopra menzionati sono, nel mio caso, di tipo visivo, e a volte muscolare. Bisogna cercare laboriosamente le parole convenzionali e gli altri segni solo in uno stadio secondario». D’altro canto, nella sua Autobiografia, Darwin sembra descrivere, nel proprio pensiero, un processo molto astratto, quasi computazionale: “La mia mente crea leggi generali da ampie collezioni di fatti”. (Darwin non dice, qui, che aveva uno straordinario occhio per la forma e il dettaglio, un’enorme capacità osservazionale e raffigurativa – e che erano proprio tali capacità a fornire i «fatti».)

L’immaginazione, la consapevolezza visiva e la soglia della coscienza

Che dire, allora, di persone che come me non riescono a evocare nessuna immagine visiva volontariamente?

Noi abbiamo immagini, modelli, e rappresentazioni visivi nel nostro cervello: immagini che consentono la percezione e il riconoscimento visivi ma essi sono al di sotto della soglia della coscienza.

Dominic ffytche, che ha studiato la neurobiologia della visione cosciente – la produzione di immagini e di allucinazioni come pure la percezione –, crede che la consapevolezza visiva sia un fenomeno-soglia. Studiando pazienti con allucinazioni visive tramite la fMRI, egli ha dimostrato che si può avere prova di un’insolita attività in una parte specifica del sistema visivo, ma che essa ma che essa deve raggiungere una certa intensità prima di affiorare alla coscienza: prima che il soggetto «veda» effettivamente.

La sensibilità potenziata e le allucinazioni secondarie alla compromissione visiva.

Esami di risonanza magnetica funzionale della corteccia visiva, effettuati in situazioni di cecità, non mostrano alcuna diminuzione dell’attività. Si osserva anzi proprio il contrario: essi rivelano un potenziamento dell’attività e della sensibilità. La corteccia visiva, deprivata degli input visivi, è ancora un buon territorio neurale disponibile, che reclama una nuova funzione: l’immaginazione visiva, gli altri sensi, la percezione e l’attenzione uditive o tattili.

La sensibilità potenziata che si riscontra nella corteccia visiva quando essa è deprivata dei suoi normali input percettivi può anche predisporla a forme di immaginazione invasive e moleste. Una porzione significativa di coloro che perdono la vista – stando alla maggior parte delle stime, dal 10 al 20 percento – va poi soggetta all’emergere di immagini involontarie, o di vere e proprie allucinazioni, di un tipo intenso (sindrome di Charles Bonnet).

Il potenziamento dei sensi superstiti può aumentare la sensibilità a sottilissime sfumature rilevabili nell’espressione verbale e nel modo di presentarsi degli altri:

Può agevolare la disponibilità a cogliere stati di tensione o di ansia dei quali perfino i diretti interessati non erano consapevoli. La cecità può implicare la pura disponibilità all’ascolto degli stati emozionali altrui, un ascolto non distratto dalle apparenze visive, che la maggior parte degli individui impara a contraffare.

 

 

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I ciechi dalla nascita dotati di udito normale non odono solo i suoni: essi possono udire gli oggetti quando sono abbastanza vicini e possono anche «udire» qualcosa della forma dell’ambiente nelle immediate vicinanze ... Quando camminando per la strada passo oltre certi oggetti che non emettono suoni, ad esempio un lampione lungo il marciapiede, io posso udirli; li odo come cose che occupano spazio e ispessiscono l’atmosfera, e ciò quasi certamente è dovuto a come questi oggetti assorbono o rimandano il rumore dei miei passi e anche altri piccoli suoni ... Di solito, infatti, non è necessario far risuonare qualcosa per avere una percezione, ma farlo aiuta. Gli oggetti all’altezza della testa probabilmente modificano ... le correnti d’aria che arrivano al mio viso e ciò mi aiuta a percepirli.”

Martin Milligan

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Guardare era essenziale, perché non vi è percezione senza azione: non si vede se non si guarda.

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Il sogno

Si potrebbe supporre che i ciechi congeniti non siano in grado di avere alcun tipo di immaginazione visiva, poiché non hanno mai avuto alcuna esperienza visiva. Eppure, a volte, essi raccontano di avere, nei loro sogni, elementi visivi chiari e riconoscibili. Helder Bértolo e i suoi colleghi di Lisbona, in un affascinante articolo pubblicato nel 2003, raccontano di aver confrontato soggetti con cecità congenita e soggetti normalmente vedenti, trovando nei due gruppi una «attività visiva equivalente» durante il sogno (sulla base dell’analisi dell’attenuazione delle onde alfa elettroencefalografiche). Al risveglio, i soggetti non vedenti erano in grado di disegnare le componenti visive dei propri sogni, sebbene avessero una ridotta capacità di ricordare questi ultimi. Si conclude pertanto che:

“Le persone con cecità congenita hanno, nei loro sogni, contenuti visivi.”

 

Oggi disponiamo di prove sempre più numerose sull’interconnessione e sulle interazioni straordinariamente ricche esistenti fra le diverse aree del cervello; ne consegue che è difficile affermare la natura esclusivamente visiva, uditiva, eccetera, di qualsiasi cosa. Il mondo dei ciechi può essere particolarmente ricco di quegli stati intermedi – intersensoriali, metamodali – per i quali non esiste un linguaggio comune.

Il contenuto visivo del tatto

“Il fatto che un elemento di conoscenza sia a tal segno sepolto nel senso (o nei sensi) da cui è stato percepito per la prima volta, per me vuol dire che non sono sempre sicuro della natura visiva o non visiva della mia immagine. Il problema è che le immagini tattili della forma e della consistenza degli oggetti sembrano spesso acquisire anche un contenuto visivo; oppure non si riesce a stabilire se la forma tridimensionale presente nella memoria sia rappresentata mentalmente da un’immagine visiva o tattile. E quindi, anche dopo tutti questi anni, il cervello non riesce a capire da dove attinge le cose”.

 

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Il potere evocativo e creativo del linguaggio

 

In che misura il linguaggio, che è un dipingere con le parole, riesce a fornire un sostituto della vista reale, o dell’immaginazione visiva pittorica?

Le persone vedenti hanno accesso a un senso, a una modalità di conoscenza, che ai non vedenti sono negati. Ma le persone con cecità congenita, possono avere (e di solito hanno) esperienze percettive ricche e varie, mediate dal linguaggio e da un’immaginazione di tipo non visivo.

 

“Il linguaggio può a volte sostituirsi all’esperienza o alla conoscenza dirette.”

Milligan

È stato spesso notato che i bambini con cecità congenita tendono ad avere una memoria superiore e ad essere verbalmente precoci. Possono sviluppare una tale fluenza nella descrizione verbale di volti e luoghi, da insinuare un dubbio sulla propria reale cecità non solo negli altri, ma forse anche in se stessi.

Gli scritti di Helen Keller, sorprendono per la loro nitida qualità visiva.

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Arlene Gordon scoprì che per lei il linguaggio e la descrizione erano sempre più importanti; essi stimolavano le sue facoltà di immaginazione visiva come non avevano mai fatto prima e, in un certo senso, la mettevano in condizione di vedere. «Mi piace viaggiare» mi raccontò. «Quando ci sono andata, io ho visto Venezia». Mi spiegò che i suoi compagni di viaggio le descrivevano i luoghi, e lei poi si costruiva un’immagine visiva desumendola da quei dettagli, dalle sue letture e dai suoi stessi ricordi visivi. «Le persone vedenti si divertono a viaggiare con me» mi disse. «Io faccio loro delle domande, e così loro osservano e vedono cose alle quali altrimenti non avrebbero fatto caso. Troppo spesso le persone vedenti non vedono proprio nulla! È un processo reciproco: arricchiamo vicendevolmente i nostri mondi.»

 

Qui c’è un paradosso, un paradosso bellissimo, che io non riesco a risolvere. Se davvero esiste una differenza fondamentale fra esperienza e descrizione, fra conoscenza diretta e mediata del mondo, come mai il linguaggio riesce a essere così potente? Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può consentire quello che, in linea di principio, non dovrebbe essere possibile.

Può permettere a tutti noi – perfino a chi è cieco dalla nascita – di vedere con gli occhi di un altro.

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Bibliografia

L’ occhio della mente, Oliver Sacks, ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO, 2011