Oliver Sacks
L’
occhio della
mente
frammento di lettura
INDICE
p.
I Lilian
Kallir
3
II Patricia
6
III Howard Engel
: alexia sine agraphia 9
IV Senza volto.
La prosopoagnosia 12
V Sue Barry. Reimparare
a camminare.
14
VI Oliver Sacks.
La realtà scomparsa
18
VII John Hull. Il
dono oscuro 21
VIII Cecità
22
IX Teorie della
percezione e dell’immaginazione 25
La “duplicità del pensiero” :
Raffigurazione e descrizione.
L’immaginazione, la consapevolezza
visiva e la soglia della coscienza
Il
sogno
Il contenuto visivo del tatto
X Il potere
evocativo e creativo del linguaggio
28
Questa
scrittura (frammento di lettura), benché compendi il significato originario
dell’opera di Oliver Sacks non coincide con l’opera autografa.
Siate
curiosi di osservare la fonte originaria.
I
Lilian
Kallir
Non riesco a leggere le parole e
la musica mi pone lo stesso problema.
Sebbene in apparenza non avesse
alcuna difficoltà a redigere una lettera mi aveva detto di non essere
assolutamente in grado di leggere.
Era una pianista, mi disse, e in
effetti io la conoscevo di nome come brillante interprete di Chopin e Mozart
(aveva tenuto il suo primo concerto in pubblico all’età di quattro anni, e Gary
Graffman, il famoso pianista, l’aveva definita «uno dei più grandi talenti
musicali naturali che io abbia mai conosciuto»).
1991, Durante un concerto
Esaminando la partitura Lilian
aveva provato un grande smarrimento nel trovarla totalmente inintelligibile.
Sebbene vedesse, chiari e ben definiti, pentagrammi, linee e singole note,
nulla di tutto ciò le pareva coerente, né aveva per lei la minima logica.
Lilian pensò che la difficoltà dovesse avere a che fare con gli occhi; eseguì
comunque il concerto a memoria in modo impeccabile, e liquidò lo strano
incidente come una di quelle «cose che capitano».
In generale, tuttavia, il
problema andò peggiorando, e sebbene Lilian (così mi chiese di chiamarla)
continuasse a insegnare, a tenere concerti in giro per il mondo e a registrare
dischi, doveva fare sempre più affidamento sulla memoria e sul suo vasto
repertorio musicale – giacché ormai le era impossibile imparare nuovi brani
leggendo una partitura.
«In passato ero bravissima» mi
disse. «Suonavo un concerto di Mozart a prima vista senza difficoltà, ma ora
non ci riesco più».
Durante i concerti, Lilian aveva
vuoti di memoria che tuttavia, da abile improvvisatrice qual era, riusciva
quasi sempre a mascherare.
Lilian era in grado di condurre
ancora un’intensa vita artistica grazie alla memoria e all’ingegno.
1994
Lilian cominciò ad avere
difficoltà con le parole. Anche qui, c’erano giorni buoni e meno buoni, e
perfino casi in cui la capacità di leggere pareva cambiare da un momento
all’altro: sulle prime, una frase poteva sembrarle strana, inintelligibile; e
poi, all’improvviso, tutto si schiariva, e non aveva alcuna difficoltà a
leggerla.
L’alessia pura, ovvero non
accompagnata da difficoltà di scrittura (alexia sine agraphia), non è poi così
rara; di solito però insorge all’improvviso, in seguito a un ictus o a un’altra
lesione cerebrale.
Meno spesso, l’alessia si
sviluppa gradualmente, quale conseguenza di una malattia degenerativa come
l’Alzheimer. Lilian però era la prima persona in cui mi fossi imbattuto la cui
alessia si era manifestata a partire dalla notazione musicale: un’alessia
musicale.
I neurologi che l’avevano
esaminata pensavano che Lilian fosse affetta da una patologia degenerativa, una
cosiddetta «atrofia corticale posteriore», che, sebbene al momento confinata
alle parti posteriori del cervello, con ogni probabilità sarebbe andata
lentamente e costantemente peggiorando.
Lilian aveva continuato a tenere
concerti, sebbene non in modo altrettanto brillante, né con la stessa frequenza
di un tempo.
Il suo repertorio si era ridotto,
poiché ormai non le riusciva più di controllare visivamente nemmeno le
partiture che conosceva bene. «La mia memoria non era più alimentata» osservò.
Alimentata visivamente: questo intendeva dire; pensava infatti che la memoria e
l’orientamento facenti capo all’udito si fossero invece sviluppati, al punto
che adesso, molto più di prima, era in grado di apprendere e riprodurre un
brano a orecchio. In questo modo, Lilian riusciva non solo a ripetere un brano
musicale (a volte dopo un solo ascolto), ma anche ad arrangiarlo mentalmente.
Ciò nondimeno, c’era stato, a conti fatti, un impoverimento del suo repertorio
e un diradamento delle sue esibizioni in pubblico.
Continuava a suonare in contesti
più informali e a tenere corsi di specializzazione al conservatorio.
Lilian vedeva solo singoli
aspetti di un oggetto o di un’immagine, e non era in grado di farne una
sintesi, di coglierli nel loro insieme, e meno che mai di interpretarli
correttamente. Le mostrai poi la fotografia di un volto, ma riuscì solo a
percepire che la persona ritratta portava gli occhiali, e nient’altro.
Non è un’immagine sfocata, sono
dettagli nitidi, puliti, definiti, ma inintelligibili.»
La difficoltà che Lilian
incontrava nel riconoscere i disegni era dovuta semplicemente a loro
caratteristiche, quali la «schematicità», la bidimensionalità, la povertà di
informazioni? Oppure rifletteva una difficoltà di ordine superiore riguardante
la percezione della rappresentazione in quanto tale?
Quando le domandai che cosa
pensasse di se stessa e della sua situazione, la risposta fu: «Mi pare che io
la stia affrontando molto bene, il più delle volte... sapendo che non
migliorerà, ma potrà solo peggiorare lentamente. Ho smesso di consultare i
neurologi. Sono una persona capace di reagire. Non ne parlo ai miei amici. Non
voglio caricarli di un peso, e la mia piccola storia non promette molto bene.
Un vicolo cieco ... Ho un buon senso dell’umorismo. E questo è tutto, in due
parole. Se ci penso, è deprimente: ogni giorno frustrazioni su frustrazioni. Ma
ho ancora davanti molti giorni – e anni – buoni.»
Le prestazioni di Lilian nei test
formali di riconoscimento visivo erano state così scarse che non riuscivo a
immaginarla alle prese con la vita quotidiana.
Lilian affrontava da sola tutto questo
e molto di più: conduceva una vita sociale attiva, viaggiava, andava ai concerti
e insegnava.
I suoi risultati relativamente
positivi nel nominare gli oggetti solidi, al contrario dei disegni che li
raffiguravano, mi spinsero di nuovo a chiedermi se Lilian non potesse essere
affetta da un’agnosia specifica per le rappresentazioni.
Il riconoscimento di queste
ultime probabilmente richiede una sorta di apprendimento, la comprensione di un
codice o di una convenzione oltre a quelli necessari per il riconoscimento
degli oggetti.
Per riconoscere le
rappresentazioni visive, il cervello deve costruire un sistema specifico e
complesso, e quella capacità può andare perduta in seguito a lesioni di tale
sistema conseguenti a un ictus o a una malattia – proprio come può andare
perduta la comprensione della scrittura, o qualsiasi altra abilità acquisita.
Sebbene non riuscisse a
riconoscere quasi nulla servendosi della vista, Lilian aveva organizzato
l’ambiente in modo tale da ridurre al minimo gli errori, utilizzando una sorta
di sistema di classificazione informale in luogo di una gnosi percettiva
diretta. Gli oggetti erano categorizzati non in base al loro significato, ma
per colore, dimensione e forma, posizione, contesto e associazione – proprio
come un analfabeta potrebbe disporre i libri di una biblioteca. Ogni cosa aveva
il suo posto, e Lilian lo aveva memorizzato. Era sempre vigile – controllava
posizione e movimenti, seguiva gli spostamenti di ogni oggetto in modo da non
perderlo.
Prima di andarmene, pregai Lilian
di mettersi al pianoforte e di suonare qualcosa per me. Lei esitò. Era chiaro
che aveva perso buona parte della sua sicurezza. Attaccò splendidamente con una
fuga di Bach, ma dopo qualche battuta si fermò, con l’aria mortificata. Vedendo
una raccolta di mazurche di Chopin sul pianoforte le chiesi di suonarmi quelle,
e Lilian, incoraggiata, chiuse gli occhi e ne eseguì due, tratte dall’opera 50,
senza incertezze, con gran brio e sentimento.
«Mi distrae vedere la musica
stampata, la gente che volta le pagine, le mie mani sulla tastiera»; in tali
circostanze, mi spiegò, poteva compiere qualche errore, soprattutto con la mano
destra. Doveva quindi chiudere gli occhi e suonare così, senza fare appello
alla vista e servendosi soltanto della sua «memoria musicale» e del suo
eccellente orecchio.
L’esame confermò che adesso
esisteva effettivamente una certa riduzione delle aree visive in entrambi i
lati del cervello. C’erano segni di danni reali anche altrove?
Era difficile dirlo, sebbene
sospettassi che potesse essersi verificata una qualche riduzione anche a carico
dell’ippocampo – una parte del cervello essenziale per la memorizzazione di
nuovi dati. Il danno era però ancora largamente confinato alla corteccia
occipitale e occipitotemporale, ed era chiaro che la progressione della
malattia era lentissima.
L’atrofia corticale posteriore, o
PCA, fu descritta nel 1988 da Frank Benson.
Le persone con PCA conservano
aspetti elementari della percezione visiva, come l’acuità o la capacità di
rilevare il movimento o il colore. Esse tendono tuttavia a soffrire di disturbi
visivi complessi; per esempio, hanno difficoltà nella lettura o nel
riconoscimento di volti e oggetti, e in qualche caso anche allucinazioni. Il
disorientamento visivo può diventare molto grave: alcuni pazienti si perdono
nel loro stesso quartiere, o addirittura nelle loro abitazioni; Benson definì
tale disturbo «agnosia ambientale». In genere a queste difficoltà ne seguono
altre: confusione fra destra e sinistra, problemi nella scrittura e nell’esecuzione
di calcoli, e perfino un’agnosia circoscritta alle dita delle proprie mani: una
tetrade di problemi a volte indicata come sindrome di Gerstmann. A volte i
pazienti riescono a riconoscere e ad abbinare i colori, ma non a nominarli: una
cosiddetta «anomia cromatica».
Più raramente può presentarsi una
difficoltà nell’individuare e seguire un obiettivo in movimento. A dispetto di
tutti questi problemi, memoria, intelligenza, intuito e personalità tendono a
essere risparmiati fino agli stadi avanzati della malattia.
Benson scrive che tutti i suoi
pazienti «riuscivano a raccontare la propria storia, erano consapevoli degli
eventi attuali e sembravano cogliere con lucidità la propria difficile
situazione.»
Sebbene la PCA sia chiaramente
una patologia degenerativa del cervello, la sua natura sembra del tutto diversa
dalle forme più comuni di Alzheimer, in cui tendono a verificarsi imponenti
alterazioni della memoria, del pensiero, della comprensione e dell’uso del
linguaggio, e spesso anche del comportamento e della personalità – e dove in
genere (e forse è una fortuna) il paziente perde, già nelle fasi precoci, la
percezione di ciò che gli sta accadendo.
Lilian era tuttora in grado di
identificare gli oggetti per inferenza, servendosi della capacità di percepire
il colore, la forma, la consistenza superficiale e il movimento, capacità
rimasta intatta insieme alla memoria e all’intelligenza.
Dipendeva sempre di più dalla
memoria, dal pensiero, dalla logica e dal buon senso per cavarsela in quello
che altrimenti sarebbe stato (visivamente) un mondo inintelligibile.
Volevo che provasse il mio
pianoforte a coda, un Bechstein del 1894.
Sedette al piano e suonò un
pezzo: un brano che trovai sconcertante, perché per certi versi mi pareva
familiare, e al tempo stesso non lo era. Lilian mi spiegò che si trattava di un
quartetto di Haydn che aveva ascoltato alla radio e di cui si era innamorata un
paio d’anni prima – provando immediatamente il desiderio di suonarlo. Così
l’aveva arrangiato per pianoforte, a mente, nell’arco di una notte. Prima
dell’alessia le era capitato, in alcune occasioni, di fare qualche
arrangiamento per pianoforte, però usando carta e penna, e tenendo la partitura
originale davanti a sé; quando ciò divenne impossibile, scoprì di essere in
grado di fare lo stesso lavoro interamente a orecchio. Lilian pensava che la
sua memoria e la sua immaginazione musicali fossero diventate più forti, più
tenaci, e al tempo stesso anche più flessibili – al punto che adesso riusciva a
tenere a mente brani anche molto complessi, per poi riarrangiarli ed eseguirli
mentalmente, in un modo che sarebbe stato impossibile prima dell’alessia. Le
sue facoltà di memoria e immaginazione musicale, che si andavano continuamente
rafforzando, erano diventate essenziali per lei, e le avevano consentito di
andare avanti fin da quando – nove anni prima – erano insorte le prime
difficoltà visive.
Lilian era dipendente da ciò che
le era familiare e aveva memorizzato.
Col tempo, tornando più volte a
visitare un luogo, forse avrebbe acquisito a poco a poco una maggiore dimestichezza;
sarebbe comunque stata un’impresa di enorme complessità, che avrebbe richiesto
una pazienza infinita, un grande investimento di risorse e un intero sistema
del tutto nuovo di categorizzazione e memorizzazione.
«Non migliora affatto... gli
occhi vanno malissimo». (Lilian sa, naturalmente, che i suoi occhi non hanno
proprio nulla, e che a declinare è la funzionalità delle parti visive del suo
cervello – anzi, fu lei la prima a rendersi conto di questo –, ma trova più
semplice, più naturale, parlare dei suoi «occhi malati».
Anche l’anomia, la difficoltà nel
trovare le parole, era peggiorata.
«Quando sono da sola, va
malissimo. Non che mi stia lamentando – è una constatazione.»
Era, effettivamente, una
questione molto delicata. In che misura il marito sarebbe dovuto intervenire
quando Lilian si scontrava con la propria confusione percettiva? In che misura
dovremmo imbeccare un amico o un paziente quando dimentica un nome? In che
misura io stesso – privo come sono di senso d’orientamento – desidero essere
salvato quando prendo una direzione completamente sbagliata, e non preferisco
invece combattere per arrivarci da solo? Fino a che punto ognuno di noi ha
piacere di «sentirsi dire» le cose? Questo interrogativo era particolarmente
tormentoso nel caso di Lilian perché, sebbene avesse bisogno di risolvere i
problemi e di difendersi da sola, le sue difficoltà visive stavano diventando
sempre più gravi e a volte, come osservava Claude, minacciavano di gettarla in
un disorientamento terrificante. Dissi a Claude che non potevo suggerirgli
alcuna regola, ma solo consigliargli di avere tatto: ogni situazione avrebbe
richiesto una soluzione specifica.
Nel 2006, Ian McDonald pubblicò
uno straordinario resoconto di prima mano di una «alessia musicale con
recupero». Fu la prima descrizione di carattere così personale a essere
pubblicata: un documento doppiamente interessante in quanto McDonald era al
tempo stesso un neurologo e un raffinato musicista dilettante. La sua alessia
musicale (insieme ad altri problemi, fra i quali difficoltà di calcolo,
prosopagnosia e disorientamento topografico) era stata causata da un ictus
embolico, dal quale si sarebbe poi completamente ripreso. McDonald sottolineava
che, sebbene la sua capacità di leggere la musica avesse mostrato un graduale
miglioramento associato soprattutto all’esercizio, l’alessia musicale fluttuava
considerevolmente da un giorno all’altro.
Quando un sistema è danneggiato,
vi è una riduzione della riserva funzionale, una minore ridondanza, e il
sistema stesso viene più facilmente sviato da fattori accidentali come la
fatica, lo stress, i farmaci, o le infezioni. Questi sistemi danneggiati sono
anche soggetti a fluttuazioni spontanee, come capitava in continuazione ai
pazienti che ho descritto in Risvegli.
Negli undici o dodici anni da
quando era cominciata la sua malattia, Lilian si era dimostrata intelligente e
capace di reagire. Si era aiutata, in modo assai brillante, con ogni tipo di
risorsa – visiva, musicale, emotiva, intellettuale. I suoi parenti, gli amici,
soprattutto il marito e la figlia, ma anche i suoi allievi, i colleghi e la
gente disposta a darle una mano al supermercato o per la strada l’avevano
aiutata a fronteggiare la situazione. I suoi adattamenti all’agnosia erano
stati straordinari:
Una grande dimostrazione di
quanto si possa fare, a dispetto di gravi difficoltà percettive e cognitive,
per tenere coesa una vita. Ma era nella sua arte, nella sua musica, che Lilian
non solo affrontava la malattia, ma la trascendeva. Questo era palese quando
suonava il pianoforte, uno strumento che al tempo stesso esige e offre una
sorta di integrazione superiore, un’integrazione totale di sensi e muscoli,
corpo e mente, memoria e fantasia, intelletto ed emozione, un’integrazione del
proprio sé intero, dell’essere vivi. Grazie al cielo, le facoltà musicali di
Lilian erano rimaste intatte, risparmiate dalla malattia.
Il fatto che suonasse per me il
pianoforte aveva sempre aggiunto un che di unico alla mia visita; fatto non
meno importante, richiamava Lilian alla sua identità di artista, mostrandole
quanta gioia potesse ancora dare e ricevere, indipendentemente da quali e
quanti fossero i problemi che la assediavano.
2002
Il suo comportamento, ora,
sembrava molto più «cieco», e rifletteva non solo la crescente incapacità di
decifrare ciò che aveva di fronte, ma anche la completa mancanza di
orientamento visivo.
Il peggioramento della sua
invalidità li aveva resi più vicini di quanto fossero mai stati.
Tuttavia, quando accennai al
quartetto di Haydn che aveva eseguito per me anni prima, il suo volto si
illuminò. «Ero assolutamente incantata da quel pezzo» mi disse. «Non lo avevo
mai sentito prima. Non lo suonano mai». E tornò a descrivermi come, incapace di
levarselo dalla testa, lo avesse arrangiato per pianoforte, tutto a mente, in
una notte. Le chiesi di eseguirlo per me un’altra volta. Lilian dapprima esitò;
poi si lasciò convincere, fece per dirigersi al pianoforte, ma sbagliò
direzione. Claude allora la corresse, con garbo. Al piano, Lilian in un primo
momento annaspò, prendendo le note sbagliate; sembrava ansiosa e confusa. «Dove
sono?» si lamentò, io ebbi un tuffo al cuore. Poi, però, orientandosi sulla
tastiera, cominciò a suonare splendidamente – e la melodia si librò nell’aria,
struggendosi e avvolgendosi su se stessa. Claude ne fu meravigliato, e si
commosse. «Sono due o tre settimane che non tocca il pianoforte» mi disse in un
sussurro. Mentre suonava, Lilian guardava fisso verso l’alto, e cantava la melodia
fra sé, a bassa voce. Suonò con arte consumata, mettendoci tutta l’energia e il
sentimento che aveva sempre dimostrato, mentre la musica di Haydn andava
montando in una furiosa turbolenza, una sorta di diverbio musicale. Poi, mentre
il quartetto si avviava agli accordi finali e risolutivi, Lilian disse
semplicemente: «Tutto è perdonato».
II
Patricia
Patricia era una donna brillante
e piena di energia; agente di diversi artisti, e lei stessa pittrice dilettante
di talento, dirigeva una galleria a Long Island. Aveva allevato tre figli e
adesso, prossima alla sessantina, continuava a condurre una vita non solo
attiva ma – come dicevano le figlie – perfino «appassionante».
Nel 1989, il marito di Patricia
morì improvvisamente per un infarto.
Aveva accettato la cosa
serenamente, ma dopo la morte del marito, come disse una delle figlie,
«Sembrava come stordita, fu presa da una forte depressione, dimagrì, cadde in
metropolitana, ebbe vari incidenti con la macchina, e continuava a presentarsi
sulla soglia di casa nostra a Manhattan, come se si fosse persa».
Adesso però era discesa su di lei
una malinconia costante.
«fissava... ma non sembrava
vedere». «A volte i suoi occhi mi seguivano, o sembravano seguirmi. Noi non
sapevamo che cosa stesse accadendo, se lei fosse davvero lì».
Questi stati possono generare
crudeli illusioni, perché spesso c’è la sensazione che la persona sia sul punto
di riprendersi, mentre invece tali situazioni possono protrarsi anche per mesi
o addirittura indefinitamente.
Patricia adesso era cosciente,
riconosceva le figlie, era consapevole della sua condizione e dell’ambiente
circostante. Aveva la sua personalità; era tuttavia rimasta paralizzata sul
lato destro e, cosa più grave, non poteva più esprimere i suoi pensieri e i
suoi sentimenti a parole; poteva solo comunicare con gli occhi e mimare,
indicare o fare gesti. Anche la sua comprensione del linguaggio verbale era
molto compromessa. In breve, adesso Patricia era afasica.
«Afasia» significa,
etimologicamente, una perdita della parola; tuttavia, non è la parola come tale
ad andare perduta, ma il linguaggio vero e proprio – la sua espressione o la
sua comprensione: del tutto o solo in parte.
Vi sono molte forme diverse di
afasia, a seconda delle parti del cervello implicate; di solito viene tracciata
un’ampia distinzione tra afasie espressive e afasie ricettive: se sono presenti
entrambe, si parla di afasia «globale».
Nelle sue forme più leggere,
l’afasia espressiva è caratterizzata dalla difficoltà nel trovare le parole o
dalla tendenza a usare quelle sbagliate, senza che vi sia una compromissione
della struttura generale della frase.
Nelle forme più gravi di afasia
espressiva, l’individuo è incapace di produrre frasi finite grammaticalmente
complete, e si riduce a emissioni brevi, povere, «telegrafiche»; se l’afasia è
molto grave, la persona è pressoché muta.
Hughlings Jackson, un pioniere
nello studio dell’afasia negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento,
riteneva che tali pazienti mancassero del linguaggio «proposizionale», e che
avessero perso anche il discorso interiore, così da non essere in grado di
parlare o «proposizionare» nemmeno fra sé e sé. Egli credeva pertanto che
nell’afasia la capacità di pensiero astratto andasse perduta.
Esperienze che confermano le idee
di Hughlings Jackson sulla perdita del discorso interiore e dei concetti :
“Ero totalmente (globalmente)
afasico. Riuscivo a capire in modo vago quello che gli altri mi dicevano a
condizione che parlassero lentamente e che quello che dicevano rappresentasse
una forma d’azione molto concreta ...
Avevo completamente perso la
capacità di parlare, di leggere e di scrivere.
Nei primi due mesi, persi anche la capacità di usare le parole
interiormente, nel mio pensiero ... Avevo anche perso la capacità di sognare.
Per circa otto-nove settimane, quindi, vissi in un vuoto totale di concetti
autoprodotti ... Potevo affrontare solo il presente immediato ... A mancare era
[la] componente intellettuale di me stesso – la conditio sine
qua non della mia personalità –,
gli elementi essenziali che sono così importanti per poter essere un individuo
unico ... Per un lungo periodo mi considerai un uomo a metà.”
Injured Brains of Medical Minds,
Narinder Kapur (Esperienza di Scott Moss.)
“Mi ritrovai orbato del senso di
quasi tutte le parole. E se pure qualcuna era rimasta accessibile, si
dimostrava pressoché inutile, giacché io non ricordavo più come coordinarle
affinché esprimessero il mio pensiero ... Non ero più in grado di afferrare il
pensiero altrui poiché la medesima amnesia che mi impediva di parlare mi
rendeva incapace di comprendere i suoni abbastanza rapidamente da intenderne il
senso ...
Interiormente, mi sentivo lo
stesso di sempre. Questo isolamento mentale di cui faccio menzione, il mio
abbattimento morale, l’impedimento nel parlare, e l’apparenza di stupidità cui
esso dava luogo, condussero molti a credere che le mie facoltà intellettive si
fossero indebolite ... Ero solito discutere fra me delle mie occupazioni e dei
miei amati studi. Non provavo alcuna difficoltà nell’esercizio del pensiero ...
La mia memoria per i fatti, i princìpi, i dogmi, le idee astratte era la stessa
di quando ero sano ... Mi toccò ammettere che l’esercizio interiore del
pensiero poteva fare a meno delle parole.”
In alcuni pazienti, quindi, anche
se del tutto incapaci di parlare o di comprendere l’eloquio altrui, le facoltà
intellettive – la capacità di pensare in modo logico e sistematico, di
pianificare, di ricordare, di anticipare, di fare congetture – possono essere
perfettamente conservate. Eppure, tra la gente comune – e fin troppo spesso
anche tra i medici – persiste la sensazione che l’afasia sia una sorta di
disastro definitivo che, di fatto, pone termine alla vita interiore non meno
che a quella sociale di una persona.
Gli afasici sono privi di una
dimensione sociale fondamentale, così che spesso si sentono completamente
isolati. A questo proposito, si usa a volte l’espressione opaca «riabilitazione
sociale», ma in realtà il paziente è «richiamato alla vita»: come direbbe
Dickens, recalled to life :
“Non
sarà che l’essere vivente vive nella misura in cui è generato e rigenerato.
Allora, generare i figli, generare una persona non avviene una volta per tutte.
Avviene ogni santo giorno in cui qualcuno decide di mettere di nuovo al mondo
quella persona. Soltanto così guadagniamo tempo e facciamo guadagnare tempo
agli altri. Perché non smettiamo di crescere e di farli crescere. La vita non
somiglia ad una linea retta, somiglia ad una spirale. Tutte le volte che noi
siamo vicini al centro che genera questo nucleo di novità che ciascuno di noi
è, perché nascere è essere un inedito al mondo: Nessuno di noi ha le impronte
digitali uguali, nessuno di noi ha l’iride degli occhi uguale.”
The art of being fragile,
Alessandro D'Avenia
Anche se la maggior parte di
questi pazienti non ha possibilità di guarigione, ma solo di un limitato
miglioramento, molti di loro possono tuttavia essere aiutati a ricostruire la
propria vita, a sviluppare altri modi di fare le cose, e a sfruttare i propri
punti di forza, trovando ogni genere di compensazione e adattamento. (Questo,
naturalmente, dipende dal grado e dal tipo di danno neurologico subìto, e dalle
risorse di cui il singolo paziente dispone, dentro e fuori di sé).
Molti reagiscono con orrore misto
a tristezza, amarezza o rabbia. (A volte, questo dà luogo a una vera e propria
«psicosi da ricovero».)
Molti di questi malati riescono a
compensare potenziando notevolmente altre facoltà e capacità non linguistiche:
fra queste, soprattutto, la capacità di leggere significati e intenzioni altrui
dalle espressioni facciali, dalle inflessioni vocali e dal tono di voce, come
pure dai gesti, dalle posizioni, e dai piccoli movimenti che normalmente
accompagnano la parola.
Tale compensazione può conferire
all’afasico capacità sorprendenti – in particolare una capacità amplificata di
percepire artifici istrionici, equivoci o menzogne.
Nel 2000 Nancy Etcoff pubblicò su
«Nature» uno studio in cui mostravano come persone con afasia fossero di fatto
«significativamente più abili rispetto alle persone senza compromissioni del
linguaggio nell’individuare le falsità riguardanti gli stati emotivi». Lo
sviluppo di tali capacità, osservavano i ricercatori, richiedeva apparentemente
un certo tempo, giacché esse non erano evidenti in pazienti afasici soltanto da
qualche mese.
Se le persone afasiche arrivano a
eccellere nella comprensione della comunicazione non verbale, è anche vero che
possono diventare molto abili nel trasmettere allo stesso modo i propri
pensieri.
Molti pazienti afasici hanno delle
difficoltà ad aprirsi agli altri: forse, per poter iniziare un contatto con
altre persone, sono timidi, depressi oppure invalidi a causa di altre patologie.
1996
A cinque anni dall’ictus,
l’afasia ricettiva di Patricia si era ormai attenuata; adesso era in grado di
comprendere un breve discorso, sebbene fosse ancora incapace di esprimersi a
parole.
I suoi sistemi rappresentazionali
non verbali erano rimasti intatti. È noto da tempo che l’afasia non compromette
l’abilità musicale, l’immaginazione visiva o l’attitudine alla meccanica;
Nicolai Klessinger e i suoi colleghi della University of Sheffield hanno
inoltre dimostrato che il ragionamento numerico e la sintassi matematica
possono essere perfettamente integri anche in pazienti incapaci di comprendere,
o di produrre, il linguaggio grammaticale.)
Spesso si dice che quando sono
passati dodici-diciotto mesi da un ictus o da una lesione cerebrale, non sono
possibili ulteriori progressi. A volte può essere proprio così, tuttavia ho
potuto constatare in molti pazienti la falsità di questa generalizzazione.
Negli ultimi decenni, poi, le neuroscienze hanno confermato che il cervello ha
più capacità di riparazione e rigenerazione di quanto si pensasse un tempo. Vi
è anche molta più «plasticità», una maggiore capacità, da parte delle aree
cerebrali non danneggiate, di assumere su di sé alcune funzioni delle aree
compromesse, purché il danno non sia troppo esteso. E a livello personale vi
sono capacità di adattamento che permettono di trovare modi nuovi o diversi di
fare le cose, quando quello originale non è più disponibile.
Wittgenstein distingueva due
metodi di comunicazione e rappresentazione: «dire» e «mostrare». «Dire», nel
senso di formulare proposizioni, è un’attività assertiva e richiede uno stretto
abbinamento della struttura logico-sintattica con il contenuto asserito.
«Mostrare», invece, non è
un’attività assertiva; presenta l’informazione direttamente, in modo non
simbolico; come lo stesso Wittgenstein fu costretto ad ammettere, manca
tuttavia di una struttura grammaticale o sintattica di base.
Noam Chomsky ha rivoluzionato lo
studio del linguaggio; Stephen Kosslyn ha rivoluzionato quello
dell’immaginazione; e là dove Wittgenstein parla di «dire» e «mostrare»,
Kosslyn parla di modalità di rappresentazione «descrittiva» e «raffigurativa».
Il cervello normale dispone di entrambe queste modalità, che sono
complementari; si può quindi ricorrere a volte all’una e a volte all’altra, e
spesso a entrambe.
A distanza di otto anni dal suo
ictus, rimasi colpito soprattutto dalla pienezza e dalla ricchezza delle sue
esperienze quotidiane e dal suo vorace amore per la vita:
Tutto questo a dispetto di quello
che si sarebbe potuto considerare un danno cerebrale devastante.
musicoterapia
In alcuni pazienti con afasia
espressiva la musicoterapia è preziosa; quando scoprono di poter cantare le
parole sulla melodia di una canzone, si sentono rassicurati: non hanno perso
completamente il linguaggio, hanno ancora accesso alle parole che sono da
qualche parte dentro di loro. Il problema è allora se le capacità di linguaggio
incluse nel canto possano essere poi estratte dal loro contesto musicale e
utilizzate per la comunicazione. A volte ciò è possibile in misura limitata,
reincludendo le parole stesse in canto.
mimesi
La mimesi – la rappresentazione
deliberata e consapevole, mediante la mimica e l’azione, di scene, pensieri,
sentimenti, intenzioni, eccetera – sembra essere una capacità specificamente
umana, come il linguaggio (e forse la musica).
Rispetto al linguaggio, la mimesi
ha una rappresentazione cerebrale molto più estesa e robusta, e questo
probabilmente spiega perché sia tanto spesso risparmiata in pazienti che hanno
perso il primo. Ciò può consentire una comunicazione straordinariamente ricca.
A volte le figlie di Patricia si
meravigliavano nel constatare la sua capacità di recupero. «Come mai non è
depressa,» diceva Dana «considerando la sua storia precedente di depressione?
Al principio mi chiedevo come potesse vivere in quel modo... Pensavo che si
sarebbe uccisa».
Il danno cerebrale che aveva
subìto, per quanto esteso, non aveva compromesso la sua determinazione o la sua
personalità.
Era grata di essere viva e di
poter fare quello che faceva, e proprio questo – pensava Dana – spiegava perché
l’umore e il morale fossero tanto buoni.
«È come se la negatività fosse
stata spazzata via». Disse Patricia.
«È molto più coerente, apprezza
la vita e i doni... anche le altre persone. È consapevole di essere
privilegiata, ma questo la rende più gentile, più premurosa nei confronti degli
altri che magari sono meno
invalidi di lei dal punto di
vista fisico, ma molto meno “adattati”, “fortunati” o “felici”. È proprio
tutt’altro che una vittima» concluse la figlia Lari. «In realtà si sente come
se avesse ricevuto una benedizione.»
III
Howard
Engel : alexia sine agraphia
Il 31 luglio 2001, il «Globe and
Mail» aveva il suo aspetto di sempre per quanto riguarda impaginazione,
immagini, titoli vari e didascalie. L’unica differenza era che io non riuscivo
più a leggere quello che dicevano. Le lettere, questo lo capivo, erano le
solite ventisei che avevo imparato da bambino. Solo che, quando le mettevo a
fuoco sembravano ora codici non intelligibili.
«Il caso del pittore che non
vedeva i colori.»
Howard Engel aveva avuto un
ictus.
Accanto all’incapacità di
leggere: nel quadrante superiore destro del campo visivo, Howard aveva un
grosso punto cieco e trovava difficile riconoscere colori, facce e oggetti
della vita quotidiana.
Sebbene non potesse leggere,
riusciva ancora a scrivere; il termine medico, gli aveva detto la donna, era
alexia sine agraphia. Howard era incredulo: di certo la lettura e la scrittura
erano attività gemelle; com’era possibile perderne una e non l’altra?
Noi pensiamo alla lettura come a
un atto indivisibile senza soluzione di continuità, e mentre leggiamo prestiamo
attenzione al significato e forse alla bellezza del linguaggio scritto,
inconsapevoli dei molti processi che lo rendono possibile. Occorre imbattersi
in una condizione come quella di Howard Engel per rendersi conto che la
lettura, di fatto, dipende da un’intera gerarchia (o cascata) di processi, che
può interrompersi in qualsiasi punto.
Nel 1890, il neurologo tedesco
Heinrich Lissauer usò l’espressione «cecità psichica» a proposito di alcuni
pazienti i quali, dopo un ictus, divenivano incapaci di riconoscere visivamente
oggetti che pure erano loro familiari. Il termine attualmente in uso, «agnosia
visiva», fu introdotto da Sigmund Freud l’anno dopo.
Le persone con questa condizione,
l’agnosia visiva, possono essere perfettamente normali per quanto riguarda
acuità visiva, percezione cromatica, campi visivi, eccetera, ma del tutto
incapaci di riconoscere o identificare ciò che stanno vedendo.
L’alessia è una forma specifica
di agnosia visiva, un’incapacità di riconoscere il linguaggio scritto. Nel 1861
il neurologo francese Paul Broca identificò un centro cerebrale per quelle che chiamò
«immagini motorie» delle parole; qualche anno dopo, il suo collega tedesco Carl
Wernicke identificò le loro «immagini uditive». Ai neurologi dell’Ottocento
sembrò quindi logico supporre che potesse esistere anche un’area del cervello
dedicata alle immagini visive delle parole: un’area che, se danneggiata, avrebbe
prodotto l’incapacità di leggere, una «cecità verbale».
La sua incapacità di esprimersi
lo spaventa. Pensa di essere «diventato matto», rendendosi ben conto che i
segni che non riesce a nominare sono lettere.
Lettura consigliata: “Israel
Rosenfield, L’invenzione della memoria.”
Si possono trovare aree
danneggiate, ma non è sempre possibile capire le loro molteplici connessioni
con altre aree del cervello o determinare che cosa controlli ciascuna area.
Déjerine era ben consapevole di questo; nondimeno, mettendo in relazione un
sintomo neurologico specifico – l’alessia – con il danno di una particolare
area del cervello, credette, in linea di principio, di aver dimostrato la
presenza di quello che denominò un «centro visivo per le lettere».
La scoperta di Déjerine di
quest’area essenziale per la lettura sarebbe stata confermata nel corso del
secolo successivo da decine e decine di casi e referti autoptici simili, tutti
riconducibili a pazienti con alessia, a prescindere dalla causa di
quest’ultima.
Dehaene, psicologo e
neuroscienziato, si è specializzato nello studio dei processi implicati nella
percezione visiva, soprattutto nel riconoscimento e nella rappresentazione di
parole, lettere e numeri. Gli studi di Dehaene hanno dimostrato come l’area
della forma visiva delle parole possa essere attivata in una frazione di
secondo da una singola parola scritta e come tale attivazione iniziale,
puramente visiva, si diffonda poi ad altre aree del cervello, soprattutto ai
lobi temporali e frontali.
La lettura, naturalmente, non si
esaurisce nel riconoscimento delle forme visive delle parole: sarebbe più
accurato dire che questo è l’inizio. Il linguaggio scritto intende trasmettere
non solo il suono delle parole, ma il loro significato, e l’area della forma
visiva delle parole ha intime connessioni sia con le aree cerebrali uditive e
del linguaggio, sia con le aree che servono la memoria e l’emozione.
L’area della forma visiva delle
parole è un nodo essenziale in una complessa rete cerebrale di connessioni
reciproche: una rete, a quanto pare, peculiare del cervello umano.
Vi sono due forme di alessia: una
forma grave che impedisce anche il riconoscimento dei singoli caratteri; e una
forma più leggera, in cui è possibile riconoscere le lettere ma soltanto una
per una, e non simultaneamente come parole.
Ogni lettera aumenta il peso del
carico che sto cercando di sollevare.
Il modo in cui forse tutti noi
impariamo a leggere prima di cominciare a percepire le parole, perfino le
frasi, come un tutto. Le coppie e forse i gruppi di lettere sono
particolarmente importanti nella costruzione e nella lettura delle parole e, a
prescindere dal fatto che la lettura sia appresa per la prima volta oppure
riappresa dopo un ictus, sembra esservi un naturale procedere da uno stadio in
cui si vedono le lettere singole, a uno stadio in cui si vedono sequenze di
lettere.
I disturbi relativi all’area
della forma visiva delle parole che possiamo definire «positivi»: eccessi o
distorsioni della funzione, prodotti da iperattività della medesima area. In
questo senso, l’opposto dell’alessia è l’allucinazione lessicale o testuale:
lettere fantasma. Individui con disturbi della via visiva (a qualsiasi livello,
dalla retina alla corteccia) possono essere soggetti ad allucinazioni visive.
Secondo Dominic ffytche queste
allucinazioni lessicali sono associate a una cospicua attivazione della regione
occipitotemporale sinistra, specialmente a livello dell’area della forma visiva
delle parole: la stessa che, se danneggiata, produce l’alessia.
Tutti noi affrontiamo un mondo
intero di stimoli visivi, uditivi e di altra natura, e la nostra sopravvivenza
dipende dal saperli valutare con rapidità e accuratezza. La comprensione del
mondo deve essere fondata su un sistema – rapido e sicuro – per analizzare
l’ambiente. Sebbene vedere oggetti e definirli visivamente sembri essere
un’operazione istantanea e innata, in realtà si tratta di una grande impresa
percettiva, che richiede un’intera gerarchia di funzioni. Noi non vediamo gli
oggetti come tali: vediamo forme, superfici, contorni e confini, che si
presentano in condizioni di luce e in contesti diversi, e che cambiano
prospettiva a seconda del loro, o del nostro movimento. Da questo caos visivo,
complesso e mutevole, dobbiamo estrarre invarianti che ci permettano di dedurre
o ipotizzare la natura dell’oggetto. Sarebbe antieconomico supporre che vi
siano singole rappresentazioni o engrammi individuali per ciascuno dei miliardi
di oggetti che sono intorno a noi. Piuttosto, è necessario invocare la capacità
di combinazione; occorre un insieme finito (un vocabolario) di forme che
possano essere combinate in un numero infinito di modi, proprio come le
ventisei lettere dell’alfabeto possono essere assemblate (nel rispetto di
regole e vincoli determinati) dando luogo a tutte le parole o le frasi di cui
un linguaggio può aver bisogno.
Il mondo degli oggetti deve
essere appreso attraverso l’esperienza e l’azione: guardando, toccando,
manipolando, legando le sensazioni che essi trasmettono al tatto con il loro
aspetto. Il riconoscimento di oggetti visivi dipende dai milioni di neuroni
localizzati nella corteccia inferotemporale, dove la funzione neuronale è molto
plastica, aperta e altamente reattiva all’esperienza, all’addestramento e
all’educazione. I neuroni inferotemporali evolsero visivo per il riconoscimento
visivo generale, ma possono essere reclutati ad altri fini: in modo
particolare, per la lettura.
Tale ridestinazione dei neuroni è
facilitata dal fatto che tutti i sistemi di scrittura (naturali) sembrano
condividere con l’ambiente alcuni aspetti topologici, per la decodificazione
dei quali è evoluto il nostro cervello. Mark Changizi, Shinsuke Shimojo e i
loro colleghi del Caltech hanno esaminato da un punto di vista computazionale
più di cento sistemi di scrittura antichi e moderni, compresi i sistemi
alfabetici e gli ideogrammi cinesi.
Hanno dimostrato che, sebbene
molto diversi da un punto di vista geometrico, tutti condividono alcune
somiglianze topologiche fondamentali.
(Questa marcatura visiva non è
evidente nei sistemi di scrittura artificiali come la stenografia, che sono
ideati per enfatizzare la velocità più del riconoscimento visivo). Mark
Changizi, Shinsuke Shimojo e i loro colleghi del Caltech hanno scoperto
invarianti topografici simili in tutta una gamma di ambienti naturali, e questo
li ha indotti a ipotizzare che le forme delle lettere «siano state selezionate
per ricordare gli insiemi eterogenei di contorni presenti nelle scene naturali,
attingendo quindi dai nostri meccanismi preesistenti di riconoscimento degli
oggetti».
La scrittura, che è uno strumento
culturale, è evoluta avvantaggiandosi della preferenza dei neuroni
inferotemporali per certe forme. «La forma delle lettere» scrive Dehaene «non è
una scelta culturale arbitraria. Il cervello vincola le caratteristiche di un
sistema di scrittura efficiente in modo così rigoroso che vi è ben poco spazio
per il relativismo culturale. Il nostro cervello da primati accetta soltanto un
insieme limitato di forme scritte».
I primissimi linguaggi scritti
usavano simboli pittorici o iconici, che poi divennero sempre più astratti e
semplificati. In Egitto esistevano migliaia di geroglifici distinti e il cinese
classico prevedeva decine di migliaia di ideogrammi; leggere (e scrivere) una
tal lingua richiede un grandissimo addestramento e, possiamo presumere, una
porzione più ampia della corteccia visiva appositamente dedicata. Questo,
secondo Dehaene, potrebbe spiegare perché la maggior parte delle lingue abbia
tendenzialmente favorito i sistemi alfabetici.
Eppure, alcune facoltà, alcune
qualità, possono essere tipiche degli ideogrammi. In un’intervista, Jorge Luis
Borges, che conosceva bene la poesia giapponese, parlò della connotazione
multipla degli ideogrammi kanji:
«I
giapponesi hanno raggiunto una saggia ambiguità nella loro poesia. E questo, io
credo, è dovuto alla loro particolare forma di scrittura, per via delle
possibilità offerte dai loro ideogrammi. Ciascuno di essi, secondo le sue
caratteristiche, può avere diverse connotazioni. Prendiamo, per esempio, la
parola “oro”. Questa parola rappresenta o suggerisce l’autunno, il colore delle
foglie, oppure il tramonto, per via del colore giallo».
L’origine della scrittura e della
lettura non può essere interpretata come un adattamento evolutivo diretto. Essa
dipende dalla plasticità del cervello, e dal fatto che anche nell’arco della
breve durata della vita umana, l’esperienza – la selezione esperienziale – è un
agente di cambiamento potente come la selezione naturale.
Noi siamo alfabetizzati non in
virtù di un intervento divino, ma grazie a un’invenzione e a una selezione
culturali che fanno un uso nuovo, intelligente e creativo di una inclinazione
neurale preesistente.
Mentre l’area della forma visiva
delle parole è essenziale nel riconoscimento di parole e caratteri, ai livelli
di lettura «superiori» (ad esempio la deduzione di parole e di significati dal
loro contesto) sono implicate molte altre aree del cervello.
v
Immaginare
è vedere con l’occhio della mente.
v
Howard Engel scriveva una parola
in aria con l’indice, facendo in modo che un atto motorio prendesse il posto di
un atto sensorio.
Howard Engel poteva leggere solo
nell’atto dello scrivere.
“Non pensavo assolutamente di
scrivere un libro. Non solo la cosa andava ben oltre le mie capacità: era anche
al di là della mia immaginazione. Senza che io lo sapessi, però, un’altra parte
del mio cervello stava cominciando a comporre la trama di una storia.”
“Scrivi
di quello che conosci…”
“Potevo fare un libro che
descrivesse com’era trovarsi tagliato fuori da tutto.”
L’immaginazione
è la fonte del flusso creativo.
“I
problemi non sono spariti, ma io sono diventato più bravo a risolverli»”
Howard Engel
IV
Senza
volto. La prosopoagnosia.
Le emozioni – quelle esplicite e
istintive e anche quelle nascoste o rimosse di cui parlò Freud – sono esibite
sul nostro volto insieme a pensieri e intenzioni. Più di qualsiasi altra parte
del corpo, è il viso a esser giudicato «bello» in senso estetico, e «fine» o
«distinto» in senso morale o intellettuale. Vi è poi un altro fatto
importantissimo: è grazie al nostro volto che siamo riconoscibili come
individui. Noi portiamo impressi sul volto le nostre esperienze e il nostro carattere.
v
«Quando il
bambino sorride, di solito coinvolge l’adulto, spingendolo a interagire con lui
– a sorridergli, a parlargli, a prenderlo in braccio; in altre parole, lo
spinge a iniziare il processo di socializzazione ... La relazione di
comprensione reciproca è possibile solo grazie al continuo dialogo tra i
volti».
Everett
Ellinwood
v
Secondo gli psicoanalisti, il
volto è il primo oggetto ad acquisire significato e importanza visivi.
Franco Magnani : l’artista della
memoria.
Negli ultimi decenni si è andata
consolidando la consapevolezza della plasticità del cervello: del fatto, cioè,
che una parte o un sistema del cervello può assumere su di sé le funzioni di
una parte o di un sistema difettoso o danneggiato. Questo però non sembra
verificarsi nel caso della prosopoagnosia o dell’agnosia topografica; in
genere, infatti, si tratta di disturbi che durano tutta la vita e che non si
attenuano con l’età. Pertanto, le persone con prosopagnosia devono essere
creative.
Confutazione del dualismo di
Cartesio:
v
I
medici, però, osservando le conseguenze degli ictus e di altre lesioni
cerebrali, già da tempo avevano buone ragioni per sospettare l’esistenza di un
legame tra il cervello e le funzioni della mente. Verso la fine del Settecento,
l’anatomista Franz Joseph Gall ipotizzò che tutte le funzioni mentali dovessero
scaturire dal cervello: non dall’«anima», come molti pensavano, né dal cuore.
Gall immaginò piuttosto che all’interno del cervello vi fosse un insieme di
sistemi neurali ciascuno dei quali responsabile di una facoltà morale o mentale
diversa. Secondo Gall, tali facoltà comprendevano quelle che noi oggi
chiameremmo funzioni percettive, come la sensazione del colore o del suono; le
facoltà cognitive, come la memoria, il talento innato per la meccanica, o anche
la parola e il linguaggio; e i tratti «morali» come l’amicizia, la benevolenza
o l’orgoglio. Per queste idee eretiche, fu esiliato da Vienna e riparò infine
nella Francia rivoluzionaria, dove sperava che un approccio scientifico potesse
essere accolto con favore. L’idea di Gall, e cioè che le diverse funzioni
avessero una localizzazione precisa nel cervello, ebbe un impatto duraturo.
v
Paul Broca. Questi eseguì
l’autopsia di molti pazienti con afasia espressiva, e dimostrò che essi
presentavano tutti un danno circoscritto al lobo frontale sinistro. Nel 1865
Broca poté affermare, con parole divenute poi famose, che «noi parliamo con il
nostro emisfero sinistro»: sembrò così che l’idea di un cervello omogeneo e
indifferenziato fosse stata messa a riposo.
Broca credeva di aver localizzato
un «centro verbo-motorio», in un’area particolare del lobo frontale sinistro,
che noi oggi chiamiamo «area di Broca».
“Localizzare il danno
responsabile della perdita della parola e localizzare la parola stessa sono due
cose differenti».
Hughlings Jackson
In genere si pensava che da
questo dibattito Jackson fosse uscito perdente; d’altra parte, egli non era
l’unico a nutrire qualche riserva. Freud, nel suo libro L’interpretazione delle
afasie, del 1891, ipotizzò che l’uso del linguaggio richiedesse la cooperazione
di molte aree cerebrali interconnesse e che l’area di Broca fosse solo un nodo
all’interno di una vasta rete. Il neurologo Henry Head, nel suo monumentale
trattato del 1926, intitolato Aphasia and Kindred Disorders of Speech,
sosteneva una visione olistica del linguaggio.
Si dimostrò l’esistenza di una
correlazione tra funzioni neurologiche e cognitive da una parte e centri
cerebrali specifici dall’altra.
A quel punto, la neurologia si spinse
baldanzosamente oltre, identificando «centri» di ogni genere: al centro
verbo-motorio di Broca fecero seguito il centro uditivo-verbale di Wernicke e
il centro visuo-verbale di Déjerine, tutti localizzati nell’emisfero sinistro,
l’emisfero del linguaggio; e un centro per il riconoscimento visivo
nell’emisfero destro.
Pressoché tutti i pazienti con
prosopagnosia acquisita possiedono un danno che interessa una struttura
denominata giro fusiforme.
Il fatto che i singoli neuroni di
quest’area potessero avere delle preferenze fu dimostrato per la prima volta
nel 1969.
A questo livello puramente
visivo, i volti sono distinti come configurazioni rilevando, in una certa
misura, le relazioni geometriche esistenti fra occhi, naso, bocca e altri
lineamenti (come hanno stabilito Freiwald, Tsao e Livingstone).
Essi scrivono che cellule
inferotemporali diverse «sono selettive per parti diverse del volto e per
diverse interazioni fra le parti, e che la stessa cellula può dare una risposta
massimale a diverse combinazioni delle parti di un volto. Pertanto, non esiste
un unico protocollo per rilevare la forma di una faccia ... Questa grande
varietà di regolazioni offre al cervello un ricco vocabolario per descrivere le
facce e mostra come uno spazio parametrico a elevata dimensionalità possa
essere codificato perfino in una piccola regione [della corteccia
inferotemporale]».
Il riconoscimento di volti o di
altri oggetti particolari è realizzato solo a un livello corticale superiore,
nell’area multimodale del lobo temporale mediale; quest’ultima ha ricche
connessioni reciproche non solo con l’area fusiforme per il riconoscimento dei
volti, ma anche con altre aree che partecipano all’associazione sensoriale,
all’emozione e alla memoria.
Le cellule dell’area multimodale del lobo
temporale mediale presentano una specificità straordinaria. Ognuna di queste
cellule è connessa a migliaia di altre, ognuna delle quali a sua volta è
connessa ad altre migliaia. (Alcune singole cellule, inoltre, possono
rispondere a più di un oggetto). Pertanto, la risposta di una singola cellula
rappresenta in effetti il vertice di una immensa piramide computazionale, che
attinge probabilmente da input diretti e indiretti provenienti dalla corteccia
visiva, uditiva o tattile, dalle aree per il riconoscimento dei testi, dalle
aree mnemoniche o emozionali.
A questo stadio, però, non vi è
alcuna preferenza per i singoli volti: volti generici o disegni di volti
possono anzi evocare le stesse risposte di quelle reali.
Pare che esista un’abilità
innata, e presumibilmente determinata a livello genetico, per il riconoscimento
delle facce; e pare che tale capacità venga messa a fuoco entro il primo o il
secondo anno di vita, così che noi sviluppiamo una particolare abilità nel
riconoscere il tipo di volti in cui avremo maggiori probabilità di imbatterci.
Una certa capacità, dalla visione stereoscopica alle abilità linguistiche, una
certa predisposizione o potenzialità è incorporata geneticamente, per
svilupparsi appieno deve essere alimentata, stimolata ed esercitata in un
ambiente ricco. La selezione naturale può rendere possibile la predisposizione
iniziale, ma affinché le nostre capacità cognitive e percettive giungano a una
piena realizzazione, occorrono esperienza e selezione esperienziale.
v
Elkhonon
Goldberg, tuttavia, mette in dubbio l’intero concetto di centri o moduli
discreti, con funzioni fisse, cablati nella corteccia cerebrale. Egli ritiene
invece che probabilmente ai livelli corticali superiori vi sia molto più spazio
per gradienti all’interno dei quali aree diverse – la cui funzione viene
sviluppata dall’esperienza e dall’addestramento – si sovrappongono o sfumano
l’una nell’altra. Nel suo libro La sinfonia del cervello, Goldberg ipotizza che
il principio del gradiente possa costituire un’alternativa evolutiva al
principio del modulo, permettendo un grado di flessibilità e di plasticità
impossibile per un cervello organizzato esclusivamente secondo quest’ultimo.
Secondo
Goldberg, mentre la modularità può essere caratteristica del talamo – un gruppo
di nuclei con funzioni, afferenze ed efferenze fisse –, un’organizzazione
mediante gradienti è più caratteristica della corteccia cerebrale, e diventa
sempre più importante a mano a mano che si sale dalla corteccia sensoriale
primaria alla corteccia associativa, fino alla corteccia frontale che
rappresenta il livello più alto di tutti. Le due modalità di organizzazione –
mediante moduli e mediante gradienti – possono pertanto coesistere e
completarsi a vicenda.
Il
cervello è qualcosa di più di un insieme di moduli autonomi, ciascuno dei quali
essenziale per una specifica funzione mentale. Ognuna di queste aree
funzionalmente specializzate deve interagire con decine o centinaia di altre, e
la loro integrazione complessiva crea un insieme paragonabile a un’orchestra
enormemente complicata, costituita da migliaia di strumenti: un’orchestra che
si dirige da sola, seguendo una partitura e un repertorio in continuo
cambiamento.
v
Soprattutto, però, il
riconoscimento dei volti non dipende soltanto dall’abilità di analizzare gli
aspetti visivi di un volto (le sue particolari caratteristiche e la
configurazione generale di queste ultime) e dall’abilità di confrontarlo con
altri, ma anche dalla capacità di fare appello ai ricordi, alle esperienze e ai
sentimenti associati a quella faccia. Come sottolinea Pallis, il riconoscimento
di luoghi o volti specifici è legato a un dato sentimento, ovvero ad
associazioni e significati particolari. Se da un lato il riconoscimento
puramente visivo dei volti è mediato dall’area fusiforme dedicata e dalle sue
connessioni, dall’altro la familiarità emozionale è mediata a un livello
superiore, multimodale, dove esistono intime connessioni con l’ippocampo e
l’amigdala, ovvero con aree dedicate alla memoria e all’emozione. Il
riconoscimento si basa sulla conoscenza; la familiarità, sul sentimento;
nessuno dei due, però, implica l’altro. Le due cose hanno una base neurale
diversa e possono essere dissociate; pertanto, sebbene nella prosopagnosia
vadano perduti entrambi, in altre condizioni è possibile avere il senso di
familiarità ma non il riconoscimento, oppure il riconoscimento ma non il senso
di familiarità.
Ken Nakayama, che studia la
percezione visiva a Harvard, sospetta tuttavia da tempo che la prosopagnosia
sia un disturbo relativamente comune, oggetto di scarse segnalazioni da parte
dei pazienti. Nakayama e Duchaine hanno esplorato la base neurale del riconoscimento
delle facce e dei luoghi, aggiungendo nuove conoscenze ad ogni livello, da
quello genetico a quello corticale. Hanno anche studiato gli effetti psicologici
e le conseguenze sociali della prosopagnosia dello sviluppo e dell’agnosia
topografica. L’intervallo di variazione sembra estendersi anche nella direzione
positiva. Russell, Duchaine e Nakayama hanno studiato i modi di percezione di
persone con abilità straordinarie di riconoscimento.
La differenza fra i migliori e i
peggiori riconoscitori:
I migliori riconoscitori hanno
capacità di riconoscimento due o tre deviazioni standard al di sopra della
media, mentre i prosopagnosici più gravi hanno capacità di riconoscimento due o
tre deviazioni standard al di sotto di essa. Pertanto, questa differenza è
paragonabile a quella esistente fra le persone con un QI di 150 e quelle con un
QI di 50, mentre tutti gli altri si collocano ai livelli intermedi del
continuum. Come nel caso di qualsiasi curva a campana, la grande maggioranza
delle persone si trova nella zona centrale della distribuzione.
V
Sue Barry.
Reimparare a camminare.
Wheatstone confermò la sua
congettura grazie a un metodo sperimentale tanto semplice quanto brillante.
Eseguì coppie di disegni di un oggetto solido, ritraendolo così come era visto
dalla prospettiva leggermente diversa dei due occhi, e poi costruì uno
strumento con il quale assicurarsi che, grazie a un sistema di specchi, ciascun
occhio vedesse solo il proprio disegno. Chiamò il suo strumento «stereoscopio»
(dal greco stereós, «solido», e quindi «tridimensionale»). Se si guardava nello
stereoscopio, i due disegni piatti si fondevano producendo un unico disegno
tridimensionale sospeso nello spazio.
La fotografia fu inventata solo
qualche mese dopo la pubblicazione, nel 1838, dell’articolo in cui Wheatstone
descriveva il suo stereoscopio; ben presto le stereofotografie conquistarono il
favore del grande pubblico.
Michael Faraday presentando una
serie di disegni immobili in rapida successione, dimostrò che a una certa
velocità critica il cervello poteva fondere le immagini, creando così una
sensazione di movimento.
James Clerk Maxwell rimase
affascinato dall’ipotesi di Thomas Young, secondo la quale nella retina
esisterebbero tre – e solo tre – tipi di recettori cromatici, ciascuno dei
quali sensibile alla luce di una determinata lunghezza d’onda
(approssimativamente corrispondente al rosso, al verde e al blu). Maxwell mise
allora a punto un test elegante per verificare tale ipotesi; fotografò
attraverso filtri di diverso colore (rosso, verde e violetto) e poi proiettò le
tre fotografie attraverso i filtri corrispondenti. Quando le tre immagini
monocromatiche erano perfettamente sovrapposte, improvvisamente la fotografia
diventava a colori.
Nel 1861, in uno dei tanti
articoli sugli stereoscopi usciti sull’«Atlantic Monthly», Oliver Wendell
Holmes (inventore del famoso «stereovisore portatile di Holmes») commentò il
particolare piacere che il pubblico sembrava trarre da quella magica illusione
di profondità:
L’esclusione degli oggetti
circostanti e l’assoluta concentrazione ... producono un’esaltazione simile al
sogno ... in cui sembra di abbandonare il proprio corpo e navigare come spiriti
disincarnati da una strana scena all’altra.
Oltre alla visione stereoscopica,
vi sono naturalmente molti altri modi per giudicare la profondità: l’occlusione
degli oggetti distanti da parte di quelli più vicini, la prospettiva (il fatto
cioè che le linee parallele allontanandosi convergano, e che gli oggetti
distanti ci appaiano più piccoli), l’ombreggiatura (che delinea la forma degli
oggetti), la cosiddetta «prospettiva aerea» (lo sfumare degli oggetti più
distanti, che assumono una tinta bluastra a causa dell’aria interposta fra noi
e loro) e, cosa più importante, la parallasse di movimento, ovvero il mutevole
aspetto delle relazioni spaziali quando ci muoviamo nell’ambiente. Tutti questi
indizi possono concorrere a darci un senso di realismo, di spazio e di
profondità. Tuttavia, il solo modo che consenta di percepire davvero la
profondità – di vederla, più che stimarla – consiste nell’utilizzare uno
stereoscopio binoculare.
Moltissima
gente non è particolarmente consapevole di ciò che la visione stereoscopica
aggiunge al mondo visivo, ma noi ne traiamo un gran piacere. Alcune persone
possono anche non notare grandi differenze quando tengono un occhio chiuso; noi
siamo profondamente consapevoli di un enorme cambiamento, in quanto il nostro
mondo perde improvvisamente spaziosità e profondità, e diventa piatto come una
carta da gioco.
Può darsi che la nostra
stereoscopia sia più acuta; forse, soggettivamente, noi viviamo in un mondo più
profondo; oppure, semplicemente, siamo più consapevoli della profondità, così
come altri possono essere più sintonizzati sul colore o la forma.
Ci interessa capire come funziona
la visione stereoscopica. Il problema non è banale, perché se potessimo
capirla, non solo comprenderemmo un espediente visivo semplice ed elegante, ma
coglieremmo anche qualcosa sulla natura della consapevolezza visiva, e della
coscienza stessa.
Le
illusioni sono ipotesi percettive
Richard
Gregory, che ha studiato per molti anni le illusioni visive, insisteva che le
percezioni fossero, in realtà, ipotesi percettive. (così come, negli anni
Sessanta dell’Ottocento, Hermann von Helmholtz le aveva definite «inferenze
inconsce»).
“Adesso che sono confinato in un mondo
bidimensionale ho perduto il mio orientamento spaziale. Non ho più la
sensazione, che un tempo avevo, di sapere esattamente dove mi trovo nello
spazio e nel mondo.
Non posso concepire di passare il
resto della mia vita in questo modo ... La percezione binoculare stereoscopica
della profondità non è semplicemente un fenomeno visivo. È uno stile di vita
... In un mondo bidimensionale, la vita è molto diversa, e di qualità
decisamente inferiore, rispetto a com’è in un mondo tridimensionale”.
Paul Romano
“Oltre la porta, aperta, della
mia camera, c’era la porta della camera di fronte; oltre quella porta, un
paziente seduto su una sedia a rotelle; al di là del paziente, sul davanzale,
un vaso di fiori, e, al di là del vaso, oltre la strada, le finestre
dell’edificio dirimpetto, sormontate da timpani; tutto questo scenario (che
abbracciava forse una sessantina di metri di profondità) ... sembrava si
distendesse nello spazio come una gigantografia a colori, ricca di particolari,
ma del tutto bidimensionale.”
Oliver Sacks
Gli articoli di David Hubel e
Torsten Wiesel sui meccanismi neurali della visione.
Quel lavoro, che in seguito valse
loro un premio Nobel, rivoluzionò le nostre conoscenze sui meccanismi
attraverso i quali impariamo a vedere: In particolare, sul fatto che l’esperienza
visiva precoce è essenziale per lo sviluppo, nel cervello, di cellule o
meccanismi speciali indispensabili per una visione normale. Fra questi vi sono
le cellule binoculari della corteccia visiva, necessarie per generare il senso
della profondità a partire dalle disparità retiniche. Hubel e Wiesel
dimostrarono che, se la normale visione binoculare era resa impossibile – da
una patologia congenita.
Un numero significativo di esseri
umani sviluppa condizioni simili, indicate collettivamente come strabismo: un
disallineamento degli occhi che a volte è troppo leggero per essere notato,
eppure è sufficiente per interferire con lo sviluppo della visione
stereoscopica.
Chi non ha mai avuto la visione
stereoscopica e vive adeguatamente senza di essa può avere grandi difficoltà a
comprendere perché si dovrebbe attribuirle un valore rilevante.
Non è possibile comunicare che
cosa sia una definita qualità soggettiva a chi non la possiede.
Sue Barry
Acquisì la percezione della profondità.
Avevo chiesto a Sue se le riuscisse
di immaginare come sarebbe stato il mondo, se avesse potuto vederlo
stereoscopicamente, e lei aveva detto che sì, pensava di poterlo fare:
dopotutto, era una professoressa di neurobiologia, aveva letto gli articoli di
Hubel e Wiesel e molto altro ancora sull’elaborazione visiva, la visione
binoculare e la visione stereoscopica. Pensava che questa conoscenza le avesse
fornito una comprensione particolare di ciò che le mancava: Sue sapeva come
doveva essere la visione stereoscopica, anche se non l’aveva mai sperimentata.
“Lei mi chiese se potessi
immaginare come sarebbe stato il mondo visto con due occhi. Io dissi che
pensavo di sì ...”
Mi sbagliavo. Sue adesso poteva
dirlo, infatti aveva acquisito la visione stereoscopica, ed essa andava ben
oltre qualsiasi cosa avesse potuto immaginare.
“Nessuno mi disse che non avevo la visione binoculare e io rimasi
felicemente ignorante finché non entrai all’università”. Poi aveva seguito un
corso di neurofisiologia: “Il professore descrisse lo sviluppo della corteccia
visiva, le colonne di dominanza oculare, la visione mono- e binoculare.”
“Io ero veramente sbalordita: non avevo idea che esistesse un altro modo
di vedere il mondo, a me precluso.”
Dopo lo sbalordimento iniziale,
Sue aveva cominciato a fare ricerche per
proprio conto sulla visione stereoscopica:
“Andai in biblioteca e affrontai
la lettura degli articoli scientifici. Provai tutti i test per la visione
stereoscopica che mi riuscì di trovare, e li fallii tutti.”
A questo punto, Sue si era
chiesta se esistesse una qualsiasi terapia grazie alla quale acquisire la
visione binoculare, ma «i medici mi dissero che tentare una terapia della
visione sarebbe stata una perdita di tempo e denaro. Era proprio troppo tardi.
Avrei potuto sviluppare la visione binoculare solo se i miei occhi fossero
stati riallineati entro i due anni di età; e poiché avevo letto il lavoro di
Hubel e Wiesel sullo sviluppo delle capacità visive e sui periodi critici,
presi per buono il loro parere».
La
terapia per acquisire la visione stereoscopica:
Sue iniziò una lunga seduta in
cui, usando un paio di occhiali Polaroid per fare in modo che ciascun occhio
guardasse un’immagine diversa, Sue cercò di fondere le due immagini.
All’inizio, non capiva che cosa
significasse «fusione», né come si potessero far coincidere le due immagini; ma
dopo aver provato per diversi minuti, scoprì di essere in grado di farlo, anche
se soltanto per un secondo alla volta. Sebbene stesse guardando una coppia di
stereoimmagini, non aveva alcuna percezione della profondità; tuttavia, aveva
fatto il suo primo passo, ottenendo ciò che si definisce la «fusione piatta».
Sue si interrogava sulla
possibilità – nel caso in cui fosse riuscita a tenere gli occhi allineati più a
lungo – di ottenere non soltanto la fusione piatta, ma anche quella stereo. Le
furono assegnati ulteriori esercizi per rafforzare la motilità oculare
(inseguimento) e mantenere la fissazione dello sguardo, e Sue lavorò su di essi
a casa, diligentemente. Tre giorni dopo, accadde qualcosa di strano:
“Oggi ho notato che la lampada
che pende dal soffitto in cucina ha un aspetto diverso. Sembra occupare uno
spazio fra me e il soffitto. Anche i suoi bordi sono più arrotondati. È un
effetto lieve, ma rilevabile.”
La sua nuova visione, scriveva
Sue, era qualcosa di «assolutamente meraviglioso». «Proprio non avevo idea di
che cosa mi stessi perdendo». E aggiunse: «Cose comunissime sembravano
straordinarie».
“Continuo a fissare le cose… il
mondo ha veramente un aspetto diverso.”
v
“Le
foglie non si limitavano a sovrapporsi l’una all’altra come al solito. Riuscivo
a vedere lo SPAZIO fra le foglie. Lo stesso vale per i rametti
sugli alberi, i ciottoli sulla strada, le pietre di un muro a secco. Tutto ha più consistenza.”
“La
lettera di Sue proseguiva su questi toni lirici, descrivendo esperienze del
tutto nuove per lei, che andavano ben oltre qualsiasi cosa potesse aver
immaginato o dedotto in precedenza. Aveva scoperto da sola che non esiste un
sostituto dell’esperienza, che fra la «conoscenza per descrizione» e la «conoscenza
diretta» di Bertrand Russell vi è un abisso, e non esiste alcun modo per
passare dall’una all’altra.”
v
“I fiori ora sembrano turgidi,
profondamente reali, là dove prima erano piatti.”
v
“Mi
piacerebbe prendermi un’intera giornata solo per andarmene in giro a GUARDARE
le piante e i fiori da tutte le angolazioni.”
v
Nella sua lettera, Sue aveva
scritto: «Io penso di aver desiderato per tutta la vita di vedere le cose con
una maggiore profondità, anche prima di sapere che non ero in grado di farlo.»
Questo commento curioso e toccante mi indusse a chiedermi se Sue non avesse
conservato un qualche vago ricordo, a malapena consapevole, di un tempo in cui
aveva visto le cose con una maggiore profondità (infatti non avrebbe dovuto
provare alcun senso di perdita o nostalgia per qualcosa che non aveva mai
sperimentato.
La
consapevolezza, il sapere o avere un’idea di quello che si deve vedere sono
essenziali in molti aspetti della percezione.
“Quando si guarda uno
stereogramma, il processo computazionale in corso nel cervello si basa non
soltanto sull’indizio binoculare della disparità, ma anche su indizi monoculari
come le dimensioni, occlusione e la parallasse. Gli indizi monoculari possono
essere in conflitto con quelli binoculari, così che – per arrivare a una media
ponderata – il cervello deve bilanciare le due serie di indizi. Il risultato
finale sarà diverso in individui diversi, perché anche nella popolazione
normale vi è una variazione amplissima: alcuni individui si affidano
prevalentemente agli indizi binoculari, altri a quelli monoculari, mentre i più
si servono di una qualche combinazione dei due. Nel guardare un’immagine stereo
come quella del diapason, un individuo fortemente binoculare percepirà una
insolita profondità spaziale; un individuo più monoculare percepirà una
profondità minore; e altri, affidandosi a entrambi gli indizi, monoculari e
binoculari, percepiranno una profondità intermedia.”
Shinsuke Shimojo
La
spiegazione di Shimojo dava sostanza all’ostinata convinzione di molti di noi
della New York Stereoscopic Society: la convinzione di vivere in un mondo più
«profondo», dal punto di vista visivo, della maggior parte delle altre persone.
L’intensificazione
della percezione della profondità
v
Se
si proietta una stereofotografia per una frazione di secondo su uno schermo, un
individuo con una normale visione stereoscopica percepisce comunque
immediatamente una certa profondità. Ma ciò che si vede in simili circostanze
non è la profondità completa; la percezione di quest’ultima richiede infatti
diversi secondi, addirittura minuti, nel corso dei quali l’immagine sembra
diventare via via più profonda mentre si continua a fissarla, come se il
sistema stereo impiegasse un certo tempo per riscaldarsi ed entrare a pieno
regime.
v
Questa intensificazione sembra
caratteristica del sistema deputato alla stereovisione (i colori, invece, non
diventano più intensi a mano a mano che li si guarda). La causa di questo
fenomeno è sconosciuta; è stato tuttavia ipotizzato che esso implichi, nella
corteccia visiva, il reclutamento di nuove cellule binoculari.
Vi è, inoltre, un chiaro effetto
dell’esercizio: coloro che allenano le proprie facoltà stereoscopiche – per
esempio lavorando con uno stereomicroscopio – possono andare incontro a
impressionanti miglioramenti dell’acuità e della profondità della
stereovisione, nell’arco di periodi più lunghi. Anche in questo caso, il
meccanismo di fondo è sconosciuta.
Sue si serve di una metafora per
descrivere il modo in cui apprende la visione stereoscopica, paragonandosi a
qualcuno che stia reimparando a camminare.
Stereogrammi
a punti casuali.
Ha inoltre sviluppato un’abilità
che non aveva quando la visitammo la prima volta, ossia la capacità di vedere
gli stereogrammi a punti casuali.
A un primo sguardo, sembra che
essi non contengano alcuna immagine. Se però li si continua a fissare
attraverso lo stereoscopio, ci si accorge di una sorta di strana turbolenza fra
i punti e poi, all’improvviso, molto al di sopra o al di sotto del piano del
foglio, appare una sorprendente illusione: un’immagine definita. Tale illusione
richiede un certo esercizio e molte persone, anche quelle con una normale
visione binoculare, non riescono a coglierla. Si tratta tuttavia del test più
autentico per saggiare la visione stereoscopica.
Béla Julesz, lo straordinario
ricercatore che studiò la stereoscopia a punti casuali riteneva che essa
implicasse ulteriori meccanismi neurali rispetto a quelli impiegati nella
comune visione stereo. A suggerirlo è il fatto che può occorrere un minuto o
anche più per «capire» gli stereogrammi a punti casuali, mentre quelli comuni
possono essere visti istantaneamente.
Noctiluca
scintillans
L’acqua era un incendio di
creature luminescenti: Dalla costa vedevamo l’acqua emettere scintille come se
fosse stata piena
di lucciole, e quando ci
immergemmo, nuvole di minuscoli fuochi d’artificio si accesero intorno al
nostro corpo mentre nuotavamo.
«È come nuotare in una galassia.
Adesso le vedo in 3D – prima mi sembravano tutte pulsare su una superficie
piatta».
Sue azzardò un paragone con
quella di un individuo nato del tutto privo di visione cromatica, capace di
vedere soltanto gradazioni di grigio, al quale fosse data poi, all’improvviso,
la possibilità di vedere tutti i colori. Questa persona, scriveva,
«probabilmente sarebbe sopraffatta dalla bellezza del mondo. Potrebbe mai
smettere di guardare?».
Sebbene apprezzassi la poesia
dell’analogia di Sue, non ero sicuro che l’idea funzionasse. (Il mio amico e
collega Knut Nordby, completamente privo di visione cromatica, pensava che
ricevere il colore come «aggiunta» dopo una vita intera senza di esso sarebbe
stato motivo di una spaventosa confusione, una cosa impossibile da integrare
con il suo mondo visivo già completo. Egli sosteneva che per una persona come
lui il colore sarebbe risultato inintelligibile, privo di associazioni e di significato.
Sue
aveva accolto la nuova esperienza e l’aveva percepita non come un’aggiunta
arbitraria, ma come un arricchimento, un approfondimento naturale e bellissimo
delle sue facoltà visive preesistenti.
Tuttavia,
termini come «arricchimento» o «approfondimento», secondo Sue, non rendevano
neanche lontanamente giustizia alla sua esperienza di acquisizione della
stereoscopia. Non era semplicemente un aumento quantitativo: era qualcosa di
interamente nuovo.
Questa
differenza si estende addirittura alla percezione di rappresentazioni
bidimensionali come fotografie, film, o dipinti. Sue adesso trova tutte queste
cose molto più «realistiche».
“Mi sembra che sua riacquisizione
della stereopsia] abbia avuto luogo troppo velocemente per essere dovuta a un
ripristino delle connessioni, e penserei piuttosto che l’apparato sia sempre
stato presente, e che per svilupparsi necessitasse solo del ristabilirsi della
fusione». Tuttavia, aggiunse poi, «si tratta soltanto di un’ipotesi!”. David
Hubel
“Dopo quasi tre anni la mia nuova
visione continua a sorprendermi e ad affascinarmi. Un giorno d’inverno, intorno
a me stava cadendo lenta la neve, in grandi fiocchi bagnati. Vedevo lo spazio
fra un fiocco e l’altro, e tutti insieme essi producevano una meravigliosa
danza tridimensionale. In passato, la neve sembrava cadere su una superficie
piatta, su un unico piano a poca distanza da me, e io mi sentivo una
spettatrice di fronte alla nevicata. Adesso invece mi sentivo dentro di essa,
in mezzo ai fiocchi. Il mio sguardo si rapprese, mi incantai: Rimasi a guardare
la neve cadere per qualche minuto e, mentre guardavo, fui sopraffatta da un
profondo senso di gioia. Una nevicata può essere meravigliosa – soprattutto quando
la vedi per la prima volta».”
VI
Oliver
Sacks
La realtà
scomparsa
“Ero abituato a ricostruire ogni
luce, a integrarla con i miei ricordi, a vivere in una strana semioscurità.
Quasi mi piaceva. Distinguevo ancora abbastanza bene i contorni delle forme, le
riempivo con la fantasia come fa il pittore con la cornice vuota. Dalla voce e
dai movimenti intuivo i possibili tratti del viso che avevo di fronte. Chi mi
era vicino talvolta si meravigliava che io, incapace com’ero di distinguere i
colori e le sfumature, notassi smorfie fugaci, invisibili a un occhio sano.
Anch’io ne ero stupito. D’un tratto il terrore di essere forse già del tutto
cieco mi agghiacciò ... Dalle parole e dalle voci ricostruivo la realtà
scomparsa come quando, nell’attimo in cui stiamo per addormentarci, la nostra
anima adopera i fosfeni danzanti davanti all’occhio per costruire figure e
forme simili alla vita. Stavo sulla soglia che divide la realtà dalla fantasia
e cominciavo a non sapere più dove mi trovassi – l’occhio del corpo e quello
dell’anima si sovrapponevano e non ero più sicuro di quale dei due dirigesse
l’altro.”
Proprio come la visione
cromatica, la percezione della profondità mi è sempre sembrata naturale, parte
integrante del mio mondo visivo. Mi dava il senso della solidità degli oggetti
e della realtà dello spazio: del meraviglioso mezzo trasparente in cui essi
risiedono. Ero perfettamente consapevole di come il mio mondo visivo crollasse
istantaneamente se chiudevo un occhio e di come si riespandesse nel momento
stesso in cui lo riaprivo. Sembrava che, dal punto di vista visivo, io vivessi
in un mondo più profondo della maggior parte delle persone.
Le mie esperienze con Sue e il
piacere da lei provato – descritto poi in toni lirici, quando acquisì la
stereoscopia dopo una vita intera di cecità nei confronti della terza
dimensione – rinforzarono il mio apprezzamento per la visione stereoscopica. In
effetti, ho passato gran parte del 2004 e del 2005 a occuparmi dell’argomento,
riflettendo e scrivendo sul tema e mantenendo la mia corrispondenza con Sue.
Poi, nel giugno del 2007 persi
tutta la visione centrale in quell’occhio e, insieme ad essa, la stereoscopia.
Il completo e improvviso appiattimento del mondo visivo che sperimentavo da
bambino chiudendo un occhio divenne ora una condizione permanente. Alcune
persone hanno da sempre una scarsa visione stereoscopica, oppure fanno un uso
talmente marginale degli indizi binoculari che, se perdono la stereoscopia, a
malapena se ne accorgono. La mia situazione era molto diversa. La stereoscopia
era stata una parte fondamentale della mia vita visiva, e la sua perdita ebbe
un impatto profondo a molti livelli: dalle difficoltà pratiche della vita
quotidiana, all’intero concetto di «spazio». Questi cambiamenti furono così
radicali che, in effetti, mi occorse del tempo per riconoscerli in tutta la
loro portata.
Se non ci sono ombre o altri
indizi che mi aiutino, per me i gradini sono solo linee sul pavimento: non ho
idea di quanto siano alti, e meno che mai se salgano o scendano. Particolarmente
insidiosi sono quelli che io non posso prevedere, come un paio di gradini in
una piazza all’aperto, o nel soggiorno a casa di qualcuno (spesso questi
gradini mancano del corrimano, che potrebbe servire da indizio visivo).
Scendere da una scalinata è un rischio reale e a volte terrificante, e io ho
bisogno di
«sentire» il mio percorso con
cautela, verificando ogni gradino con il piede. A volte la sensazione visiva di
appiattimento può essere così convincente da competere con ciò che mi dice il
piede. Anche quando tutti gli altri sensi – compreso il buon senso – mi dicono
che c’è un altro gradino, se non riesco a vederne la profondità, io esito
confuso. Dopo una lunga pausa, muovo il piede, ma il potere dominante della
visione rende la cosa tutt’altro che semplice.
A volte ho esperienze
pseudostereoscopiche, come quando qualcosa di piatto, per esempio un giornale
steso sul pavimento, mi sembra sospeso a mezz’aria.
Entrambe le volte avevo fumato un
po’ di cannabis e mi ero ritrovato totalmente assorbito, a fissare dei fiori in
una sorta di rapimento: una volta si trattava di narcisi in un vaso, l’altra di
campanelle che crescevano arrampicandosi su una staccionata.
In entrambi i casi, mi sembrò che
i fiori lievitassero davanti ai miei occhi, slanciandosi nello spazio che li
circondava, assumendo la loro piena e appropriata magnificenza tridimensionale.
Quando l’effetto della cannabis si esaurì, tornarono a sgonfiarsi. Questa
visione era «reale» o un’illusione? Dal punto di vista qualitativo, era del
tutto diversa dalla pseudostereovisione, ossia dalle illusioni confondenti di
profondità e distanza che a volte mi capitavano con le linee sul pavimento,
quando in realtà non c’era nessuna profondità. I fiori avevano una profondità,
e io li vedevo come quando avevo due occhi sani. A prescindere dal fatto che
fosse una percezione aberrante o un’illusione, comunque era veridica,
consonante con la realtà. Alcuni dei miei corrispondenti, consumando cannabis,
hanno a volte sperimentato l’effetto opposto: una perdita della visione
stereoscopica, così che il loro mondo visivo sembra bidimensionale, come se
fosse dipinto.
Vedo
un mondo caotico. Non c’è spazio da nessuna parte: nessuno spazio fra le cose.
Sebbene
nella maggior parte dei casi io trovi detestabile il fatto che tutto mi appaia
piatto, e lamenti la perdita della profondità, talvolta apprezzo il mio mondo bidimensionale. A volte una stanza,
una strada tranquilla o una tavola apparecchiata mi appaiono simili a nature
morte, bellissime composizioni visive, come immagino possano vederle un pittore
o un fotografo, vincolati a una tela o a una pellicola piatte. Adesso che sono
più consapevole dell’arte della composizione, scopro un piacere nuovo nel
guardare quadri o fotografie.
In questo senso, sono più belli, sebbene ormai non mi diano più neppure
l’illusione della profondità.
Un pomeriggio andai in un ristorante
giapponese; una delle attrattive era la vista. A metà giornata, in quel momento
dell’anno, i raggi del sole proiettavano un’ombra dettagliata dell’albero e
delle sue foglie delicate sulla parete gialla che si ergeva dietro di esso, a
circa un metro e mezzo di distanza. Senza stereoscopia, però, io vedevo
l’albero e la sua ombra sullo stesso piano, come se fossero stati entrambi
dipinti sulla parete: una vista al tempo stesso inquietante e raffinata, poiché
la realtà tridimensionale si era trasformata in un dipinto giapponese.
A maggior
distanza, può darsi che – nell’immediato – la visione stereoscopica sia meno
importante; tuttavia, il non saper giudicare la distanza mi espone a illusioni
e dubbi profondi e spesso assurdi. Non è solo il senso della profondità e della
distanza a essere compromesso; a volte, lo è anche quello della prospettiva,
così fondamentale per rendersi conto che ci troviamo in un mondo di oggetti
solidi disposti nello spazio.
La mia
incapacità di vedere la profondità o la distanza mi porta a combinare o a
fondere oggetti vicini e lontani generando strani ibridi o chimere. Un giorno
rimasi sconcertato nel trovarmi una rete grigia fra le dita, prima di capire
che stavo guardando il tappeto grigio, poco meno di un metro più in basso; lo
avevo visto sullo stesso piano delle mie mani e lo avevo interpretato come
parte di esse.
Un tempo lo spazio era un regno
ospitale dotato di profondità, nel quale io potevo collocarmi e vagare a mio
piacimento. Potevo entrarci, lo abitavo, avevo una relazione spaziale con tutto
quanto potevo vedere. Ora quel tipo di spazio non esiste più per me: né
visivamente, né mentalmente.
Il più delle volte, riesco a
«vedere oltre» le mie illusioni e fusioni. Ma questo non altera la sensazione
che un fondamentale aspetto del mondo visivo mi sia stato portato via e che le
cose non avranno più l’aspetto che avevano prima: non appariranno mai «giuste».
La realtà visiva che io affronto è completamente sbagliata:
Io
so bene come erano le cose, e come dovrebbero essere.
Adesso,
l’unico momento in cui vedo in profondtà è nei sogni; Mi sveglio da questi
sogni per tornare a una realtà incorreggibilmente e irreversibilmente piatta –
piatta da impazzire.
v
Noi
non rendiamo giustizia come dovremmo a ciò che possediamo; il più delle volte,
infatti, ne abbiamo una scarsa consapevolezza esplicita.
v
La visione periferica, però, che
circondando quella centrale ci offre un contesto: la percezione del fatto che
qualsiasi cosa stiamo guardando è situata in un mondo più ampio. E la visione
periferica è sintonizzata soprattutto sul movimento: ci avverte di movimenti
inattesi sull’uno o sull’altro lato – la visione centrale, dunque si fissa
sugli oggetti.
“Quando
la cecità è grave, il paziente può comportarsi quasi come se l’universo avesse
cessato di esistere in una qualsiasi forma significativa ... I pazienti con
cecità unilaterale si comportano non solo come se nulla stesse effettivamente
accadendo nell’emispazio sinistro, ma anche come se non ci si potesse aspettare
che mai vi accada nulla della benché minima importanza.”
M.-Marsel Mesulam
Non ho alcuna consapevolezza da
quel lato, e qualsiasi cosa entri nel mio campo visivo da lì è inattesa e mi
sorprende. Non riesco a superare il senso di sconcerto, addirittura di shock,
che provo quando oggetti o persone appaiono improvvisamente alla mia destra.
Una quantità di spazio non esiste più per me, e l’idea che in quello spazio
possa esserci qualcosa è anch’essa, allo stesso modo, scomparsa.
Mi aspettavo, col tempo, di
adattarmi alla mia semicecità, al mio emispazio, ma non è andata così. Ogni
volta che qualcuno o qualcosa improvvisamente si materializza alla mia destra,
è inaspettato esattamente come la prima volta. Mi trovo ancora in un mondo di
subitaneità e discontinuità, un mondo di apparizioni e sparizioni improvvise.
“Lì” non riuscivo nemmeno più ad immaginarlo, “lì”, per me non esisteva più.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, lontano dalla mente.
La cecità
e l’anestesia
La consapevolezza di sé, il senso
del proprio corpo, termina bruscamente, in effetti, là dove inizia l’effetto
dell’anestesia, e tutto quanto si trova sotto non è più percepito come parte di
sé, poiché non invia più al cervello alcuna informazione che ne testimoni
l’esistenza: è scomparso, portando via anche il suo posto, il suo spazio.
L’imaging funzionale ha dimostrato che le parti del corpo anestetizzate perdono
la loro rappresentazione nella corteccia sensoriale. Lo stesso sembra accadere
al lato destro del mio campo visivo: non invia più alcun segnale al cervello, e
non vi ha più alcuna rappresentazione Per quanto riguarda il cervello, non
esiste.
Il nulla
visivo e mentale
Nel mio campo visivo destro e nel
mio cervello c’è un ampio nulla, un nulla di cui non ho e non posso avere una
consapevolezza diretta. Le persone e gli oggetti continuano a «dissolversi nell’aria»
o a «piovere dal cielo» – queste per me non sono semplici metafore, ma il modo
più accurato con cui riesco a descrivere la mia esperienza del “nulla” e del
“da nessuna parte”.
VII
John Hull
Il dono
oscuro
In
quale misura noi siamo gli autori, i creatori, delle nostre esperienze? Fino a
che punto esse sono predeterminate dal cervello o dai sensi che abbiamo in
dotazione dalla nascita, e in quale misura, invece, siamo noi stessi a plasmare
il nostro cervello attraverso l’esperienza? Gli effetti di una grave
deprivazione percettiva come la cecità possono inaspettatamente fare luce su
queste domande. Perdere la vista, soprattutto in età adulta, pone l’individuo
di fronte a un’impresa di immense proporzioni che minaccia di sopraffarlo: una
volta che i vecchio mondo è andato distrutto, infatti, occorre trovare un nuovo
modo di vivere e di organizzare la propria realtà. Nel 1990 ricevetti un libro
straordinario, Il dono oscuro: nel mondo di chi non vede. Il suo
autore, John Hull, era un professore di scienze religiose che viveva in
Inghilterra, Nel 1983, all’età di quarantotto anni, era
diventato completamente cieco.
John
dopo esser diventato cieco sperimentò una graduale attenuazione della memoria e
dell’immaginazione visive, processo che si spinse fino alla loro pressoché
totale estinzione (salvo che nei sogni): uno stato che egli chiamava «cecità
profonda».
Con questa espressione, John non
si riferiva solo alla perdita di immagini mentali e ricordi visivi, ma anche
alla perdita dell’idea stessa del vedere
mentre svaniva perfino la sensazione che gli oggetti possedessero un «aspetto»
o delle caratteristiche visive.
All’inizio ne aveva sofferto
moltissimo: non riusciva più a evocare il volto della moglie o dei figli, né l’aspetto
di luoghi e paesaggi che conosceva bene e che amava; poi, però, aveva finito per
accettare la situazione con straordinaria serenità d’animo, arrivando anzi a
considerarla una risposta naturale alla perdita della vista. Sembrava pensare
che la perdita dell’immaginazione visiva fosse un prerequisito per il pieno
sviluppo e il potenziamento degli altri sensi.
Due anni dopo aver perso del tutto
la vista, nei suoi ricordi e nella sua immaginazione John pareva lontano dal
mondo visivo quanto lo sarebbe stato un cieco dalla nascita. Con un approccio
profondamente religioso, e un linguaggio che a volte ricorda san Giovanni della
Croce, John si addentra in questo stato, cui finisce per arrendersi, con una
serena accettazione e una sorta di letizia. E parla di questa cecità «profonda»
come di «un mondo completamente a sé stante, e dotato di una propria
autenticità e autonomia ...
v
“Il
fatto di essere una persona che vede con tutto il corpo mi colloca entro una
precisa categoria di persone, che insieme alle altre costituisce uno degli ordini
naturali dell’esistenza umana».
v
«Vedere con tutto il corpo» per John significa
spostare la propria attenzione, il proprio centro di gravità, sugli altri
sensi, che diventano più ricchi e potenti. E così racconta di come il
suono della pioggia, al quale prima non aveva mai prestato grande attenzione,
potesse ora descrivere per lui un intero paesaggio, perché in giardino le gocce
che cadono sul vialetto hanno un suono diverso da quelle che cadono sul prato,
sui cespugli o sulla siepe che separa il giardino dalla strada:
La pioggia ha un modo tutto suo
di dare risalto ai contorni e di elargire una nota di colore a cose che fino a
un attimo prima erano invisibili; invece di un mondo intermittente, e quindi frammentario,
le gocce incessanti della pioggia creano un’esperienza acustica senza soluzione
di continuità ... La pioggia ... dispiega in tutta la sua pienezza e
simultaneità questo scenario ... restituisce il senso della prospettiva e dei
rapporti reciproci tra una parte e l’altra del mondo.
Grazie alla nuova intensità della
sua esperienza o attenzione (Il concetto di attenzione in Simone Weil:
L’indicibile tenerezza.)
uditiva, unita all’acuirsi degli
altri sensi, John arriva a provare una sorta di intimità con la natura, cioè
una sensazione legata all’essere-nel-mondo che va al di là di qualsiasi cosa
egli conoscesse quando ancora vedeva.
La
cecità è diventata, per lui, «un dono oscuro, paradossale».
Non si tratta solo di
«compensazione», sottolinea lui stesso, ma di un intero nuovo ordine, di una
nuova modalità dell’essere umano. Egli si svincola dunque sia dalla nostalgia
del mondo visivo, sia dallo sforzo, dall’ipocrisia, di esibire una pretesa
«normalità», e trova un nuovo centro, una nuova libertà e una nuova identità.
Le sue lezioni diventano più
chiare e hanno un orizzonte più ampio; la sua scrittura diventa più intensa e
profonda; dal punto di vista intellettuale e spirituale lui stesso si fa più
audace, più fiducioso. Sente, finalmente, di poggiare su basi solide
Nonostante il senso di disperazione
inizialmente schiacciante che si abbatte su chi perde la vista, alcune persone,
come Hull, hanno trovato nel limite della cecità la pienezza della loro forza
creativa e della loro identità. Penso soprattutto a John Milton, il quale
cominciò a perdere la vista intorno ai trent’anni e scrisse le sue più grandi
opere poetiche quando ormai era diventato completamente cieco.
Milton
meditò sulla cecità – su come la vista, dapprima puntata verso l’esterno, possa
in seguito concentrarsi su ciò che è all’interno – nel Paradiso perduto e in un
sonetto molto personale, On his blindness.
Jorge Luis Borges, un altro poeta
divenuto cieco, raccontò i molteplici, paradossali effetti della propria
cecità;
J.T. Fraser, prefazione all’edizione
in Braille del suo libro Il tempo: una presenza sconosciuta.
Nel suo libro L’invenzione delle
nuvole, Richard Hamblyn racconta di come Luke Howard, il chimico dell’Ottocento
che per primo classificò le nubi, intrattenesse rapporti epistolari con molti
altri naturalisti del suo tempo, compreso John Gough, un matematico che aveva
perso la vista all’età di due anni.
Gough, scrive Hamblyn, era «un noto
botanico, che con la lettura tattile era giunto a padroneggiare perfettamente
l’intero sistema di Linneo. Ma padroneggiava anche la matematica, e l’arte di
scrivere nell’oscurità». (Hamblyn aggiunge che Gough «avrebbe anche potuto
diventare un buon violinista se suo padre non gli avesse fatto smettere di
suonare lo strumento avuto da un musicista girovago».
Iperacutizzazione
sensoriale ed immaginazione
Bernard Morin, il matematico che
negli anni Sessanta dimostrò come una superficie sferica potesse venire
rivoltata dall’interno all’esterno, era diventato cieco all’età di sei anni. Egli
riteneva che i suoi risultati nel campo della matematica richiedessero uno
speciale senso spaziale: una percezione e un’immaginazione tattile che si
spingessero ben oltre la probabile dotazione di un matematico vedente.
Il cervello conserva la capacità
di andare incontro a drastici cambiamenti in risposta alla deprivazione
sensoriale.
VIII
Cecità
v Sebbene io
sia completamente cieca... mi considero una persona molto visiva. «Vedo» ancora
gli oggetti intorno a me. Non mi sento a mio agio in un ambiente nuovo finché
non mi sono fatta un’immagine mentale del suo aspetto.
v Ricevetti
la lettera di uno psicologo australiano, Zoltan Torey, il quale mi scriveva non
a proposito della cecità, ma per parlarmi di un libro che aveva scritto sul
problema cervello-mente e sulla natura della coscienza. Nella lettera Torey mi raccontava
anche di aver perso la vista a ventuno anni. Ma sebbene gli fosse stato
«consigliato di passare da una modalità visiva a una uditiva», lui si era mosso
in direzione opposta, decidendo piuttosto di acuire, nella maggior misura
possibile, il suo occhio interiore: le sue facoltà di immaginazione visiva.
Stando a quanto raccontava, ci era riuscito benissimo, sviluppando una notevole
capacità di produrre, trattenere e manipolare immagini mentali – al punto che
era stato in grado di costruirsi un mondo visivo virtuale che gli sembrava reale
e intenso come quello che aveva perduto, e a volte addirittura più reale e più
intenso. Grazie a questa immaginazione visiva, Torey riusciva a fare cose che
sarebbero sembrate impossibili per un non vedente.
Nell’opera
letteraria “Out of Darkness” Torey descrive i ricordi visivi più lontani della
sua infanzia e della sua giovinezza spensierata e privilegiata: Divenne adulto
in un ambiente molto stimolante dal punto di vista intellettuale, popolato
com’era di scrittori, artisti ed esponenti delle più diverse professioni. Il
padre di Torey dirigeva un grande studio cinematografico e spesso passava al
figlio dei copioni da leggere.
«Questo»
scrive Torey «mi dava l’opportunità di visualizzare storie, trame e personaggi
– di allenare l’immaginazione, insomma: una capacità che negli anni a venire
sarebbe diventata per me un’ancora di salvezza e un punto di forza».
«Fin dal
primo istante decisi che avrei scoperto quanto lontano può spingersi, nella
ricostruzione di una vita, un uomo privato di una parte dell’esperienza
sensoriale». Messa in questi termini, la cosa suona astratta. Ma nel libro si
percepiscono le terribili sensazioni alla base di questa decisione:
l’orrore
dell’oscurità – che spesso Torey chiama l’«oscurità vuota», o «la nebbia grigia
che mi stava inghiottendo» – e il desiderio appassionato di aggrapparsi alla luce
e alla vista per conservare, anche solo nella memoria e nell’immaginazione, un mondo
visivo intenso e vitale. Il suo libro contiene tutto questo già nel titolo, e la
nota di ribellione affiora fin dall’inizio.
Torey
mantenne un atteggiamento prudente e «scientifico» nei confronti della propria
immaginazione visiva, sforzandosi di controllare l’accuratezza delle sue
immagini con ogni mezzo disponibile. «Imparai ad accettare l’immagine in via
provvisoria» scrive «e a riconoscerle credibilità e status solo in presenza di
un’altra informazione che facesse pendere la bilancia in suo favore». Ben
presto cominciò a fidarsi della propria immaginazione visiva, al punto da
scommettere su di essa la propria vita.
Il
problema mente – cervello è un perpetuo gioco di destrezza fra routine
interagenti.
v Sabriye
Tenberken ha viaggiato, spesso da sola, per tutto il Tibet, dove per secoli i
non vedenti sono stati trattati come meno che umani: erano loro negati l’istruzione,
un lavoro, il rispetto e perfino un ruolo nella comunità. Nell’arco degli
ultimi dieci anni, quasi senza aiuto, Sabriye è riuscita a trasformare la loro situazione
ideando una versione tibetana del Braille, fondando le prime scuole per non
vedenti e integrando i diplomati di queste scuole nelle rispettive comunità.
Lei stessa
aveva una grave compromissione della vista quasi dalla nascita, ma fino a
dodici anni era riuscita a discernere volti e paesaggi. In Germania, da
bambina, aveva una particolare predilezione per i colori, e le piaceva dipingere:
quando non riuscì più a distinguere forme e sagome, continuò a servirsi dei
colori per identificare gli oggetti. Sabriye Tenberken ha anche un’intensa e
persistente sinestesia, condizione che la cecità, a quanto pare, ha accentuato:
“Da quando ho cominciato a pensare, ho sempre associato numeri e parole a
colori.”
Quando
andò in Tibet, Sabriye era cieca già da più di dieci anni; nonostante ciò,
continuava a servirsi di tutti gli altri
sensi,
integrandoli con descrizioni verbali, ricordi visivi e una forte sensibilità pittorica
e sinestesica per costruire «quadri» di paesaggi e interni, di ambienti e scene
– quadri che risultano sbalorditivi per vivacità e dettaglio. La sua è
un’immaginazione artistica – che può essere impressionistica, romantica, per
nulla verista –, mentre quella di Torey è un’immaginazione virtuale e
geometrica, e deve essere concreta e precisa fin nei minimi dettagli.
v “Un bambino
di otto anni non ha ancora abitudini: non le ha a livello fisico, e non le ha a
livello mentale. Il suo corpo è infinitamente flessibile”.
In un
primo momento Jacques Lusseyran cominciò a perdere la sua immaginazione visiva:
Pochissimo
tempo dopo essere diventato cieco dimenticai i volti delle persone che mi erano
care.
v
“Pensavo che i vedenti passassero troppo
tempo a badare a queste cose vuote ... Io ormai non ci pensavo più.”
v
La visione
interiore di Jacques ha inizio con una sensazione di luminosità, di fulgore
senza forma, un fiume di luce che scorre e inonda. In questo contesto quasi
mistico, i termini neurologici suonano necessariamente riduttivi. Ciò nondimeno,
si potrebbe interpretare quest’esperienza come un fenomeno di disinibizione,
un’attivazione spontanea, quasi eruttiva, della corteccia visiva, deprivata dei
suoi normali input visivi. (Questo fenomeno è forse analogo al tinnito o
all’arto fantasma, sebbene in questo caso un bambino religioso e dotato di un’immaginazione
precoce gli avesse probabilmente conferito una qualche componente spirituale
superiore). In seguito, però, è chiaro che Jacques dimostra di possedere una
prodigiosa capacità di immaginazione visiva, non limitata a una luminosità
indefinita.
“Il mio
schermo era sempre abbastanza grande. Intendo dire che non si trovava in nessun
luogo dello spazio, era ovunque nello stesso tempo ... Nomi, figure e oggetti
in generale non apparivano su di esso privi di forma, o in bianco e nero, ma
con tutti i colori dell’arcobaleno. Nulla entrava nella mia mente senza
impregnarsi di una certa quantità di luce ... Di lì a qualche mese, il mio
mondo personale si era trasformato nello studio di un pittore.”
Il giovane
riuscì a sfruttare le sue fenomenali capacità di visualizzazione anche in
contesti all’apparenza non visivi quali l’apprendimento del metodo Braille, e
per la sua ottima carriera scolastica. E quelle capacità furono altrettanto
essenziali nel suo rapporto con il mondo esterno reale.
Jacques descrive
le sue passeggiate con Jean, un amico vedente, e racconta di quando – mentre si
arrampicavano insieme su un colle che dominava la valle della Senna – se ne era
uscito così:
v
“Guarda! Stavolta ce l’abbiamo fatta, siamo
in cima ... Se non hai il sole negli occhi, vedrai tutta l’ansa del fiume!”.
Sbalordito, spalancando gli occhi, Jean aveva gridato: «Hai ragione!».
Questa scena s’era ripetuta spesso tra me e
lui, e in varianti sempre diverse...
Ogni volta che qualcuno menzionava un evento, quello immediatamente si
proiettava sullo schermo, che era una sorta di tela interiore...
Paragonando il suo mondo al mio, [Jean] lo
trovava meno ricco di immagini e meno colorato. Il che lo indispettiva.
«Insomma,» diceva allora «chi di noi due è cieco, tu o io?».
v
v Dennis
Shulman è uno psicologo clinico e psicoanalista che tiene conferenze su
argomenti biblici. Perse gradualmente la vista negli anni dell’adolescenza, e al
momento di entrare al college era ormai completamente cieco.
Dopo
trentacinque anni di cecità, io vivo ancora in un mondo visivo. Io “vedo”, ma
con l’aspetto della realtà che avevo visto l’ultima volta.
v
Che
cosa accade quando la corteccia visiva non è più limitata, o vincolata, da
input visivi? La semplice risposta è che, una volta isolata dal mondo esterno,
la corteccia visiva diventa ipersensibile a stimoli interni di ogni tipo, quali
la sua stessa attività autonoma, i segnali provenienti da altre aree del
cervello (uditive, tattili e verbali), e i pensieri, i ricordi e le emozioni.
L’adattabilità non si estingue con la gioventù.
v
Se una persona con buone capacità
di visualizzazione e dotata di una forte immaginazione visiva perde la vista,
le sue capacità di immaginazione sono conservate o addirittura potenziate? Al
contrario, coloro che hanno scarse abilità di visualizzazione, se perdono la
vista tendono a spostarsi verso la «cecità profonda» o le allucinazioni? Qual è
l’intervallo di variazione dell’immaginazione visiva nelle persone vedenti?
Io, con l’occhio della mente,
potevo a malapena vedere qualcosa: al massimo immagini vaghe ed evanescenti,
sulle quali non avevo peraltro alcun controllo.
Sebbene io non abbia buone
capacità di visualizzazione, se chiudo gli occhi, posso «vedere» le mie mani
che si muovono sulla tastiera del pianoforte mentre suono un pezzo che conosco
bene. (Questo accade perfino quando mi limito a suonare il pezzo mentalmente).
Allo stesso tempo io sento le mie mani che si muovono e non sono del tutto
sicuro di poter distinguere il «sentire» dal «vedere». In questo contesto, le
due cose sembrano inseparabili, e sarebbe preferibile servirsi di un termine
intersensoriale come «vedere-sentire».
Lo psicologo Jerome Bruner definisce
un’immaginazione di questo tipo «enattiva» – un aspetto che è parte integrante
di una performance (reale o immaginaria che sia) –, contrapponendola a una visualizzazione
«iconica», ovvero la visualizzazione di qualcosa che è fuori da noi stessi. I
meccanismi cerebrali alla base di questi due tipi di immaginazione sono del
tutto diversi.
L’importanza, nel pensiero, della
produzione di immagini visive mentali fu esplorata da Francis Galton nel suo
libro del 1883 Inquiries into Human Faculty and Its
Development.
Per quanto riguarda l’importanza
dell’immaginazione visiva, Galton è ambiguo e prudente. Mentre sostiene che
«gli uomini di scienza, come categoria, hanno scarse capacità di
rappresentazione visiva», in un altro passo afferma che
«una spiccata capacità di
visualizzazione è di grande importanza in rapporto ai processi superiori del
pensiero generalizzato». Secondo Galton, «è indubbio che meccanici, ingegneri e
architetti possiedano di solito la facoltà di vedere immagini mentali con
straordinaria chiarezza e precisione», ma aggiunge: «Devo altresì dire che la
carenza di tale facoltà sembra essere compensata con grande efficacia da altre
modalità di rappresentazione mentale ... così che uomini che se ne dichiarano del
tutto privi sono in condizione di descrivere bene quanto hanno visto e di esprimersi
altrimenti come se fossero in grado di visualizzare più e meglio degli altri.
Costoro possono anche diventare pittori, perfino entrare alla Royal Academy».
Per Galton creare un’immagine
mentale significava rappresentare una persona o un luogo familiare con l’occhio
della mente; era la riproduzione o la ricostruzione di un’esperienza. Vi sono
tuttavia anche immagini mentali di un tipo assai più astratto e visionario,
immagini di qualcosa che non è mai stato visto fisicamente con gli occhi ma che
possono essere evocate dall’immaginazione creativa e servire da modelli per
indagare la realtà.
In una conferenza del 1870, e
cioè qualche anno prima della pubblicazione delle Inquiries di Galton, il
fisico John Tyndall accennò proprio a queste immagini più astratte: «Nello
spiegare i fenomeni scientifici, di solito noi ci formiamo immagini mentali dell’ultrasensibile
... Senza l’esercizio di questa facoltà, la nostra conoscenza della natura
sarebbe una mera invenzione di coesistenze e sequenze».
v
Il
filosofo Colin McGinn scrive che «le immagini non sono semplicemente variazioni
di piccola entità e trascurabile interesse teorico sul tema della percezione e
del pensiero; esse sono una robusta categoria mentale che deve essere indagata
indipendentemente ... Le immagini mentali ... dovrebbero essere aggiunte come
una terza grande categoria ... ai due pilastri della percezione e della
cognizione».
v
Alcune persone, sono chiaramente dotate di straordinarie
capacità di visualizzazione in questo senso astratto, ma la maggior parte di
noi si serve di una qualche combinazione di visualizzazione esperienziale e di
visualizzazione astratta.
Temple Grandin è una formidabile
visualizzatrice:
v
Se
qualcuno osserva che è una giornata piovosa, lei vede, con l’occhio della mente, sempre la stessa “fotografia”
della pioggia, la sua rappresentazione iconica e letterale della pioggia. La
sua memoria visiva estremamente accurata le permette di muoversi mentalmente all’interno
dello stabilimento che sta progettando, osservandone i dettagli strutturali
ancor prima che esso venga costruito. Da bambina dava per scontato che tutti
pensassero in quel modo, e adesso l’idea e adesso l’idea che alcune persone non
siano in grado di evocare immagini visive a proprio piacimento la sconcerta.
Quando le dissi che io non sono capace di farlo, mi chiese: «Ma allora come fai
a pensare?»
v
Lev Vygotskij – il grande psicologo
russo – usava spesso l’espressione «pensare in puri significati». Io non riesco
a decidere se si tratti di un’affermazione priva di senso o di una profonda
verità: è esattamente il tipo di barriera sulla quale finisco per incagliarmi
quando penso al pensiero.
L’immaginazione visiva suscitava
la perplessità dello stesso Galton:
Presentava una grandissima
variazione, e sebbene a volte sembrasse una componente essenziale del pensiero,
in altri casi pareva irrilevante. Da allora, il dibattito sull’immaginazione
mentale è stato caratterizzato da quest’incertezza. Wilhelm Wundt –
contemporaneo di Galton e uno dei primi psicologi sperimentali – riteneva,
guidato dall’introspezione, che l’immaginazione fosse una parte essenziale del
pensiero.
IX
Teorie
della percezione e dell’immaginazione
v
Altri sostenevano che il pensiero
fosse privo di immagini e consistesse interamente di proposizioni analitiche o
descrittive; quanto ai comportamentisti, non credevano nemmeno nel pensiero:
per loro, vi era soltanto il «comportamento». La sola introspezione era un metodo
di osservazione scientifica attendibile? Poteva produrre dati coerenti,
ripetibili e misurabili? Fu soltanto al principio degli anni Settanta che
questa difficoltà fu affrontata da una nuova generazione di psicologi. Roger
Shepard e Jacqueline Metzler chiesero ad alcuni soggetti di eseguire
mentalmente la rotazione dell’immagine di una figura geometrica - Essi
riuscirono a determinare, in questi primi esperimenti quantitativi, che la
rotazione di un’immagine richiede una specifica quantità di tempo,
proporzionale all’entità, in gradi, della rotazione. Una rotazione di sessanta
gradi, per esempio, richiedeva un tempo doppio rispetto a una rotazione di
trenta gradi, e una rotazione di novanta gradi richiedeva un tempo triplo. La
rotazione mentale aveva dunque una sua velocità, si svolgeva in modo continuo e
uniforme, e richiedeva uno sforzo come qualsiasi atto volontario. Stephen Kosslyn affrontò il tema
dell’immaginazione visiva da un’altra angolatura, e nel 1973
pubblicò
un articolo molto importante in cui metteva a confronto le prestazioni di
soggetti «visualizzatori» e «verbalizzatori» ai quali veniva richiesto di
ricordare una serie di disegni mostrati loro in precedenza. Secondo le ipotesi
di Kosslyn, se le immagini mentali avevano una natura spaziale ed erano
organizzate come figure, allora i «visualizzatori» sarebbero dovuti riuscire a concentrarsi
selettivamente su parte dell’immagine, e sarebbe occorso loro del tempo per
spostare l’attenzione da una parte all’altra di essa. Il tempo necessario, pensava
Kosslyn, sarebbe stato proporzionale alla distanza che l’occhio della mente
doveva percorrere.
v
Kosslyn
riuscì a dimostrare che in effetti tutte e tre le ipotesi erano corrette, e
questo indicava che le immagini visive erano essenzialmente spaziali,
organizzate nello spazio come figure.
v
Il suo lavoro si è dimostrato
immensamente fecondo, ma il dibattito sul ruolo dell’immaginazione visiva
continua, giacché Zenon Pylyshyn e altri hanno affermato che la rotazione
mentale delle immagini e la loro «scansione» potrebbero essere interpretate
come il risultato di operazioni non visive e puramente astratte nel cervello/mente.
Negli anni Novanta, Kosslyn e
altri erano ormai in grado di combinare gli esperimenti sull’immaginazione con
le scansioni PET e fMRI: una procedura che consentì loro di mappare le aree del
cervello attivate quando i soggetti erano impegnati in compiti che richiedevano
la produzione di immagini mentali. Essi
scoprirono che tale produzione di immagini attivava, nella corteccia visiva,
molte delle aree coinvolte anche nella vera e propria percezione, dimostrando
così che l’immaginazione visiva non era una realtà soltanto psicologica ma
anche fisiologica, e che si serviva di almeno alcune delle stesse vie neurali
usate anche dalla percezione visiva.
I
dati della fMRI dimostrarono anche che i due emisferi del cervello si comportano
in modo differente nei confronti dell’immaginazione. Infatti l’emisfero
sinistro era impegnato nella formazione di immagini generiche e categoriche.
Il
fatto che la percezione e l’immaginazione condividano una base neurale comune
nelle parti visive del cervello è indicato anche da studi clinici : Fu
dimostrato che un’emianopsia può tagliare a metà non soltanto il campo visivo,
ma anche l’immaginazione visiva.
Le
prime osservazioni cliniche sui paralleli esistenti fra la percezione e
l’immaginazione visive possono essere fatte risalire ad almeno cent’anni or
sono. Nel 1911, i neurologi inglesi Henry Head e Gordon Holmes considerarono danni
che non portavano alla cecità totale, ma alla formazione di punti ciechi nel
campo visivo. Interrogando meticolosamente i loro pazienti, essi scoprirono che
analoghi punti ciechi, localizzati esattamente nelle stesse posizioni, si
manifestavano anche nell’immaginazione mentale dei pazienti.
Nel
1992 Martha Farah e i suoi colleghi riferirono di un paziente che aveva perso
la visione su un lato e nel quale anche l’angolo visivo dell’occhio della mente
si era ridotto in modo perfettamente sovrapposto alla perdita percettiva.
La
dimostrazione più convincente del fatto che almeno alcuni aspetti dell’immaginazione
e della percezione visive possono essere inseparabili mi si presentò quando,
nel 1986, fui consultato da un pittore diventato completamente cieco al colore
in seguito a un trauma cranico. L’improvvisa incapacità di percepire i colori
fu per lui un motivo di sofferenza, ma ancor più dolorosa fu la totale
incapacità di evocarli nella memoria o nell’immaginazione.
Mentre
sembra chiaro che ai livelli superiori la percezione e l’immaginazione
condividono alcuni meccanismi neurali, tale condivisione è meno evidente nella
corteccia visiva primaria, e da qui deriva la possibilità di una dissociazione
come quella che ha luogo nella sindrome di Anton. In questa condizione i pazienti,
che hanno un danno occipitale, sono ciechi ma credono di vedere ancora. La
sindrome di Anton è a volte attribuita alla conservazione di una certa capacità
di immaginazione visiva nonostante il danno occipitale, e al fatto che i
pazienti scambiano questa immaginazione per percezione. Potrebbero tuttavia
essere in gioco altri meccanismi, più strani. La negazione della cecità – o,
più accuratamente, l’incapacità di rendersi conto d’aver perso la vista – è molto
simile a un’altra «sindrome da disconnessione», nota come anosognosia:
Con
questa patologia, che fa seguito a un danno del lobo parietale destro, i
pazienti, oltre alla consapevolezza del loro lato sinistro e della metà
sinistra dello spazio, perdono anche quella dell’esistenza di qualsiasi problema.
Kosslyn
e altri, ipotizzarono che la percezione visiva dipenda dall’immaginazione
visiva, poiché abbina ciò che l’occhio vede – l’output retinico – alle immagini
memorizzate nel cervello.
La
“duplicità del pensiero” : Raffigurazione e descrizione.
Secondo
questi scienziati, il riconoscimento visivo non potrebbe aver luogo senza tale
abbinamento. Kosslyn ipotizza inoltre che la produzione di immagini mentali possa
rivelarsi essenziale per il pensiero stesso, e più in particolare per attività quali
la risoluzione di problemi, la pianificazione, la progettazione e la
teorizzazione. Conferme di ciò arrivano da studi nei quali si è chiesto ad
alcuni soggetti di rispondere a domande che sembrerebbero fare appello all’immaginazione
visiva oppure di risolvere problemi che possono essere affrontati o per mezzo dell’immaginazione,
o per mezzo di un pensiero più astratto, non visivo.
Kosslyn
parla qui di una duplicità nel modo di pensare degli esseri umani,
contrapponendo l’uso di rappresentazioni «raffigurative» dirette e non mediate,
e rappresentazioni «descrittive», analitiche e mediate da simboli verbali o di
altra natura. A volte, in base alle sue ipotesi, una modalità sarà favorita
rispetto all’altra, a seconda dell’individuo e del problema da risolvere. Altre
volte entrambe le modalità procederanno insieme (sebbene probabilmente la
raffigurazione superi la descrizione) e altre volte ancora si potrà cominciare
con una raffigurazione – ovvero con immagini – per poi proseguire verso una
rappresentazione puramente verbale o matematica.
A
proposito del suo pensiero, Einstein descrisse questo processo: «Le entità psichiche che sembrano servire da
elementi del pensiero sono piuttosto alcuni segni e immagini più o meno chiare che
possono essere riprodotti e combinati “volontariamente” ... Gli elementi sopra
menzionati sono, nel mio caso, di tipo visivo, e a volte muscolare. Bisogna
cercare laboriosamente le parole convenzionali e gli altri segni solo in uno
stadio secondario». D’altro canto, nella sua Autobiografia, Darwin sembra
descrivere, nel proprio pensiero, un processo molto astratto, quasi
computazionale: “La mia mente crea leggi generali da ampie collezioni di
fatti”. (Darwin non dice, qui, che aveva uno straordinario occhio per la forma
e il dettaglio, un’enorme capacità osservazionale e raffigurativa – e che erano
proprio tali capacità a fornire i «fatti».)
L’immaginazione,
la consapevolezza visiva e la soglia della coscienza
Che
dire, allora, di persone che come me non riescono a evocare nessuna immagine
visiva volontariamente?
Noi
abbiamo immagini, modelli, e rappresentazioni visivi nel nostro cervello:
immagini che consentono la percezione e il riconoscimento visivi ma essi sono
al di sotto della soglia della coscienza.
Dominic
ffytche, che ha studiato la neurobiologia della visione cosciente – la
produzione di immagini e di allucinazioni come pure la percezione –, crede che
la consapevolezza visiva sia un fenomeno-soglia. Studiando pazienti con
allucinazioni visive tramite la fMRI, egli ha dimostrato che si può avere prova
di un’insolita attività in una parte specifica del sistema visivo, ma che essa
ma che essa deve raggiungere una certa intensità prima di affiorare alla
coscienza: prima che il soggetto «veda» effettivamente.
La
sensibilità potenziata e le allucinazioni secondarie alla compromissione
visiva.
Esami
di risonanza magnetica funzionale della corteccia visiva, effettuati in
situazioni di cecità, non mostrano alcuna diminuzione dell’attività. Si osserva
anzi proprio il contrario: essi rivelano un potenziamento dell’attività e della
sensibilità. La corteccia visiva, deprivata degli input visivi, è ancora un
buon territorio neurale disponibile, che reclama una nuova funzione:
l’immaginazione visiva, gli altri sensi, la percezione e l’attenzione uditive o
tattili.
La
sensibilità potenziata che si riscontra nella corteccia visiva quando essa è
deprivata dei suoi normali input percettivi può anche predisporla a forme di
immaginazione invasive e moleste. Una porzione significativa di coloro che
perdono la vista – stando alla maggior parte delle stime, dal 10 al 20 percento
– va poi soggetta all’emergere di immagini involontarie, o di vere e proprie
allucinazioni, di un tipo intenso (sindrome di Charles Bonnet).
Il
potenziamento dei sensi superstiti può aumentare la sensibilità a sottilissime
sfumature rilevabili nell’espressione verbale e nel modo di presentarsi degli
altri:
Può
agevolare la disponibilità a cogliere stati di tensione o di ansia dei quali
perfino i diretti interessati non erano consapevoli. La cecità può implicare la
pura disponibilità all’ascolto degli stati emozionali altrui, un ascolto non
distratto dalle apparenze visive, che la maggior parte degli individui impara a
contraffare.
v
“I ciechi dalla nascita dotati di udito normale non odono solo i suoni:
essi possono udire gli oggetti quando sono abbastanza vicini e possono anche
«udire» qualcosa della forma dell’ambiente nelle immediate vicinanze ... Quando
camminando per la strada passo oltre certi oggetti che non emettono suoni, ad
esempio un lampione lungo il marciapiede, io posso udirli; li odo come cose che
occupano spazio e ispessiscono l’atmosfera, e ciò quasi certamente è dovuto a
come questi oggetti assorbono o rimandano il rumore dei miei passi e anche
altri piccoli suoni ... Di solito, infatti, non è necessario far risuonare
qualcosa per avere una percezione, ma farlo aiuta. Gli oggetti all’altezza
della testa probabilmente modificano ... le correnti d’aria che arrivano al mio
viso e ciò mi aiuta a percepirli.”
Martin Milligan
v
Guardare
era essenziale, perché non vi è percezione senza azione: non si vede se non si
guarda.
v
Il sogno
Si potrebbe supporre che i ciechi
congeniti non siano in grado di avere alcun tipo di immaginazione visiva,
poiché non hanno mai avuto alcuna esperienza visiva. Eppure, a volte, essi
raccontano di avere, nei loro sogni, elementi visivi chiari e riconoscibili.
Helder Bértolo e i suoi colleghi di Lisbona, in un affascinante articolo
pubblicato nel 2003, raccontano di aver confrontato soggetti con
cecità congenita e soggetti normalmente vedenti, trovando nei due gruppi una
«attività visiva equivalente» durante il sogno (sulla base dell’analisi
dell’attenuazione delle onde alfa elettroencefalografiche). Al risveglio, i
soggetti non vedenti erano in grado di disegnare le componenti visive dei
propri sogni, sebbene avessero una ridotta capacità di ricordare questi ultimi.
Si conclude pertanto che:
“Le
persone con cecità congenita hanno, nei loro sogni, contenuti visivi.”
Oggi disponiamo di prove sempre
più numerose sull’interconnessione e sulle interazioni straordinariamente
ricche esistenti fra le diverse aree del cervello; ne consegue che è difficile
affermare la natura esclusivamente visiva, uditiva, eccetera, di qualsiasi cosa.
Il mondo dei ciechi può essere particolarmente ricco di quegli stati intermedi
– intersensoriali, metamodali – per i quali non esiste un linguaggio comune.
Il
contenuto visivo del tatto
“Il
fatto che un elemento di conoscenza sia a tal segno sepolto nel senso (o nei
sensi) da cui è stato percepito per la prima volta, per me vuol dire che non
sono sempre sicuro della natura visiva o non visiva della mia immagine. Il
problema è che le immagini tattili della forma e della consistenza degli
oggetti sembrano spesso acquisire anche un contenuto visivo; oppure non si
riesce a stabilire
se la forma tridimensionale presente nella memoria sia rappresentata
mentalmente da un’immagine visiva o tattile. E quindi, anche dopo tutti questi
anni, il cervello non riesce a capire da dove attinge le cose”.
X
Il potere
evocativo e creativo del linguaggio
In che misura il linguaggio, che
è un dipingere con le parole, riesce a fornire un sostituto della vista reale,
o dell’immaginazione visiva pittorica?
Le persone vedenti hanno accesso
a un senso, a una modalità di conoscenza, che ai non vedenti sono negati. Ma le
persone con cecità congenita, possono avere (e di solito hanno) esperienze
percettive ricche e varie, mediate dal linguaggio e da un’immaginazione di tipo
non visivo.
“Il
linguaggio può a volte sostituirsi all’esperienza o alla conoscenza dirette.”
Milligan
È
stato spesso notato che i bambini con cecità congenita tendono ad avere una
memoria superiore e ad essere verbalmente precoci. Possono sviluppare una tale
fluenza nella descrizione verbale di volti e luoghi, da insinuare un dubbio sulla
propria reale cecità non solo negli altri, ma forse anche in se stessi.
Gli
scritti di Helen Keller, sorprendono per la loro nitida qualità visiva.
v
Arlene
Gordon scoprì che per lei il linguaggio e la descrizione erano sempre più importanti;
essi stimolavano le sue facoltà di immaginazione visiva come non avevano mai
fatto prima e, in un certo senso, la mettevano in condizione di vedere. «Mi piace
viaggiare» mi raccontò. «Quando ci sono andata, io ho visto Venezia». Mi spiegò
che i suoi compagni di viaggio le descrivevano i luoghi, e lei poi si costruiva
un’immagine visiva desumendola da quei dettagli, dalle sue letture e dai suoi
stessi ricordi visivi. «Le persone vedenti si divertono a viaggiare con me» mi
disse. «Io faccio loro delle domande, e così loro osservano e vedono cose alle
quali altrimenti non avrebbero fatto caso. Troppo spesso le persone vedenti non
vedono proprio nulla! È un processo reciproco: arricchiamo vicendevolmente i
nostri mondi.»
Qui
c’è un paradosso, un paradosso bellissimo, che io non riesco a risolvere. Se
davvero esiste una differenza fondamentale fra esperienza e descrizione, fra
conoscenza diretta e mediata del mondo, come mai il linguaggio riesce a essere
così potente? Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può
consentire quello che, in linea di principio, non dovrebbe essere possibile.
Può
permettere a tutti noi – perfino a chi è cieco dalla nascita – di vedere con
gli occhi di un altro.
v
Bibliografia
L’
occhio della mente, Oliver Sacks, ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO, 2011