LINK

           

READERS

martedì 25 ottobre 2022

LIBRO DIGNITÀ DI MICHELE VITTI

 

 

 





DIGNITÀ     

THINK TWICE        

 

 

MICHELE VITTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIGNITÀ      THINK TWICE        

©  2022  Michele Vitti

Data di pubblicazione: 22/11/2022

 

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

 

ISBN: 9798365129856

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sito dell’autore

 

colorfulsharing.blogspot.com

 

 

 

 

 

 

INDICE

 

p.

LA TESI                                                                                                        

 

Tesi bibliografica

con argomenti personali autografi 

Principi di relatività ontologica                                             

Elementi autografi dell’autore Michele Vitti                               

Un senso della lettura                                                                                                                    

Istanti prioritari, istanti concorrenti                                                                       

e l’universo del secondo.

La teoria della marginalità                                                                

L’aleatorietà del maybe                                                                                                                        

L’elastico del rispetto                                                                                                                                                               

Il contributo                                                                                                                                                               

Umiltà                                                                                                                      

Il pensiero puro                                                                                                                                                     

Poesia                                                                                                                                                                    

L’ordine caotico - Pedagogia relazionale e                                           

Spersonalizzazione

La relazionalità coevolutiva                                                                                                

a                                                                                                                   

I tre mindset attitudinali replicativo percetttivi                                                        

Le calamite relazionali                                                                         

La pagina 15. Il presentismo                                                            

 

 

LA TESI

 

BEYOND ≠

L’UNITÀ DELLA PACE DEI CONTRARI

 

La tesi di TESI II

Si propone qui una unione interculturale, una fusione olistica delle eccentricità culturali affinché sia raggiungibile un equilibrio di convivenza pacifica tra diversi ed un sistema fondato sulla reiterata coevoluzione delle relazionalità tra le diverse singolarità - pertanto in principio vi deve sussistere una reciproca considerazione ontologica delle singolarità - l’idea che la singolarità abbia diritto di dignità di esistenza - in secondo luogo l’impegno reciproco affinché ciascuna delle singolarità plasmi la sua qualità affinché possa combaciare con le diversità delle altre singolarità di mindset per compendiarle la semplice immagine qui esposta è di un puzzle tridimensionale la cui morfologia è ontologia essenziale dei suoi elementi sia consonante con le altre parti.

Come quando due bolle aventi morfologia sferica sfiorandosi connubiano modificando reciprocamente la morfologia e creando una superficie in comune di morfologia discoidale.

 In terzo luogo sussiste il principio di equilibrio valoriale delle idiosincrasie che implica che non vi siano singolarità che nella qualità di misura valoriale divengano monopolizzanti rispetto alle altre.

In quarto luogo sussiste il principio di tutela autonoma e eteronoma delle idiosincrasie, in questo punto si argomenta che ciascun singolare mindset sia al contempo tutelante della propria autonomia ed insieme curativo, non minorativo e non cancerogeno per le altre singolarità di mindset o per le essenze stesse scrigni di tali mindset idiosincratici -

 

pertanto esemplifichiamo che le singolari idiosincrasie in relazione alle droghe (il cui uso è abuso è fondante il cortocircuito del mindset della persona che sceglie queste sostanze - effetto cancerogeno del mindset) o alle violenze di variabile qualità (violenza ontologica - assassinio, violenza sessuale-stupro) siano in antinomia ontologica con la esistenza e la sopravvivenza del sistema stesso - giungiamo alla considerazione che le idiosincrasie “Auto-distruttività”, “distruttività” “annichilimento” consistano nella unica eccezione della regola di tutela e di salvaguardia delle idiosincrasie - pertanto caratterizziamo tali mindset come devianze nocive al sistema olistico di buona collaborazione ed unione delle diverse mentalità. L’esempio più semplice è esemplificato dall’avere luogo di un proiettile nel cuore - in atto un oggetto alieno che compromette la funzionalità del sistema ambientale cuore.

Innoviamo una verità - ciascun mindset ha pertanto funzione ambientale - di accoglienza di idiosincrasie dissimili o simili, ed ha funzione implementativa di un altro mindset - ambiente.

Una seconda verità da tutelare è che il valore universale olistico del sistema che abbraccia diverse idiosincrasie non sia monopolizzante rispetto a ciascuna delle singole sottocategorie idiosincratiche sino ad arrivare alle singolari mentalità di una persona.

Pertanto vale la possibilità equivalente che una idea conformista del sistema influenzi il singolo e che questo singolo abbia la autorità aprioristica di influenzare e rivoluzionare il sistema. Questo principio si fonda e si avvale sulla analogia ontologica tra macrocosmo e microcosmo -

La influenza ambientale del singolo sul sistema.

In atto vi è un universo nel mindset di una singola mente analogamente alla struttura ontologica universale del mindset  olistico del sistema - pertanto un universo ha diritto di influenzare un secondo universo in quanto ad analogia ontologica valoriale.

 

 

Il sistema macrocosmico è dipendente dalle singolarità che ne compongono l’olismo – le discrepanze sociali in grande scala sorgono dalle incomprensioni procrastinate e non sanate relazionali individuali.

Le guerre in larga scala, come le incomprensioni relazionali in piccola scala esistono perché le differenze sono percepite come devianze, con il concetto ontologico di idiosincrasia si rispettano le differenze come fondanti l’opportunità di un luogo culturale di espansione e di miglioramento non a dispetto delle differenze di mindset stimate come virus da debellare, bensì in grazia delle differenze di mindset e attitudinali. Affinché ciò sia possibile questo luogo culturale (mediante il sentimento di identità idiosincratica comune a tutti gli uomini e donne indifferentemente dalle proprie diverse singolarità religiose, politiche, economiche, culturali...) può andare oltre il proprio limite di mentalità locale per abbracciare le diversità di mindset dislocati nel tempo e nello spazio rispetto al proprio.

Immagino un mondo in cui le diverse divinità del tempo si abbracciano intorno a ciascuna singola persona ed a ciascun singolo essere vivente affinché sia salvaguardata la sua esistenza e le sue dignità e vitalità. Sicché quando una persona di una singolare cultura religiosa ne incontra una seconda con una diversa cultura religiosa – esse possano identificarsi – immedesimarsi e provare cosentimento, empatia, ri-conoscenza e sentimento di compartecipe appartenenza.

Che il mindset spirituale-religioso annetta insieme al politeismo la possibilità dell’ateismo e l’agnosticismo. Affinché l’olismo del pensiero non sia radicale – dispotico non deve essere una dicotomia tra il credo del proprio mindset che è non credo di mindset dissimili.

 

 

 

 

Per assolvere a questa questione è fondante la esistenza della sfumatura di mindset spirituale dell’agnosticismo insieme alla esistenza del proprio credo, perché la esistenza del “Non sapere” ammette la flessibilità mentale garante della possibilità del “potere essere diversamente dal mio pensiero-credo” e secondo la medesima dinamica la assoluzione di una questione importante – ciascun contesto idiosincratico deve essere relazionale non dirimente – la ontologica esistenza del divino decadrebbe in ultima priorità valoriale se ad esempio il divino sia causa fondante prima di incomprensioni relazionali, poi di divisioni, di imposizioni di mindset, e nei casi più gravi di guerre religiose.

Ma come potremmo allora conciliare un ateo con un credente con un credente ossessivo-intollerante-dispotico, con un agnostico e con un politeista.

Essi si conciliano secondo queste argomentazioni

Premessa

La idiosincrasia olistica di ciascuna mente è il connubio di diverse sfumature di mentalità devianti – the inner mindset è un flusso alternante di contraddizioni che determinano il loro implemento, la loro manifestazione o la loro latenza.

Pertanto sussiste la relazione combinatoria delle contraddizioni – in colui che si aggettiva nella qualità di ateo permane latente la idea del divino, esiste un credente latente, esiste un agnostico in lui nel sintomo di ciò che nominiamo incertezza conoscitiva, esiste un politeista in quanto a riconoscimento latente della molteplicità. Scegliere significa prendere una posizione mentale ambientale – ovvero scelgo di essere qui e non lì, ma non significa che il lì non esista, che io non abbia avuto esperienza e conoscenza del lì, che qualcuno mi abbia raccontato o scritto come sia il lì, pertanto sussiste la possibilità che io mi sposti mentalmente dal qui al lì.

Esiste la scelta dello zero in paragone alla consapevolezza della possibilità dell’uno e della molteplicità

 

ASCOLTIAMO NOI STESSI PER COMPRENDERE IL PROSSIMO

 

La idiosincrasi ambientale spirituale

LA TOLLERANZA IDIOSINCRATICA

 

Ciascuno ha una idea soggettiva di Dio, connubio di idee conformiste-soggettive – letture di testi sacri autografi ancestrali e letture di più recenti scritti filosofico-religiosi – ascolto delle scuole spirituali – profonda riflessione sorgente dai flussi di coscienza e subconscio, la idea intersoggettiva di Dio è in relazione all’istinto di self – resilience psicologico-attitudinale – l’idea di Dio come garante della origine di una substruttura dei sistemi contestuali di ‘buona morale relazionale’ e di ‘esistenza di un senso di vita’, la preghiera come metodo di dialogo con il sé nel luogo dell’anima  – la unicità della intimità della spiritualità.

L’onniscenza sarebbe la chiave della tolleranza idiosincratica – poiché l’onniscente annette nel suo mindset il connubio di ogni diversità, pertanto quando entra in relazione con ciascuna diversità può instaurare un clima di cosentimento intellettivo razionale e spirituale. ciascuno ha una idea soggettiva di Dio, connubio di idee conformiste-soggettive.

PERTANTO sussiste il teorema secondo cui la percezione di diversità idiosincratica non sia Confutazione della idiosincrasi percepiente, bensì connubiante di essa.

PERTANTO un ateo non è in essere a confutare l’esistenza di Dio verso un credente. Approfondiamo.

 

 

 

 

 

 

La resilienza idiosincratica

La vacillazione, la normalità, la radicalità

Ciascuna fede, fiducia, credo nel continuum ha variabili intensità – vi sono periodi della vita in cui si crede intensamente in una realtà, vi sono situazioni che determinano che la fiducia in una realtà contestuale vacilli, periodi di labilità di un mindset contestuale nei quali si perde la speranza e la fiducia nella implementazione di una singolare idiosincrasi contestuale, in questi periodi si è più influenzabili e meno influenzanti nell’ordine attitudinale-dialogico di certi contesti.

Pertanto possono esistere periodi in cui l’ateo sia credente appoggiandosi ad un credo, periodi in cui il credente monoteista non trovi le risposte alle sue necessità ontologiche nelle singolarità ontologiche di una religione e vada cercando nel “lì” di altre culture religiose le sue risposte. Periodi in cui l’agnostico sia per sua ontologica essenza condotto ad ascoltare il credente per colmare la sua incertezza e parallelamente periodi in cui il credente radicale conduca lui stesso a confrontarsi con l’agnostico o con l’ateo per ristabilire il suo equilibrio di normalità e non sbilanciamento radicale della sua mentalità –

poiché il margine della incertezza è il luogo del mutamento e del movimento di pensiero che permette il divenire del pensiero a coloro la cui mentalità resterebbe cristallizzato nell’immobile pensiero radicale.

Ma perché un credente può compendiare la mentalità di un ateo essendo una ricchezza valoriale-ontologica per lui (1) e perché un ateo può compendiare la mentalità di un credente essendo una ricchezza valoriale-ontologica per lui. (2)

Allora riflettiamo insieme sulla mentalità di un ateo.

Un ateo riflette se medesimo nella percezione della non esistenza ontologica del divino.

 

 

La concezione tipica di un ateo potrebbe essere questa –

“Il pensiero di Dio mi presenta a dirimpetto del vuoto.

Allora il mio dio è il nulla poiché quando stavo soffrendo solo, il nulla mi abbracciò non dio, e dal nulla trassi ispirazione e energia. “

In un ateo il sistema di self-resilience è autonomo, non è eterno o, è indipendente, non è dipendente da realtà esteriori, come ad esempio il divino. Pertanto non si appoggerebbe alla preghiera nei periodi di fragilità ontologico-esistenziale, bensì ad una autoinduzione di Rehab la cui fonte olistica è compiutamente in sé stesso, nelle sue realtà e potenzialità essenziali.

Allora giungiamo alla conclusione che nei periodi di vita di vacillazione della fede di un credente, in cui lo stesso credente non può ricondurre la sua resilienza al divino, l’ateo dona al credente gli strumenti conoscitivi di resilienza indipendente necessari affinché il credente divenga nuovamente forte di sé stesso nonostante in questo periodo il lume della sue fede spirituale sia flebile. Al disorientamento delle ombre di un credente in un sole che sta tramontando – un uomo che sa vedere nel buio lo può orientare e aiutare.

(2)

La argomentazione del motivo per cui un credente possa connubiare la mentalità di un ateo dipende dalla possibilità che il credente colmi il vuoto della non credenza dell’ateo, pertanto nella possibilità in cui l’ateo non abbia alcun punto di riferimento, il credente accorre a lui condividendo con lui la realtà del punto di riferimento della sua fede.

(3) abbiamo già argomentato perché l’agnostico può essere una ricchezza per il credente radicale, perché il primo ristabilisce l’equilibrio normale del disequilibrio della degenerazione di radicalità di pensiero.

 

 

 

(4) Parallelamente il credente radicale può essere il lume per il buio del profondo nonsense dell’agnostico, seppur in un clima di rispetto ideologico e di non imposizione dispotico di mentalità.

La tolleranza delle diversità idiosincratica e ha evidente relazione con la teoria della marginalità, ovvero la realtà secondo cui il non essere empie l’essere. In relazione con una idea positiva della utilità marginale.

Istintivamente riconduciamo il luogo marginale del “non essere “ come negazione dell’essere di una realtà – innestando una mentalità della accoglienza dell “è” e del sacrificio, disistima e rifiuto del “non è” in quanto a riconoscimento percettivo di una devianza rispetto alla normalità  dell’ “è” – impariamo allora che il nostro cervello elabora la flessibilità della accoglienza e della tolleranza sulla base della frequenza di esistenza di una realtà fenomenologica – una realtà che si verifica nel continuum, nella quotidianità è più accolta di una realtà la cui manifestazione sia discreta, ovvero che si verifichi raramente – allora nominiamo

Essere la frequente realtà, ovvero la realtà che si manifesta reiteratamente e frequentemente, mentre nominiamo non essere la realtà nuova e rara.

Conformismo e pluralità 

È per questa analisi che adduciamo alla pluralità di opinione analoga la caratterizzazione di normalità e alla minoranza di pensiero il carattere di dissonanza e di devianza.

L’illusione della dissonanza.

Tuttavia dovremmo sensibilizzare il nostro mindset sulla base del principio che non sia il valore della molteplicità il discriminante valido a realizzare la dicotomia tra molteplicità (Essere)pura e normale e singolarità, minoranza e novità (Non essere) devianza anormale.

 

 

 

Sulla base della decontestualizzazione una realtà dissonante ad una seconda può essere riconosciuta consonante a questa realtà.

La mentalità secondo cui non solamente il “non essere” abbia relazione con l’essere ma che il “Non essere” abbia una identità ontologica valevole quanto l’essere – in atto la dignità del “Non essere” come ciò che manca all’”essere” in ottemperanza della teoria della marginalità. Il luogo del “Lì” è il sogno sotteso alla esperienza di coloro che sono “Quì”-.

Se ti chiedessi di NON pensare ad una realtà a cosa penseresti?

Curioso vero? Penseresti proprio a tale realtà.

Allora la denominazione della differenza è un focus della nostra attenzione in quanto a riconoscimento  di una dissonanza discreto in un andamento continuum, la goccia che crea le venature della quiete delle acque del lago, o il tinnìo del cadere della goccia che interrome la calma del silenzio.

Dovremmo dedicare allora valore alle realtà che destano magicamente la nostra istintiva e subconscia attenzione.

La curiosità smuove la noia

 L’esistenza dell’altro è lo spirito motore della volontà che estende la mano verso le realtà che non siamo e che non abbiamo.

Proviamo ora ad estendere la riflessione della pace tra le eccentricità religiose alla pace tra le eccentricità culturali, politiche, economiche, razziali, di genere, amicali-sessuali-affettive, gerarchico- istituzionali, nell’ottica della implementazione e ascendenza valoriale delle gerarchie fragili e subordinate a complemento, non a danno, delle gerarchie superne –

L’umiltà delle gerarchie superne per l’olistico miglioramento comunitario.

Si conclude nella critica sociale delle gerarchie superne in difetto attitudinale di non rispettare il principio di equilibrio valoriale delle idiosincrasie.

 

 

ARGOMENTI COSTITUTIVI DELLA TESI

 

 

 

 

 

 

 

 

PRINCIPI DI RELATIVITA’ ONTOLOGICA

 

 

 

 

LE IDIOSINCRASI E LE SANE NEVROSI

 

OLTRE IL LIMITE DI MENTALITA’ LOCALE

 

LA NORMALITA’ DELLA DEVIANZA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Premessa

I concetti qui argomentati sono relative e caratterizzanti la persona, pertanto sono oltre la distinzione di genere tra i due sessi ed insieme appartengono e descrivono le strutture di mindset che appartengono ad entrambi i sessi, questa appartenenza testimonia una analogia di mindset idiosincronico tra i due sessi – Tuttavia questa riflessione non confuta importanti studi che argomentano che nell’analogia dell’olismo della struttura idiosincronica generale personale vi siano differenze di genere in fondamentale relazione con la morfologia corporea umana e con la sessualità, è proprio il carattere di differenzazione che adduce la unicità individuale idiosincronica che è garante della possibilità che vi siano fondamentali differenze che si possono categorizzare e unificare rispettivamente nel polo femminile e nel polo maschile, allora due categorie caratterizzate sia da differenze sia da analogie di idiosincrasia – Semplificando, ciascuna singola persona poiché unica possiede idiosincrasi, nevrosi buone o devianze di pensiero e attitudinali uniche che distinguono tale persona dalle altre, la sostanza ed il meccanismo intellettivo è pertanto unificante la distinzione tra genere, vi è una analogia strutturale del sistema di mindset tra uomo e donna, in più le donne poiché femmine possiedono devianze di pensiero e attitudinali analoghe alle altre donne e gli uomini poiché maschi possiedono devianze di pensiero e attitudinali analoghe agli altri maschi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il concetto di “IDIOSYNCRASY“

 secondo accademiadellacrusca.it

A distinctive way of thought or behaviour that someone possesses.

 

LA DEFINIZIONE CONTEMPORANEA

Alcuni nostri lettori (Giulia C., Angelo M. da Valencia, Francesco P. da Chicago) avvertono uno scarto non facilmente decifrabile tra l’accezione corrente più comune di idiosincrasia (una singolare e spiccata ‘avversione’ per qualcosa o qualcuno) e il significato etimologico del termine; Stefano V. chiede se l’aggettivo più corretto per indicare chi è “affetto da idiosincrasia” sia idiosincratico oppure idiosincrasico.

Nell’uso contemporaneo più frequente e comune il termine idiosincrasìa esprime una ‘forte avversione per qualcosa o qualcuno’, una ‘ripugnanza esasperata’, una profonda insofferenza fino a una ‘forma di rifiuto assoluto, di incompatibilità radicale, di repulsione’ (definizioni di Zingarelli 2020, Devoto-Oli 2020, Sabatini-Coletti 2008, accanto al significato specialistico medico).

La definizione contemporanea di idiosincrasi testimonia i caratteri del nostro essere di essere unici e diversi. Come premesso l’etimologia del termine idiosincrasi esclude la qualità di inconciliabilità, qualità che ha assunto questo termine nel processo evolutivo della concezione del termine, il significato etimologico di idiosincrasi che non esclude la compatibilità tra diversi è in aperta analogia con l’argomento di conciliabilità e MESCOLANZA tra SINGOLARI diversi, la tesi di questo documento.

LA DEFINIZIONE ETIMOLOGICA

Il termine idiosincrasia è un prestito dal greco antico idiosynkrasía, parola composta dal prefisso idio- (dall’aggettivo ídios ‘proprio, particolare, privato, personale’, e anche ‘distinto, singolare, insolito’) e dal sostantivo sýnkrasis (con cambio di terminazione) ‘mescolanza’, ‘temperamento’.

 

CONSIDERAZIONI MEDICO-PSICOLOGICHE DEL

TERMINE IDIOSINCRASIA: LA MEDICINA UMORALE

Il suo significato letterale era di ‘mescolanza individuale di ‘umori’, di ‘particolare temperamento’, ‘costituzione’, secondo la medicina umorale: se la discrasia è la disomogenea mescolanza delle singolarità costitutive di temperamento psicologico che provoca la malattia, l’idiosincrasia è la peculiare condizione dell’organismo di un singolo essere umano, in cui la predominanza di un umore, di una singolarità costitutiva di temperamento psicologico, senza arrivare a un disequilibrio patologico, determina tuttavia la predisposizione ad alcune malattie, l’aspetto fisico e caratteriale e condiziona i comportamenti individuali.

 

La individualità della cura

Galeno attribuisce il termine alle scuole mediche rivali (la parola è attestata in Sorano di Efeso, medico esponente della scuola metodica, nella prima metà del II sec.), con le quali polemizza, perché trascurano le idiosincrasie dei singoli, e falliscono nella cura, mentre il trattamento deve essere appropriato allo stato del paziente nella sua individualità.

Tolomeo descrive le idiosincrasie come i tratti di fondo, le caratteristiche naturali tipiche di ogni individuo.

La complessione.

 

La nozione di complexio ‘complessione’, per indicare la natura psico-fisica di un individuo.

IDIOSINCRASIA E INDISPOSIZIONE ATTITUDINALE

LA DIVERSA REATTIVITA’ DI CIASCUN SINGOLO ALLE REALTA’ RELAZIONALI E NATURALI DELL’AMBIENTE ESTERIORE

 

 

 

ll vocabolo è inserito tra le Voci (lasciate fuori dal Vocabolario della Crusca) di Giovan Pietro Bergantini (1745) ancora come “temperamento, e proprietà dei corpi”. Con il progressivo distacco dalla teoria degli umori assistiamo a un primo movimento semantico della parola: da ‘condizione’ particolare, specifica di un organismo e di un organo al significato di ‘disposizione’ (sfavorevole), di ‘reattività’ (patologica) a qualcosa. Sono i trattati e l’uso medico prima e i dizionari medico-scientifici poi a veicolare il secondo significato: nei repertori lessicali si comincia a intendere l’idiosincrasia come una:

 “indisposizione particolare che determina in alcuni individui […] fenomeni differenti […] da quelli che accadono nel maggior numero degli uomini” (Dizionario classico di medicina interna ed esterna, o di chirurgia e d’igiene pubblica e privata, composto dai signori Adelon, Andral, Beclard et al., prima traduzione italiana [dal francese] di Mosè Giuseppe Levi, 1831-1840).

Attestano già un significato analogo i dizionari di grecismi di Aquilino Bonavilla e Marco Aurelio Marchi (1819-1821) e del solo Marchi (1828-1829), il vocabolario Tramater (1829-1840) e il Panlessico italiano diretto da Marco Bognolo (1839), dove l’idiosincrasia è una “particolare organica avversione o suscettibilità a risentirsi per l’azione di certi agenti esterni, che per la maggior parte degli uomini sono invece utili e piacevoli”. Insomma, la parola indica una irregolarità, un’incompatibilità sintomatica.

IDIOSINCRASIA COME UNICITA’ SINGOLARE DI AFFEZIONE PSICHICA E COME SANA NEVROSI

Nel corso del secolo il termine va progressivamente diffondendosi: è attestato nella quinta edizione del Vocabolario della Crusca (vol. 8, 1889) come “abito o costituzione propria e particolare di ciascun individuo”, registrato nel Novo dizionario universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi (1887-1891) come “disposizione individuale a risentire di certi effetti e agenti”.

 

IDIOSINCRASIA NEVROTICA, ALLERGIA

L’introduzione del concetto di allergia (1906) da parte del pediatra viennese Clemens von Pirquet, nei suoi studi sulla febbre, permette di comprendere meglio una serie variegata di fenomeni patologici, prima classificati come antipatie o idiosincrasie e ora interpretabili come manifestazioni allergiche. L’ipotizzato legame tra reazioni allergiche, idiosincrasiche e tratti psicologici individuali (fino allo squilibrio mentale) ha così ricondotto, per una parte del Novecento, a quadri clinici di idiosincrasia alcuni disturbi psichiatrici e ha mantenuto in uso il termine soprattutto nel vocabolario della psichiatria per indicare disordini depressivi, fenomeni di nevrosi o di insana fobia (idiosincrasia nevrotica, fobica).

IDIOSINCRASI E FATALITA’

La fatalità è una proprietà del subconscio agente la singolarizzazoine attitudinale e di pensiero:

Si introduce il concetto di “Idiosincrasia nevrotica sana” il quadro non clinico, normale consonante con i tratti psicologici di devianza unica di pensiero caratterizzante l’unicità essenziale strutturata sulle realtà esperienziali, le singolarità caratteriali, il subconscio singolare caratterizzato da fatalità.

 

 

IDIOSINCRASIA NEVROTICA SANA E IPERSENSIBILITA’ INDIVIDUALE

Nel linguaggio medico moderno idiosincrasia ha assunto dunque per estensione il significato di ipersensibilità individuale.

 

 

 

 

 

 

 

IDIOSINCRASIA RELAZIONALE, L’ATTRAZIONE DEI DIVERSI

 

Se è vero che l’individuo si accoppia di preferenza al suo contrario (la “legge della vita”), ciò nasce dal fatto che esiste un orrore istintivo di esser legato a chi esprime i nostri stessi difetti, le nostre idiosincrasie, ecc. La ragione è evidentemente che difetti ed idiosincrasie, scoperti in chi ci è vicino, ci tolgono l’illusione - prima da noi nutrita - che fossero in noi singolarità scusabili perché originali (Cesare Pavese, 21 maggio 1940, da Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952).

Tra l’ultima parte dell’Ottocento e il primo Novecento il vocabolo attrae non solo diversi scrittori e letterati (Vittorio Imbriani, Giuseppe Chiarini, Gian Pietro Lucini, Giovanni Papini ecc.), ma si diffonde anche nei giornali, che assorbono novità lessicali e le propagano, soprattutto in ambito politico-istituzionale: così “chi governa il paese sappia prescindere dalle personali idiosincrasie” (“La Stampa”, 13 settembre 1911).

 

IDIOSINCRASIA E TENDENZA

LIBERALISTA-ANARCHICA

Edmondo De Amicis nell’Idioma gentile (1905), “ce n’è una che vale per cento: l’idiosincrasia. Le declamazioni d’una liberale e civile idiosincrasia. C’è chi ne va matto”.

IDIOSINCRASIA, RIVENDICAZIONE DEL SE’ IN RELAZIONE AD ALTRI SE’

L’estensivo atteggiamento di rifiuto (che non si materializza in odio) veicolato dall’idiosincrasia, si può verificare per un oggetto, un concetto astratto o una persona, ma anche verso, a, nei confronti di, da, riguardo a, con, di, contro, rispetto a qualcosa o qualcuno, oppure, come incompatibilità o contrasto, tra due referenti: ciò avviene in disparati contesti d’uso, dall’ambito politico-economico a ciascun altro ambito relazionale.

In altre lingue la parola non ha avuto questa specifica evoluzione semantica, con connotazione negativa. In inglese, per esempio, oltre al significato medico storico e corrente (costituzione fisiologica; reazione farmacologica inattesa e avversa), il termine idiosyncrasy indica il ‘temperamento’ individuale, un tratto distintivo della personalità, una ‘peculiarità’, un’attitudine o un comportamento particolare, proprio di un singolo o di una collettività (cfr. l’Oxford English Dictionary). Un significato dunque più neutro, che denota gusti e preferenze, includendo predisposizioni e stravaganze.

LA POSSIBILITA’ DI ADATTIBILITA’ CONTESTUALE DEL TERMINE IDIOSINCRASIA TESTIMONIA LA SUA CORRELAZIONE CON LE SINGOLARITA’ ONTOLOGICHE UMANE

L’adattabilità del termine al contesto, ora alla stregua di tecnicismo medico, ora come sinonimo di ‘intolleranza’, ora come ‘originalità peculiare’, con margini di soggettività.

 

Questi usi e significati, anche antitetici, convivono, generando talvolta ambiguità di comprensione: la corretta interpretazione dipenderà dal contesto d’uso, dalla consapevolezza linguistica del parlante o dello scrivente, del destinatario o anche del traducente.

Il termine mostra inoltre una certa predisposizione a essere applicato ad altri linguaggi specialistici, anche per influsso angloamericano, da un maggiore a un minore grado di (pseudo)tecnicità: in economia l’idiosincrasia rappresenta il “fattore esogeno che influenza una particolare variabile e nessun’altra” (Alessio Moneta, s.v. idiosincratico, nel Dizionario di economia e finanza Treccani 2012, poi in Dizionario Treccani 2014): transazione idiosincratica, rischio o shock idiosincratico sono espressioni legate a eventi non macroeconomici, ma si riferiscono, e ne dipendono, alle variabili specifiche della singola azienda o attività finanziaria; nell’ambito della gestione dei beni culturali indica l’intrinseca specificità del bene (monumento, luogo ecc.).

Le caratteristiche della sua natura localizzata (posizione, accesso, legame indissolubile con il territorio), considerate in chiave economica per la sua fruizione.

Le idiosincrasie linguistiche si riferiscono alla creazione di parole o a usi linguistici particolari di singoli parlanti (idioletto), di gruppi ristretti, di una determinata zona o comunità, che attribuisce loro un significato diverso da quello socialmente condiviso; il linguaggio idiosincratico è una caratteristica sintomatica di disturbi autistici. In ambito sociologico e antropologico l’insieme dei caratteri di una popolazione (idiosincrasia nazionale) porta alla costruzione dello stereotipo, mentre l’idiosincrasia sociale riflette i comportamenti e le abitudini dipendenti dal condizionamento dall’ambiente, dagli spazi e dal contesto culturale; dal punto di vista psicologico ciò può portare, tra conformismo e personalizzazione, rispetto o sovvertimento di codici etici, a idiosincrasie nell’aspetto e nell’atteggiamento (tatuaggi, abbigliamento insolito). In campo letterario e artistico le idiosincrasie di un autore ne rappresentano i furori, le ossessioni e i demoni, lo stile riconoscibile.

Le consuetudini strutturali e linguistiche, e in sintesi anche il suo genio e il suo estro.

Per comunicare davvero occorre mettersi in gioco, gettare sulla scena sé stessi - la propria biografia, le proprie emozioni, i propri idiosincratici umori - anche un po’ rischiando (Filippo La Porta, “Corriere della Sera”, 19 novembre 2009).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’IDIOSINCRASIA PER LE COSE PIU’ NORMALI –

LA DEVIANZA DEL VALORE

DI MAGGIORANZA NORMALITA’

L’idiosincrasia rappresenta il proprio temperamento caratteriale, la radice delle nostre più intime inclinazioni, che emergono, nelle loro sfaccettature, nell’atteggiamento e nell’interazione con l’esterno: ogni relazione, priva o meno di immunità, nella sua ambivalenza può rivelarsi armonica o conflittuale, e non sempre facile può essere capire se il nostro sentire è un bisogno o una mania. Ognuno di noi è (e si considera, forse non senza una punta di compiacimento) “naturalmente strano”: la singolarità può condurre talvolta a incomprensioni e scivolare, come recitava una canzone di qualche anno fa, “verso l’idiosincrasia per le cose più normali”**.

 

*Giovanni Nencioni, Autodiacronia linguistica: un caso personale, in La lingua italiana in movimento. Atti degli Incontri del Centro di studi di grammatica italiana (Palazzo Strozzi, 26 febbraio-4 giugno 1982), Firenze, Accademia della Crusca, 1982, pp. 7-33 (pubbl. anche in “Quaderni dell’Atlante lessicale toscano”, 1, 1983, pp. 1-25)

 

LE IDIOSINCRASI VELATE e la difficoltà di conoscenza del prossimo.

La realtà del nostro essere sconosciuti, anche tra conoscenti, è più vera e probabile della possibilità di conoscerci.

“Non si può mai conoscere davvero una persona, neppure un parente, a volte. Le persone ti mostrano quello che vogliono farti vedere.”

Da come gli altri si comportano con noi non dobbiamo desumere e apprendere chi siamo noi, bensì chi sono loro.

Questa proposizione descrive la realtà secondo cui la idiosincrasi attitudinale sia manifestazione del sé indifferentemente dalla catena delle reciprocità attitudinali relazionali causa-effetto.

Distinguiamo tra idiosincrasi di pensiero e attitudinali, le idiosincrasi attitudinali sono la rivelazione delle idiosincrasi di pensiero. Ma le idiosincrasi attitudinali sono una manifestazione di alcune, non di tutte le idiosincrasi di pensiero.

La mediazione di purificazione del sentimento di odio è un esempio di questa dinamica, può accadere infatti che una persona provi sentimenti di odio ma che li celi in se stessa così da manifestare attitudini buone e benevolenti in evidente dissociazione con l’idiosincrasi del suo pensiero.

 

“E’ noto infatti che i più frenetici ribelli in teoria sono la gente più serena e più quieta nei rapporti con gli altri e si appagano delle audacie del proprio pensiero senza mai tradurlo in azione. ”

La lettera scarlatta, Hawthorne

 

SIAMO ONTOLOGICAMENTE IDIOSINCRATICI

 

LA IMPREVEDIBILITA’ ATTITUDINALE IN RELAZIONE ALLA VARIAZIONE ISTANTANEA DELLA IDIOSINCRASI DI PENSIERO INDIVIDUALE

Sintomi e cause delle decontestualizzazioni sincroniche e del subconscio. Lettura di “Tesi”.

“Viviamo nell’idea che – quando salutiamo una persona – la ritroveremo esattamente uguale a prima. Facciamo fatica a pensare che basta un secondo a creare un’ombra sul viso, a sconvolgere un destino, a ribaltare quello che siamo. Siamo anime in movimento e, nel tempo di un sospiro, siamo già diversi da noi.”

Letizia Cherubino

“Riemergere da se stessi è tanto più difficile quanto più si è profondi.”

Michela Murgia

 

 

L’INCONTRO TRA LE IDIOSINCRASI DEL MALATO E DEL CURANTE

L’AUTONOMIA DEI SANI E L’AUTONOMIA DEI MALATI

(Fabrizio Turoldo)

{

Il principio di autonomia in medicina

Il processo di riconoscimento della coscienziosità del paziente da parte del medico

1.

Tale processo di trasferimento del principio di autonomia dall’etica giuridica all’etica medica è stato

particolarmente intenso nella seconda metà dell’800, quando la comparsa dell’anestesia chirurgica ha iniziato a sollevare gravi problemi di consenso informato. L’anestesia chirurgica, infatti, veniva inizialmente usata non solo per evitare il dolore, ma anche per vincere la resistenza dei malati contro le operazioni. I medici del secolo scorso, com’è infatti noto, ritenevano che il rifiuto di una cura efficace manifestasse la palese incompetenza del paziente e che, dunque, fosse lecito procedere, per il bene di quel paziente, contro la sua volontà.

2.

Il fatto, comunque, che decise in modo irreversibile dell’imprescindibilità del diritto all’autonomia fu il nazismo. Al processo di Norimberga (1946) in cui si dichiara e si legittima il carattere cruciale della regola del consenso informato fornito dal paziente, a salvaguardia del valore imprescindibile della sua autonomia.

3.

Il suggello definitivo al riconoscimento del valore dell’autonomia è infine venuto dalle battaglie civili negli Stati Uniti, degli anni ‘60 e ‘70. I movimenti civili sorti in quegli anni avevano tra le proprie parole d’ordine l’individualità, la libertà, l’autonomia e la creatività.

 

Nascevano, in quel clima, movimenti che avrebbero portato avanti importanti battaglie sociali e civili: il movimento di liberazione della donna, il movimento ecologico, il movimento in difesa dei consumatori, il movimento per i diritti dei malati, ecc. In Europa le battaglie sessantottine si concentrarono soprattutto nelle università, sulla scia delle manifestazioni del Maggio francese. Tutte queste battaglie avevano come comune denominatore la rivendicazione del diritto all’autonomia, contro il paternalismo e l’autoritarismo che avevano caratterizzato sino ad allora la classe docente.

 

LA BIUNIVOCITA’ RELAZIONALE TRA MEDICO E MALATO, UNA EQUILIBRALIZZAZIONE VALORIALE E DI ESSENZE INTELLETTIVE NELL’AMBITO DELLE CURE PICOLOGICO-PSICHIATRICHE – L’ARRICCHIMENTO ESSENZIALE-CULTURALE RECIPROCO TRA MALATO E CURANTE

Il valore dell’autonomia del malato

L’autonomia è necessaria all’umanizzazione della medicina.

Il principio che ha guidato la prassi medica sin dal suo nascere non è stato il principio di autonomia, ma piuttosto quello di beneficenza. Nel corso della storia, inoltre, il principio di beneficenza è stato inteso secondo diverse curvature interpretative, alcune delle quali si sono poste in aperto contrasto con il principio di autonomia. Si può sinteticamente dire che nella cultura greca, latina e cristiano-medievale è prevalsa un’interpretazione paternalistica del principio di beneficenza, dalla quale ci si è liberati solo nella

tarda modernità, quando si è iniziato a valorizzare il punto di vista del malato, prendendo in considerazione la sua rivendicazione dell’autonomia decisionale. Grazie a questo cambiamento di prospettiva il malato oggi non è più percepito come un semplice paziente, ossia come colui che deve subire passivamente l’azione del medico, ma come una persona il cui punto di vista va ascoltato e preso nella massima considerazione.

Questa mutazione nell’etica e nella prassi medica costituisce una delle grandi conquiste della nostra epoca: essa va nella direzione di una giusta ed opportuna valorizzazione dei rapporti intersoggettivi anche nella pratica clinica.

 

Il rapporto tra medico e paziente non è più inteso in modo univoco, secondo una direzione senza ritorno, che va solo dal medico al paziente e non viceversa, ma secondo un movimento biunivoco, in base al quale medico e paziente devono essere capaci di ascoltarsi e di vestire l’uno i panni dell’altro.

TO CURE => TO CARE

La parola “cure“ implica un disequilibrio valoriale essenziale tra agente attivo curante e subente passivo curato, la parola “care” riequilibria tale disquilibrio – in quanto a responsabilità e possibilità reciproche di avere cura sia del malato nei confronti del curante, sia del curante nei confronti del malato – Tale possibilità si esprime nella realtà della decontestualizzazione esperienziale in cui le dinamiche di resilienza, forza attitudinale che si assumono essere possedute dal curante che supporta e conforta le debolezz cognitive del malato – in mindset di decontestualizzazione vi possono esistere labilità psicologiche in cui il precedente curante è più gracile e fragile del precedente malato – in atto può esistere un reciproco arricchimento tra curato e curante, poiché decontestualizzando il curante può essere “curato” dal suo stesso curato. Tale tesi è supportata dall’argomento della idiosincrasi nevrotica come devianza di pensiero e attitudinale comune a ciascuna persona. Invariabilmente dai suoi studi, dalle sue esperienze, dalla sua tempra caratteriale e proprio in grazia di queste ed altre singolarità si relativizzano le dinamiche relazionali curante-curato e soggetto autonomo decisionale-soggetto eteronomo che subisce la decisione.

Ascoltare il paziente significa non renderlo oggetto di un anonimo e impersonale trattamento medico.

 

Il paziente che viene ascoltato dal suo medico ha la sensazione di non essere solo un corpo-oggetto che deve essere curato (in inglese “to cure”), ma una persona, intesa nella sua globalità, di cui ci si deve prendere cura (in inglese “to care”).

Da questo punto di vista si deve dire che la valorizzazione dell’autonomia del paziente costituisce uno degli elementi indispensabili nel processo di umanizzazione della medicina.

Il principio di autonomia è coerente con l’odierna epistemologia medica Il mutamento nell’impostazione delle basi logiche della medicina, verificatosi nel secolo scorso, costituisce un altro elemento fondamentale a favore dell’autonomia. La medicina ha subito infatti, nel corso del ‘900, una rivoluzione interna che l’ha condotta a ripensare le sue basi epistemologiche e, di conseguenza, il modo di intendere il rapporto medico-paziente.

LA LOGICA PROBABILISTICA-STATISTICA-INTERSOGGETTIVA DELLA CURA – IL DIALOGO ASSRTIVO TRA MALATO E CURANTE

Questa impostazione conduceva inevitabilmente al paternalismo, perché il medico credeva di sapere molto bene quello che doveva fare e di non avere alcuna necessità di consultarsi con il paziente. Più recentemente invece la logica determinista è stata sostituita, in medicina, da una logica probabilistica e statistica.

Oggi si ritiene infatti che per la gran parte delle malattie molte siano le cause possibili e, di conseguenza, che molte siano anche le cure adottabili. I casi che escono dalle vecchie norme deterministe risultano essere sempre più frequenti, al punto che l’eccezione, ossia il caso dubbio, diventa sempre più la regola. Il medico è costretto a prendere delle decisioni in situazioni di incertezza, basandosi, perlopiù, sul calcolo delle probabilità. Stando così le cose si rende assolutamente necessario coinvolgere nella cura gli stessi pazienti, esponendo loro un ventaglio di possibilità diagnostiche, di prognosi e di terapie sul caso, in modo che essi stessi diventino responsabili, assieme al medico, di una scelta che è sempre rischiosa.

LA RESPONSABILIZZAZIONE DEL MALATO COME SOGGETTO AUTOREVOLE DELLA PROPRIA SITUAZIONE DI VITA E IDIOSINCRASIA ATTITUDINALE

3.3. L’autonomia costituisce il fine stesso della medicina

Gli esseri umani non nascono autonomi, ma lo diventano, attraverso un processo in cui hanno un ruolo fondamentale le relazioni con gli altri. Sono gli altri che ci aiutano ad acquisire autonomia. Questo è particolarmente evidente nell’educazione dei figli: gli si insegna a mangiare da soli, a camminare, a parlare, a riconoscere i pericoli del mondo esterno, perché, ad un certo momento, possano rendersi autonomi e farsi la loro vita. Gli psicologi insegnano infatti che è un cattivo genitore quello che impedisce ad un figlio di rendersi autonomo, creando con lui un rapporto di tipo simbiotico. Oltre alla famiglia, però, esistono anche altre istituzioni sociali deputate alla promozione dell’autonomia degli individui: lo scopo della scuola, ad esempio, è quello di formare soggetti autonomi, che siano in grado di sviluppare pienamente le loro potenzialità umane. Ma, allora, non si può dire lo stesso anche della medicina?

Se la malattia è qualcosa che ci impedisce di essere autonomi, di realizzare i nostri fini e di perseguire la piena realizzazione delle nostre potenzialità umane, ne consegue che la medicina, che combatte la malattia, promuove, al tempo stesso l’autonomia. Affermare questo significa legare l’autonomia alla medicina in una

maniera più organica e significativa rispetto a quella usuale, che vede semplicemente l’appello all’autonomia come fondamento di vincoli esterni al modo in cui la medicina viene praticata. Noi invece continuiamo a vedere la nozione di autonomia come un fattore che si è sovrapposto dall’esterno all’impresa medica, in quanto estraneo alla sua “essenza” e persino in potenziale conflitto coi fini tradizionali della medicina.

 

 

Con il rischio che la nozione, e le pretese normative su di essa fondate, vengano non solo marginalizzate - come nella pratica medica spesso accade - ma anche espunte, come inutili e persino dannose, dalla relazione medico-paziente. Negli ospedali americani e, ora, anche se in misura minore, anche da noi, l’autonomia del paziente viene invocata e rispettata in funzione “difensiva”, per evitare guai con la magistratura. Il consenso informato, ad esempio, non costituisce spesso uno strumento che consente di valorizzare l’autonomia del paziente, ma un documento da firmare (qualcuno lo definisce ironicamente “consenso firmato”) per mettere al riparo il medico da eventuali ripercussioni penali.

 

LA DIGNITA’ LA INTEGRITA’ E LA ‘SANITA’’ DEL MALATO, IL DIRITTO DI AUTOREFERENZIAITA’ DELLA VOLONTA’

. Ciascuno sa qual è il suo bene e la collettività non può far prevalere un proprio diverso criterio di bene su quello del singolo individuo.

Primo limite:

La concezione individualistica dell’autonomia presente in alcune prospettive della letteratura bioetica contemporanea. Il diritto all’autonomia costituisce uno dei fondamenti imprescindibili della morale, perché senza autonomia non c’è soggetto morale e senza soggetto morale non c’è etica. L’utilitarismo è stata una delle correnti filosofiche che ha sottolineato con più forza questo concetto, facendo del principio di autonomia il proprio vessillo. Per gli utilitaristi l’autonomia viene concepita come una specificazione di un più generale diritto a non subire sofferenze inutili e non volute. L’autonomia, secondo questi autori, sarebbe giustificata dal fatto che essa protegge i migliori interessi del soggetto a cui viene riconosciuta.

 

 

 

Ciascuna persona, anche se talvolta agisce imprudentemente, sa, meglio di chiunque altro, quali siano i propri interessi; per questo, la sua autonomia non può essere conculcata per alcun motivo, nemmeno per il suo presunto bene. L’autonomia, secondo gli utilitaristi, dovrebbe generare, nel lungo periodo, un comportamento che, nel suo complesso, sarà sicuramente conforme ai migliori interessi del soggetto che la esercita. Nella prospettiva utilitaristica non c’è, dunque, conflitto tra autonomia e beneficenza John Stuart Mill riteneva che lo stato non dovesse mai interferire con la libertà dell’individuo, nemmeno per un suo presunto bene oggettivo, ma solo per impedire danni a terzi.

Un’altra versione del principio di autonomia, basata sulla nozione di «integrità», è offerta da filosofo americano Ronald Dworkin, in contrapposizione alla tesi utilitarista, da lui definita «evidenziale». Secondo Dworkin la tesi utilitarista sull’autonomia non è condivisibile per il semplice fatto che il fine dell’autonomia spesso non è affatto quello di proteggere il bene dell’agente. Ci sono infatti delle persone che decidono in piena autonomia di sacrificare la propria vita per gli altri, oppure, molto più semplicemente, ci sono molte persone che fumano per una vita intera pur sapendo, fin dall’inizio, che fumare non è nel loro migliore interesse. Talvolta chi agisce autonomamente contro il proprio interesse viene persino lodato, se il suo è uno scopo altruistico. Per queste ragioni il fine dell’autonomia deve essere indipendente dalla tesi evidenziale secondo cui una persona generalmente sa qual è il suo migliore interesse meglio di chiunque altro. E, sempre per queste ragioni, un demente può ben aver diritto all’autonomia, anche se può sbagliarsi riguardo ai suoi migliori interessi. Dworkin propone una concezione dell’autonomia basata sull’integrità, piuttosto che sul benessere dell’agente che sceglie.

 

 

 

Ecco infatti come egli si esprime: «Il valore dell’autonomia deriva dalla capacità che viene in tal modo protetta: la capacità di esprimere il proprio carattere nella vita che si conduce (valore, impegni, convinzioni, interessi critici così come interessi di esperienza). Riconoscere un diritto individuale all’autonomia rende possibile l’autocreazione. Permette a ciascuno di noi di essere responsabile di dar forma alla propria vita secondo la propria coerente o incoerente, ma comunque peculiare, personalità. Ci permette di condurre la nostra vita, anziché essere trascinati da essa, cosicché ciascuno di noi possa essere, per quanto può renderlo possibile uno schema di diritti, ciò che ha fatto di se stesso. La concezione dell’autonomia basata sull’integrità (…) riconosce che le persone fanno spesso scelte che riflettono debolezza, indecisione, capriccio o evidente irrazionalità» Il limite delle due prospettive sopra esposte consiste essenzialmente nel loro individualismo. In entrambe manca una considerazione della dimensione relazionale della vita morale in cui il principio di autonomia si

Inserisce.

1 R. DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni di

Comunità, Milano 1994, p. 309.

Trascurando le implicazioni intersoggettive dell’autonomia i neoutilitaristi e Dworkin hanno perso di vista il significato originario che l’autonomia aveva acquisito nel pensiero di Kant, il quale aveva per primo fornito un’autentica dignità filosofica a questa nozione. L’autonomia a cui pensa Kant è infatti l’autonomia di una persona razionale, che vuole liberamente la legge morale universale e che dispone di ragioni morali universalizzabili per giustificare le sue opzioni.

 

 

 

 

Kant lega la figura dell’autonomia all’universalità della ragion pratica che si esprime nell’imperativo categorico, ossia nella legge intesa come «fatto della ragione» (Factum der Vernunft). Questo «fatto», però, non è inteso come un prodotto del singolo e della sua ragione, così come avviene nella tesi dell’integralità proposta da Dworkin, ma come un dato che la ragione deve assumere, ossia come qualcosa che trova la sua origine in un ordine universale esterno ai singoli individui empirici. Uno dei pilastri di questo ordine è l’uomo come fine, così come si afferma nella seconda delle tre formulazioni della legge morale esposte nella Fondazione della metafisica dei costumi: «Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre e a un tempo come fine, e mai semplicemente come mezzo». Ma, se l’autonomia deve esercitarsi guardando ad un fine, e se questo fine è anch’esso incondizionato, allora non si può dire che l’autonomia sia assolutamente incondizionata. Per Kant, infatti, noi siamo incondizionatamente autonomi solo al fine di trattare incondizionatamente gli altri come nostro fine. Per questo non c’è, in Kant, identità tra scelta individuale e scelta morale, e l’individuo non può mai essere norma a se stesso. Il filosofo Tom Beauchamp, scrive, a questo proposito, molto categoricamente che «ogni filosofia nella quale un diritto all’autonomia individuale può legittimamente superare i dettami dei principi morali oggettivi del dovere è aliena dalla teoria morale di Kant» La concezione individualistica dell’autonomia, secondo Beauchamp, «non è quella di Kant.

 

 

 

 

 

 

 

È attribuita a Kant in letteratura solo attraverso l’acritica confusione di un’ampia famiglia di idee associate all’autonomia nella contemporanea filosofia morale e del diritto: i diritti di libertà individuale e di privacy, la libera scelta, lo scegliere per sé, l’essere una persona unica, creare una propria posizione morale, assumere la responsabilità finale per le proprie idee morali, e simili»

Anche secondo Massimo Reichlin, «la nozione contemporanea di autonomia ha (…) radici individualistiche, rintracciabili in Hume, nella filosofia libertina e nella concezione milliana della libertà»

Un secondo limite:

L’ipertrofia cognitiva della nozione moderna di autonomia

L’autonomia a cui pensano i moderni è un’autonomia intesa in senso cognitivo: è l’autonomia di un soggetto adulto, sano, perfettamente in grado di intendere e di volere. Questa autonomia, così sbilanciata sul piano cognitivo, fonda, secondo alcuni, lo stesso concetto di dignità umana, quasi che non avesse più dignità chi, a causa di qualche malattia psicoinvalidante, non fosse più in grado di garantire un tale tipo di autonomia. Ecco che allora uno dei compiti più importanti per la bioetica, oggi, consiste proprio nel mettere in discussione un’autonomia viziata da una forte ipertrofia cognitiva, a partire dalla sfida lanciata al pensiero dalle malattie neurodegenerative.

T. BEAUCHAMP, Suicide and Eutanasia. Historical and Contemporary Themes, Kluwer

Academic, Dordrecht 1989, p. 214.

M. REICHLIN, Autonomia e responsabilità nella sfera procreativa, in Bioetiche in dialogo.

La dignità della vita umana e l’autonomia degli individui, Zadig, Milano 1999, p. 182.

 

 

 

 

LE FORME DI DIALOGO ALTERNATIVO PER VALORIZZARE LA DIGNITA’ DEL MALATO CON DIFFORMITA’ COMUNICATIVE.

Ho appunto prescritto “Difformità” comunicative, non “Disabilità” comunicative, argomentiamo:

Dobbiamo destrutturare l’idea che una forma dialogica alternativa che possiede il malato sia una disabilità nella accezione di giustificazione del non diritto di dignità essenziale del malato in quanto diverso dalla normale sanità – Si istaura allora un dialogo alternativo tra curato e curante, si parla e si impara una altra lingua, come l’inglese si adatta a parlare l’italiano con un italiano e un italiano si adatta a parlare l’inglese con un inglese. Quando un italiano e un inglese si incontrano e nessuno dei due è intelligente della lingua che non è in lui innata, ovvero nel caso in cui l’italiano non conosca l’inglese e l’inglese non conosca l’italiano, allora non può esserci interscambio culturale e reciproca interazione conoscitiva e comprensione. Ma la povertà è insita nella non intelligenza della lingua secondaria, non nella essenza della persona che comunica in quella lingua – L’inglese pronuncia parole intelligenti all’italiano, le cui parole intelligenti ed insieme l’intelligenza e la dignità umana della essenza dell’inglese sono inintelligibili per l’italiano poiché l’italiano non conosce la lingua inglese e viceversa se l’italiano pronunciasse parole intelligenti all’inglese e nel caso in cui l’inglese non sapesse l’italiano – giungiamo al punto della questione – Pensiamo al malato con difformità comunicativa come se fosse l’inglese che pronuncia parole intelligenti nella sua lingua – e al medico curante del malato come l’italiano che conosce molto bene l’italiano (Nel caso del medico il corredo intellettivo- culturale- esperienziale-attitudinale che gli appartiene) ma non conosce l’inglese, l’italiano deve imparare l’inglese come il medico deve imparare il linguaggio alternativo del curato –

 

 

Pertanto giungiamo alla evidenza che la precarietà dialogica appartiene al curante e non è per questo motivo che deve essere attribuita non dignità umana al curato che è intelligente della sua lingua proprio come l’inglese è intelligente dell’inglese. Ma estendiamo questa dinamica concettuale alla contestualizzazione dialogico culturale tra diversi, in questo caso non è la struttura di linguaggio, la lingua ad essere la variabile, bensì gli strumenti conoscitivi-culturali ad essere la chiave variabile – La relazione dialogica tra stoltezza-intelligenza – qui dichiareremmo allora che la stoltezza dell’intelligente risiede nella non comprensione valoriale e qualitativa della stoltezza dello stolto che è intelligente e saggio della sua stoltezza.

 

I malati terminali, i malati affetti da malattie neurodegenerative, come ad esempio l’Alzheimer, esprimono infatti un’autonomia non lineare, ma puntuale, un’autonomia del momento, un’autonomia residuale. L’attenzione a questo tipo di autonomia sviluppa in chi sta di fronte al malato una capacità di entrare responsabilmente all’interno di sistemi di comunicazione differenziati, che permettono di entrare in dialogo con il malato.

Ma come si fa, nel concreto, ad entrare in dialogo con chi non può più parlare, per cogliere questa forma residuale di autonomia? Quali modalità comunicative ci rimangono a disposizione in questi casi?

1)Una prima risposta ce la potrebbe dare una qualsiasi madre, perché ogni madre comunica intensamente con il suo bambino, anche se il piccolo non è in grado di parlare. Se il bambino piange, la mamma si rattrista con lui; se il bambino ride, la mamma gioisce con lui.

 

 

 

 

La mamma sa ascoltare, osservare, comunicare con le carezze, i baci, la mimica del volto. Il bambino non capisce le parole della mamma, ma la mamma gli parla, perché comunica attraverso il tono della voce, la dolcezza delle parole. Ma se la mamma fa questo con il figlio piccolo, non può fare altrettanto questo figlio quando, divenuto adulto, si trova ad accudire la madre malata? Non si tratta dello stesso tipo di comunicazione?

Alcuni metodi di dialogo alternativo.

2)Una risposta più articolata ed approfondita potrebbe venire dai testi di alcuni medici e psicologi che hanno studiato approfonditamente le modalità di comunicazione non verbale con soggetti che si trovano all’inizio o alla fine della vita.

Penso, ad esempio, al medico olandese, Frans Veldman, che ha ideato una pratica di approccio psicotattile a cui ha dato il nome di “aptonomia”, cioè “scienza dell’affettività espressa attraverso il contatto” (dal greco hapsis, “tocco” e nomos, “regola”). Veldman utilizzava questa tipo di approccio per favorire le relazioni tra i genitori ed il loro bambino, dal concepimento alla nascita, sino al periodo post-natale.

Da poco meno di vent’anni la disciplina ideata da Veldman è stata applicata con successo anche alla fase finale della vita. Una delle più strenue sostenitrici dell’utilità dell’approccio aptonomico anche alle fasi finali della vita è Marie de Hennezel, autrice de La morte amica.

M. DE HENNEZEL, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano 1998.

Lezioni di vita da chi sta per morire

 

 

 

 

 

 

Le analogie tra la fase finale e quella iniziale della vita sono infatti evidenti: sono questi i momenti in cui si è più fragili e vulnerabili, in cui la comunicazione e le relazioni con gli altri avvengono prevalentemente od esclusivamente attraverso il canale non verbale, in cui si ha più bisogno della cura e della presenza attenta ed amorosa degli altri. Le percezioni sensoriali sono al centro dell’affettività e l’affettività è amplificata nei momenti della vita in cui si è più vulnerabili. Nelle persone allettate le capacità percettive si acuiscono in modo del tutto particolare. Il contatto aptonomico, offrendo una conferma affettiva al soggetto, gli consente di acquisire una “sicurezza di base”, che mette in moto una serie di fenomeni psicofisici positivi, che possono modificare anche la capacità di rispondere alle malattie e di vivere il tempo del morire. Chi si pone al livello del malato è in grado di cogliere anche la sua autonomia residuale, autonomia che il malato comunica essenzialmente attraverso il linguaggio non verbale. Nella lingua tedesca esiste un espressione molto interessante e ricca, che definisce molto bene questo tipo di autonomia: “Die autonomie des Augenblicks” (L’autonomia del momento, dell’istante. L’autonomia che si offre a tratti, in modo puntuale). Augenblick (momento, istante, attimo), contiene in sé il termine “Blick”, ovvero sguardo, occhiata. Augenblick, dunque, è il momento che gli altri possono cogliere con lo sguardo, ma solo se il loro sguardo è allenato. Merleau-Ponty parla di una sorgente di autonomia che non emerge da ciò che io sono capace di percepire, ma dalla capacità che io ho di essere percepito. Allo sesso modo Paul Ricoeur parla di una “attestazione”, di una fiducia, nel nostro poter fare, che consiste nel riconoscimento e nell’approvazione che ciascuno di noi riceve da se stesso e dagli altri. Dunque, esiste una duplice fonte dell’autonomia: c’è l’autonomia che io riesco ad esercitare e c’è l’autonomia che gli altri mi riconoscono.

 

 

Questo discorso raffinato dei filosofi trova riscontri nella pratica quotidiana e anche nelle vicende di cronaca. Il caso Terry Schiavo, ad esempio, è il classico caso in cui si confrontano e si scontrano tra di loro due diverse concezioni dell’autonomia. Da un lato l’ex marito faceva riferimento ad una volontà espressa in un lontano passato, quando Terry era nel pieno delle sue capacità cognitive. Dall’altro lato c’erano i genitori, che facevano appello ad una diversa autonomia, che Terry esprimeva attraverso lo sguardo, il contatto fisico. Attraverso questa autonomia residuale Terry diceva di voler rimanere in vita, protraendo quel rapporto così intenso con i genitori che la accudivano. E allora a quale autonomia occorre dare ascolto, a quella in cui si esprime l’identità personale attuale, o a quella espressa da una identità personale che non appartiene più a quella persona? È possibile che una persona venga condannata a morte per una sentenza emessa da un’altra persona che non è più lei, e con cui lei non è più d’accordo?

La conclusione di quanto osservato sopra è che il malato apparentemente privo di autonomia non è un problema per se stesso, ma sono gli altri, che gli stanno accanto, che possono diventare un problema per lui, nella misura in cui non lo considerano più come una persona in grado di esprimere un autonomia residuale e come una persona meritevole di rispetto, anche quando non dovesse essere più in grado di percepire le ferite inferte alla sua autostima.

L’uomo, finché vive, è sempre unità di anima e corpo. Noi siamo abituati a una rappresentazione sempre contemporanea di tutto il corpo in tutta l’anima, ma ci sono invece degli stadi di oblio dell’anima, in cui l’anima resta sullo sfondo e il corpo rinuncia a parlare dei linguaggi, perché l’anima non gli è totalmente presente. Eppure anche questa è unità di corpo e anima.

 

 

 

 

La nostra cultura, purtroppo, ci porta ad una considerazione eccessiva per i fattori cognitivi. Sembra che, quando una persona non è più in grado di esprimere pensieri e parole (o non lo è ancora), essa non abbia lo stesso valore o non meriti lo stesso rispetto di chi è in grado di esercitare queste facoltà. Alcuni bioeticisti giustificano l’eutanasia, l’aborto e a volte persino l’infanticidio anche in base al minor valore attribuito alla vita di chi non esercita capacità cognitive e linguistiche

 

Quando ad una persona si spegne il cervello, non per questo si spegne anche il cuore, perché il cuore si perde solo con la morte.

 

}

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sitografia

http://www.provinz.bz.it/sanita/download/Turoldo-L-AUTONOMIA-NELLA-SALUTE-E-NELLA-MALATTIA.pdf

 

ESSERE SANI IN LUOGHI FOLLI

BY DAVID ROSENHAN

 

{

Se la sanità mentale e la follia esistono, come le riconosceremo?

Più in generale, vi è una gran mole di dati contrastanti sull’affidabilità, l’utilità, e il significato di termini come “sanità mentale”, “follia”, “malattia mentale”, e “schizofrenia” (1 ). Infine, come già nel 1934, [Ruth] Benedict suggerì: la normalità e l’anormalità non sono universali (2 ). Ciò che è considerato normale in una cultura può essere considerato abbastanza aberrante in un’altra. Perciò, le nozioni di normalità e anormalità potrebbero non essere accurate quanto la gente crede che siano.

Sollevare domande sulla normalità e l’anormalità non intende mettere in discussione il fatto che alcuni comportamenti sono devianti o anomali. L’omicidio è devianza. Così come lo sono le

allucinazioni. Né sollevare tali questioni nega l’angoscia personale che è spesso associata con la “malattia mentale”. L’ansia e la depressione esistono. La sofferenza psicologica esiste. Ma

normalità e anormalità, sanità mentale e pazzia, e le diagnosi che ne derivano potrebbero essere meno sostanziali di quanto molti credono che siano.

Il nocciolo della domanda se sia possibile distinguere tra i sani di mente ed i folli (e se sia possibile distinguere tra loro i vari gradi della follia) è una questione molto semplice: i tratti salienti che portano alla diagnosi risiedono nei pazienti stessi o negli ambienti e contesti in cui gli osservatori li incontrano? Partendo da Bleuler, e passando per Kretchmer, fino ai redattori del Manuale Diagnostico e Statistico rivisto della Associazione Psichiatrica Americana,  si è coltivata l’incrollabile convinzione che i pazienti presentino sintomi, e che questi sintomi possano essere classificati, e, implicitamente, che i sani di mente siano distinguibili dai folli.

 

LA RECENTE CONFUTAZIONE DELLA TESI SECONDO CUI “I sani di mente siano distinguibili dai folli.”

Recentemente, tuttavia, questa convinzione è stata messa in discussione. Basata in parte su considerazioni teoriche e antropologiche, ma anche filosofiche, giuridiche, e terapeutiche, è maturata la convinzione che la classificazione psicologica della malattia mentale sia, nel migliore dei casi, inutile, nel peggiore dei casi addirittura dannosa, fuorviante e spregiativa. Secondo questo punto di vista, le diagnosi

psichiatriche sono nella mente dell’osservatore, e non sono validi riassunti di caratteristiche

manifestate dall’osservato. NON SUSSISTE ANALOGIA ONTOLOGICA TRA LA PROSPETTIVA DEL GIUDICANTE E LA ESSENZA DEL GIUDICATO.

 

 

UN METODO DI DISCERNIMENTO TRA SANITA’ E

FOLLIA

 

Sarebbe proficuo, al fine di stabilire quale [tra le due ipotesi] sia più accurata, far ricoverare in

ospedale psichiatrico persone normali (ossia, persone che non soffrano, né abbiano mai sofferto, di sintomatologie psichiatriche gravi) e poi stabilire se la loro sanità mentale viene notata e, in tal caso, in che modo. Se la sanità mentale di simili pseudopazienti venisse sempre rilevata, ci troveremmo di fronte a una prova prima facie che una persona sana di mente può essere distinta dal contesto di follia in cui si trova.

 

 

 

 

 

LA QUALITA’ DELL’AMBIENTE

 

La normalità (e presumibilmente l’anormalità) è sufficientemente distinta da poterla riconoscere ovunque la si incontri, dato che accompagna la persona. Se, d’altro canto, la sanità mentale degli pseudopazienti non venisse mai scoperta, si solleverebbero serie problematiche per i sostenitori del modello diagnostico psichiatrico tradizionale. Dato che il personale dell’ospedale non era incompetente, che gli pseudopazienti si erano comportati altrettanto normalmente come quando erano fuori dal ricovero, e che non era mai stato suggerito prima che sarebbero dovuti stare in un ospedale psichiatrico, un tale esito inverosimile sosterrebbe l’opinione secondo cui la diagnosi psichiatrica rivela poco del paziente, ma molto circa l’ambiente in cui vi si imbatte il suo osservatore.

 

CONSIDERAZIONI PERSONALI E TESI opposta a tale documento come COMPORTAMENTI ATTUALI PATOLOGICI DEGLI ATTORI e simulazioni di sintomi di anormalità coincidenti e / o somiglianti e\o analoghi alle devianze attitudinali relazionali iconiche appartenenti all’ambiente clinico (Il documento a trattato dell’esperimento in cui gli attori non abbiano adottato comportamenti patologici, bensì sani)

La simulazione di attitudine normale e non anormale ha concorso nello smascheramento della sanità mentale, tuttavia sarebbe veramente avvenuto tale smascheramento nella possibilità in cui tali attori avessero simulato attitudini anormali somiglianti alle qualità devianti dell’ambiente stesso? –

 

 

 

 

 

La finzione simulativa proprio poiché realizzata sarebbe stata costitutiva della pluralità esperienziale e percettiva del personale dell’ospedale – in aperta tendenza e comprovazione di uno status di anormalità dell’attore sano e normale – pertanto comprendiamo che si sarebbe realizzato uno switch di status di sanità passato dell’attore ad uno stato di anormalità e di malattia – Pertanto si sarebbe stimata di considerevole valore la dinamica di idiosincrasi anormale presente dell’attore e meno la sua sanità passata

Un importante argomento è come la variabile della abilità di simulazione incida sulla realtàontologica del giudicato attore – La manifestazione di una attitudine deviante è la essenza della persona attore nonostante il suo mindset velato sia in dissociacione e in relazione di opposizione intenzionale con la attitudine? (Il sano che simula la attitudine malata è sano o è malato? QUALE MISURA VALORIALE ATTRIBUIAMO AL (PENSIERO O MINDSET) E QUALE MISURA VALORIALE ATTRIBUIAMO ALLA ATTITUDINE, QUALE E’ LA GERARCHIA VALORIALE TRA PENSIERO E ATTO NELLA ATTRIBUZIONE DI QUALITA’ ONTOLOGICA DI UNA ESSENZA: Chi ha una mentalità sana ma tuttavia agisce una attitudine difforme rispetto al suo mindset, ovvero una attitudine deleteriamente deviante si riconoscerebbe come deviato e malato. E colui/colei che possiede una mentaità, una categoria di pensieri devianti e malati ma attua iniziative attitudinali di normalità si riconoscerebbe come sano – Perché? Perché l’atto puro del pensiero, qualunque sia la sua qualità, è attitudinalmente neutrale – ovvero si rivela nella realtà con la immobilità dialogica e corporea, ovvero con una inazione, e la inazione è neutrale. Allora comprendiamo che la scelta medesima della simulazione è costituente della qualità attitudinale e quindi della rivelazione del sé come sano o malato.

In misura delle abilità di simulazione dell’attore è comunque difficile per l’osservatore essere a conoscenza delle realtà di pensiero ed intenzionali coincidenti ed in relazione con una data attitudine, è inoltre difficile comprendere se il pensiero sia antinonimico o sinonimico alla attitudine.

Premettiamo che si può agire in sincronia con l’atto del pensare.

La inazione può essere fonte ontologica di malattia?

Ma ora dobbiamo considerare il caso in cui il pensiero in relazione con la inazione e immobilità sia fonte di attitudine deviante e malata, quando? Ad esempio in tutti i casi in cui non si deve restare immobili, nei casi di istanti prioritari in cui il pensiero sia distrazione. La attribuzione di malattia ontologica si prescrive altresì in relazione agli effetti che la causa attitudinale inazione ha implicato. Ad esempio una inazione che ha implicato gravi ferite ad una persona – l’esempio iconico può essere l’investimento con una vettura.

 

Abbiamo pertanto argomentato che lo smascheramento della sanità degli attori non sarebbe avvenuto nel caso in cui gli attori avessero simulato negli ambienti di cura attitudini insane, in quanto avariazione ontologica ed essenziale degli stessi da persone sane a persone malate, le loro attitudini ne sarebbero state la prova, nonostante la loro mentalità fosse rimasta sana.

Abbiamo allora strutturato le tesi secondo cui:

Le diagnosi psichiatriche sono nella mente dell’osservatore come qualità di percezione attitudinale del curato (Indifferentemente dal mindset del curato se non in relazione tra l’influenza del suo pensiero nelle sue attitudini)

Se, d’altro canto, la sanità mentale degli pseudopazienti non venisse mai scoperta, si solleverebbero serie problematiche per i sostenitori del modello diagnostico psichiatrico tradizionale:

Nel caso prescritto la sanità mentale degli attori pseudo pazienti non sarebbe stata scoperta – se istituiamo la analogia tra il loro mindset sano e la suddetta sanità mentale entrambe velate dal velo della attitudine insana dissonante e antinonimica rispetto al loro mindset sano.

Tale esito si rivela allora non inverosimile e sostiene l’opinione secondo cui la diagnosi psichiatrica rivela poco del paziente, ma molto circa l’ambiente in cui vi si imbatte il suo osservatore.

 

 

LA REALIZZAZIONE DI QUESTO ESPERIMENTO

Questo articolo descrive un simile esperimento. Segretamente, otto persone sane di mente hanno ottenuto il ricovero in 12 diversi ospedali (6 ). Le loro vicissitudini diagnostiche costituiscono i dati della prima parte di questo articolo, mentre il resto è dedicato alla loro descrizione delle esperienze negli istituti psichiatrici. Troppi pochi psichiatri e psicologi — incluso chi ha lavorato in simili ospedali — si rendono conto di cosa voglia dire quest’esperienza. Raramente ne parlano con gli ex pazienti, forse perché diffidano delle informazioni provenienti dagli ex-matti. È probabile che chi ha lavorato negli ospedali psichiatrici si sia così tanto adattato al suo ambiente da essersi

desensibilizzato all’impatto con quell’esperienza. 

E quantunque vi siano state sporadiche relazioni di ricercatori sottopostosi al ricovero psichiatrico (7 ), questi ricercatori sono generalmente rimasti negli ospedali per periodi di tempo brevi, e spesso il personale ne era al corrente.  È difficile sapere in quale misura furono trattati come pazienti e non come colleghi ricercatori. Ciò nonostante, le loro testimonianze dall’interno dell’ospedale psichiatrico sono state preziose. Questo articolo estende quegli sforzi.

Gli otto pseudopazienti costituivano un gruppo variegato. Uno era un laureando in psicologia sulla ventina. I restanti sette erano più anziani e “affermati.” Tra di loro c’erano tre psicologi, un

pediatra, uno psichiatra, un pittore, ed una casalinga. Tre pseudopazienti erano donne, cinque erano uomini.

 

 

Tutti usarono pseudonimi, per evitare che le loro presunte diagnosi potessero causargli disagio in seguito. I professionisti della salute mentale dichiararono un’altra occupazione al fine di evitare trattamenti di riguardo da parte dal personale, vuoi per cortesia o per prudenza, verso colleghi in difficoltà.

Oltre alle difficoltà personali che lo pseudopaziente verosimilmente affronterà in ospedale, ve ne sono anche alcune legali e sociali che, abbinatamente, richiedono considerevole attenzione prima dell’ingresso. Per esempio, una volta ricoverato in un istituto psichiatrico è difficile, se non impossibile, essere dimessi con breve preavviso, nonostante la legge statale lo preveda. Al principio del progetto non prestai attenzione a queste difficoltà, né alle emergenze personali le situazionali che possono verificarsi, ma in seguito venne preparato un ordine di habeaus corpus per ciascun pseudopaziente che veniva ricoverato e garantimmo la reperibilità di un avvocato durante ogni ricovero. Sono grato a John Kaplan e Robert Bartels per i consigli e l’assistenza legale forniteci in materia.

Tranne nel mio caso (fui il primo pseudopaziente, e la mia presenza era nota all’amministrazione ospedaliera e allo psicologo capo e, per quanto ne so, a loro soltanto), il personale ospedaliero non era a conoscenza della presenza di pseudopazienti né della natura del progetto di ricerca.

I setting, gli ambienti

Similmente, anche i setting erano diversificati. Al fine di generalizzare i risultati, puntammo a ricoveri in ospedali vari. I 12 ospedali del campione si trovavano in cinque diversi stati della costa orientale ed occidentale. Alcuni erano vecchi e malandati, altri erano discretamente nuovi. Alcuni erano orienta alla ricerca, altri no. Alcuni avevano un buon rapporto tra personale e pazienti, altri erano piuttosto carenti di personale. Uno solo degli ospedali era esclusivamente privato.

Tutti gli altri erano sostenuti da fondi statali o federali o, in un caso, da fondi universitari.

Dopo aver chiamato l’ospedale per un appuntamento, lo pseudopaziente giungeva all’ufficio ammissioni lamentando di aver udito delle voci. Alla domanda su che cosa gli dicessero le voci,

rispondeva che erano perlopiù poco chiare, ma che secondo lui dicevano “vuoto”, “vano” e “tonfo.”

Le voci erano estranee e dello stesso sesso dello pseudopaziente. La scelta di questi sintomi fu adottata per la loro apparente somiglianza con sintomi esistenziali. Si suppone che tali sintomi derivino da dolorose preoccupazioni riguardo la percezione di mancanza di significato della propria vita. È come se la persona allucinata stesse dicendo, “La mia vita è vuota e vana.” La scelta di questi sintomi fu anche determinata dall’assenza nella letteratura di qualsiasi menzione di psicosi esistenziali.

 

Al di là della proclamazione di suddetti sintomi, della falsificazione del nome, dell’aspirazione professionale, e dell’attuale occupazione, non fu alterato nient’altro della persona, la sua storia, e le sue circostanze. Gli eventi biografici significativi degli pseudopazienti furono presentati come accaddero realmente. Compatibilmente con suddette falsificazioni, i rapporti con genitori e fratelli,

coniugi e figli, colleghi di lavoro e di studio, vennero descritti così com’erano, o erano stati.

Raccontarono delle proprie frustrazioni e turbamenti, così come delle gioie e soddisfazioni. Questi fatti sono importanti da tenere a mente. Come minimo, hanno esercitato una forte influenza sui risultati finali giocando a favore dello smascheramento della sanità mentale, dato che nessuna delle loro storie o comportamenti attuali era in alcun modo gravemente patologica.

Immediatamente dopo l’ammissione al reparto psichiatrico, gli pseudopazienti smisero di simulare qualsiasi sintomo di anormalità. In alcuni casi, vi fu un breve periodo di lieve nervosismo ed ansietà poiché nessuno degli pseudopazienti credeva che sarebbe stato realmente ammesso così facilmente.

In effetti, il loro timore comune era che sarebbero stati immediatamente smascherati come impostori e messi seriamente in imbarazzo. Inoltre, molti di loro non hanno mai visitato un reparto psichiatrico e anche coloro che lo avevano fatto, nutrivano genuina paura per ciò che gli sarebbe potuto capitare. Il loro nervosismo, quindi, era appropriato alla novità della situazione

ospedaliera, e scemò rapidamente.

A parte questo breve nervosismo, gli pseudopazienti si comportarono nel reparto così come si comportavano “normalmente”. Gli pseudopazienti parlavano agli altri pazienti e allo staff nelle

maniere che gli erano usali. Poiché in un reparto psichiatrico vi è insolitamente poco da fare, gli pseudopaziente tentarono di intavolare conversazione con gli altri. Quando il personale chiedeva loro come si sentissero, riferivano di star bene, che non esperivano più i sintomi. Seguivano le istruzioni dagli operatori, rispondevano alle chiamate per la terapia farmacologica.

Al di là delle attività messe a disposizione dal reparto, passavano il tempo a scrivere le proprie osservazioni sul reparto, i suoi pazienti e il personale. Inizialmente queste note vennero scritte “in segreto”, ma poiché divenne ben presto chiaro che a nessuno importava granché, furono in seguito scritte su fogli di carta standard e in luoghi pubblici quali il soggiorno. Non venne fatto alcun segreto di queste attività.

Gli pseudopazienti, pressappoco come i pazienti psichiatrici veri, entravano nell’ospedale senza una previsione di quando sarebbero stati dimessi.

 

A ciascuno di loro fu detto che sarebbe dovuto uscirne con le proprie forze, essenzialmente convincendo il personale che era sano di mente. Gli stress psicologici associati al ricovero erano notevoli, e tutti, tranne uno degli pseudopazienti, desideravano essere dimessi quasi subito dopo il ricovero. Erano dunque motivati non solo a comportarsi in modo sano, ma ad essere modelli di cooperazione.

Che il loro comportamento non fu affatto distruttivo è confermato dalle relazioni infermieristiche, che ottenemmo per la maggior parte dei pazienti. Questi rapporti indicano uniformemente che i pazienti erano “amichevoli”, “cooperativi” e “non esibivano segni di anomalia.”

La Sanità dei Normali Non È Individuabile

Nonostante “l’ostentazione” pubblica di sanità mentale, gli pseudopazienti non furono mai individuati. Tutti i ricoverati, tranne in un caso, con una diagnosi di schizofrenia.

È interessante notare che dei 12 ricoverati, 11 furono diagnosticati schizofrenici e uno, con la stessa identica sintomatologia, come psicotico maniaco-depressivo. Quest’ultima diagnosi, che ha una prognosi più favorevole, fu effettuata nell’unico ospedale privato del campione. Riguardo le relazioni tra classe sociale e diagnosi psichiatrica.

Vedi A. deB. Hollingshead e F. C. Redlich, Social Class and Mental Illness: A Community Study (Wiley, New York, 1958).

Il fallimento della diagnosi nel reale esperimento è costituente delle tesi suddette.

 

 

L’ETICHETTA E LA AGGETTIVAZIONE INESORABILE COME ATTRIBUZIONI DI GIUDIZIO DI MALATTIA ALLE SANITA’ DEGLI PSEUDOPAZIENTI.

Ciascuno fu dimesso con una diagnosi di schizofrenia “in remissione.” L’etichetta” in remissione” non dovrebbe in alcun modo essere liquidata come una formalità poiché in nessun caso, nel corso di ciascun ricovero, fu mai sollevato alcun dubbio circa la simulazione di alcuni pseudopaziente. Né vi è

alcuna traccia nelle cartelle cliniche che lo status dello pseudopaziente fosse sospetto. Piuttosto, è fortemente comprovato che, una volta etichettato schizofrenico, lo pseudopaziente rimaneva incastrato in quella etichetta.

Per poter essere dimesso, naturalmente, lo pseudopaziente doveva essere “in remissione”; ma non era sano di mente, né, dal punto di vista dell’istituzione, lo era mai stato.

Il costante fallimento nel riconoscere la sanità non può essere attribuito alla qualità degli ospedali dato che, nonostante vi fossero considerevoli variazioni tra loro, molti erano considerati

eccellenti.

Né si può sostenere che non vi fosse stato tempo sufficiente per osservare gli pseudopazienti. La durate dei ricoveri oscillava tra 7 i 52 giorni, con una media di 19 giorni. In effetti, gli pseudopazienti non furono sottoposti ad un’osservazione attenta, ma questo fallimento dice più sulle consuetudini all’interno degli ospedali psichiatrici che non sulla mancanza di opportunità.

 

IL VAGLIO ONTOLOGICO DEI PAZIENTI FU PIU’ ACCURATO E VERO RISPETTO ALLA PROSPETTIVA DI GIUDIZIO DEI MEDICI CURANTI. QUESTA REALTA’ E’ SOSTENITRICE DELLA LUNGIMIRANZA INTELETTIVA DI CUI PUO’ UNA PERSONA MALATA.

 

Infine, non si può dire che il mancato riconoscimento della sanità mentale degli pseudopazienti fosse dovuto al fatto che non si comportavano in modo sano. Sebbene vi fosse chiaramente una certo grado tensione in ognuno di essi, i loro visitatori giornalieri non rilevarono gravi conseguenze comportamentali, così come non le rilevarono neppure gli altri pazienti. Si rivelò normale che i pazienti fossero in grado di “individuare” la sanità mentale degli pseudopazienti. Nel corso dei primi tre ricoveri, durante i quali furono tenuti conteggi accurati, 35 dei 118 pazienti ricoverati nel reparto espressero i loro sospetti, alcuni vigorosamente. “Tu non sei pazzo. Sei un giornalista, o un

professore (riferendosi al continuo prendere appunti). Stai verificando sull’ospedale.”

Mentre la maggior parte dei pazienti furono rassicurati dall’insistenza degli pseudopazienti riguardo il fatto che erano stati male prima del ricovero, ma che ora stavano bene, alcuni seguitarono a credere che lo pseudopaziente fosse sano di mente lungo tutto il ricovero. Il fatto che sovente i pazienti abbiano saputo riconoscere la normalità laddove il personale non ne fu in grado, solleva importanti domande.

 

L’ERRORE DI TIPO 2

 

Il fallimento nel riconoscere la sanità durante il ricovero può essere dovuto al fatto che i medici operano con una spiccata tendenziosità verso quello che gli statistici chiamano errore di tipo 2.

Ossia, che i medici sono più inclini a definire malata una persona sana (un falso positivo, tipo 2) che non a dichiarare sana una persona malata (un falso negativo, tipo 1).

Le ragioni di questo non sono difficili da trovare: è chiaramente più pericoloso mancare una diagnosi di malattia che non una di salute. Meglio sbagliare sul versante della cautela, e sospettare la malattia anche tra i sani. Ma ciò che vale per la medicina non vale altrettanto bene per la psichiatria. Le malattie mediche, per quanto

spiacevoli, non hanno solitamente una valenza spregiativa. Le diagnosi psichiatriche, al contrario, veicolano stigma personale, giuridico e sociale.

 

L’ESPERIMENTO INVERSO

Era quindi importante verificare se la tendenza a diagnosticare la follia nei sani potesse essere invertita.

Il seguente esperimento è stato organizzato in una clinica per la ricerca e l’insegnamento il cui personale aveva sentito parlare di questi risultati ma dubitava che un errore del genere potesse verificarsi nel loro ospedale.

 

Il personale venne informato che ad un certo punto, nel corso dei tre mesi successivi, uno o più pseudopazienti avrebbero tentato di farsi ricoverare nell’ospedale psichiatrico.

 Ad ogni membro del personale venne chiesto di valutare ciascun paziente che si fosse presentato per il ricovero, o in reparto, in base alla probabilità che il paziente fosse uno pseudopaziente. Venne impiegata una scala di 10 punti, in cui un punteggio da 1 a 2 indica un alto grado di certezza riguardo al fatto che il paziente fosse uno pseudopaziente.

Ottenemmo valutazioni su 193 pazienti ricoverati per cure psichiatriche. Tutto il personale che era in stretto contatto con i pazienti, o che rivestiva ruoli di responsabilità primaria nei loro

confronti — inservienti, infermieri, psichiatri, medici, psicologi — furono invitati a esprimere una valutazione.

Quarantuno pazienti vennero valutati essere pseudopazienti, con ferma convinzione, da almeno un membro del personale. Ventitré furono valutati come sospetti da almeno uno psichiatra.

Diciannove vennero giudicati sospetti da uno psichiatra e da un altro membro del personale. In realtà, nessun autentico pseudopaziente (quantomeno, non dal mio gruppo) si era presentato durante questo periodo. L’esperimento è istruttivo. Indica che la tendenza a designare come folli le persone sane può

essere invertito quando la posta in gioco è elevata — in questo caso, il prestigio e l’acume diagnostico. Ma che cosa si può dire delle 19 persone sospettate di essere “sane” da uno psichiatra e

un altro membro del personale? Queste persone erano veramente “sane” o si trattava invece del fatto che, nel tentativo di evitare l’errore di tipo 2, il personale tende a fare più errori del primo tipo —dichiarando “sano di mente” il pazzo? Non v’è modo di saperlo. Ma una cosa è certa: qualsiasi processo diagnostico che si presta così facilmente a enormi errori di questo tipo non può essere molto affidabile.

 

LA INESORABILITA’ E LA INFLESSIBILITA’ DEL PREGIUDIZIO

La Viscosità delle Etichette Psicodiagnostiche

Al di là della tendenza a definire sano il malato — una tendenza rende meglio conto del comportamento diagnostico all’atto del ricovero rispetto al m desimo comportamento dopo un periodo di prolungato contatto — i dati evidenziano il ruolo massiccio dell’etichettatura nella valutazione psichiatrica. Una volta etichettato schizofrenico, non vi è nulla che lo pseudopaziente

possa fare per sconfiggere questa marchiatura. L’etichetta tinge profondamente la percezione che gli altri avranno di lui e del suo comportamento.

LA MISURA DI ATTRIBUZIONE VALORIALE COME PERCEZIONE DI IMPORTANZA ATTITUDINALE E DI RILEVANZA FATTUALE VARIABILE IN UNA GERARCHIA DI ATTITUDINI – ALCUNE ATTITUDINI SONO STIMATE SOGGETTIVAMENTE PIU’ RILEVANTI DI ALTRE – COSTITUISCE E DETERMINA LA ETICHETTATURA E LA OGGETTIVAZIONE DELLA ESSENZA, IN ESSERE I GIUDIZI SUCCESSIVI ALLA ETICHETTATURA SI FONDERANNO SULLE ATTITUDINI CONSONANTI CON LA QUALITA’ DELLA ETICHETTATURA E SARANNO TRASCURATE COME MENO IMPORTANTI E RILEVANTI LE ATTITUDINI DEL GIUDICATO DISSONANTI CON LA ATTRIBUZIONE DI ETICHETTA – NOMINIAMO QUESTA DINAMICA – IL GIUDIZIO IN ESSERE. – DIVERSAMENTE IL GIUDIZIO IN DIVENIRE RIASSETTA E RIEQUILIBRA REITERATIVAMENTE I PRESUPPOSTI DEL GIUDIZIO FONDANDO COME METRO DI GIUDIZIO NON LA ETICHETTATURA INESORABILE MA LA FACOLTA’ IN DIVENIRE SCORGENDO IN CIASCUNA ATTITUDINE IL GERMOGLIO DI UN NUOVO FIORE NEL PRATO DELL’ANIMA ESSENZIALE.

Da un certo punto di vista, questi dati non sorprendono affatto, perché è noto da tempo che gli elementi traggono significato dal contesto in cui si verificano. La psicologia della Gestalt ha

evidenziato energicamente questo punto, e Asch ha dimostrato che ci sono tratti “centrali” della personalità (come “caldo” rispetto a “freddo”) talmente potenti da colorire marcatamente il

significato di altre informazioni durante il processo in cui si forma l’impressione di una data personalità . “Folle”, “schizofrenico”, “maniaco-depressivo” e “pazzo” sono probabilmente tra i

più potenti di tali tratti centrali.

Una volta che una persona è stata definita anormale, tutti i suoi altri comportamenti e caratteristiche saranno tinti da tale etichetta. Infatti, quest’etichetta è così potente che molti dei comportamenti normali degli pseudopazienti furono completamente ignorati o profondamente fraintesi. Alcuni esempi chiariranno questo punto.

Per quanto ho potuto stabilire, le diagnosi non vennero in alcun modo influenzate dalla relativa

salute delle circostanze di vita degli pseudopazienti.  Piuttosto, accadde il contrario: la percezione delle circostanze fu modellata interamente dalla diagnosi. Un chiaro esempio di una simile

traduzione la si trova nel caso di uno pseudopaziente che durante l’infanzia ebbe un legame stretto con la madre, ma uno piuttosto distaccato col padre. Tuttavia, durante l’adolescenza, e anche oltre, il padre divenne per lui un caro amico, mentre il rapporto con la madre si raffreddò. Il suo attuale rapporto con la moglie era tipicamente stretto e caldo. A parte occasionali battibecchi, l’attrito era minimo. I bambini erano stati raramente sculacciati. Sicuramente non v’era nulla di particolarmente patologico nella sua storia. In effetti, molti lettori possono intravedere un modello simile nelle proprie esperienze, senza conseguenze particolarmente dannose. Osservate, tuttavia, come questa storia fu tradotta nel contesto psicopatologico —

quanto segue è tratto dalla sintesi della relazione sul suo caso, preparata in seguito alle dimissione del paziente.

 

“Questo maschio, bianco, di 39 anni … manifesta una lunga storia di notevole ambivalenza nelle relazioni strette, che inizia nella prima infanzia. Il rapporto caloroso con la madre si raffredda durante l’adolescenza. Il rapporto distaccato con il padre è descritto come diventato molto intenso.

La stabilità affettiva è assente. I suoi tentativi di controllare l’emotività con la moglie ed i figli sono punteggiati da scoppi d’ira e, nel caso dei bambini, sculacciate. E mentre asserisce di avere molti buoni amici, si avverte una notevole componente di ambivalenza anche in queste relazioni…”

LA FALSIFICAZIONE PERCETTIVA DEI CURANTI

La dinamica è il sacrificio della identità dignitosa del paziente in garanzia della dignità carrieristica e considerazione sociale e tutela della superiorità ontologica e di giustezza decisionale del soggetto giudicante medico come parte sociale che svolge bene il proprio lavoro.

I fatti del caso sono stati involontariamente distorti dal personale per renderli congruenti alla

celebre teoria della dinamiche della reazione schizofrenica.

IN REALTA’

Nelle descrizioni dei suoi rapporti con i genitori, la moglie, o gli amici, non riferì alcunché di natura ambivalente. Nella misura in cui l’ambivalenza potesse essere dedotta, non era probabilmente superiore a quella che si riscontra in tutte le relazioni umane. È vero che le relazioni dello pseudopaziente con i suoi genitori erano cambiate nel corso del tempo, ma in un contesto ordinario questo sarebbe a stento degno di nota — anzi, potrebbe benissimo essere considerato prevedibile. Chiaramente, il significato attribuito alle sue verbalizzazioni (cioè, ambiguità, instabilità affettiva) fu determinato dalla diagnosi: schizofrenia.

Se il soggetto fosse stato risaputamente “normale”, vi si sarebbe attribuito un significato completamente diverso.

Se non venivano poste domande agli pseudopazienti, come veniva interpretato il loro prendere appunti? I rapporti infermieristici di tre pazienti indicano che la scrittura fu vista come un aspetto del loro comportamento patologico. “Il paziente si intrattiene in comportamenti di scrittura”

 

LA ASSOCIAZIONE CONTESTUALE “ESSENZA APPARTENENTE AD UN AMBIENTE” E’ COSTITUDIVA DE REGIUDIZIO “LA ESSENZA HA LE MEDESIME QUALITA’ DELL’AMBIENTE.” MA PUO’ NON ESSERE COSI’ E PUO’ NON ESSERE VERO – UNA ESSENZA PUO’ ESSERE IDIOSINCRASICAMENTE DIVERSA DALLE IDIOSINCRASI DELL’AMBIENTE IN CUI SI TROVA – IN QUEST CASO QUESTA ESSENZA E’ UN AGENTE MODIFICATRICE DELL’AMBIENTE.

Poiché il paziente si trova in ospedale, deve essere psicologicamente disturbato.

 

E dato che è disturbato, la scrittura continua deve essere una manifestazione comportamentale di tale disturbo, forse un sottoinsieme dei comportamenti compulsivi che a volte sono correlati alla schizofrenia.

Una tacita caratteristica della diagnosi psichiatrica è che essa individua le origini dell’aberrazione all’interno dell’individuo e, solo raramente, all’interno del complesso di stimoli che lo circonda. Di conseguenza, i comportamenti stimolati dall’ambiente circostante vengono solitamente attribuiti erroneamente al disturbo del paziente.

 

 

 

Per esempio, un infermiera premurosa notò che uno pseudopaziente andava su e giù per i lunghi corridoi dell’ospedale. (IL NERVOSISMO E’UN SINTOMO SCHIZOFRENICO) “Nervoso, Mister X?» chiese lei. ”No, annoiato,” rispose lui.

 

 

LA DELEGA DI RESPONSABILITA’ DELLE PERSONE DELL’AMBIENTE ALLA MALATTIA DEL MALATO IN ATTO DI CAUSA DI UN SINTOMO DELLA MALATTIA

QUANDO LA FONTE DEI SINTOMI NON E’ LA MALATTIA INTERIORE BENSI’ L’AMBIENTE ESTERIORE LA RESPONSABILITA’ NON E’ DEL PAZIENTE MA DELLE PERSONE CHE INTERAGISCONO CON LUI IMPLICANDO IL SINTOMO DELA MALATTIA.

Le annotazioni prese dagli pseudopazienti sono colme di fraintendimenti del comportamento dei pazienti da parte di membri del personale benintenzionati. Sovente, i pazienti andavano “in

escandescenza” perché venivano maltrattati, consapevolmente o meno, per esempio da un inserviente. L’infermiere che giungeva sulla scena, raramente si informava, anche solo di sfuggita,

riguardo gli stimoli ambientali del comportamento del paziente. Presupponeva che l’arrabbiatura derivasse dalla patologia anziché dalle sue attuali interazioni con altri membri dello staff.

A volte, il personale supponeva che lo scoppio d’ira fosse stato stimolato dai familiari del paziente (soprattutto se erano venuti a trovarlo di recente) o dagli altri pazienti. Ma in nessun caso si riscontrò mai un membro del personale che ipotizzasse che un suo collega, o la struttura ospedaliera stessa, potesse avere nulla a che fare con il comportamento di un paziente.

Le etichette psichiatriche hanno una vita e un’influenza propria. Una volta formatasi l’opinione che il paziente sia schizofrenico, l’aspettativa è che continuerà ad essere schizofrenico.

 

Trascorso un lasso di tempo sufficiente, durante il quale il paziente non ha fatto nulla di strano, viene considerato in via di remissione e pronto per la dimissione. Ma l’etichetta sopravvive alla

dimissione, portando con sé l’aspettativa non confermata che egli si comporterà nuovamente come uno schizofrenico.

Tali etichette, conferite dai professionisti della salute mentale, hanno tanta influenza sul paziente quanto sui suoi parenti ed amici, e non dovrebbe sorprendere nessuno che la diagnosi agisce su ognuno di loro come una profezia che si auto-avvera.

Anche il paziente stesso finisce con l’accettare la diagnosi, con tutti i suoi significati extra e le aspettative, e si comporterà di conseguenza.

 

LA VARIABILITA’ NELL’EQUILIBRIO DICOTOMICO SANITA’-FOLLIA – IL COMPORTAMENTO COMPLESSIVO E’ UN CONNUBIO DI OPPOSTI DI CUI TALVOLTA UN OPPOSTO SI MANIFESTA MENTRE L’ALTRO RESTA LATENTE E VICEVERSA.

IL PREGIUDIZIO DI ESTREMIZZAZIONE DI UNA SINGOLARITA’ TENUE (TENUITA’ DI MANIFESTAZIONE TEMPORALE E TENUITA’ DI GRAVITA’ ATTITUDINALE )

LA OCCASIONALITA’ DI MANIFESTAZIONE DI UN OPPOSTO NON DEVE ESSERE FONDANTE DI ETICHETTATURA ESSENZIALE IN ANALOGIA CON TALE OPPOSTO

 

Le inferenze che possiamo trarre sono abbastanza semplici. Così come Zigler e Phillips hanno dimostrato c’è un enorme sovrapposizione dei sintomi presentati dai pazienti che sono stati

variamente diagnosticati, vi è anche una grande sovrapposizione dei comportamenti dei sani di mente e dei folli. I sani non sono “sani” per tutto il tempo.

Perdiamo le staffe “senza una buona ragione.”Talvolta siamo depressi o ansiosi, sempre senza validi motivi. E ci capita di trovare difficile andare d’accordo con questa o quell’altra persona — di nuovo, senza capirne il motivo.

 

Allo stesso modo, i pazzi non sono sempre pazzi. In effetti, gli pseudopazienti, mentre vivevano con loro, ebbero l’impressione che erano sani di mente per lunghi periodi di tempo — che i

comportamenti bizzarri su cui le loro diagnosi erano state presumibilmente costruite costituivano solo una piccola frazione del loro comportamento complessivo. Se non ha senso etichettarci come depressi cronici per via di una depressione occasionale, allora servono prove più solide di quante ne abbiamo allo stato attuale per etichettare tutti i pazienti come pazzi o schizofrenici in base a comportamenti o ragionamenti bizzarri. Sembrerebbe più utile, come ha sottolineato Mischel (17 ),

limitare le nostre discussioni ai comportamenti, agli stimoli che li provocano, e alle loro correlazioni.

 

È concepibile che quando le origini di un comportamento, o gli stimoli che vi danno il via, sono remoti o sconosciuti, o quando il comportamento ci sembra immutabile, subentra l’etichettatura dei tratti verso colui che emette i comportamenti. Quando, d’altra parte, le origini e gli stimoli sono noti e a portata di mano, il discorso è circoscritto al comportamento stesso. Quindi, posso avere allucinazioni perché sto dormendo, o posso averle perché ho ingerito una particolare droga. Queste vengono rispettivamente denominate allucinazioni indotte dal sonno profondo, o sogni, e allucinazioni indotte dalla droga.

Ma quando gli stimoli delle mie allucinazioni sono sconosciuti, la si chiama follia, o schizofrenia — come se, inqualche modo, questa inferenza fosse illuminante come le altre.

 

L’Esperienza del Ricovero Psichiatrico

LA IGNORANZA IMPLICA PERCEZIONE DI CAOS DI NONSENSE E SENTIMENTO DI PAURA

Il trattamento dei malati mentali è considerevolmente migliorato nel corso degli anni. Ma mentre il trattamento è migliorato, è dubbio che le persone considerino realmente i malati di mente allo stesso modo in cui considerano i “malati fisici”. Una gamba rotta è qualcosa da cui si guarisce, ma si presume che la malattia mentale duri per sempre.

Il più recente e spiacevole esempio di questa convinzione è quello del Senatore Thomas Eagleton.

[N.d.T.:] Thomas Francis Eagleton (1929–2007) fu un senatore statunitense dal 1968 al 1987; nel 1972 divenne il candidato dei Democratici alla vicepresidenza, finché George McGovern (all’epoca candidato dei Democratici alla presidenza) non scoprì che Eagleton aveva taciuto riguardo ai propri trascorsi psichiatrici, e gli chiese di dimettersi dalla candidatura. Prima della rivelazione psichiatrica, McGovern aveva dichiarato pubblicamente di sostenere Eagleton “al 1000 percento.”

 Una gamba rotta non intimorisce l’osservatore, ma un matto schizofrenico? Vi sono una serie di prove che mostrano che l’atteggiamento verso i malati mentali è caratterizzato dalla paura, l’ostilità, il distacco, il sospetto e il timore.

Che tali atteggiamenti infettino la popolazione generale forse non ci sorprende, ci infastidisce soltanto. Ma che colpiscano anche i professionisti — inservienti, infermieri, medici, psicologi e assistenti sociali — che curano e seguono i malati di mente è più sconcertante, sia perché tali atteggiamenti sono palesemente perniciosi, sia perché sono inconsapevoli. La maggior parte dei professionisti della salute mentale ribadirebbe di essere comprensivo verso i malati di mente, e di non essere né schivo né ostile nei loro confronti.

 

 

Ma è più probabile che le loro relazioni con i pazienti psichiatrici siano caratterizzate da una raffinata ambivalenza, e che la loro dichiarata propensione costituisca solo una parte del loro atteggiamento complessivo. Gli atteggiamenti negativi sono anch’essi presenti, e possono essere facilmente individuati. Simili atteggiamenti non

dovrebbero sorprenderci. Essi sono il prodotto naturale delle etichette indossate dai pazienti e dei luoghi in cui questi si trovano.

L’organizzazione gerarchica dell’ospedale psichiatrico è stata commentata in precedenza (20 ), ma il significato latente di questa tipologia organizzativa merita ulteriori commenti. Coloro che detengono più potere sono meno coinvolti con i pazienti, e quelli che ne hanno meno sono più coinvolti con essi. Ricordiamoci, tuttavia, che l’acquisizione dei comportamenti appropriati al ruolo avviene principalmente attraverso l’osservazione degli altri, e che i più potenti hanno un’influenza maggiore.

Di conseguenza, è comprensibile che gli inservienti non solo trascorrano più tempo con i pazienti di quanto non facciano altri membri del personale — come richiesto dalla loro posizione

gerarchica — ma anche che, nella misura in cui imparano dai comportamenti dei loro superiori, trascorrano con essi meno tempo possibile.

 

I PRINCIPI RELAZIONALI DELLA VALORIZZAZIONE ONTOLOGICA DEL PROSSIMO SONO L’INIZIATIVA DELL’INCONTRO RELAZIONALE E IL DONO DI TEMPO RERLAZIONALE INTERPERSONALE.

Je suis le temps que je te consacre. IO SONO IL TEMPO CHE TI DEDICO.

 

 

 

 

È da lungo risaputo che la quantità di tempo che una persona trascorre con voi può essere indice dell’importanza che vi attribuisce. Se ella avvia e mantiene il contatto oculare, vi è motivo di credere che stia prendendo in considerazione le vostre richieste ed esigenze.

Se per chiacchierare con voi si concede una breve pausa, o si ferma con voi a parlare, vi sono ulteriori motivi per dedurre che stia cercando di conoscervi.

 

CONTESTUALIZZAZIONE CON IL LUOGO DI CURE PSICHIATRICHE

 

In quattro ospedali, gli pseudopazienti approcciarono i membri del personale con una richiesta che aveva questa forma: «Mi scusi, signor [o Dott., o Signora/ina] X, mi può dire quando avrò diritto a spostarmi fuori dal reparto?” ( o “... quando verrò presentato in occasione della riunione del personale?” o “... quando crede che verrò dimesso?”). C’erano i presupposti per intavolare una buona conversazione con loro. Il personale evitava il prolungamento del contatto avviato dai pazienti. Di gran lunga, la loro reazione più frequente consisteva o in una breve risposta alla domanda, proferita  mentre erano “indaffarati” e con la testa rivolta altrove, oppure nessuna risposta.

L’incontro spesso assumeva la seguente forma bizzarra: (pseudopaziente) “Mi scusi, dottor X.

Potrebbe dirmi quando avrò diritto a spostarmi fuori dal reparto?” (medico) “Buon giorno, Dave.

Come stai oggi?” (Se ne va senza aspettare una risposta.)

È istruttivo confrontare questi dati con i dati recentemente ottenuti alla Stanford University. È stato affermato che le università grandi ed eminenti sono caratterizzate da docenti così impegnati da non avere tempo per gli studenti.

 

Impotenza e Depersonalizzazione

Il contatto oculare e verbale riflettono preoccupazione e individuazione; la loro assenza, evitamento e spersonalizzazione. I dati che ho presentato non rendono giustizia alla ricchezza degli incontri quotidiani sviluppatisi intorno alla materia della spersonalizzazione e dell’evitamento. Ho documentazioni di pazienti che sono stati picchiati dal personale per aver commesso il peccato di dare il via al contatto verbale. Durante la mia esperienza personale, per esempio, un paziente fu picchiato in presenza di altri pazienti per aver avvicinato un inserviente e avergli detto: “Mi piaci.”

A volte, la punizione inflitta ai pazienti per le infrazioni sembravano così eccessive da non essere giustificabili neanche dalle interpretazioni più radicali del canone psichiatrico. Tuttavia, sembrava che non venissero messe in discussione. Sovente, la pazienza era al limite. Un paziente che non aveva sentito la chiamata per la distribuzione della terapia veniva rimproverato duramente, e gli inservienti del mattino spesso svegliano i pazienti con un: “Muovetevi, brutti fi___i di p____ana, alzatevi dal letto! ”

 

Né gli aneddoti né i dati “solidi” sono in grado di trasmettere lo schiacciante senso di impotenza che pervade l’individuo continuamente esposto alla spersonalizzazione dell’ospedale psichiatrico.

Poco importa di quale ospedale psichiatrico si tratti — le cliniche statali d’eccellenza e quelle private di gran lusso si rivelarono migliori di quelle rurali e fatiscenti a questo riguardo, ma, ancora una volta, le caratteristiche comuni agli ospedali psichiatrici erano tali da mettere in secondo piano

le loro apparenti differenze.

 

 

 

Il senso d’impotenza era evidente ovunque. Con l’internamento psichiatrico, il paziente viene spogliato di parecchi diritti giuridici (21 ). Viene privato della propria credibilità in virtù della sua etichetta psichiatrica. La sua libertà di movimento è limitata. Non gli è concesso di stabilire contatto con il personale, può solo rispondere agli approcci da parte loro. La privacy personale è ridotta al

minimo. Qualsiasi membro dello staff può entrare negli alloggi dei pazienti, ed esaminare i loro possedimenti, per qualsivoglia motivo. La sua storia personale e la sua sofferenza sono accessibili a qualsiasi membro del personale (spesso, anche ai volontari) che decida di leggere la sua cartella clinica, indipendentemente dalla loro relazione terapeutica con lui. Sovente, viene monitorato durante le attività di igiene personale e di evacuazione. I gabinetti possono essere privi di porte.

A volte, la depersonalizzazione raggiunse proporzioni tali che gli pseudopazienti ebbero l’impressione di essere invisibili, o per lo meno indegni di nota.

 

All’atto del ricovero, io e altri pseudopazienti fummo sottoposti alle visite mediche preliminari in una stanza semi-pubblica, dove i membri del personale svolgevano le loro attività come se noi non esistessimo.

Nel reparto, gli inservienti elargivano insulti — e a volte anche gravi abusi fisici — ad alcuni pazienti, il tutto di fronte agli altri pazienti che assistevano alla scena, e alcuni (gli pseudopazienti)

che trascrivevano il tutto. Gli abusi, d’altro canto, cessavano bruscamente quando si sapeva che stavano per arrivare altri membri dello staff. I membri del personale sono testimoni credibili. I pazienti non lo sono.

 

 

 

Un’infermiera si sbottonò la divisa per aggiustarsi il reggiseno di fronte a un intero reparto di uomini che guardavano. Non dava l’impressione di voler essere seducente. Piuttosto, non faceva caso alla nostra presenza. Accadeva che un gruppo di membri dello staff indicasse un paziente nel soggiorno e discutesse animatamente di lui, come se questi non si trovasse lì.

Un esempio illuminante di spersonalizzazione e invisibilità si è verificato per quanto riguarda i farmaci. Complessivamente, agli pseudopazienti furono somministrate circa 2.100 pillole, tra cui Elavil, Stelazine (triflupromazina), Compazine (proclorperazina), e Torazina (clorpromazina), per citarne solo alcuni. (Che una tale varietà di farmaci venisse somministrata a pazienti che presentavano sintomi identici è di per sé degno di nota). Solo due furono inghiottite.

Il resto vennero o intascate o gettate nel gabinetto. Gli pseudopazienti non erano gli unici a farlo. Pur non avendo dati precisi su quanti pazienti gettavano via i farmaci, gli pseudopazienti prima di gettare le proprie pastiglie trovavano spesso farmaci di altri pazienti nel gabinetto. Fintanto che si mostravano cooperativi il loro comportamento e quello degli pseudopazienti passava del tutto inosservato in questi frangenti, così come in altri frangenti importanti.

Le reazioni degli pseudopazienti a questa spersonalizzazione furono intense. Anche se erano giunti in clinica come osservatori partecipanti ed erano pienamente consapevoli della loro “non appartenenza”, si ritrovarono tuttavia imbrigliati nel processo di spersonalizzazione, e a combatterlo. Ecco alcuni esempi: uno studente laureato in psicologia chiese alla moglie di portargli in ospedale i suoi libri di testo in modo da poter “recuperare con gli studi” — questo nonostante le elaborate precauzioni intraprese per occultare la sua associazione professionale.

 

 

Lo stesso studente, che si era allenato a lungo per entrare in ospedale, e che aveva atteso con entusiasmo l’esperienza, “si ricordò” di alcune gare automobilistiche a cui voleva assistere nel fine settimana e insistette per essere dimesso in tempo. Un altro pseudopaziente si mise a corteggiare un’infermiera.

Successivamente, informò il personale che stava facendo domanda per l’ammissione alla scuola di specializzazione in psicologia e che era molto probabile che sarebbe stato ammesso dato che uno dei professori lo veniva a trovare regolarmente in ricovero. La stessa persona iniziò a far psicoterapia agli altri pazienti — tutto questo come un modo di diventare una persona in un ambiente impersonale.

Le Cause della Spersonalizzazione. Quali sono le origini della spersonalizzazione? Ne ho già menzionate due. In primo luogo sono gli atteggiamenti che tutti noi riserviamo ai malati mentali — inclusi quelli che li hanno in cura — atteggiamenti caratterizzati da paura, diffidenza, aspettative, da un lato, e intenzioni benevole, dall’altro. La nostra ambivalenza conduce, in questo caso come in altri, all’evitamento. In secondo luogo, e non del tutto separatamente, la struttura gerarchica dell’ospedale psichiatrico facilita la spersonalizzazione. Coloro che sono ai vertici sono quelli che hanno meno a che fare con i pazienti, e il loro comportamento ispira il resto del personale. Il contatto quotidiano medio con psichiatri, psicologi, residenti e medici, combinato, variava da 3,9 a 25,1 minuti, con una media complessiva di 6,8 (sei pseudopazienti su un totale di 129 giorni di ricovero).

 

 

 

 

 

 

 

Inclusi in questa media sono il tempo trascorso nel primo colloquio dell’ammissione, nelle riunioni di reparto in presenza di un membro del personale di alto livello, negli incontri di psicoterapia di gruppo e individuali, nelle riunioni dedicate al caso clinico e in quelle per le dimissioni. Chiaramente, i pazienti non trascorrono molto tempo nel contatto interpersonale con il personale medico.

E il personale medico funge da modello per infermieri e inservienti.

Probabilmente ci sono anche altre fonti. Le strutture psichiatriche sono attualmente in gravi ristrettezze finanziarie. La carenza di personale è pervasiva, i turni lavorativi in straordinario. A

qualcosa si deve rinunciare, e quel qualcosa sono i contatti con i pazienti. Tuttavia, nonostante le tensioni finanziarie siano reali, si tende a sopravvalutarle. Ho l’impressione che le forze

psicologiche che determinano la spersonalizzazione siano molto più forti di quelle economiche, e che un incremento del personale non apporterebbe un miglioramento delle attenzioni verso i pazienti. La frequenza delle riunioni del personale e la mole di annotazioni cliniche sui pazienti, per esempio, non sono state ridotte nella misura in cui lo sono stati i contatti con i pazienti. Esistono priorità, anche nei momenti difficili. I contatti con i pazienti non sono una priorità importante nell’ospedale psichiatrico tradizionale, e le pressioni economiche non hanno alcun ruolo in questo.

L’evitamento e la spersonalizzazione, invece, potrebbero.

Il marcato affidamento ai farmaci psicotropi contribuisce tacitamente alla spersonalizzazione convincendo il personale che le cure sono a tutti gli effetti in corso e che ulteriori contatti con i pazienti sarebbero superflui. Anche qui, tuttavia, bisogna procedere con cautela nella comprensione del ruolo dei farmaci psicotropi.

 

 

 

 

Se i pazienti fossero in una posizione di potere, anziché in una di impotenza, se fossero visti come individui interessanti, anziché come entità diagnostiche, se fossero socialmente significativi, anziché lebbrosi sociali, e se le loro angosce suscitassero veramente e appieno la nostra simpatia e preoccupazione, non cercheremmo dunque il contatto con loro,

nonostante la disponibilità di farmaci? Se non altro, perché sarebbe piacevole?

Le Conseguenze dell’ Etichettatura e della Spersonalizzazione

Ogni volta che il rapporto tra ciò che è conosciuto e ciò che deve essere conosciuto si avvicina allo zero, tendiamo a inventare la “conoscenza” e a presumere di aver compreso più di quanto in

realtà abbiamo compreso. Sembriamo incapaci di riconoscere che noi semplicemente non lo sappiamo. Le esigenze per la diagnosi e per la soluzione dei problemi comportamentali ed emotivi sono enormi. Ma anziché riconoscere che ci stiamo appena imbarcando nella comprensione, seguitiamo ad etichettare i pazienti “schizofrenici”, “maniaco-depressivi” e “folli”, come se in quelle parole avessimo catturato l’essenza della comprensione. I fatti sull’argomento sono che sappiamo già da molto tempo che le diagnosi sono spesso inutili e inaffidabili, ma abbiamo

comunque continuato ad usarle. Ora sappiamo di non essere capaci di distinguere la follia dalla sanità mentale. È deprimente considerare come verranno utilizzate quelle informazioni.

Non solo deprimente, ma spaventoso. Quante persone, vien da chiedersi, sono sane di mente ma non riconosciute come tali nei nostri istituti psichiatrici?

Quante sono state inutilmente spogliate dei loro privilegi di cittadinanza — dal diritto al voto e alla guida a quello di gestire i propri conti?

 

 

 

Quanti hanno simulato la follia, al fine di evitare le conseguenze penali del loro comportamento, e, viceversa, quanti preferirebbero affrontare un processo che vivere interminabilmente in un ospedale psichiatrico — ma vengono erroneamente considerati malati di mente? Quanti sono stati stigmatizzati da diagnosi che, per quanto formulate con buone intenzioni, sono tuttavia errate?

Riguardo a quest’ultimo punto, rammentatevi ancora una volta che un “errore di tipo 2” nelle diagnosi psichiatriche non ha le stesse conseguenze che ha nelle diagnosi mediche. Una diagnosi di cancro rivelatasi erronea è motivo di festeggiamento. Ma le diagnosi psichiatriche vengono raramente smentite.

L’etichetta resta appiccicata, per sempre un marchio di inadeguatezza.

Infine, quanti pazienti potrebbero essere “sani di mente” al di fuori dell’ospedale psichiatrico, ma sembrano folli al suo interno — non perché la follia risiede in loro, per così dire, bensì perché stanno rispondendo a un ambiente bizzarro, che può essere esclusivo delle istituzioni che accolgono sub-persone? Goffman (4) chiama il processo di socializzazione in tali istituti “mortificazione” — un’appropriata metafora che comprende i processi di spersonalizzazione che sono stati qui descritti.

E mentre è impossibile sapere se le risposte degli pseudopazienti a questi processi siano caratteristiche di tutti gli internati — essi, in fondo, non erano dei pazienti reali — vien difficile

credere che questi processi di socializzazione in un ospedale psichiatrico forniscano atteggiamenti o

abitudini di risposta utili per vivere nel “mondo reale”.

 

 

 

 

 

 

Sintesi e Conclusioni

È chiaro che non riusciamo a distinguere i sani dai malati di mente negli ospedali psichiatrici.

L’ospedale in sé impone un ambiente speciale in cui il significato del comportamento può essere facilmente frainteso. Le conseguenze per i pazienti ricoverati in un simile ambiente — impotenza, spersonalizzazione, segregazione, mortificazione, e auto-etichettatura — sembrano indubbiamente anti-terapeutiche.

Neanche ora comprendo questo problema abbastanza bene da poter concepire delle soluzioni.

Ma due punti sembrano offrire speranze. Il primo riguarda la proliferazione di strutture comunitarie per la salute mentale, dei centri crisi, del movimento per il potenziale umano, e delle terapie comportamentali che, nonostante tutte le loro problematiche, tendono ad evitare le etichette psichiatriche, a concentrarsi sui problemi e comportamenti specifici, e a mantenere l’individuo in un ambiente relativamente non spregiativo.

Chiaramente, nella misura in cui ci asteniamo dall’inviare

le persone angosciate nei luoghi folli, l’immagine che abbiamo di loro ha meno probabilità di essere distorta. (Il rischio di percezioni distorte, mi sembra, è sempre presente, visto che siamo molto più sensibili ai comportamenti e alle verbalizzazioni di un individuo che non ai sottili stimoli contestuali che spesso li promuovono. Ma qui si tratta di una questione di grandezza. E, come ho dimostrato, l’entità della distorsione è eccessivamente elevata nel contesto estremo dell’ospedale psichiatrico.)

 

 

 

 

 

 

 

Il secondo punto che potrebbe rivelarsi promettente riguarda la necessità di aumentare la sensibilità degli operatori della salute mentale e dei ricercatori riguardo la posizione di stallo Comma 22 in cui vengono a trovarsi i pazienti psichiatrici. La semplice lettura di materiale sull’argomento sarà di aiuto per alcuni di questi operatori e ricercatori. Per altri, l’esperienza diretta

dell’impatto del ricovero psichiatrico sarà di enorme utilità. Chiaramente, ulteriori ricerche sulla psicologia sociale di simili istituzioni totali agevolerà il trattamento e approfondirà la

 comprensione.

Io e gli altri pseudopazienti nelle strutture psichiatriche abbiamo avuto reazioni decisamente negative. Non pretendiamo di descrivere le esperienze soggettive dei veri pazienti. Le loro possono essere diverse dalle nostre, specialmente con il passare del tempo e l’inevitabile processo di adattamento al proprio ambiente. Ma possiamo parlare — e lo facciamo — attraverso gli indici,

relativamente più oggettivi, del trattamento all’interno dell’ospedale. Sarebbe un errore increscioso considerare che quello che ci è capitato sia riconducibile alla malizia o alla stupidità del personale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al contrario, la netta impressione che avemmo di loro è stata di persone che ci tenevano, che erano dedicate e che erano spiccatamente intelligenti. Laddove hanno fallito, come a volte è

dolorosamente accaduto, sarebbe più corretto attribuire quei fallimenti all’ambiente in cui si sono ritrovati anche loro, piuttosto che all’insensibilità personale. Le loro percezioni e comportamenti erano controllati dalla situazione, piuttosto che motivati da una predisposizione malvagia. In un ambiente più benigno, meno legato alla diagnosi globale, i loro comportamenti e giudizi avrebbero potuto essere più benigni e efficaci.

 

}

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sitografia

https://www.corsi.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid958500.pdf

Science, New Series, Vol. 179, No. 4070. (Jan. 19, 1973), pp. 250-258.

 

TRASCENDENZA ATTITUDINALE

 

IL MINDSET ALTERNATIVO E IL VALORE DELL’EMARGINATO

 

“Si sta vicini per fare miracoli, non per ripetere il mondo che già c’è, che già siamo.”

Franco Arminio

‘’ L’albero è di fronte alla finestra della sala. Lo interrogo tutte le mattine: ‘’ Cosa c’è di nuovo oggi?” ka risposta giunge senza esitazione, portata da centinaia di foglie:” Tutto “.

 

Trascendenza, antitetico al concetto di immanenza, deriva dal latino (“trans” + “ascendere” = salire al di là) e  indica la qualità di una realtà concepita come ulteriore, “al di là”,  “esterna a...”, “non riconducibile a...” rispetto ad una realtà, al quale si contrappone  una visione dualistica.

Secondo Edmund Husserl, la coscienza è intenzionale, cioè si rivolge a oggetti che sono trascendenti rispetto ai vissuti della coscienza medesima, ovvero sono al di là di essi: in questo senso, trascendente è l’oggetto, il contenuto dell’atto che compie la coscienza.

Karl Jaspers, il teorico dell’esistenzialismo assume l’impossibilità per l’uomo di raggiungere l’essere in sé, che rimane sempre al di là delle sue possibilità, tuttavia la coscienza della realtà è una immagine speculare, rifratta e cangiante della realtà stessa come l’immagine di una realtà riflessa sulle tenui e brillanti oscillazioni di uno specchio d’acqua ravvivato dai lumi solari.  La luce, i cambiamenti ambientali come l’intensità dello zefiro che riverbera la superficie dello specchio d’acqua, la qualità delle diverse realtà (acqua e materia) sono le variabili che in questo esempio intervengono.

 

Noi siamo cangianti come lo specchio d’acqua plasmato dall’ambiente, dallo spazio, dal tempo, tuttavia in noi intervengono altresì le singolarità della memoria, del sentimento, delle emozioni, dei sensi...

 Simultaneamente siamo osservatori di noi stessi e di realtà esterne che non possiamo conoscere nella qualità che è in essere, bensì nelle qualità di immagini riflesse sullo specchio della nostra coscienza plasmate dalle nostre singolarità. La trascendenza dell’essere si rivela per l’uomo nelle situazioni-limite (Di profonda sensibilità) in cui le nostre singolarità, il nostro pensiero, ogni nostro dualismo si risolvono in olismo del reale, poiché in esse esperiamo lo scacco che subiamo nel tentativo di superarle e di comprenderle. La trascendenza non è esistenza. L’esistenza infatti sussiste solo in quanto c’è comunicazione e relazione; la trascendenza invece è se stessa senza bisogno d’altro, è possibile la conoscenza della trascendenza poiché si è trascendenza. NOSCE TE IPSVM.

Il/la Trascendente, participio presente di “trascendere”, nel significato originario latino può essere riferito a “colui che trascende”, che “passa il limite. ‘’

Assumere che la coscienza sia intenzionale implica che senza volontà di coscienza, non può esservi coscienza.

Secondo questa logica assumono valore di senso i significati di incoscienza e follia. In onore di una mentalità dualistica siamo abituati a definire la razionalità positiva e la follia negativa, in verità al di là di questo giudizio di valore, la follia è in verità una alternativa struttura mentale, la follia è la seconda struttura mentale gemella della razionalità , è un mindset alternativo, un sistema di valori dissimili e lontani rispetto ad altri, se una possibilità di valori è dissimile rispetto ad un sistema di valori comunitariamente accolto e strutturato, questo non implica che questi ulteriori valori possibili siano negativi: inoltre considerando che la possibilità di diversità dei valori è fondante la libertà di pensiero.

 

 

Coloro che viaggiano molto sia nel tempo con la lettura, sia nello spazio (Incontro di nuove culture) hanno forse riconosciuto il limite di pensiero locale e nella loro coscienza lo hanno superato, incrementando i loro valori con altri dissimili sino, forse, ad ottenere l’abilità di usufruire al bisogno di più di un unico sistema di valori, ovvero di più di una struttura mentale.

La consapevolezza del bene agire è fortemente dipendente dalla ricchezza di valori acquisiti e dalla loro dissimilarità in quanto nell’atto di volontà si realizza un aumento di possibilità di confronto tra valori, di ragionamento.

La ricchezza di valori influenza la superficie della coscienza, la consapevolezza, tuttavia questa variazione di limite di coscienza non può che avere altresì implicazioni più profonde, incidendo sulle qualità di subconscio e istinto, incrementando la sensibilità del singolo.

Una concezione positiva della follia

Concludiamo che la follia, nella sua accezione di struttura mentale caratterizzata da valori dissimili può essere utile in relazione con la razionalità, la struttura mentale caratterizzata dai valori primari, (i valori dell’infanzia, della tradizione familiare e comunitaria) e fonte di creatività buona.

La relazione follia -  innovazione

La follia intesa come innesto relazionale di valori dissimili rispetto ai valori già presenti è il presupposto della innovazione sociale

 

 

 

 

 

 

 

 

La volontà di coscienza come innovazione

 

Abbiamo assunto che senza volontà di coscienza, non può esservi coscienza.

 Coloro che non vogliono vedere, non vedono, coloro che non vogliono ascoltare, non odono, coloro che non vogliono parlare, tacciono: Sé stessi e gli altri, mai una azione è unilaterale, non possiamo che essere sempre in relazione.

La volontà è una abilità soggettiva e individuale caratterizzata pertanto dalla responsabilità delle implicazioni della volontà.

Qualunque abilità individuale è soggettivamente e intimamente plasmabile sin dalle sue origini a priori, nel tempo nella sua velata elaborazione e a posteriori:

Evoluzione, stasi o involuzione di volontà.

 

Essendo la coscienza un atto intenzionale è il singolo a predefinire i limiti e le qualità dei sistemi che originano la volontà.

Il bianco non è il nero, secondo la singolarità del pigmento.

In termini di frequenze di luce, il bianco è la presenza di tutti i colori ed è quindi un colore. Il nero è al contrario la completa assenza di colori. In termini di pigmenti invece il bianco è la completa assenza di un qualsiasi colore mentre il nero è la somma di tutti quanti.

La possibilità di contestualizzare ogni dualismo, ovvero caratterizzarlo secondo una singolarità o un’altra è un valore aggiunto di utilità non indifferente. Prendiamo il caso del bianco che non è il nero.

In verità è possibile affermare che il bianco non solo sia simile al nero, bensì che il bianco sia uguale al nero.

Prendiamo ad esempio queste due texture 2D caratterizzanti le entità di bianco e di nero: siamo noi a definire i limiti di volontà di coscienza.

 

 

Il giudizio è psicologicamente relativo:

Semplicemente associando al nostro giudizio di valore una singolarità dissimile rispetto a quella del pigmento.

Come ad esempio:

Omogeneità, traslucenza, trasparenza, luminanza, metallicità, opacità, rilievo, sensibilità alla desatuzazione, struttura spaziale 3d, intensità e rarefazione, sfocatura, nebulosità, regolarità ...

Possiamo attribuire al bianco e al nero il giudizio di somiglianza o analogia.

Dire che il nero è simile o uguale al bianco è vano?

Sì se arrestiamo qui il nostro passo.

Dualismo, dicotomia, antagonismo, dissidio, rivalità, implicano attitudini in cui necessariamente una parte della realtà sarà sacrificata, con le conseguenze che il sacrificio comporta: Nell’ideogramma jin - yang, lo jin e lo yang coesistono.

Tuttavia generalizzando questa mentalità che è al di là del limite del dualismo vincolato e limitato da una singolarità. Giungiamo ai primi albori dell’olismo hòlos, cioè «totale», «globale». Il termine olismo pone come chiave di volta il simbolo: concordia.

Quanti furono gli scrittori che in passato consigliarono a noi di ‘vedere con gli occhi del cuore?’ tra i molti Antoine de Saint-Exupéry.

Ken Wilber ed i teorici della Spiral Dynamics considerano l’olismo come un particolare livello transpersonale dello sviluppo umano, conseguente al livello sistemico o integrale. Nella teoria della Spiral Dynamics, l’olismo è il livello più avanzato di sviluppo umano finora documentato. Wilber vede anche livelli più elevati, mistici.

Oltre l’idea “Non può essere diversamente”

Il riconoscimento di una singolarità buona, una lente che permetta di vedere oltre il limite del ‘non può essere diversamente’ è una chiave etica che può aiutare ad affrontare con resilienza e fiducia le realtà negative della vita in quanto abilità di riconoscere il lume del buono e del bene in ciò che ci appare in qualità oscure. Ad esempio soffriamo di una situazione di vita in quanto attribuiamo una misura di valore estrema ad una singolarità della situazione, rispetto alle altre di cui sovente nemmeno riconosciamo l’esistenza. Ritornando all’esempio del bianco e del nero, giudichiamo la distinzione tra bianco e nero in quanto attribuiamo il 100 per cento di rilevanza alla singolarità del pigmento e lo 0 per cento alle singolarità alternative che inizialmente non riconosciamo.

La mentalità olistica: Come concordia nella relazione tra diversità essenziali

La mentalità dualistica ha implicato l’abitudine alla competizione; poniamo attenzione a coloro i quali  limitano le proprie abilità in onore delle attitudini altrui, essi sono coloro i quali sacrificano il loro spazio di azione affinché le altrui iniziative possano simultaneamente fiorire.

Così comprendiamo che il silenzio di una persona è la possibilità di parola per una seconda, la timidezza di una persona è una occasione di relazionalità per una seconda persona, l’abbaglio di una persona è l’opportunità di una seconda di mostrarle fiducia o la sua disposizione al giudizio e al tradimento.

 

“Everything’s connected, right?

Everything’s connected.

And even if I can’t read it right, everything’s a message.

We die, so others can be born. We age so others can be young.

The point o life is live. Love if you can. Then pass it on.

We die, so others can be born. We age so others can be young.

The point o life is live. Love if you can. Then pass it on.”

Let them eat chaos, Kate Tempest

 

“Ma solitude est une condition necessaire de ta liberté.”

 

 

 

Il consiglio: “Ascolta il silenzio. “ non è insensato, è in realtà una frase benefica, poiché implica il dialogo con la coscienza di sé, ed una attività purificatrice dell’io, come accade grazie alla lettura. La trascendenza può essere acquisita in quanto consapevolezza autoreferenziale  o “senza pensieri” (Il potere di adesso. Eckhart Tolle)

‘’ If one wants to abide in the thought free state, a strugge is inevitabile. If o è succeeds in the fight and reaches the goal, the enemy, namely the thoughts, will all subside in the Self and e isappear entirely. ‘’

Ramana Maharshi

 

Le attitudini olistiche vanno in direzione della concordia, sono sovente altruiste e magnanime in quanto pongono come valore principe la relazione, insieme agli enti che la costituiscono: Olismo è pertanto volontà di incontro e accoglienza, iniziative di apertura e curiosità.

È assolutamente rilevante l’origine e la qualità dell’oro fluido del kintsugi affinché saldi con resilienza i frammenti della ceramica, insieme ai singoli elementi del sistema, le scaglie di ceramica che per quanto siano smussate, resterebbero separate e disgiunte.

 

In onore delle parole di Aldo Masullo si crede ad una realtà che disapprovi l’omologazione in quanto peculiarità limitante la libertà di pensiero e attitudinale individuale, si crede alle opportunità di relazione tra diversità in quanto spirito attivo di creatività:

 

“Il sentire, il mio vissuto è costitutivamente incomunicabile, perciò io lo dico incomunicativo, non fatto per essere comunicato. Ma ciò che dà senso all’umano vivere, è la cultura, l’operare insieme dei viventi, il comunicare tra loro con le opere, a cominciare dalle lingue. Così le nostre solitudini si fanno compagne.

 

In un celebre testo teatrale di Sartre, l’uomo dice alla sua donna: “vorrei proprio che fossimo uno”; e la donna risponde: “se fossimo uno, come potremmo amarci?”. L’insuperabile solitudine fa di ognuno un individuo. Così ci sono tante teste, tante idee, tante passioni, tante volontà, tutte diverse. È il gioco del mondo e la condizione della libertà. Altrimenti saremmo un tutto unico.”

 

LA DEVIANZA CONSISTE DEL LIVELLO OLISTICO DELLA UNIVERSALITA’, OVVERO DI UN LIVELLO DI GERARCHIA SUPERIORE RISPETTO ALLA MOTEPLICITA’ DEL GRUPPO SOCIALE, I GRUPPI SOCIALI SONO DEVIANZE LOCALI SOTTOCATEGORICHE DELL’OLISMO UNIVERSALE CHE ABBRACCIA TUTTE LE DEVIANZE – LE DEVIANZE PERSONALI INDIVIDUALI COME SANE NEVROSI SONO ULTERIORI SOTTOCATEGORIE DELLE DEVIANZE DEI GRUPPO SOCIALI –

 

Il concetto di devianza è oltre la località - le realtà spaziali in quanto a devianza di mindset – Ad esempio vi possono essere persone che si trovano in diverse luoghi del mondo e che tuttavia possiedono ad esempio il medesimo credo religioso.

La Dislocazione culturale come possibilità di arricchimento interculturale. Sia  dell’outsider, sia delgruppo sociale diverso in cui e con cui l’outsider entra in relazione.

Dislocazione - Spostamento di un componente da quella che sarebbe la sua posizione ritenuta normale.

Il caso in cui una persona o un gruppo culturale appartenente ad un gruppo sociale locale si disloca dalla località spaziale di quel gruppo culturale – per entrare in una località diversa con un mindset diverso – Le devianze rispettivamente del gruppo sociale e dell’outsider entrano in relazione come percezione reciproca di Novità culturale –

Le modalità di percezione di novità di mindset deviante, difforme rispetto al mindset locale caratterizzato come normale sono due – Accoglimento o rifiuto e le implicazioni attitudinali sono in aperta relazione con queste due possibilità categoriali.

 

L’Annichilimento della differenza o devianza

We destroy what we think it’s difference

La prospettiva di Durkheim sulla persona - Emarginato

Se la devianza è il prodotto della tensione tra autonomia dell’individuo e la costruzione sociale, ne consegue che per Durkheim:

 

“Non ci sarà mai una società senza devianza. Anche laddove la costrizione è più forte, ci sarà sempre qualcuno che si comporterà in modo difforme rispetto alle regole socialmente condivise, proprio perché non potranno mai essere cancellate le duplicità della coscienza (individuale - collettiva. Intima e esteriore. Autoreferenziale e relazionale. Attiva, libera e passiva, autoritariamente subita).

 

 

Inoltre, la devianza, oltre ad essere un fenomeno ineliminabile e quindi normale, può essere utile alla società: Senza devianza infatti, non ci sarebbe cambiamento sociale. Se tutti si comportassero sempre in modo conforme, le rappresentazioni collettive non subirebbero alcun cambiamento. Ma perché ciò non avvenga, occorre che l’originalità individuale abbia la possibilità di emergere.”

Il limite morale della devianza.

La premessa è che la devianza non sia criminalità, la legittimità della valorizzazione del concetto di devianza come sana nevrosi individuale è finché pensare differente non diventi causa o attitudine fattuale di lesione fattuale.

 

LA DEVIANZA IMPERFEZIONISMO RISPETTO ALLA NORMALITA’ DEL PERFEZIONISMO – I VALORI DEL FALLIMENTO E DELL’ERRORE

Un concetto importante ideato dall’astrologo Rob Brezsny: l’”imperfezionismo”. Serve a identificare quel tipo di persone che non si lascia sopraffare dall’ansia del perfezionismo e gode delle anomalie della vita.

Gli imperfezionisti sanno, con Borges, che soltanto insieme al disordine la simmetria trova il suo senso. ln altre parole, sanno che “perfetto” significa “chiuso”, e cioè “che non lascia spazio” ad altri innesti.

E che, quindi, se vuoi divertirti davvero devi imparare ad amare l’imperfezione.

Gli imperfezionisti non escludono affatto la perfezione dalla loro vita. Semplicemente smettono di cercarla nelle azioni e nelle persone. Non costringono più il mondo ad entrare dentro le cornici: accettano che la penna dell’esistenza scriva anche (e soprattutto) fuori dai bordi.

Sentono la perfezione della Vita che si manifesta nella relazione tra le infinite imperfezioni.

Cercano e generano la meraviglia degli “errori”.

 

LA DEVIANZA ANTIPATIA RISPETTO ALLA NORMALITA’ SIMPATIA

“Rispettare le persone in quanto tali, si può tradurre come “dare valore all’esistenza e alla libertà di ciascuno di scegliere come essere”. Questo include l’accettazione e comprensione dell’altr*, dei suoi limiti, opinioni e punti di vista, anche quando sono diversi dai nostri. Si tratta quindi di un’azione che va attuata in maniera attiva e consapevole, e sulla quale si basano i concetti di empatia e uguaglianza.

 

 

Il rispetto è completo quando si dimostra contemporaneamente verso l’altr* e verso sè stess*  È importante tener conto anche dei propri pensieri e bisogni, ed essere in grado di esprimere opinioni ed emozioni, senza passività né arroganza. L’obiettivo non è la ‘vittoria’ di una parte, ma l’equilibrio.

Quando manca il rispetto?

Quando ci crediamo superiori, quando consideriamo la nostra opinione come l’unica giusta, quando non ci mettiamo in discussione, quando imponiamo le nostre idee a chi ci circonda.

Avere opinioni diverse, avendo vissuto esperienze diverse, è non solo cosa comune, ma anche una preziosa occasione per aprire la propria mente. L’obiettivo non è eliminare le differenze, ma allenare la capacità di affrontarle e gestirle per il bene di tutt*.

Howard Gardner parla di Intelligenza Rispettosa come una delle intelligenze fondamentali per il presente e futuro del lavoro e dei rapporti interpersonali. Si focalizza sulla capacità di accettare e convivere con le diversità, trovando il modo per farle cooperare efficacemente tra di loro.

Questo tipo di rispetto si distanzia dal concetto di stima: se quest’ultima si intende come ammirazione per alcun*, il rispetto andrebbe invece dato a tutt* senza considerare simpatie.

L’educazione al rispetto potrebbe quindi essere uno strumento necessario in un mondo di soggettività uniche e interconnesse tra loro, che andrebbe insegnata fin da piccoli e messa in pratica attivamente ogni giorno.”

Il dono di rispetto sia alle persone antipatiche, sia alle persone simpatiche esprime una qualità attitudinale olistica in quanto riassume la dicotomia simpatia-antipatia nell’olismo patìa (derivato dal tema pat- del verbo greco pàtein ‘soffrire’) comunemente indicante sentimenti e passioni reciproche costitutive della umanità e naturalità e pertanto si risolve la distinzione tra percezione di devianza e di normalità nelle universalizzazioni olistiche di umanità e naturalità.

CIASCUNO DI NOI E’ UMANO

! Le universalizzazioni olistiche “umanità e naturalità” risolvono e uniscono la dissociazione dicotomica di normalità/devianza.

Universalizzazione – individuo – ambiente

“A proposito del rapporto dell’individuo con il suo ambiente, Nichiren Daishonin utilizza la metafora del corpo e ombra:” L’ambiente è paragonabile all’ombra e la vita al corpo. Senza il corpo non può esisttere l’ombra e  senza vita non c’è l’ambiente. Inoltre la vita è modellata dall’ambiente e la vita modella l’ambiente.“ RSND,1, 574.

Ognuno di noi crede che la propria vita sia limitata al corpo – La proprietà di avere luogo del nostro corpo – e separata dall’ambiente – Ma ciò non è vero – La proprietà di avere luogo relazionale della nostra essenza.

 

Ma il Buddismo insegna che la nostra vita comprende la nostra famiglia, la società e il luogo in cui viviamo e persino l’universo. (I concetti di sincronismo e di frattalismo nel libro ‘Tesi’) Proprio come le isole sembrano separate una dall’altra ma in fondo all’oceano sono parte della stessa terra, così le persone apparentemente sono separate le une dalle altre e dall’ambiente che le circonda, mentre in realtà sono parte della grande vita cosmica. Ciò significa che sebbene percepiamo le cose che ci circondano come separate da noi, al livello fondamentale della vita questa separazione non c’è.

Secondo il buddismo ogni cosa è il riflesso della nostra vita interiore, anche le nostre relazioni. Allo stesso tempo ogni cosa viene percepita attraverso il sé, e cambia a seconda del nostro stato vitale. Per questo motivo, cambiando noi stessi cambia anche ‘ambiente.”

 

 

 

 

 

L’OLISMO NEL DUALISMO DEVIANZA – NORMALITA’ E LE SOVVERSIVITA’ POSITIVE E NEGATIVE

L’INCONTRO DI DIVERSE IDIOSINCRASI (DEVIANZE O SANE NEVROSI) SONO COSTITUENTI DELL’ACCRESCIMENTO E MIGLIORAMENTO INTELLETTIVO

“E’ vero che nella storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi spesso ai punti di interferenza tra due diverse linee di pensiero. Queste linee possono avere radici in parti assolutamente diverse della cutura umana, in tempi diversi e in ambienti culturali diversi o di diverse tradizioni religiose; perciò se esse veramente si incontrano, ovvero, se esse vengono a trovarsi in dinamiche di relazione sufficientemente strette da dare origine a una effettiva interazione, si può allora sperare che possano seguirne nuovi e interessanti sviluppi. ”

“Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi.” Charles Hughes

Un mindset olistico è costituito e costituente della unione della dicotomia e contrarietà concettuale tra devianza e normalità.

La realtà è che la variazione della località culturale prescrive che la medesima realtà sentita come normalmente deviante in una singolare comunità locale sia sentita come normalmente normale e non deviante in una diversa singolare comunità locale –

La flessibilità del giudizio

La mente di ciascuna persona essendo consapevole di queste due situazioni percettive in relazione di diversità è in grado di unificare questa dicotomia in un olismo di pensiero – Sicché i due opposti divengono un connubio che permette a queste persone di vagliare con giudizio critico di paragone la realtà che osserva.

Primo caso: Normalità dislocale => Devianza locale = Possibilità di mindset di normalità locale

 

 

In particolare nella possibilità in cui tale persona si trovi localmente in un contesto in cui la località culturale prescrive che una realtà sia comunitariamente sentita come normalmente deviante, lei potrà avere influenze di normalizzazione della realtà creduta deviante dalla comunità, confutandone i principi o smussandone la radicalità comunitaria di giudizio sul tema stimato deviante mediante decontestualizzazione – L’argomento della sua tesi si fonda sul “Vedere oltre”, lei sosterrà: Io ho visto e conosciuto luoghi in cui questa realtà è giudicata normale, e seguirà a descriverne le cause attitudinali e ad argomentarne la validità.

 

Secondo caso: Devianza dislocale => Normalità locale = Possibilità di mindset di normalità locale

In particolare nella possibilità in cui tale persona si trovi localmente in un contesto in cui la località culturale prescrive che una realtà sia comunitariamente sentita come normalmente normale, lei potrà avere influenze di devializzazione della realtà creduta normale dalla comunità, confutandone i principi di normalità o smussandone la radicalità comunitaria di giudizio sul tema stimato normale mediante decontestualizzazione – L’argomento della sua tesi si fonda sul “Vedere oltre”, lei sosterrà: Io ho visto e conosciuto luoghi in cui questa realtà è giudicata deviante, e seguirà a descriverne le cause attitudinali e le implicazioni.

 

LE UNICITA’ DI MINDSET E ATTITUDINALI IDIOSINCRASI SONO SINTOMI DELLA SANA DEVIANZA O SANA NEVROSI

Riflettiamo insieme sulla possibilità che un psichiatra o uno psicologo nel momento in cui cura un/una suo/a paziente riconosce IDIOSINCRASI attitudinali o di mindset analoghe tra la persona malata ed una o più persone comunitariamente stimate sane che egli ha incontrato e conosciuto nella sua vita.

 

“I sani sono malati che non sanno di esserlo.

Salute è una parola che non vi sarebbe alcun inconveniente a cancellare dal nostro vocabolario. Per parte mia io conosco soltanto persone più o meno colpite da malattie più o meno numerose, a evoluzione più o meno rapida.

La salute è uno stato provvisorio che non lascia presagire nulla di buono.”

 Jules Romains

Credo che sarei il peggiore psichiatra immaginabile, perché capirei tutti i miei malati e darei loro ragione.» (Emil Cioran - “Quaderni”)

“E quando in certe anime particolarmente intelligenti e delicatamente organizzate balena l’intuizione della loro molteplicità, quando, come fa ogni genio, esse infrangono l’illusione dell’unità personale e sentono di essere pluriformi, di essere un fascio di molti ii, basta che lo dicano e tosto la maggioranza le imprigiona, ricorre all’aiuto della scienza, fa costatare la loro schizofrenia e protegge l’umanità perché non debba ascoltare dalle labbra di questi infelici un richiamo alla verità.”

Hermann Hesse Il lupo della steppa

“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.“

Alda Merini

Solo chi è sano di mente può impazzire. Stanislaw J. Lec

Vedi Tesi “La teoria della marginalità”

Ai matti perché nel loro dolorifero geniale delirio non apprenderanno mai la pena di tanta insensata normalità.

Davide Avolio

 

Come la pazzia, in un certo senso elevato, è l’inizio di ogni sapienza, così la schizofrenia è l’inizio di tutte le arti, di ogni fantasia.

Hermann Hesse

LA IDIOSINCRASI DI DEVIANZA INTERPRETATIVA E LE DINAMICHE DI FALSIFICAZIONE DIALOGICO – PERCETTIVA

Lo sguardo che mira sempre verso il prossimo e mai verso se stessi.

Se il dialogo è una sequenza di parole, durante un dialogo ciascuna delle due persone partecipanti attribuiscono a ciascuna frase e tonalità di espressione del dialogo associazioni contestuali relative e arbitrarie - ciascuna parola o insieme di parole risulta connesso ad un pensiero associativo e interpretativo che risponde alla domanda individuale e soggettiva perpetuata nel tempo di relazionalità dialogica:”Che cosa capisco?”

Auto inducendosi una risposta di pregiudizio che è in relazione con le personali categorie di idee contestuali risultanti dalla propria esperienza e inclinazione caratteriale custodite nel personale ‘cassetto’ di mindset costitutivo delle personali ontologiche realtà nevrotiche devianti sane - nel percorso conoscitivo, dalla pronuncia di una frase di una persona esterna, o attitudine o semplice movimento del corpo, alla percezione, al sentire vi è la mediazione del pensiero di coloro che percepiscono che è in sé un valore aggiunto falsificante dell’atto puro della persona che essenzialmente attua l’azione o pronuncia la frase –

la presunzione di comprensione è una abitudine deviante la veridicità essenziale dell’atto e della parola - la presunzione di comprendere pone il punto al percorso conoscitivo fermandolo alla superficialità di dialogo, mentre la domanda e curiosità approfondisce la quantità e qualità di singolarità contestuali virando ogni falsificazione percettiva dalla arbitrarietà di percezione alla coincidenza tra le arbitrarietà di pensiero di colei che attua l’azione e colei che percepisce razione.

Per eludere il fraintendimento è necessario tempo - non dedichiamo sufficiente valore al secondo - dialoghiamo alla velocità della luce tanto da rendere caotico ed incomprensibile il Senso olistico risultante dalla relazionalità.

E delle miriadi di parole che pronunciamo, attribuiamo arbitrariamente e talvolta istintivamente il valore di giudizio e le relazioni contestuali al buio della persona con cui ci relazioniamo. Il buio crea disorientamento, e il disorientamento è strumento vincolante il dialogo utilizzato da coloro che il dialogo lo vogliono veicolare, la presunzione di superiorità dialogica è una devianza che danneggia la reciprocità di valore umano fondante l’equilibrio reciproco di analogia valoriale relazionale ed essenziale.

È proprio quando prima del giusto tempo pensiamo - Ho capito - (e sovente non capiamo) che rendiamo reale il pregiudizio e realizziamo la nostra falsificazione del prossimo che il prossimo deve gestire e assimilare - il danno è quando fondiamo nuove realtà dialogiche e relazionali sulla base della nostra falsificazione - facciamo un passo verso la via della falsità e vi percorriamo altre miriadi di passi, allora crediamo di vedere sempre più giusto e lontano mentre diventiamo ciechi e realizziamo l’errore, basterebbe fare un passo indietro all’inizio, potrebbe non bastare un passo indietro in seguito a molti errori interpretativi, ma il percorso è individuale dello spettatore (e della persona che mediante il suo essere comprova la non veridicità del pensiero del giudicante, non si tratta di chiedere pietà al giudicante e non si tratta di Ottenere una gentile concessione di seconda opportunità di chiarimento relazionale da parte del giudicante, si tratta qui di argomentare la limitatezza come erroneità di pensiero di coloro che scelgono di mettersi dalla parte del giudice prescrivendo il falso ovvero che la loro soggettiva percezione sia la Verità essenziale della persona da essi vincolata), La frase più pericolosa e dannosa che possiamo pronunciare è “so chi sei,” E ciascuno di noi la pensa e la pronuncia quotidianamente semplicemente aggettivando il prossimo. Ma la aggettivazione che sia un gesto, un pensiero o una parola non è che la dimostrazione della veridicità essenziale di coloro che agiscono l’attitudine giudicante. (sovente maledicenti o mal pensanti). Allora non è detto che le persone benedicenti siano benedette, ma sono benedicenti, non sono maledicenti poiché sono maledette. Questo discorso non é solamente dialogico, bensì anche attitudinale. E non è detto che le persone maledicenti siano essenzialmente maledicenti, l’atto singolare non è la essenzialità della persona, il pensiero che il singolare atto di una persona sia la persona stessa significherebbe assumere “se conosco una stella conosco l’universo” se si  vede una stella non si sa niente dell’universo che è infinitamente più vasto della stella stessa.

II principio di arbitrarietà e relatività decisionale, la singolarità attitudinale implicano che sia vuota di senso e quindi priva di fondamento ogni assunzione di superiorità personale fattuale e essenziale di una persona sul prossimo. In più attribuisco alla autopercezione di superiorità e la relativa imposizione di volontà di una persona sul suo prossimo la caratterizzazione di Nevrosi relativamente a una forma di minoranza intellettiva in relazione a una deficienza di umiltà e assenza di umanità in quanto annichilimento nel non ascolto e considerazione della essenza e volontà del prossimo. Relativamente al giudizio:

Un uomo un giorno accorgendosi dei danni delle quotidiane maldicenze si impose di imparare la sospensione del giudizio. Se non si dice non si può maledire disse un uomo.

L’istinto di negazione la cui traduzione attitudinale è la pronuncia del no categorico e inesorabile non è che l’implicazione immediata di una Nevrosi la cui caratterizzazione si struttura su una base di Autostima di Superiorità provocata da una arbitrarietà di giudizio (come abbiamo già visto) e pertanto moralmente infondata e tuttavia avente implicazioni dannose come rilevanza fattuale di annichilimento attivo o di attitudine passiva.

 

 

 

 

 

Una seconda radice nevrotica che causa l’iniziativa di negazione può essere l’istinto di vendetta, ovvero, l’influenza di un vento di odio che influenza una persona che ha vissuto il rifiuto e che reitera l’attitudine del rifiuto nei confronti di nuove persone adoperando a loro discredito un aggravio di colpa, ovvero in risposta di alcuna attitudine negativa o in presenza di una attitudine negativa non grave, la persona che vi risponde attua nei suoi confronti una attitudine di qualità di gravità n volte superiore.

L’inversione dei valori, molte delle nostre attitudini quotidiane sono il frutto della inversione dei valori che è cosa umana.

La domanda “perché agire cosi adesso” è fondamentale Perché sto pensando cosi? Ciascun pensiero è fondante una attitudine. Riflettiamo sulla arbitrarietà e relatività di pensiero capiremo che ciascun movimento di ogni singolo è il risultato della sua singolarità e unicità.

Assumere che ciascuno debba essere chiamato al dialogo è solo una faccia della medaglia delle reciprocità che vuole valorizzare l’iniziativa come valore fondante il movimento della relazione, ovvero la sua esistenza e vitalità stessa, la seconda faccia della medaglia vuole dunque assumere che si chiami attivamente al dialogo come automatismo secondo cui la relazionalità sia un sistema più naturale e più abituale della iniziativa di solitudine e di silenzio.

Un secondo tema importante è la libertà relazionale, tuttavia se l’equilibrio del dono di libertà è sbilanciato la situazione relazionale degenera in uno sbilanciamento di responsabilità relazionale -  una persona  delega all’altra ogni libertà e responsabilità assumendo dipende tutto da te - ed assumendo questo non si attua che la realtà dell’abbandono è l’annichilimento della proprietà utile e buona che chiamiamo collaborazione o  complicità.

 

 

 

Non lasciamoci soli, e soprattutto cogliamo le situazioni di incontro non per procrastinare al futuro (nulla) la relazionalità lasciandoci soli definendo ad esempio categorici limiti di tempo per noi. Diamoci tempo ma non abbiamo troppa pazienza. La pazienza radicale degenera in procrastinazione passiva la cui voce è l’inerzia.

 

 

LA IDIODINCRASI MNEMONICA COME DEVIANZA ATTITUDINALE

Per chiarire questo argomento basti pensare che quando dialoghiamo con le persone ricordiamo, il nostro passato, miliardi di sentimenti, miriadi di esperienze connubiano in ogni adesso la cui attitudine che vi agiamo è sincronicamente influenzata e deviata da relazionalità assenti ma che sono state – Chiariamo questa dinamica sincronica con la definizione: “CIO’ CHE E’ STATO E’” Questa frase ha valenza filosofica e realtà lessicale – La realtà della esistenza della parola “E’” connubia, appartiene, è abbracciata nella complessità reale della frase:”CIO’ CHE E’ STATO”.

Il sistema memoria come sistema fondante la resurrezione essenziale di una assenza.

 

 

La rilevanza fattuale globale di una essenza vitale è plasmabile finché la persona vive – assunto questo, le attitudini percepite dalle persone che hanno avuto relazione con una persona defunta assumono nuova realtà presente nel momento in cui tali persone le ricordano e le ripresentano.

 

 

 

 

 

LA NORMALITA’ DELLA FOLLIA COME EMISFERO STRUTTURALE DEL MINDSET OLISTICO DUALE UMANO – (RAZIONALITA’) – (IRRAZIONALITA’ ISTINTIVITA’ EMOTIVITA’ SUBCONSCIO) – LE DEVIANZE NEVROTICHE SONO CARATTERIZZANTI L’UNICUM DELLA ESSENZA.

 

La follia può essere l’abilità intelligente di potere eludere o mistificare la realtà, possibilità tale dall’essere garante dell’oltrepassare ogni impasse che la sola razionalità non ti permetterebbe di sopravvivere e assimilare come nuova saggezza, strumento attitudinale, capacità e consapevolezza.

Niente è un caso, la complessità di ogni secondo ha senso, impegnarsi ad essere talmente perspicaci e intelligenti da assimilare ogni relazione per raggiungere la consapevolezza della complessità è importante, calcolare tutte le possibilità e stimare la probabilità più elevata per raggiungere le possibilltà più esatte, Relativamente alla varietà e alla variabilità delle possibilità, Perché non pensiamo diversamente? Perché non agiamo diversamente? Forse saremmo stati più sani e meno folle, Ma la distinzione tra sanità e follia è labile, sanità e follia sono un connubio applicate alla relatività contestuale.

La scelta è unica tra la varietà della possibilità - (tanto è che una delle Nevrosi più evidenti è la astinenza decisionale, la procrastinazione) ed il fatto che scegli è manifestazione della tua unica sfumatura di pensiero, la medesima vastità di possibilità di pensiero di cui si è dotati è caratterizzante la nostra flessibilità psicologica ed è relativa alla nostra unica storia e unicità essenziale, i bambini possiedono più flessibilità di pensiero degli adulti, se avessi scelto diversamente avresti avuto il medesimo mindset di coloro che scelsero diversamente, e nel caso in cui essi siano la minoranza non c’è nessun fondamento che pronuncia la veridicità del pensiero (il mindset della minoranza è follia mentre il mindset della maggioranza è Intelligenza) riconosci che si tratta di relatività di pensiero, pertanto ciascun pensiero e  scelta attitudinale è simultaneamente sintomo di sanità e di devianza. Non è possibile non pensare.

 

Il mindset è caratterizzante la unicità essenziale di ciacuna persona ed è fondante il suo olismo attitudinale – L’olismo del mindset individuale è il connubio nelle variabili di spazio, tempo, qualità subconscie, abilità mnemoniche, percezioni sensoriali, percezioni emotive, istintività, realtà immaginative oniriche, percezioni della qualità dell’ambiente reale, ragionamento – Tali e altre variabili sono costitutive delle sottocategorie sistemiche che nominiamo devianze nevrotiche psicologiche sane costitutive della unicità di mindset individuale che trovano rivelazione nella unica qualità di attitudine individuale. La analogia strutturale essenziale sistemica del mindset individuale decade di senso ogni presunzione di superiorità intellettiva di una persona su una seconda persona. Si evince semplicemente l’incremento di potenzialità abilitativa in una facoltà piuttosto che in una altra – ma tale variabilità non è fondamento e criterio umano essenziale di superiorità essenziale –

Ad esempio – non ha senso privilegiare l’intelletto all’intuito – Vi sono personalità che hanno elevato le loro abilità intellettive razionali, (L’emisfero razionale)pensiamo agli illustri scienziati o letterati – Vi sono personalità che hanno elevato le loro abilità intuitive (L’emisfero emozionale intuitivo) – pensiamo agli illustri saggi mistici – Ma arriviamo al punto – non ha alcun fondamento ontologico la stima di misura valoriale essenziale degli uni rispetto agli altri – ma estendiamo questa dinamica di ragionamento – annettiamo la categoria di coloro che non hanno adottato alcuna attitudine al fine di elevare le loro potenzialità intellettive – parliamo delle personalità di miseriae intellettiva – allora perché non pronunciamo essi stessi personalità illustri?

 

I contadini non involvono forse nell’atto del coltivare la resilienza intellettiva tale da ottimizzare il rendimento della coltura?  Sono essi medesimi intelligenti – essi hanno ad esempio una resilienza alla tensione lavorativa la cui qualità valoriale potrebbe non appartenere agli studiosi – pertanto comprendiamo che la variabile contestuale di intraprendenza fattuale premia analogamente chiunque istituendo una non gerarchia valoriale essenziale e attitudinale. La vita è in sé valore essenziale pertanto decade di senso il giudizio di minorazione valoriale nei confronti di coloro che realizzano della inazione il loro valore esistenziale. Il valore personale essenziale è intrinseco alla vita stessa di ogni persona, il valore essenziale non è riducibile allo spirito di intraprendenza carrieristico, il valore essenziale è indipendente dall’incremento del numero e della qualità di obiettivi da raggiungere - la stima valoriale di ogni persona non è misurabile sulla base dell’ottenimento di riconoscimenti sociali conseguenti ad attitudini socialmente riconosciute buone e benefiche come il conseguimento degli studi, ed il passo di ogni scalino varcato al superamento di ogni esame, come l’impegno quotidiano lavorativo carrieristico.

Come l’arricchimento, tutti questi ingredienti compendiano la situazione di vita di ciascuna persona, non la sua essenza - la essenza si esplica nel termine - IO SONO, ed è relativa al valore intrinseco di ciascuna vita, indifferentemente dalle aggettivazione relative a questa essenza. Poniamo danno attribuendo misura valoriale all’aggettivazione fraintendendola con l’essenza poiché in tal modo diamo realtà a ciò che non è valore, al disvalore apparente, che percepiamo come disvalore essenziale - allora finiamo a discriminare e a e arginare, istituiamo la esclusività relazionale - assumiamo per esempio che la vita essenziale di chi non studia vale essenzialmente di meno, che la vita dei poveri vale di meno, che la persona avente differenza di pensiero è essenzialmente disistimabile. Mi seguite?

La aggettivazione e la attribuzione di una condizione di vita implica il giudizio valoriale in relazione alla essenza personale ma non dovrebbe implicarlo poiché stiamo giudicando la percezione soggettiva attitudinale non la essenza - in più la aggettivazione implica due importanti gravi fenomeni - la delimitazione della assenza: Sostenere - “ Lui/lei è _______ è” minorativo rispetto al riconoscimento della essenza “ Lui/lei è.” poiché la aggettivazione determina il riconoscimento di un solo lato del poliedro essenziale trascurando e annichilendola gli altri. Una seconda grave implicazione della aggettivazione percettiva è la falsificazione reale che il giudicante realizza semplicemente osservando e costituendo della sua percezione (la percezione è una falsificazione risultante da un giudizio in quanto a percorso conoscitivo avente rilevanza fattuale creativa o distruttiva della essenza giudicata.

 

La aggettivazione come percezione

 

 

La aggettivazione come percezione adduce alla pura essenza dell’osservato il mindset (cultura, tempra caratteriale, volontà egoistica, deresponsabilizzazione, delega, intento di superiorità...) dell’osservatore che appunto falsifica mediante osservazione e attitudine attiva la pura essenza dell’osservato.

In più a livello dialogico si instaurano le dinamiche falsificanti della soggettiva attribuzione contestuale - di ciascuna parola pronunciata l’ascoltatore attribuisce qualità e rilevanza e misura valoriale arbitraria contestuale delle parole che ascolta in più attribuendo ad esse valore di giudizio ‘essenziale’ di cui l’oratore deve farsi carico e responsabilità, non delle parole che egli/lei pronuncia bensì della percezione arbitraria e della variabilità di giudizio contestuale dei suoi ascoltatori. Per concludere. La qualità valoriale della mia esistenza è già data poiché semplicemente vivo, non in misura e in qualità della mia intraprendenza o del raggiungimento o meno di obiettivi.

Rischieremmo di creare ansie inutili - che oggi imperversano ovunque - adducendo che le persone valgono per gli obiettivi che superano - non è così, immagino tutti coloro che hanno tentato e non sono riusciti - essi probabilmente si sono sentiti falliti perché la società ha innestato nelle menti il mindset dell’ambizione e della competitività - tuttavia essi dovrebbero restare sereni e integri nella loro essenza poiché il valore della loro essenza è di essi che nemmeno provano a intraprendere le dinamiche sociali relazionali carrieristiche è immanente, ILLIBATA e intrinseca al semplice battito del loro cuore e alle pulsioni elettriche del loro cervello, ciascun cervello è intelligente e saggio in quanto artefice di unicità attitudinali.

Nessuno è più ‘intelligente’, ciascuno è intelligente, semplicemente ciascuno vive secondo le peculiarità conoscitive che gli appartengono ma in quanto al risultato attitudinale non è vero che la qualità e la quantità di strumenti conoscitivi di ciascuno implichino un valore personale maggiore.

Le persone la cui stima è di povertà e miserevolezza mnemonico-conoscitiva possono essere ad esempio moralmente più ricche e più disponibili alla gratuità dimostrando più valore personale di ciò che li è attribuito, il risultato? Ad esempio lo stolto sul livello mnemonico-intellettivo potrebbe essere estremamente intelligente sul piano emotivo-sensibile-morale, ed essendo povero di una singolarità (l’intelligenza mnemonica) realizza relativamente alla singolarità della gratuità dimostrando inoltre buone qualità nella singolarità della moralità.  Perché l’inazione può essere stimata valorialmente buona e benefica? Ad esempio in quelle dinamiche in cui si agisce l’inazione e non la iniziativa di violenza interpersonale.

 

 

 

 

 

Ora si considera il principio di autorevolezza decisionale sul prossimo, ciascuna complessità di pensiero che in ogni istante esiste nella mente di ciascuna persona o a la sequenza di attitudini che non possono che implicare un effetto decisionale sul prossimo sono effetto di mindset di devianze nevrotiche sane, tutti giudicano perché il giudizio è in sé una attitudine decisionale attiva, ma pochi sono giudici giusti. La complessità di pensiero è un connubio di coscienza, razionalità e subconscio la cui complessa combinazione rende un assurdo il valore di autorevolezza decisionale e l’attività decisionale In quanto a diritto di potere decisionale di un mindset su un secondo mindset.

In più il subconscio aggiunge il principio di arbitrarietà caotica ad ogni attitudine decisionale. Pertanto abbiamo compreso la delicatezza del tema del diritto di decisione sulla vita presente altrui, ciascuno oggi si fa re del principio di autorevolezza decisionale, si delibera sul prossimo con leggerezza quotidianamente inesorabilmente, ciascuno dovrebbe riconoscere che non è un caso che i giudici debbano essere persone con una solidità, flessibilità e maturità di pensiero solo raggiungibile mediante anni di studio e di esperienza, la superiorità eccelsa conoscitivo-mnemonico-morale non è uno strumento di tutti non fingiamo che Io sia perché gli stolti che si fanno giudici creano danni.

Una intelligenza è una follia se annichilisce la esistenza di nuove mentalità, ciò che chiamiamo intelligenza è una omologazione e standardizzazione conformista di una maggioranza diveniente assolutista in quanto impositrice delle mentalità alternative più fragili - ciò che nominiamo le Mentalità non sono che devianze risultanti dall’annichilimento delle mentalità devianti più fragili, la fragilità di pensiero in traduzione dell’inclinazione al credo di ciascuna maggioranza è causata dalla non integrità di pensiero ovvero il mancato autoriconoscimento della resilienza della personale autonomia di pensiero come sana singolarità di pensiero e attitudinale indipendentemente.

Da cosa? Dalla gentile concessione del mindset comunitario che prescrive il dovere di pensare una realtà e non una sua possibile alternativa.

L’etica del pregiudizio applicata alla passività attitudinale e alla delega di responsabilità relazionale.

Il silenzio (due persone sconosciute si siedono vicine su un prato. Ciascuna di loro delega la relazionalità, nessuno parla, mentre ciascuno pensa “che antipatico/a lui/lei che non mi rivolge la parola e i l saluto” Mentre colui/colei che sta  pensando questo è lei/lui stesso essenzialmente antipatico/a poiché restando in silenzio attua la medesima negatività che critica nel prossimo. La delega di responsabilità è lo specchio di una devianza caratteriale di aggressività passiva, di egoismo e mentalità di superiorità.

 

La relatività di pensiero o unicità inosincrotica di mindset

costitutiva della sana devianza o sana nevrosi

La procrastinazione è una scelta folle. Disse una persona. Ma un uomo compromise gravemente la sua vita per un comportamento impetuoso, una seconda persona disse: Saresti stato più sano se avessi pazientato e procrastinato”

“Niente è un Caso, la complessità di ogni secondo ha senso, impegnarsi ad essere talmente perspicaci e intelligenti da assimilare ogni relazione per raggiungere la consapevolezza della complessità è importante, calcolare tutte le possibilità e stimare la probabilità più elevata per raggiungere le possibilità più esatte.” Ad esempio se pronunciate questo pensiero ad un laureato/a in filosofia o in matematica - lei non vi attribuirebbe il giudizio di persona folle ma giudicherebbe il vostro pensiero interessante e ne parlerebbe con voi valorizzandovi approfondendo la relazione. Provate a parlare così ad un pescatore, egli vi riterrà folle e vi allontanerà. Cosi voi siete sani e intelligenti per un matematico o filosofo e folli per un pescatore. E non è esatto giudicare il pescatore folle e il matematico sano.

Applicate la mentalità di relatività di pensiero e di singolarità di sana devianza ad ogni pluralità contestuale e  raggiungerete una delle consapevolezze più elevate possibili della nostra realtà. Parliamo della marginalità di pensiero o limite di mentalità locale, chi ha viaggiato in più continenti o chi legge comprende bene -

la marginalità limite di mentalità locale, esso è un limite o devianza di inflessibilità e inesorabilità che implica la auto imposizione di non ammissibilità di un mindset che non coincide con il proprio o che dimostra orizzonti più vasti del mindset personale riconosciuti come virus psicologici da eliminare, inoltre si può riconoscere impermeabilità di pensiero (non contaminazione) nella inflessibilità una indisposizione alla possibilità di cambiamento e nella inesorabilità della limitatezza mentale ad imporre i propri vincoli di pensiero  nelle mentalità più aperte. Tuttavia relativamente alla singolarità di sana devianza e relatività contestuale possiamo attribuire lo status di follia e di sanità sia alla Marginalità  di pensiero, sia alla illimitatezza  di mentalità.

 

LA CRITICA DEL SISTEMA MINDSET PURISTA

È palese  che questo sistema è radicale e dispotico, antidemocratico e nichilista in quanto annienta ed elimina spietatamente ogni possibilità di voce alternativa e creativa rispetto alla pretesa ‘perfezione’ già data, questo sistema assume che una volta che si giunge all’ottenimento di un dato livello di bontà o di perfezione, ciascuna realtà dissimile e avversa a questa debba essere allontanata e eliminata; altresì nel mentre del processo di realizzazione di realtà coerenti al sistema esso si dimostra dispotico poiché esige che ciascun artefice della realtà desiderata compia esattamente la sua parte utile al raggiungimento della meta perfetta; il sistema dunque non ammette nessuna devianza di pensiero, nessuno spirito di originalità individuale.

 

 

In tal modo imperversa la stasi eterna, un’immobilità più forte di noi stessi che abitua al sacrificio della diversità alternativa al modello di perfezione, del modello di movimento e di cambiamento esteriore strutturante il pensiero, la stasi che purtroppo talvolta assume il nome di inesorabilità.

 

La parola ‘inesorabilità’ assume senso logico in gemellanza con la parola ‘fine’, non dimentichiamo che la vera fine della vita altresì relazionale e interpersonale non può che esistere una sola volta.

La mentalità purista può degenerare in una forma di psicosi di non contaminazione del pensiero, del sentimento, dell’affettività questa struttura mentale ha come strumenti la severa selettività, l’atto del diniego a priori, ovvero in assenza di rilevanti cause, talvolta accompagnati dal mood caratteriale di ‘essere sulla difensiva ‘ e la ‘nonviolenza a priori’ con inclinazioni di egocentrismo e autocommiserazione a priori e paura ingiustificate, maligne poiché sconvolgono e travolgono l’equilibrio di reciprocità relazionale ponendo come polo positivo estremo sé stessi e come estremo polo negativo il prossimo, talvolta in mancanza di provate e consistenti premesse, la mentalità di ‘nonviolenza’  implica assenza di creatività relazionale, di curiosità e di iniziativa verso il prossimo, queste attitudini si rifrangono in coloro in cui è ancora vivido lo spirito creativo di apertura interpersonale a poco a poco affievolendolo.

La mentalità purista può implicare precarietà culturale e interpersonale in quanto inflessibilità, staticità, indisponibilità di arricchire se stessi in grazia della relazione con realtà devianti rispetto alla mentalità personale: La presunzione di unicità di pensiero e di coincidenza del proprio pensiero con la verità (Che talvolta può ritenersi coincidente con la verità ‘perfetta’ proposta o imposta dal sistema purista) è inesorabile, è cieca di sé stessa, e dispotica nella misura in cui soffoca prospettive più umili, essa inoltre è sterile, non può che fermarsi a sé stessa poiché non ha confronto, non ha relazione.

Ne possiamo riconoscere due chiavi di volta e di lettura nello spirito di originalità individuale e nel confronto interpersonale.

“È probabilmente vero in linea di massima che nella storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi si verificano spesso ai punti di interferenza tra due diverse linee di pensiero. Queste linee possono avere le loro radici in parti assolutamente diverse della cultura umana, in tempi diversi e in ambienti culturali diversi o di diverse tradizioni religiose; perciò, se esse veramente si incontrano, cioè se vengono a trovarsi in rapporti sufficientemente stretti da dare origine a un’effettiva interazione, si può allora sperare che possano seguirne nuovi e interessanti sviluppi.”

Werner Heisenberg

 

I nostri limiti sono la nostra opportunità di vivere in questi limiti e di rivalutare noi stessi per cambiarli in meglio o per abbracciarli. Perché abbracciare i nostri limiti o differenze (anche di pensiero) è l’opportunità di abbracciarci e soprattutto di elevarci reciprocamente attraverso diverse conoscenze e realtà. L’imperfezione di una realtà può velare la sua perfezione e compiutezza, così come la devianza può velare la normalità.

“Se la devianza è il prodotto della tensione tra autonomia dell’individuo e la costruzione sociale, ne consegue che per Durkheim.

Non ci sarà mai una società senza devianza. Anche laddove la costrizione è più forte, ci sarà sempre qualcuno che si comporterà in modo difforme rispetto alle regole socialmente condivise, proprio perché non potranno mai essere cancellate le duplicità della coscienza (individuale - collettiva. Intima e esteriore. Autoreferenziale e relazionale. Attiva, libera e passiva, autoritariamente subita). Inoltre, la devianza, oltre ad essere un fenomeno ineliminabile e quindi normale, può essere utile alla società.

 

Senza devianza infatti, non ci sarebbe cambiamento sociale. Se tutti si comportassero sempre in modo conforme, le rappresentazioni collettive non subirebbero alcun cambiamento. Ma perché ciò non avvenga, occorre che l’originalità individuale abbia la possibilità di emergere.”

Alla fine la premessa è quella di avere la pazienza di conoscere la verità della realtà con cui siamo in relazione, questa non è un’aspettativa passiva ma deve essere un’iniziativa attiva di incontro, di domanda e curiosità; mai definire le realtà che incontriamo, non pensiamo mai “è così” e “non può cambiare”, o “Non può essere diverso rispetto al mio modo di vedere”, non crediamo ciecamente ai nostri occhi, la verità è ancora lontana; un passo in più verso di lei ci avvicinerà.

Il cuore d’oro, nella piramide di marmo, nel cubo di legno.

Disveliamo forme non comuni della realtà.

L’umiltà di non sapere è lo spirito della curiosità, la curiosità è altruistica in quanto volontà attiva di incontro di realtà altre rispetto a noi stessi. Riflettiamo sulle possibilità presenti e future di cambiamento, sii come uno scultore che guardando un cubo in legno non pensa: “È un cubo, è solo un povero cubo di legno, mi è indifferente, dunque non esiste, non cambierò mai idea su di esso”.

Uno scultore che guarda un cubo farà tutto il possibile per creare una statua - Immagina, il processo di scultura è lento: All’inizio i materiali saranno ispidi, lentamente lo scultore scoprirà il marmo che nasconde il legno, quindi il marmo attraverso l’iniziativa creativa dello scultore mostrerà le sue forme raffinate: alla fine egli potrà vedere del fu cubo di legno una piramide di marmo in verità soltanto per la sua accogliente e plasmante volontà. Della piramide di marmo lo scultore volle farne una sfera e nel mentre dello scolpire scorse le venature marmoree celare una dorata luminescenza.

In grazia d’uno spirito di curiosità egli perseverò nell’atto dello scolpire, egli vide un prezioso lingotto d’oro che foggiò nella forma di un cuore.

Vivere significa altresì non sopportare o negare la contraddizione tra noi e la diversità, poiché ciascuna realtà che nella nostra vita è in relazione con noi non può che essere diversità e somiglianza, mai analogia essenziale, rispetto all’unità dell’io che vede, che ascolta, che tocca, che sente le variopinte, cangianti e esteriori contingenze della realtà. Abbracciamo le differenze: Non sono realtà da curare e da conformare, ma le differenze hanno lo stesso valore delle realtà che caratterizziamo normali. La realtà è una.

Non pronunciamo mai a priori NO alle realtà che incontriamo, non pensiamo mai che la nostra prospettiva sia la compiuta verità della realtà, non fermiamo noi stessi mai alla nostra prima percezione, potremmo morire precocemente, dunque non rinunciamo né alla nostra seconda idea, né alla terza, in questo modo nel frattempo raggiungeremo la verità della realtà che stiamo cercando, la realtà sarà più chiara, meno confusa, meno caotica poiché la avremo messa a fuoco. 

Se la prospettiva che si vede si percepisce come flebile e sfocata non significa che non esista! La ferma credenza della labilità altrui e la seguente certezza della propria unicità e correttezza di pensiero è la prima ignoranza.

Siamo umani, siamo animali, non macchine; quando ci incontriamo, nessuno di noi risponde automaticamente a un comando: diamo il tempo di lasciare che le nostre mentalità si abbraccino attraverso la curiosità e l’ascolto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel frattempo guardiamo il presente della realtà che sta cambiando con noi, mentre ascoltiamo, questa realtà ci sta parlando, non può che essere così poiché il tempo della vita è il tempo della relazione: il fiore sboccia anche in silenzio, anche se non ne siamo a conoscenza, l’incontro è un istante solo, tuttavia può essere la possibilità dell’irenico ritorno, la possibilità di avvicinarsi all’eterno, poiché il due è più vicino dell’uno all’infinito.

Il dono della natura risiede altresì nella parola possibilità di realizzare noi stessi ciò che è pensabile e ciò che non può essere pensato, le realtà oniriche. Permettendo che la vita non può che essere onnipresente relazionalità, L’atto del dare è l’imprescindibile premessa del vivere di ciascuno, la vita non può che essere dono: questa idea non può che condurci a riconoscere un velato significato della metafora del fiore che sboccia anche in silenzio: Ad esempio l’apparenza di una attitudine di inesorabilità può celare un dono di libertà. Siamo curiosi di ciò che non è e saremo ricchi della conoscenza di ciò che può essere – Le realtà velate oniriche ed ireniche sono in potenza reali, e divengono realtà nella misura in cui crediamo nella loro esistenza: La speranza è la lente che rende le realtà invisibili, visibili e le realtà definite, finite, inesorabili; cangianti, risorte, vive. La fede, la fiducia sono dunque le premesse, non le conseguenze dell’avverarsi dei nostri sogni.

C’è una reciprocità non equilibrata, io vi tutelo e veglio su di voi - pensate miei cari tutti, per me sono care sia le persone conoscenti, sia gli sconosciuti – Ora secondo reciprocità mi attendo lo stesso da voi.

Pensiamo alla percezione soggettiva della sofferenza in relazione alla relatività di percezione attitudinale.

La dissonanza percettiva in relazione a percezione di qualità valoriale dissimile rispetto alla qualità valoriale di atto puro subito.

 

 

 

La percezione soggettiva di una iniziativa subita che si percepisce come negativa, ad esempio una persona può subire e vivere un trauma e burnout tanto grave da compromettere la sua intera esistenza per una iniziativa subita che il colpevole può stimare una sciocchezza.

Allora associamo la negatività attitudinale all’immagine del vulcano che erutta, e si colpevolizza sempre l’attitudine dell’eruttare del vulcano, mai i cataclismi delle profondità del pianeta. (I cataclismi delle profondità del pianeta sarebbero in relazione a questo contesto le miriadi di negatività che una persona ha vissuto e che la sua essenza non è riuscita ad assimilare e perdonare)

Ebbene ciascuno di noi è simultaneamente entrambe le immagini, ciascuno di noi può essere sia il vulcano che erutta sia un cataclisma che ha implicato prima la implosività poi la esplosività di essenze altre. E siamo soliti annoiarci delle fiammelle di un vulcano che erutta, ma per fortuna che il vulcano è vivo, poiché poniamo attenzione – i medesimi miriadi di cataclismi esplosivi sulla essenza di una persona possono implicare altresì il suo annientamento, annichilimento – Qui non si tratta delle implicazioni reali e vendicative della percezione di danno subito – Bensì si argomenta che non è la misura della reazione, rivelazione vendicativa del danno subito che è immagine speculare della crisi e sofferenza e quindi della ingenza di danno che una persona vive – Il vulcano può essere quiescente, ma ciò non implica e non legittima la lava di cui il vulcano stesso deve farsi carico – NELLE DINAMICHE RELAZIONALI SI PARLA SEMPRE DI PERCEZIONI.

 

 

 

 

 

 

 

Vi sono persone che tutelano e vi sono persone che rivendicano, ma la misura della tutela e della rivendicazione sono un surplus caratteriale fortemente dipendente dalla qualità essenziale della persona che subisce danno – mi spiego – talune persone applicano vendetta di n volte più grave rispetto alla gravità di danno subito.

Talune altre tutelano e perdonano agendo una buona falsificazione di gravità minorativa sulle spalle di coloro che hanno agito nei loro confronti un grave danno (Percepito dalla parte offesa e sofferente.) Ora.

Riflettiamo più vastamente sulla bontà attitudinale nella dinamiche di reciprocità offensive e di rivendicazione.

La bontà attitudinale e la utilità relazionale si fondano entrambi sulla proprietà della creatività e non della distruttività – Riflettiamo che coloro che pongono danno al prossimo in verità pongono danno a loro stessi in realtà della perdita relazionale ed essenziale della persona offesa. Diversamente la tutela e il perdono sono agenti relazionali creativi e costruttivi implicando le dinamiche di guadagno relazionale.

Argomentiamo ora della dinamica dell’anonimato in relazione alla creatività positiva o negativa di coloro che in anonimato, sulla base della codardia di non disvelare il nome, operano opere buone o cattive alle spalle del prossimo.

Ora vagliamo le attitudini in anonimato di opere buone – Di queste dinamiche non ho nulla da dire se non il sentimento personale di premiare questi benefattori in quanto artefici buoni di creatività valoriale di un loro prossimo senza che essi siano riconosciuti come benefattori – essi sono coloro che maggiormente hanno riconosciuto il concetto e la realtà del dono, ovvero puro valore aggiunto in assenza di risarcimento proprio perché puro valore aggiunto.

 

In seconda analisi argomentiamo delle opere in malafede e dannose operate in anonimato –

 

Qui  assumono rilevanza i concetti di codardia, di annichilimento di iniziativa attitudinale della parte offesa – La persona offesa non può difendersi contro i fantasmi – tanto che vi possono essere due dinamiche relative alle iniziative velate di danno a terzi –

La dinamica della gradualità.

La dinamica della gradualità annette l’insieme delle attitudini negative ‘deboli’, ovvero di rilevanza fattuale non grave, ma persistente nel tempo – spontaneamente pensiamo all’esempio della possibilità della maldicenza quotidiana a danno di una persona offesa che dopo anni di silenziose maldicenze, risultanti da percezioni utilitariste e falsificazioni fantasiose o di aggravio di attitudine riconosciuta o di qualità essenziale della persona offesa, si ritrova ad essere emarginata, esclusa poiché le quotidianità dialogiche delle altre persone hanno intaccato la sua rispettabilità sociale.

 

LA DINAMICA DIALOGICA DELLA MALDICENZA – LA ALIENAZIONE RELAZIONALE

Oggi persiste l’abitudine di alienare il prossimo • alienare? Ma secondo qua e senso - distogliere • alienare una persona da una seconda • perché per guadagnare tempo - o meglio per annichilire il tempo del prossimo –

La banalità della competizione prescrive il sacrificio dell’avversario. Chi è l’avversario? Chiunque di cui si parla con la persona con cui si parla per tutelare il tempo di relazione con lei stessa. La FIDUCIA di conoscenza è attribuita a coloro che pregiudicano una terza persona nel dialogo tra due persone, raramente alla terza persona stessa. E qui accompagniamo la codardia come valore principe, è ora di fare decadere la codardia dal trono. É più semplice affrontare la percezione apparente di chi non è che affrontare chi è? Risposta ovvia.

 

 

Si, Risposta benefica? NO. Oggi sta succedendo che per conoscere una persona non incontriamo e non parliamo con lei bensì parliamo di lei Con le altre persone. Ora. È una follia la concezione secondo cui altre persone ci fanno aprire gli occhi su una persona pregiudicata. Assumo categoricamente che ciascun singolo gesto, ciascuna parola di persona giudicante una terza, sia artefice di falsificazione di identità. La consuetudine mi consiglia che rare parole di bontà sono pronunciate verso terzi. E questo non è che sintomo evidente di una immaturità che vuole eludere qualsiasi personale responsabilità di danno morale a terzi come vantaggiosa denigrazione della dignità e reputazione sociale.

Per tutelare chi non può ascoltare chi viene aggettivato con malizia alle spalle, ho imparato a ascoltare il vento da decenni, tutti ascoltano il vento e per nostra purezza e umanità sogno il momento in cui il vento taccia. 

Tuttavia da queste dinamiche dovremmo riconoscere la palese maleducazione di coloro che agiscono danno i quali rivelano la loro comunitaria povertà morale, così tutti gli accusatori di un capro espiatorio si rivelano tanto più giustamente accusabili del capro espiatorio stesso.

La dinamica della gradualità implica sempre un gravità di rivelazione – Le attitudini negative ‘deboli’ velate si risolvono sempre in un risultato negativo ‘grave’ che la persona offesa deve sostenere – Questa dinamica è assimilabile alla realtà delle nubi che prima adombrano e annebbiano l’albero e poi del fulmine che tronca l’albero: La dinamica elettrica insita nella creatività nuvolosa implica una rivelazione esplosiva dannosa. Che nel caso osservato è la solitudine della persona velatamente tradita -  ma in casi più gravi lo spirito rivendicativo graduale velato nei confronti della parte offesa può implicare rivelazioni tuonanti ben più gravi.

Solitamente l’anonimato si pone in relazione ad un furto di identità essenziale –

 

L’anonimo si fa nome della parte offesa – tanto che diviene in potere parte decisionale della persona offesa – Ma questa libertà non implica la superiorità essenziale dell’agente danno bensì la sua bassezza morale giustamente perseguibile e rivendicabile.

Dobbiamo avere il coraggio di rivelare il nostro nome, di mostrare il nostro volto e dobbiamo avere la saggezza di non farci nome di una persona che non è il nostro nome.

Perché la dinamica del ghosting anonimato è dannosa – perché pone la parte offesa in uno status ambientale buio, in cui non può avere potere di iniziativa attitudinale in quanto incosciente di ciò che succede.

Maybe

The images of void are sharpened by maybe, the main dissonance between mind and reality and the main rescission between time and place, between what may be and what it is, what will be, what it is the dream to be, and the possible or impossibile return of what had been.

Non sapere che cosa sta succedendo è una grave dissonanza cognitiva indotta in quanto induzione di cecità relazionale. Questa situazione di nonsense ha importanti relazioni con il concetto di ‘Sincronismo’. Riflettiamo. Come è possibile disvelare l’anonimato in un ambiente percepito di corruzione essenziale della parte offesa? La generalizzazione – Se non si sa chi, potrebbe essere chiunque – e l’anonimato si risolve nella responsabilizzazione comunitaria del fatto medesimo di avere indossato la maschera di anonimo. È giusto generalizzare ? La giustizia della generalizzazione è garantita dalla veridicità della probabilità della maggior quantità di persone agenti ghosting.

Contestualizziamo come veleno nevrotico lo spirito di anonimata iniziativa e|o rivendicazione.

 

 

 

Tanto che la codardia di ferire alle spalle una persona è una abitudine che si impara da adulti, i bambini sono migliori, possono essere cattivi è vero, tuttavia sono innocui, all’estremo lanciano la palla sul viso di un compagno, nulla di più - nulla a che fare con i complessi meccanismi di annichilimento essenziale personale che quotidianamente il mondo degli adulti si autoinduce. E poi dove si va? A sorridere con altri uguali della presunta illibatezza attitudinale quando sincronicamente si medita e si ricorda di tutti i tradimenti che si ha agito nei confronti di più fragili e di meno fragili – coloro che provano a velare le condotte negative e tuttavia proprio la impassibilità è la chiave per riconoscere l’inverso della positività, ovvero le negatività.

Le misura e la qualità della percezione di sofferenza subita conseguente ad una offesa è relativa e soggettiva, non è omologabile e non è oggettivabile, vi sono persone più resilienti e meno, persone che sanno  andare oltre e coloro che sono più fragili, pertanto la medesima azione può avere conseguenze diverse su persone diverse, una azione che implica in una persona uno stato di malessere e sofferenza transitorio se attuata su una seconda persona più fragile può implicare realtà ben più gravi come traumi e burnout psicologici. Inoltre la percezione di sofferenza è contestuale, una persona può essere resiliente al 99% dei contesti e sensibile allo 0,1% dei contesti, dunque se la qualità attitudinale della offesa coincide con il contesto relativamente alla quale la persona è più sensibile lei viene ferita gravemente.

Non è attribuibile a nessuna persona la garanzia della  impermeabilità e resilienza relative ad una attitudine pertanto se la sensazione risultante da una data attitudine si riconosce come fonte di sofferenza dalla persona che la vive, indifferentemente dalla qualità della attitudine, che ad esempio può essere stimata una leggerezza da coloro che attuano l’attitudine, questa attitudine acquisisce la qualità di offesa e la persona attuatrice di tale attitudine si ritiene essere dunque offensiva.

La accezione negativa della inazione relazionale in relazione alla dinamica di abbandono in aperta contrapposizione con l’idea di compartecipazione e  di complicità relazionale:

La semplice inazione può essere caratterizzata come fonte di aggressività passiva. Perché la inazione è dedica di indifferenza – caratterizziamo indifferenza come attribuzione di giudizio di – non – differenza – ovvero di una essenza che non induce rilevanza fattuale nell’ambiente relazionale. Ovvero induzione di attribuzione di annichilimento, annientamento essenziale.

Tuttavia non sempre è cosi, l’inazione oltre al riflesso dell’indifferenza, può essere il risultato di una mentalità più profonda che vede il dono di libertà come causa dell’inazione, tuttavia se all’inazione si accompagna l’inesorabilità ovvero la persistente e definitiva indisposizione al dialogo la inazione viene caratterizzata come abbandono di cui raramente si parla e che tuttavia è una negatività che può essere fonte di sofferenza.

Solitamente I’ aggressività passiva, ( se la persona che la subisce non è resiliente e se non possiede la consapevolezza tale da comprendere, assimilare e perdonare, qualità che ritengo io stesso di dimostrare di possedere,) può implicare aggressività attiva pertanto dovremmo tutti riporre la nostra attenzione nella latente nostra passività relazionale come soluzione della negativa causa prima di ogni incomprensione.

L’emarginazione.

La relazione con la fragilità, implica l’acquisizione della proprietà della flessibilità alla nostra essenza - che cosa è stimata la fragilità in un sistema sociale fondato sulla iperresilienza individuale? Una devianza, La fragilità non è resilienza, il “non è” rispetto alla “normalità” della resilienza è caratterizzata come devianza.

 

 

 

 

Un limite è che temiamo: La devianza ed ogni sua realtà che riteniamo contestualmente deviante, non la sfruttiamo come opportunità di arricchimento. Annichilendo la “devianza” della fragilità rendiamo abitudinaria la finzione “lo sto sempre bene” creando una grave dissonanza cognitiva indotta nei momenti legittimi e nelle situazioni legittime di malattia, isolamento, ed in generale di fragilità, povertà emarginazione.

L’outsider possiede una prospettiva olistica del sistema sociale da cui è emarginato, poiché si trova al suo esterno – La qualità di critica dell’ambiente sociale da cui l’outsider è emarginato è una opportunità di cambiamento, di autocritica e di miglioramento del sistema sociale grazie all’outsider. Queste premesse non consistono in una accezione positiva dell’atto di emarginazione di un sistema ambientale verso un emarginato – bensì argomenta il valore del mindset dell’emarginato e come essenza valoriale il fondamento secondo cui una essenza di valore non merita di essere emarginata . In atto di discussione la possibilità di rivelazione futura di valore essenziale come fondamento del merito valoriale presente.

 Le catene della libertà esprimono una eventualità di vita, favorevolmente accolta o subita (o accolta in seguito ad essere stata subita) in cui il singolo è vincolato in una stasi di creatività relazionale, il fatto stesso che i legami relazionali si scindano può al meglio implicare in lui due meravigliose potenzialità reattive

(non consideriamo in questo breve scritto le reazioni negative conseguenti allo stato di emarginazione): la consapevolezza olistica e la creatività originale e anticonvenzionale. Definiamo consapevolezza olistica la capacità di scorgere il senso riassuntivo della realtà, la consapevolezza olistica è una capacità donata a coloro il cui sguardo è lontano dalla realtà che si osserva, ( colui che da un faro osserva all’orizzonte le onde della realtà) così da averne una visione d’insieme consapevole di tutte le relazioni che la compongono, il contrario di consapevolezza olistica è la consapevolezza imminente.

In questo caso l’osservatore è egli/ lei stesso/a una delle miriadi di relazioni che compongono quel microcosmo di realtà, (colui che vive le onde dell’oceano del reale) secondo questa premessa non è possibile la comprensione di senso generale necessaria all’agire consapevole. Poiché gli outsider sono carenti di relazionalità, essi non sono dipendenti da esse, ne consegue che la loro qualità di creatività non sia conforme ai rigidi principi dei sistemi relazionali di cui non sono parte, la loro prospettiva, se viene riconosciuta ed accolta, si può dunque ritenere il simbolo della fonte di possibilità del cambiamento, in più è probabile che questo cambiamento sia in nome dei valori della relazionalità, uguaglianza, (poiché sono state conosciute le conseguenze della disuguaglianza) magnanimità (in grazia della consapevolezza olistica si riconosce la propria umile limitatezza) altruismo:

È naturale che la persona emarginata senta la necessità di divenire una utilità sociale al fine di emendare i legami che furono scissi, a modo loro coloro che ebbero esperienza di questa realtà vi riuscirono: gli outsider, i più memorabili scrittori, matematici, artisti ebbero consapevolezza del significato della parola emarginazione. Inoltre nella dialettica del reale l’emarginato emargina, questa è una tra le cause  dell’ impasse dell’istaurarsi di nuove relazionalità tra l’emarginato e la realtà emarginante.

 

Outsider

Chi opera in campo letterario, artistico e sim. Al di fuori di ogni scuola o movimento.

 

Emarginato

Chi, per condizioni sociali, economiche, fisiche, o per costume di vita, è o si sente messo al margine dalla società, o escluso da una comunità, da un gruppo, dal suo prossimo.

 

 

LA INTEGRAZIONE SOCIALE E’ COSTITUTIVA DELLA IDENTIFICAZIONE E IMMEDESIMAIONE NEL PROSSIMO COMUNITARIO – La relazionalità è costitutiva della strutturazione in divenire della essenza persona.

WHEREVER YOU STAND, BE THE SOUL OF THAT PLACE

Individuo => Persona.

“We crave the satisfaction of having a position in society because we’re afraid of being nobody.”

Jiddu Krishnamurti

Questo concetto è radicale – ed irreale – in quanto la non appartenenza ad un sistema sociale non implica l’annichilimento essenziale seppur è vero che la relazionalità compendia la complessità del sé.

La stima valoriale della Diversità (come considerazione della unicità individuale nella dinamica di relazione interpersonale rispetto all’appiattimento di conformismo) rispetto alla concezione di uguaglianza omologatrice.

Critica alla concezione: “People of quality don’t fear equality.”

L’uguaglianza implica un ridimensionamento innaturale della propria variopinta essenza sulla base dei colori che percepiamo del prossimo – Uguaglianza presuppone –

Le devianze idiosincrasi del prossimo devono essere le mie devianze idiosincrasi – Tuttavia questo sistema, è un sistema fondato sula percezione – in quanto ad atto di osservazione di una essenza che implica una falsificazione attiva della essenza del prossimo che si presupporrebbe come metro di ridimensionamento del proprio sé, pertanto vi è inconciliazione e labilità strutturale nel fondamento di modifica di una essenza sulla base di una percezione superficiale. In più il ridimensionamento implica una minorazione e una delimitazione o una estensione delle facoltà individuali – o comunque la presenza di un termine di paragone minorativo o estensivo delle facoltà individuali –

La variabile è la qualità dell’ambiente e della persona con cui istituiamo l’omologazione – se ambiente e persone possiedono idiosincrasi moralmente, attitudinalmente negative e caratterizzate da povertà, inesorabilità, inflessibilità di pensiero, ambiente e persone saranno impoverenti la individualità essenziale della persona compartecipante alla omologazione, diversamente se ambiente e persone possiedono idiosincrasi moralmente, attitudinalmente positive e caratterizzate da ricchezza, apertura alla possibilità conoscitiva, plasticità di pensiero, ambiente e persone saranno accrescenti la individualità essenziale della persona compartecipante alla omologazione. Tuttavia la dinamica di omologazoine presuppone sempre una minorazione di libertà. L’essere olisticamente noi stessi nell’analogia tra il sé solitario ed il sé relazionale costituisce integrità personale e focalizzazione e riconoscibilità del proprio sé costitutivi della possibilità di riconoscimento della propria unicità in una molteplicità relazionale – La molteplicità non considera coloro la cui essenza è nebulosa, non immediatamente riconoscibile, non focalizzabile, e tale essenza si confonda nella molteplicità omologandosi se non è in grado di esteriorizzare con tempra caratteriale la sua diversità idiosincronica.

La focalizzazione del sé implica la non omologazione del sé al sistema di molteplicità personali – In tale dinamica la attività modificatrice del singolo sulla molteplicità ambiente ha misura e qualità maggiori rispetto alla attività modificatrice che la molteplicità ha sul singolo.

“Noi abbiamo diritto della uguaglianza ogni volta che la nostra differenza ci pone in una situazione di inferiorità e di disuguaglianza come noi abbiamo sempre diritto alla differenza ogni volta che l’uguaglianza tende a spogliarci delle nostre caratteristiche. 

Abdallah Pretceille M. (1996) Vers une pedagogie intercurulelle. Anthropos Paris

 

“La democrazia secondo omologazione arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell’Uguaglianza, che dispensa l’ignorante meno che d’istruirsi d’avere prematuramente rilevanza fattuale di diritto decisionale sul prossimo.

Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la sua Disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: Culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle differenze si paga.”

Henri Frederic Amiel Frammenti di un diario intimo 1871

 

 “In the referendus, two forces are at work: Numbers and knowledges. In the present model. The less educated form the majority. This gives them an electoral benefit. The better educated, however, receive more informative signals. This increases the value of their votes. If pBn > p L (1- n), knowledge  triumphs numbers. Thus, the outcome of a referendum might benefit the minority at the expense of the majority.

The extended Contorcet model casts doubts on the idea of one (Wo)man, one vote. It shows that the value of a vote of an educated citizen counts more than a vote of a less educated citizen. Pb>p L 

Regola giuridica:

Regola prescrittiva eteronoma che impone una condotta specifica. Il comportamento è influenzato dalla regola.

Le nuove regole scientifiche falsificano quelle precedenti.

A differenza delle regole scientifiche: Il fatto che una regola giuridica venga violata non falsifica la regola giuridica stessa. La violazione della regola implica infatti l’applicazione di provvedimenti civili o penali.

Regola morale

Regola che il soggetto pone per se stesso in autonomia.

 

La relatività della giustizia:

Le regole morali possono essere in contrasto con le norme giuridiche.

La violazione della regola può creare associazionismo ovvero essere un fattore di coesione sociale.

L’idea di giustizia delle minoranze: Le minoranze hanno il diritto di essere ascoltate. Coloro vengono ritenuti più deboli hanno il diritto di venire ascoltati. Non devono essere dimenticati a priori poiché tali.

Non giustifico l’anticonformismo distruttivo e violento. E’ una richiesta presentata in modo sbagliato e con conseguenze pericolose. Tuttavia è pur sempre una richiesta, una richiesta di ascolto inascoltata. In ogni caso il fine non giustifica i mezzi. Non tutto ciò che si può fare deve essere fatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE DEVIANZE ATTITUDINALI DANNOSE – ALCOOL E DROGHE

 

Approfondimento tratto dalla fonte bibliografica

Centro B.R.A.I.N per le Neuroscienze, Università degli Studi di Trieste

http://www.lucaticini.com/wp-content/uploads/Neuroscienze_per_iniziare.pdf

 

LE DROGHE

Le normali funzioni del cervello possono essere facilmente modificate da sostanze provenienti dall’esterno del nostro corpo, somministrate a scopi terapeutici (gli psicofarmaci) oppure per gli effetti “piacevoli” che provocano (almeno all’inizio della loro assunzione): le droghe.

A seconda degli effetti che procurano, le droghe si suddividono (arbitrariamente) in tre categorie:

• Sedativi (hanno effetto calmante e depressivo): oppiacei, ansiolitici, analgesici, sonniferi, alcool…

• Stimolanti (con effetto eccitante sul sistema nervoso centrale), come la cocaina, le amfetamine ed anche la caffeina

• Psichedeliche-allucinogene (modificano l’attività cerebrale e l’interpretazione delle percezioni): si tratta di alcuni funghi allucinogeni come il “peyote”, la mescalina, l’LS o la cosiddetta “ecstasy”.

Certe sostanze possono procurare contemporaneamente più di uno di questi effetti, ma lo vedremo più avanti. Tutti abbiamo sentito parlare di “tossicodipendenza ”; in realtà, l’uso delle droghe comporta almeno quattro gravi effetti collaterali:

• la tolleranza

• la dipendenza psichica

• la dipendenza fisica

• la sindrome da privazione.

 

Cosa significa “tolleranza”? Assumendo la sostanza, l’organismo si abitua, per cui serve una quantità progressivamente sempre più grande di droga per ottenere l’effetto. La dipendenza può essere di due tipi:

psichica, allorché si instaura un bisogno incoercibile (o desiderio incontrollabile) di assumere la sostanza; oppure fisica, per cui l’organismo ne necessita per continuare a funzionare normalmente. Alcune droghe, infatti, si sostituiscono alle sostanze normalmente prodotte, rendendo indispensabile la loro continua assunzione. La dipendenza fisica è data soprattutto dagli oppioidi, dall’alcool etilico e da alcuni psicofarmaci usati come sedativi: benzodiazepine e barbiturici.

La sindrome da privazione, anche detta da astinenza, è l’insieme dei disturbi psichici e somatici che si verificano alla sospensione brusca della sostanza. Ad esempio, nel caso della cocaina, l’astinenza comporta un quadro caratterizzato da ansia, insonnia, senso di fatica, iperfagia (appetito smodato).

Oppio

Una delle droghe più antiche e più note è l’oppio. Esso viene estratto da un tipo di papavero il cui nome scientifico è Papaverum sonniferum, di cui l’oppio è il lattice condensato della capsula dei semi. Dall’oppio derivano gli oppiacei (morfina, codeina, etc.), che sono pertanto sostanze naturali, distinte dagli oppioidi

(fenilpiperidine, pentazocina, naloxone, etc.), che invece sono molecole di sintesi o semisintesi.

Si è inoltre scoperto che anche il nostro organismo produce delle sostanze affini, dette oppiopeptine: sono le famose endorfine, responsabili della mediazione degli stimoli piacevoli.

I recettori centrali e spinali più importanti per l’azione degli oppiacei sono i mu, che sono al contempo mediatori delle sensazioni dolorifiche e responsabili della dipendenza.

(Purtroppo le due azioni sono inscindibili).

I percettori mediano: Analgesia sovraspinale e spinale, euforia, depressione respiratoria, dipendenza psichica.

I percettori  mediano: Disforia, allucinazioni, stimolazione cardiaca.

I percettori k mediano: Analgesia a livello spinale, effetti psicoto-mimetici a livello centrale.

Come agiscono gli oppiacei? Gli oppiacei agiscono interagendo direttamente con recettori propri,

classificati con lettere dell’alfabeto. I recettori, a loro volta, sono diversamente distribuiti (come densità) nel sistema nervoso centrale ed ognuno di essi media effetti diversi.

Morfina

La morfina ha attività potente sui sui recettori di molti sistemi, fra i quali anche il sistema nervoso centrale. Su di esso, la morfina induce:

• analgesia

• sonnolenza

• variazioni dell’umore

• annebbiamento mentale

il tutto senza perdita di coscienza! (si definisce invece “anestesia” l’analgesia con perdita di

coscienza) Per quanto riguarda l’analgesia, la morfina è il farmaco principe in molte situazioni in cui si

deve sconfiggere il dolore insostenibile, come per esempio nel cancro o durante un infarto.

Sul dolore la morfina ha un effetto molto interessante, perché duplice: essa riduce il dolore di tipo nocicettivo, cioè quello originato dalla eccitazione dei recettori sensitivi, mentre ha azione nulla sul dolore neuropatico, come quello che si ha per lesione di un tronco nervoso. Su quest’ultimo, tuttavia, la morfina è in grado di togliere il contenuto psicologico negativo del dolore, senza toglierne la percezione, alleviando così la componente più difficile da tollerare, la “sofferenza”. In sostanza, il paziente sa che il dolore c’è, ma è come se non fosse suo.

Droghe sintetiche

Le amfetamine sono sostanze simpaticomimetiche indirette (ciò vuol dire che stimolano il sistema simpatico) ed hanno anche effetti allucinogeni.

Il loro prototipo e la più attiva come stimolante sul sistema nervoso centrale è la Damfetamina.

La met-amfetamina, invece, ha una durata d’azione più lunga, può cioè dare euforia

per quattro - sei ore. Una delle droghe sintetiche più in uso oggi è la MDMA o metilendeossiamfetamina, meglio nota come Ecstasy.

Il meccanismo d’azione di tutte, comunque, è quello di favorire la liberazione dei neurotrasmettitori eccitatori noradrenalina e

RECETTORI COSA MEDIANO:

 - analgesia sovraspinale e spinale, euforia, depressione respiratoria, dipendenza psichica

 disforia, allucinazioni, stimolazione cardiaca

k analgesia a livello spinale, effetti psicoto-mimetici a livello centrale

Come agiscono gli oppiacei?

Gli oppiacei agiscono interagendo direttamente con recettori propri, classificati con lettere dell’alfabeto. I recettori, a loro volta, sono diversamente distribuiti (come densità) nel sistema nervoso centrale ed ognuno di essi media effetti diversi.

dopamina. A livello del midollo spinale, ciò comporta la stimolazione della muscolatura striata, con aumento dell’energia muscolare e ritardato senso della fatica. Su alcuni neuroni centrali, lo stesso meccanismo è responsabile dello stato di veglia. Infine, agendo su degli enzimi detti MAO (monoaminoossidasi), la amfetamine hanno anche una debole azione antidepressiva.

Fra i molti effetti collaterali da uso cronico (diminuzione dell’appetito, alterazioni comportamentali, risposta emozionale amplificata) è importante ricordare la psicosi tardiva da amfetamine ad alte dosi, che si verifica per formazione di metaboliti tossici.

Si tratta di una psicosi paranoide che è simile alla schizofrenia.

Testimonianza clinica (dalla “Drug Dependency Unit” di Padova)

“Un ragazzo di 24 anni è stato inviato al nostro Centro per il trattamento delle tossicodipendenze dopo aver violentemente assalito la madre. Da quattro anni assumeva MDMA, sempre sotto forma di compresse e facendo passare da 1 a14 giorni in media fra un’assunzione e l’altra. Ha riferito l’assunzione occasionale di altre sostanze (alcool, benzodiazepine, cannabis, cocaina). Prima di iniziare ad usare questa droga non aveva mai lamentato disturbi psicologici, mentre–come confermato dai suoi parenti- negli ultimi tre anni si è convinto che la gente lo fissi e lo prenda in giro in sua assenza.

 

Ora soffre di allucinazioni di inversione del ritmo sonno-veglia (i sintomi sono cominciati quattro anni fa); la perdita di appetito si è accompagnata ad un forte calo ponderale; inoltre il soggetto ha riferito una marcata diminuzione della propria attività sessuale per circa un anno. Negli ultimi tre anni ha sofferto di frequenti cambiamenti di umore, anche se mai sufficientemente importanti dal punto di vista clinico da giustificare una diagnosi di disturbo affettivo.

In passato aveva causato due incidenti automobilistici, di cui uno grave, correlati ad episodi acuti di ingestione di MDMA. Nel corso dei quattro anni precedenti si erano registrati vari episodi di aggressività.

L’esame del suo stato mentale mostrava deliri paranoidei, alti livelli di ansia e deliri relativi a modifiche corporee (il suo cervello era stato rubato, gli occhi non erano i suoi); inoltre era convinto di avere l’AIDS.

Gli esami di routine, la tomografia computerizzata del cervello ed i test sul siero per la ricerca di sifilide ed HIV sono risultati normali. Al momento dell’invio, i test delle urine risultavano positivi soltanto per la cannabis.

 Il paziente è stato ricoverato per un breve periodo di tempo in un’unità psichiatrica, in cui è stato sottoposto a terapia. Il trattamento farmacologico, però, ha avuto effetti benefici soltanto sulla sua aggressività e non sulla componente delirante. Nel corso dei tre mesi successivi, il ragazzo ha continuato ad assumere una terapia neurolettica, senza trarne grossi benefici. È a tutt’oggi sotto osservazione […] ”

 

Allucinogeni

Il prototipo degli allucinogeni è l’LSD, cioè la dietilamide dell’acido lisergico, il quale è contenuto negli alcaloidi della segale cornuta, una pianta molto diffusa allo stato selvatico.

L’LSD è un composto molto attivo (agisce in microgrammi), che altera qualitativamente lo stato psichico del soggetto, dando una sintomatologia soggettiva molto simile alla psicosi. Il pericolo con questa droga è pertanto quello di una erronea interpretazione della realtà e di alterazioni dei processi dell’ideazione, che possono condurre ad atti dannosi per sé e per gli altri.

Il meccanismo d’azione dell’LSD, come per gli altri allucinogeni, è duplice: interagisce con i recettori della serotonina, nonché stimola la liberazione del neurotrasmettitore dopamina a livello dell’ippocampo e della corteccia cerebrale.

Se l’LSD viene assunto in dosi maggiori di 50-100 microgrammi, subentra uno stato di intossicazione, che in una fase iniziale si caratterizza per vaghi fenomeni soggettivi come stanchezza, senso di freddo o caldo, sapore metallico, gonfiore della lingua, bruciore degli occhi. In seguito compaiono disturbi neurologici come tremori e parestesie, fenomeni neurovegetativi come la piloerezione, effetti psicosensoriali, visivi ed uditivi, (il viso umano diventa una maschera), errori nel valutare le dimensioni e le distanze, senso del tempo modificato, oltre ai consueti effetti psicologici di labilità dell’umore (il soggetto può andare dall’euforia al panico).

 

Anche dopo mesi dalla sospensione dell’LSD possono ricomparire alcuni dei sintomi (“fenomeno del flash-back”).

Infatti questa sostanza, essendo liposolubile, rimane a lungo nei depositi di grasso dell’organismo. L’unico trattamento possibile per le allucinazioni da LSD è la somministrazione di un antipsicotico.

Alcool

L’alcool etilico è prodotto dalla fermentazione alcoolica del glucosio ad opera di alcuni enzimi che sono contenuti nelle cellule del fungo Saccaromyces.

È un liquido incolore e aromatico, estratto dalla fermentazione dell’uva e di altri vegetali, dopo distillazione.

Fa bene o fa male?

L’alcool, come ogni sostanza psicoattiva, modifica il funzionamento del cervello e quindi la percezione della realtà. Pertanto, se usato con frequenza, porta ad una dipendenza fisica e psichica molto forte.

A questo proposito, l’alcoolismo cronico è definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “una sindrome caratterizzata dalla necessità di bere una quantità di alcool superiore a quella assimilabile dall’individuo, che si accompagna ad una diminuzione della tolleranza, provocando nel soggetto disturbi psichici, che si riflettono anche nel campo sociale.”

L’alcool è usato fin dall’antichità come medicamento, come stimolante del SNC, ma può avere anche l’effetto contrario, come antisettico e, talora, per la conservazione di pezzi anatomici.

Il suo abuso è tossico. L’assorbimento per via orale è rapido ed avviene attraverso lo stomaco e

l’intestino tenue; circa il 90% dell’alcool assorbito viene metabolizzato, mentre il rimanente è eliminato attraverso le urine, il respiro ed il sudore.

 

 

 

Spesso si ingerisce dell’alcool per calmare l’eccitazione o per superare una depressione, per rimuovere l’ansia e le tensioni, o ancora per facilitare il sonno, senza menzionare le numerose valenze sociali che le bevande alcooliche possiedono (perdita delle inibizioni, etc…). Per questo l’alcool è la droga che più inconsciamente noi assumiamo a mo’ di “farmaco del comportamento” ed il suo abuso investe non solo gli aspetti tossicologici, che vedremo in seguito, ma anche l’accettazione sociale che lo circonda.

Le azioni più importanti dell’alcool si esplicano a livello del SNC, nel quale esso determina spesso depressione.

Attenzione! Quando si osserva una certa iperattività, essa è dovuta alla rimozione degli effetti inibitori, poiché l’alcool, di per sé, non è stimolante!

Le prime funzioni ad essere perdute sono i gradi più elevati di giudizio, riflessione, osservazione ed attenzione. Ma se l’abuso costituisce un problema, ciò non significa escludere a priori l’uso di bevande alcooliche! È ormai dimostrato, infatti, che una moderata quantità di alcool è benefica per l’organismo, soprattutto sul sistema cardiocircolatorio.

L’effetto depressivo dell’alcool sul sistema nervoso centrale si spiega alla luce dell’inibizione dei recettori per i neurotrasmettitori eccitatori ed il contemporaneo potenziamento di quelli dei neurotrasmettitori inibitori. Per esempio, l’alcool aumenta l’attività dei neuroni che utilizzano l’acido Gamma-aminobutirrico (GABA) come neurotrasmettitore, attraverso l’azione sui canali ionici.

Dal punto di vista clinico, l’intossicazione acuta da alcool è caratterizzata da:

• difficoltà del linguaggio

• diminuita performance psicomotoria

• deficit di memoria ed attenzione

• labilità emotiva

 

 

Tanto per fare un esempio tristemente noto, si sa che guidare ubriachi è pericoloso, ma forse non tutti sanno che la relazione fra la probabilità di avere un incidente stradale e l’assunzione di alcool non è lineare. Un tasso alcoolico di 80 mg/100ml di sangue - il limite oggi in vigore in Italia, al di sopra del quale scattano le sanzioni - fa aumentare il rischio di incidente. Ma con un tasso pari a 160 mg/100 ml il rischio non raddoppia, bensì si moltiplica di un fattore 15 !!

 

Altri aspetti poco conosciuti riguardano le interazioni fra alcool e droghe (con potenziamento dell’effetto depressore sul sistema nervoso centrale) e fra alcool e farmaci

(ad esempio, inibizione metabolica di anticoagulanti, benzodiazepine , antiepilettici e

litio).

Sempre dal punto di vista clinico, l’intossicazione cronica da alcool comporta:

• deficits nutrizionali, specie di tipo vitaminico

• neuropatie periferiche

• cardiomiopatia

• cirrosi epatica

• atrofia cerebrale.

A livello del SNC, l’abuso di alcool determina modificazioni adattative a carico del “sistema gratificatore” cerebrale, che si occupa di elaborare i rinforzi naturali; la conseguenza è l’instaurarsi di un comportamento di ricerca della sostanza e, quindi, di dipendenza.

La dipendenza, così come si manifesta a livello comportamentale con il desiderio irresistibile di assumere alcool, conduce alla sindrome da astinenza nel caso si interrompa l’assunzione. Quest’ultima è nota perché può assumere connotati drammatici, con sintomi quali allucinazioni, disorientamento nel tempo e nello spazio, comparsa di comportamenti irrazionali, nel qual caso è definita delirium tremens.

La conoscenza dei meccanismi molecolari che stanno alla base dell’azione dell’alcool, peraltro ancora oggetto di intensi studi, ha portato, recentemente, alla proposta di sostanze in grado di alleviare i sintomi dell’astinenza e di aiutare gli alcoolisti a smettere di bere. Una di queste è il disulfiram, che ha la capacità di scatenare una vera e propria sindrome da privazione non appena l’alcoolista ingerisce anche piccole quantità di alcool.

In questo modo si tenta di indurre un condizionamento negativo verso il desiderio di assumere la sostanza.

CURIOSITA’

Quanto ne bevo?

D’accordo, dosi moderate di alcool fanno bene alla salute. Ma quanto bere? Gli esperti concordano nel fissare il limite a 40 grammi di alcool al giorno, che equivalgono a mezzo litro di vino, oppure a due “drinks” superalcoolici, oppure ad un litro di birra. Questo vale per gli uomini. Per le donne la dose va leggermente ridotta, in quanto nell’organismo femminile (come del resto anche nella razza asiatica ed in altre popolazioni) vi è una minor quantità di alcool- deidrogenasi, l’enzima preposto alla metabolizzazione dell’alcool.

Segnali di fumo

Proviamo ad intervistare un qualunque fumatore e a chiedergli cosa prova nel momento in cui aspira la prima boccata di sigaretta: lo sguardo del soggetto si illuminerà di entusiasmo e la risposta sarà, pressappoco, che la sigaretta allenta la tensione, rilassa, rende più sicuri di sé, ha un buon “gusto” e via dicendo. Dopo poco, tuttavia, il fumatore assicurerà che ha provato molte volte ad abbandonare questo “brutto vizio”, che sa che “fa male” e in futuro si ripromette di smettere. In effetti, le statistiche dicono che il 90% dei fumatori vorrebbe smettere, ma ben pochi ci riescono (meno del 10% ogni anno, ma probabilmente molti di questi sono destinati a riprendere dopo qualche tempo).

 

Eppure tutti sono consapevoli degli effetti nocivi che i costituenti del fumo hanno sulla salute, in particolar modo il catrame e il monossido di carbonio, tanto per citare i più comuni. Questa è forse la miglior dimostrazione sperimentale che il fumo di sigaretta contiene una sostanza altamente “additiva” (“addicting”), verso la quale si sviluppa dipendenza.

In maniera non dissimile da qualunque altra droga.

Il componente incriminato in questo caso è la nicotina.

Lasciando da parte i molteplici danni di carattere respiratorio (tumore polmonare, enfisema, dispnea respiratoria) e cardiovascolare (aterosclerosi dei vasi sanguigni, infarto del miocardio) degli altri componenti del fumo, sono gli effetti della nicotina ad interessarci, per quanto concerne la chimica del cervello.

 

90% : i fumatori che vorrebbero smettere

10% : quelli che ci riescono

8 – 9 : mg di nicotina contenuti in media in una sigaretta

1 – 2 :mg di nicotina per sigaretta che un fumatore abituale assume

24 h /die: tempo che la nicotina resta in circolo in chi la assume regolarmente

10 : secondi che la nicotina impiega a raggiungere il cervello dal polmone, una volta penetrata nell’organismo attraverso il respiro

400.000: le persone che muoiono ogni anno, negli Stati Uniti, a causa degli effetti del fumo

Le prime descrizioni di dipendenza dal tabacco sono contenute in un manoscritto del Nuovo Mondo, in cui soldati spagnoli dicevano di non riuscire a smettere di fumare. Quando la nicotina fu isolata dalle foglie del tabacco nel 1828, gli scienziati cominciarono a studiarne i potenti effetti sull’organismo, scoprendo alterazioni della respirazione e della pressione sanguigna, costrizione delle arterie ed aumento della vigilanza. Molti di questi effetti sono prodotti attraverso l’azione sul sistema nervoso centrale e su quello periferico.

Si sa oggi che la nicotina ha una struttura chimica simile a quella di un diffusissimo neurotrasmettitore: l’acetilcolina, per cui essa attiva i medesimi recettori sui neuroni, detti appunto “colinergici”. Questi sono presenti anche nei muscoli, nelle ghiandole surrenali e nel cuore e sono coinvolti in attività quali la respirazione, il mantenimento della frequenza cardiaca, la memoria, lo stato di vigilanza.

 

Oltre ad altri effetti, la nicotina favorisce la liberazione del neurotrasmettitore a livello di un particolare

struttura cerebrale: il nucleo accumbens, coinvolto nei meccanismi del piacere e della gratificazione.

 L’assunzione regolare di nicotina provoca alterazioni sia del numero di questi recettori sia della loro sensibilità all’acetilcolina e alla nicotina stessa, che esitano nello sviluppo di tolleranza.

Una volta che la tolleranza è instaurata, il consumatore di nicotina deve rifornire regolarmente il cervello della sostanza, altrimenti, se i suoi livelli cadono, insorgono spiacevoli sintomi di astinenza.

Recentemente, i ricercatori hanno visto che la nicotina causa anche un aumento del rilascio di dopamina dal nucleo accumbens, processo che è alla base delle sensazioni piacevoli sperimentate dal fumatore. Altre ricerche provano che il ruolo esercitato dalla nicotina è ancora più complesso.

Il recettore colinergico è costituito da diverse sub-unità; una di queste,  sembra mediare gli effetti piacevoli della nicotina. Creando in laboratorio, con tecniche di ingegneria genetica, dei topi senza il gene per la sub- unità (detti topi “knock-out”), si è scoperto che questi non si auto- somministravano la nicotina, a differenza dei topi con l’intero recettore.

 

 

 

 

Infine, si è scoperto che i fumatori presentano riduzione di enzimi noti come monoaminoossidasi (MAO), rispetto ai nonfumatori e agli ex-fumatori. Si suppone che la nicotina inibisca le MAO, una condizione che si

associa anche all’aumentata attività della dopamina. Questo potrebbe essere uno dei meccanismi che spiega la minor incidenza del morbo di Parkinson fra i fumatori di sigarette.

Ma ancor più intuitivamente, l’inibizione delle MAO da parte della nicotina renderebbe conto di alcune caratteristiche epidemiologiche dell’abitudine al fumo, che è più frequente in gruppi di individui depressi o comunque dipendenti anche da altre sostanze (alcool, droghe, etc.).

Altri effetti sul cervello, seppure di genere diverso, vanno menzionati per la loro potenziale letalità: il fumo di sigaretta è correlato ad un aumento del rischio di sviluppare grandi aneurismi cerebrali in pazienti predisposti (gli aneurismi sono delle malformazioni vascolari, per lo più congenite, che causano gravi emorragie in caso di rottura; più grande è l’aneurisma, maggiore è la sua probabilità di rompersi).

Non dimentichiamoci, però, che i fumatori mostrano migliori prestazioni intellettuali (aumento dell’attenzione selettiva e capacità di sostenerla più a lungo, aumento della concentrazione e della memoria) quando assumono la nicotina rispetto a quando non la assumono; ciò nonostante, nulla prova che la nicotina migliori l’apprendimento a lungo termine.

• Psicofarmaci

“Jerry è un bambino vivace, un vero vulcano. Non riesce a stare fermo, seduto al banco, nessuna lettura lo interessa, corre, salta sulle sedie, rompe tutto! E così disturba i suoi compagni e me, che cerco di insegnare qualcosa ai bambini…”. La maestra è preoccupata.

 

 

 

Suggerisce ai genitori di parlare con un esperto e così…anche a Jerry viene diagnosticata l’ADHD, talmente conosciuta che ormai nessuno dice più il nome per intero (in italiano disturbo dell’attenzione e iperattività ). La cura prescritta è sempre quella, un farmaco che ha un nome da personaggio dei cartoni animati e

che agirà sul sistema nervoso di Jerry aiutandolo a stare più attento e calmo. Episodi del tutto simili a questo, inventato, sono ormai frequentissimi negli Stati Uniti. Nel resto del mondo il fenomeno è molto più

ridotto, qualcuno dice per inadeguatezza nella diagnosi, qualcun altro perché c’è una maggiore prudenza nel trattare i caratteri vivaci come psicopatologie e nel somministrare psicofarmaci

ai bambini… È uno scenario che ci fa un po’ paura e del resto, da quando gli effetti psicoattivi di alcuni

farmaci sono stati scoperti (talvolta per caso, come è avvenuto negli anni ’50 per i più tradizionali antidepressivi), polemiche e prese di posizione duramente critiche hanno sempre accompagnato l’uso degli psicofarmaci nelle terapie psicologiche e psichiatriche.

Ci sono dei seri problemi etici, innanzi tutto, nella decisione di somministrare ad un paziente

un farmaco che può andare ad agire profondamente sul più intimo patrimonio

dell’individuo, il carattere, il modo di pensare e di reagire, i sentimenti… Negli anni ’70 quello

della psichiatria che si affidava in modo indiscriminato alle terapie farmacologiche era

diventato un vero spettro, un’allarmante minaccia alla libertà dell’uomo e in particolare del malato.

 

In effetti alcuni psicofarmaci somministrati ai pazienti con disordini mentali causano molti effetti collaterali, alcuni dei quali gravi e impressionanti (come certe contrazioni incontrollate dei muscoli facciali che fanno

assumere espressioni ben poco rassicuranti al paziente…) e possono anche indurre una grave dipendenza. Gli psichiatri più spregiudicati nel curare farmacologicamente i disturbi psichici vengono accusati di abbandonare il paziente ai soli effetti violenti delle sostanze chimiche, evitando la responsabilità di una psicoterapia meno invasiva e personalizzata e magari… compiacendo qualche colosso farmaceutico.

Non si può negare, d’altra parte, che l’uso di farmaci per curare le patologie della psiche abbia significato in molti casi la salvezza rispetto a condizioni di vita terribili. Comprendere l’interazione fra la chimica del cervello e il nostro stato d’animo è una delle mete più esaltanti della ricerca scientifica, proprio perché

apre la porta alla possibilità di ridurre la sofferenza di chi ha disturbi mentali. Anche in questo caso sembra che la soluzione (comunque difficile) stia nell’evitare i fanatismi e le posizioni estreme. Informazione corretta ed estrema prudenza, poi, vanno aggiunte se si tratta di curare dei malati. Così come va tenuta sempre presente la considerazione che gli psicofarmaci, almeno per ora, arrivano al più a curare dei sintomi ma non arrivano a toccare le cause prime del malessere.

La chimica del cervello, e in particolare quella dei sentimenti e delle emozioni, è complessa e

ancora in gran parte incompresa. La vera difficoltà è riuscire ad isolare i diversi problemi e mettere in chiara relazione una disfunzione (magari localizzata) dell’organo cerebrale con il corrispondente disordine psicologico, e viceversa.

 

 

 

 

 

 

 

Anche per quanto riguarda emozioni e stati d’animo sembra ormai accertato che la nostra storia passata, presente e futura stia scritta nel nostro codice genetico in ampia misura. Alcuni scienziati quantificano: i geni possono spiegare fino al 40-50% delle diverse attitudini psicologiche. Tutti sono d’accordo, comunque, che c’è ancora spazio per controllare e magari correggere gli stati emotivi più sgradevoli e debilitanti… Il punto è: come? Vediamo, brevemente e sicuramente in modo incompleto, qual è la base scientifica delle cure farmacologiche tradizionali per i problemi della psiche.

Esistono quatto categorie principali di psicofarmaci che si distinguono in base al loro effetto terapeutico: gli ansiolitici, gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore (essenzialmente il litio). Tutti gli

psicofarmaci agiscono, in modo reversibile, sui meccanismi di comunicazione fra i neuroni, al livello della disponibilità di neurotrasmettitori specifici o della sensibilità neuronale a quei neurotrasmettitori. Fra ansiolitici vi sono i barbiturici, ormai usati quasi solo per scopi anestetici, e le benzodiazepine, che li hanno sostituiti dagli anni ’60 in poi. Questo tipo di farmaci in generale deprime l’attività del sistema nervoso centrale provocando una riduzione degli stati ansiosi e dell’insonnia. Il loro maggior difetto è che possono indurre una forma di dipendenza fisica e soprattutto psicologica.

Nessun abuso da tossicomania è legato, invece, agli antidepressivi , in quanto non provocano effetti piacevoli sui soggetti normali, di solito. Sulle persone soggette alla depressione

(che è spesso connessa ad una iperattività del sistema di risposta allo stress) gli antidepressivi producono miglioramenti dell’umore e un generale effetto disinibitorio.

 

 

 

 

L’effetto dei primi antipsicotici , o neurolettici, è stato scoperto per caso quando si vide che alle proprietà sedative di certe molecole erano associati effetti di disinteresse totale per gli stimoli esterni. Proprio questa è l’azione principale di questi psicofarmaci sulle persone sane; per alcune situazioni patologiche, invece, essi agiscono riducendo gli stati di delirio, di allucinazione e di generale confusione mentale.

Il litio e gli altri stabilizzatori dell’umore sono usati soprattutto per curare i disturbi bipolari, in cui l’umore oscilla patologicamente fra la depressione e l’eccitazione maniacale. Una curiosità: i nomi di personaggi famosi abbondano fra i bipolari maniaco-depressivi della storia: da Lincoln a Beethoven, Tolstoy, Virginia Wolf, fino a Newton, tutti dei caratteri piuttosto particolari!

Se le basi molecolari di depressione, ansia o paura sono state e sono tuttora molto studiate, meno si sa della…chimica della felicità. Solo da poco diversi gruppi di ricerca hanno iniziato a indagare su cosa avviene nel nostro cervello quando ridiamo o assaporiamo un momento di benessere. Magari sarà questa la svolta per le future terapie. C’è da augurarselo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE INFLUENZE

 

Le influenze nella accezione di contaminazione reciproca tra idiosincrasi implicano una riduzione della flessibilità di mindset ed una integrità e tempra di pensiero che si avversa alla immediata acquisizione e accoglimento di idiosincrasi diverse rispetto alla propria  -  Il sistema di conoscenza nei bambini è costituito da immediatezza di accoglimento di informazioni, il sistema conoscitivo degli adulti è mediato dall’atto del criticismo e predilige la confutazione, il diniego conoscitivo rispetto all’accoglimento conoscitivo di idiosincrasi esteriori devianti rispetto alla propria.

“ ‘Se c’è qualcosa nel bambino che desideriamo cambiare, dovremmo prima esaminarlo bene e vedere se non è qualcosa che faremmo bene a cambiare in noi.’ Diceva Carl Jung. Infatti, dopo la nascita, fino ai 4-5 anni di età, conosciamo il massimo splendore a livello di plasticità della mente e capacità di apprendimento; si stima inoltre che si imparino più cose nei primi tre anni che in tutto il resto della vita. Purtroppo, arrivati a 7 anni utilizziamo non più del 10% del nostro potenziale. Questo accade a causa del progressivo stratificarsi di schemi e regole che limitano la libertà della mente di esercitare la sua naturale plasticità nel produrre nuove reti neuronali.”

Dove risiede allora il 90% delle nostre facoltà e potenzialità intellettive? LATENTI IN NOI STESSI. Ma la domanda più interessante che dovremmo porre a noi stessi sarebbe: Quale è la chiave per esternare e rivelare le nostre latenti potenzialità? Attuando la realizzazione tra ideazione di potenza in atto – Tuttavia, cosa ostacola questo passaggio? Le medesime realtà dell’ambiente che vincolano e veicolano la onesta rivelazione della nostra essenza –

 

 

 

La follia nella accezione di idiosincrasi differente rispetto alle idiosincasi ambientali sociali e personali è la chiave per andare oltre alla schematicità predefinita che il sistema adduce alla nostra rete neuronale sin da i primi anni di vita – Pertanto gli ostacoli alla realizzazione del sé nell’ambiente sono due – Il primo riguarda l’inner mindset – Ovvero che il mindset del singolo non permetta che venga a coincidere il mindset sistemico ambientale con il suo mindset – secondo tale possibilità il 90% di potenzialità di mindset creativo cesserebbe di esistere in quanto ad analogia tra mindset sistemico e mindset individuale che non può applicare alcun surplus modificante il mindset ambientale sistemico. Il secondo ostacolo è in qualità in misura di iniziativa e di coraggio attitudinale -  Ovvero, un singolo possiede una forte tempra di pensiero sovversivo – rivoluzionario in quanto a esistenza di latente percentuale del 90% di iidiosincrasi alternativa rispetto alla idiosincrasi comunitaria, tuttavia attua attitudini consonanti con il sistema non rivelando le qualità del suo pensiero dissonante – La realizzazione del sé è pertanto nella misura della non omologazione dell’idiosincrasi diversa  individuale con l’idiosincrasi del sistema ambientale esteriore e dell’innesto delle personali unicità di pensiero nella località sistemica e di istituirsi come compendiante la complessità del sistema mediante confutazione delle idee del sistema o come comprovazione delle idee del sistema – La rilevanza del sé può essere di contributo costitutivo delle idee del sistema nella possibilità in cui le idiosincrasi latenti del singolo siano concilianti e non avverse a quelle del sistema – allora il singolo di differenzierà e realizzerà la sua essenza come consolidante i valori del sistema .

Come potere ottenere idiosincrasi dissimili rispetto alla località di pensiero? La possibilità della decontestualilzzzazione.

Viaggiando, leggendo.

 

 

 

“Se c’è un errore che la natura ha commesso è quello di aver dato solo a pochissimi esseri umani la capacità di avere una identità troppo flessibile, mentre tutti gli altri sono asserviti dalla staticità, dall’idea che si sono costruiti di sé e che la società gli ha aggettivato. ”

 

“We’re told “no”, we’re told unimportant, we’told peripheral. Get a degree, Get a job, get a this, get a that. And then you’re a player, but you don’t want to even play  in this game. You want to reclaim your mind and get it out of the hands of the cultural engineers who want to turn you into a half-baked moron consuming all this trash  that’s being manufactured out of the bones of a dying world. ”

 

ESEMPI DI PERSONALITA’ CON IDIOSINCRASI DEVIANTI SOVVERSIVI DEL MINDSET DEL SISTEMA COMUNITARIO.

 

 

 

Esempio primo. La scrittrice Alda Merini

 

la pazza della porta accanto

intervista ad Alda Merini

 

regista: Antonietta de Lillo

 

Lei vuole conoscermi? Sì, io la vorrei conoscere. Mah, diciamo che i poeti sono inconoscibili.

No, no, no non mi parli di masochismo del poeta, che non c’è. Il poeta è gaudente di base guardi. Non vuole soffrire, gliel’ ho detto prima.

Mi sarebbe piaciuto curare le anime.

 

Io sono una donna molto semplice,  molto normale, hanno fatto una costruzione enorme, ma sono in fondo una persona di tutti i giorni. Sono proprio la pazza della porta accanto. Ho avuto delle storie molto belle perché sono una persona normale, neanche matta poi tanto. Ero così anche da bambina,  ero molto isolata.  Sono fatta così,  sono ombrosa. Ogni tanto voglio isolarmi. Mi faccio male da sola perché quando sono sola chiaramente ho bisogno d’altri. Di solito escono delle belle cose quando voglio stare sola. In quanto al fatto di essere una bambina. Io sono stata una bambina felice ma anche una bambina infelice. Ero una bambina che aveva già la sua posizione molto giusta, una bambina ben determinata.

Per poter crescere bisogna avere un minimo di segreto nella vita, qualche cosa di segreto. Se lei è innamorata non lo viene a dire a me,  se lo tiene da conto questo sentimento.

Non capire il bambino è già un grave reato,  non cercare di capirlo. Soprattutto si può anche non capirlo,  però bisogna lasciarlo vivere. Una delle cose che noi tutti dobbiamo fare è lasciar vivere gli altri. Vivere e lasciar vivere.

Io oggi sopravvivo grazie ai giovani. Devo dire che quelli che mi hanno aiutato non sono stati i vecchi, ma i giovani.

Bisogna tener presente che il figlio è un estraneo,  dovrebbe essere un estraneo per ogni padre e per ogni madre per poterlo vedere bene.  Perché sennò è come se fosse nel nostro grembo in eterno. Insomma deve nascere.

L’anarchia è la negazione di qualsiasi regola in nome di una terza regola che è continuare a dire di no. Insomma si va sempre a finire in una regola,  perché? Perché purtroppo l’uomo è una persona finita, che non riesce a vedere l’infinito. Non ne ha di infinito davanti, l’uomo da che nasce dovrà morire purtroppo e lo sa. Lo sa anche se non ne tiene conto. Non è così? Se lei mi dice: “Non ha paura della morte?”

 

 

Ho paura della morte,  so che è lì, in agguato, dietro la porta, però spero che mi condoni ancora un giorno. La speranza. La morte è lì, no?. Non bisogna morire d’amore, non bisogna ingigantire l’amore, non bisogna sminuire l’amore, bisogna stare nel giusto mezzo, per vivere la vita. Bisogna continuare ad essere bambini, anche quando si è adulti, per quel lato, non per tutto. Ma per vivere il presente, sì. Io ora vivo momento per momento. Piacere per piacere, cercando di scansare il dolore quanto più mi è possibile.

Se qualcuno cercasse di capire il tuo sguardo, poeta, difenditi con ferocia. Ecco la curiosità umana. Il tuo sguardo sono cento sguardi che, ahimè, ti hanno guardato, tremando. Perché già il poeta è un baratro.

Pare che l’occhio rimandi sulla persona la visione di quello che ha visto.

Non voler ascoltare l’anima è la sordità peggiore.

Sentimento e ricordo fanno l’ispirazione. E naturalmente il momento, il momento topico dell’artista, in cui praticamente l’artista cade. E allora è un po’ l’iter della poesia, è un po’ la via crucis. Tante sono state le cadute,  tante sono state le poesie. Io penso.

Nella notte si è un po’ tendenziosi, si vorrebbe quello che nella vita non si ha avuto, no? E quindi si sogna o l’innamorato o il nemico, o delle cose che magari sono in un momento fragile, terrificante, terribile della vita, di cui non si conosce la soluzione. Il sogno la dona, seppur in forma simbolica dà la soluzione del problema.

La poesia veramente fa una cernita. L’intelletto poetico. L’intelletto amoroso del poeta sceglie. Sceglie ciò che vale la pena d’esser cantato e ciò che no.

Facciamo conto che ci siano delle piccole cose sparpagliate sul tavolo, dei piccoli pezzetti di carta.

L’ispirazione è come un soffio d’arte, questo zampillo porta per aria queste parole, è un gioco,  però stranamente dà un senso logico.

 

Naturalmente che cosa succede, che la ragione diventa irrazionale da questo impatto stilistico che proviene dall’intimo.

Il vizio è fatto d’acredine, di malformazione mentale. Il vizio rimane lì, è monotono il vizio.

Tutti i peccati si pagano perché sono delle eccedenze.

Di amore se ne parla troppo, se ne sta facendo uno spreco.

L’amore come idea. È l’idea dell’amore che mi riempie. Ed ecco, è il motore del mondo, che io canto. Io non sono il poeta dell’infelicità,  ma del sospiro dell’amore,  della grande pausa dell’uomo che è l’amore.

Ci sono delle forme di molestia sessuale e spirituale molto gravi. E ci sono degli amori che sono più molestie che amori.

La donna non è solo amore, è anche intelletto. È mente, soprattutto mente. L’amore parte dalla mente, quindi non possiamo dire che la donna sia il simbolo dell’amore. L’ispiratrice dell’amore ma non il simbolo amoroso. La donna è simbolo di creazione.

L’altra faccia dell’amore è la distruzione.

Ma è terribile perché la gente si è fermata a Freud dicendo: “Odio Amore - Amore Odio”. Amore un bel niente, quando lei uccide una persona, la uccide e perdio!

Non capisco i movimenti femministi di affrancamento dall’uomo. Ma che cosa vuole insomma? La donna che vuole rompere tutti i canoni, diventare uomo a tutti i costi a me sovverte tutta la vita, tutta la cultura. È giusto che la donna sia se stessa ma è giusto che anche l’uomo sia se stesso.

C’è un grande rapporto tra ciò che è il manicomio e ciò che è la nascita di un bambino. È un momento trasgressivo nella vita di un uomo. Lei quando nasce ha un trauma tremendo, viene alla luce, abbandona l’alveo materno, si trova nel mondo. Lei non ricorda niente della nascita, è così quando noi incontriamo un grosso dolore che potrebbe rovinarci per sempre. Diventa incubo perché non è avvenuto, perché qualcosa è morto. In quel momento non muore la poesia, muore il destino.

È diverso. Quando cade il destino,  lei va avanti malgrado il destino. E a un certo punto lei sta facendo un percorso nella morte, secondo me, ma anche un percorso nella poesia, credo.

Io potrei dire un verso di una poesia:

“Laggiù dove morivano i dannati nell’inferno decadente e folle del manicomio infinito quando le membra intorpidite si avvoltolavano nei lini come in un sudario semita, facile era toccare il paradiso. “

Fisicamente si era già morti, sopravviveva l’anima. Purtroppo l’anima, che è quella che poi scrive e che sopravvive all’interno di quella che è stata la mia esperienza nel manicomio, è la parte che vola sulla materia ed è quella più attenta e dolorosa. Guardando lo sfacelo del corpo l’anima si conduole e si smarrisce.

La donna ha un privilegio, la donna ha un potere in più. La donna riesce ad autodisciplinarsi. Io per esempio sono stata all’interno dell’ospedale psichiatrico con tanto di autodisciplina personale. Per cui ho ubbidito, Ritenendo giusto ubbidire, era inutile ribellarsi. Ci si salva non ribellandosi certe volte. Ma ci si danna continuamente ribellandosi. Continuando a ribellarsi a certi giudizi, a certe imposizioni. È inutile andare verso la guerra con un’altra guerra. Non dico di fare la vittima, ma cerchiamo di capire perché è stata fatta la guerra. Quali erano i presupposti, le ragioni etiche?

No, il manicomio no, senz’altro no. Mi hanno fatto morire, non mi hanno fatto vivere. Credo proprio di no.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diciamo che è atroce, è atroce perché,  se fosse stata una morte naturale, una morte di tutti i giorni,  una morte che tutti incontrano lungo la giornata. Questa sospensione dei loro affetti, questa sospensione delle loro attese, allora noi potremmo capire che la vita ha un senso. Quando la morte è una cosa psichiatrica è un nonsense, ossia l’incubo. Questo è l’incubo del manicomio. Questo è veramente l’incubo. Fuori si soffre, in manicomio no. Non c’è proprietà nel manicomio, non c’è l’occasione del lavoro. Perché le fanno un elettroshock? Perché lei desidera. . .  Le tolgono dalla mente il desiderio. Fanno presto!

Il dolore del manicomio è il dolore senza nome, il dolore non motivato. Il dolore che non ha lacrime,  perché non è umano, è un dolore esterrefatto. Capisce? In manicomio non si piange. Ci si abbandona veramente al delirio, all’incomprensibile.

Lei non piaceva e la ricoveravano, inventavano alcune falsità e lei era morta.

Io quando ero felice ero così felice che non avevo niente da dire. Insomma, si recrimina, si parla, si discute delle cose infelici. Lei ha mai sentito qualcuno che ha trovato un tesoro e lo racconta a tutti? Non lo dice a nessuno per paura che glielo portino via, lo tiene per sé.

“Ho un letto voluttuoso io,

come quello di Messalina,

dotato di ben quattro materassi

ereditati dalla sorte.

Tutti concupiscono il mio povero letto

che è grande e disordinato ma estremamente tranquillo.

Però in quel letto l’amore non si fa,

perché inevitabilmente i materassi si dividono

e l’amante di turno cade nel mezzo

senza più riuscire a liberarsi

dal lenzuolo che viene ad avvolgerlo come in un sudario.

 

I più audaci hanno provato a prendermi

e si è sentito un tonfo pesante.

Gli inquilini protestano e chiedono:

ma chissà che cosa farà di notte?

Niente. Trasporto materassi che cadono

dopo che l’aspirante amante se ne è andato

sbattendo la porta.”

Pensi a quanti drammi scaturiscono dal riso.

L’amore è una debolezza, ci si lamenta dell’amore perché ci si lamenta della propria debolezza.

Il corpo è pensiero. Non capisco perché la gente lavori e non pensi. La gente vede solo con gli occhi e non sente. Non ha la veggenza proprio fisica di quello che tocca, di quello che sente, di quello che percepisce. Soltanto gli occhi vedono e non è sufficiente.

“Somigliare a Cristo significa superare questa dimensione umana, miserabile, terrena che però è anche innegabilmente amore.”

Si parlò di blocco sessuale,  e così ne parlano nella psichiatria. Io parlo invece di un blocco d’amore,  che non trovando più la sua rispondenza non vuole più amare la vita.

Se perdo il rapporto con la religione, perdo il rapporto con l’arte, è chiaro. La religione ha un forte peso, la religione credo che sia la dracma più pesante, la moneta più valida nella vita di un uomo. Perché sennò non riuscirebbe a capire.  È la chiave di volta. È proprio ciò che li apre certi sancta sanctorum dell’io. Credo che la religione sia necessaria, non riuscirebbe né a creare né a demolire se stesso senza la religione. Persino Caino deve negare Dio. Ci dev’essere però un’etica divina.

 

 

 

 

 

 

diario scritto dieci anni dopo l’esperienza del manicomio

 

 

Il diario del periodo infelicissimo e tragico, sopportato con grande rassegnazione. È stata proprio la rassegnazione che mi ha dato modo di uscire, perché se mi fossi ribellata non sarei uscita più.

Mi avrebbero ulteriormente punito. Invece, la non ribellione ha tacitato questi spiriti violenti. E ha fatto in modo che io uscissi.

“È inutile colpevolizzare il male o qualsiasi persona. Il destino è l’unico artefice. In seguito il mio medico mi disse che una sola medicina può guarire ed è la vita. Ma la vita per me non vuole diventare un buon medico e quando non entra in quest’ottica, riesce soltanto ad ucciderti. Tutti noi al centro siamo dei malati di vita, dei nostalgici di vita. La mancanza di amore, di denaro, di sesso. “

Io direi anche che la mia vita è più bella di quella che ho scritto.  È stata più bella. Io ho avuto dei grandi uomini, dei grandi amori.

 

Uno di essi quando lo ho incontrato mi disse queste parole:

“Io ho dato a tutti, e mi hanno ripagato con l’abbandono.”

Era naturale, perché l’uomo è fatto così: Prende, ma non dà.

Ecco un grande amico che non mi ha mai chiesto niente, mi ha chiesto di sopravvivere e non mi ha mai tolto niente.

 

Questi sono i poeti: se ne vogliono andare da questa società, non hanno più niente da dire.

 

“Già,  lui era imperfetto e questo mi faceva piacere.  Mi faceva piacere constatare che soprattutto avevo sposato un essere umano. Mi hanno diviso in modo ignobile dal mio amore.

 

 

 

Noi ci amavamo molto. Eravamo due poeti liberi, liberi in ogni tempo, in ogni stagione. Ci amavamo al di fuori dei sensi e oltre i sensi. Malgrado il nostro amore avesse tutti i caratteri della passione. “

 

Perchè la casa in disordine? Perché forse nessuno l’ha amata veramente. Bisogna amarle le case. Perché forse non ci sono figli. Sa che cosa vuol dire una tavola nuda? Dove uno vive solo?.  Perché un conto è un uomo che vive solo, ma un conto è un uomo che ha i figli e non li rivede più, e quest’uomo li cercherà dovunque. Capisce? Ed allora non sente la necessità di pulire i piatti, di riordinare; perché non c’è un commensale. Questo è il significato del disordine: non avere più alcun commensale a tavola.

 

In molti mi dicono ma perché lei vive in questa casa povera? Ma io sto bene, io non ho creditori, le dice niente? Se avessi una bella casa che è tutta indebitata. E invece così è una casa dove nessuno bussa alla porta. Lei lo vede. E questa è già una ricchezza, non avere creditori.

 

Io ho sorpreso un ladro. Ed è entrato in questa casa ed ha rubato. Da quel giorno io non l’ho amata più, perché è entrato un uomo che io non volevo, la cui presenza mi ha offeso. E da allora è diventata proprietà del ladro. Basta che entri una presenza malevola, ma anche nella sua anima e lei non vuole più amarsi.

 

Ci si sente cacciati via ogni volta che si sente chiudere la porta a chiave. Perché qui si muore tranquillamente senza che nessuno si accorga. E questo è stato uno degli ingredienti del delirio.

Questa solitudine non solamente dovuta come dicono gli altri: Dove sono i suoi figli?

Ma dov’è la società? L’altro dov’è?

 

Vogliono denaro, vogliono l’equivalente di quello che ti danno. E non hanno mai pensato,  che per esempio,  danno una cosa,  e ricevono in cambio amore? Questo non interessa.

 

Magari gente di basso rango che mi avvicinava, che mi domandavo se ero disponibile, sono state proprio delle pugnalate. Perché il naviglio non distingue il genio da chi è stato in manicomio. Ci vanno in manicomio anche i geni perché sono geni,  è diverso,  il manicomio non è uguale per tutti.

 

Dice molto bene Madre Teresa di Calcutta: L’indifferenza è peggiore della colpevolezza. È più giustificabile l’assassino di colui che fa finta di non vedere, di non capire e lascia morire in un disagio d’amore, in un disagio d’ambiente,  una persona che vorrebbe fare qualcosa di bello nella vita.

 

Ma poi la confusione generale ha finito per trascinare via anche me. Cioè ho visto che la gente è molto confusa, non sa quello che vuole. Di conseguenza, anche quelli che erano i miei valori io li ho perduti lungo la strada.

 

È un trauma irreversibile, lo spavento iniziale è ciò che determina le atroci cadute dopo.

 

Il poeta è più perseverante degli altri, non digerisce molto bene certe cose. Ci sono persone che sono state votate al sapere, alla poesia per tutta una vita sacrificando dei piaceri effimeri, e però ci sono dei deliri di lettura che veramente portano a cose in alto e per questo valgono.

Alda Merini

 

 

“Il motivo per cui il trauma non termina mai per il cervello è che esso lascia un residuo di un affetto non elaborato, dissociato, che il cervello non è in grado di regolare.” L’ombra dello tsunami. Philip Bromberg

 

 

Esempio secondo:

 

I PAZZI DI GREGOIRE,  libro di Valerio Petrarca

Gregoire Ahongbonon è   un   africano che si   prende   cura degli africani  in   povertà assoluta come quegli uomini, donne e bambini che mangiano gli avanzi gettati a terra. Lui cerca queste creature, le lava, le veste e le porta nei suoi centri d’accoglienza per i bisognosi e per i malati di mente. I centri di Gregoire sono al centro e al nord della Costa   d’Avorio   (esattamente   a   Bouakè   e   a   Korhogo).   Dal   19   settembre   2002   si combatte una guerra interna: al sud prevale l’esercito governativo, invece, al nord quello dei ribelli. Il libro narra di come l’autore ha affrontato il viaggio verso la Costa d’Avorio, gli ostacoli e le disavventure che ha dovuto affrontare, e di come aiutava la comunità (bambini, giovani, bambini soldati...) di un villaggio. Per esempio nelle scuole del villaggio le lezioni duravano quanto quelle universitarie e alla fine c’era spazio di riflessione  sulle notizie  riguardanti  la  Costa d’Avorio.

 Il  manicomio di Gregoire

Il  manicomio di Gregoire sembrava un carcere e l’elemento particolare era che i pazienti potevano fare quello che volevano. Dentro al manicomio di Gregoire era rinchiuso Aboubacar chesi era trovato nel corso di una retata fatta dal K5 (nome in codice dei capi) perché l’hanno scambiato per un militare del K1 che era in vacanza e l’hanno infilato nudo dentro un container e l’hanno tenuto per giorni fino all’arrivo dei francesi. Aboucabarha un padre che si chiama Lamine che Aboucabar tirò fuori di prigione.

 

Lassina (un altro del manicomio) credeva nella credenza che l’iniziazione al poro lo rendesse invisibile ai nemici e lui convinto di esserlo si addormentò in macchina (in Costa d’Avorio avere la macchina significava far parte di una fazione) e nei dintorni passava una pattuglia di un’altra fazione che lo scambiò per un nemico credendo che fosse  un ladro  e  quindi lo portano  dal loro capo  e  calandogli giù i  pantaloni  gli sparano alla coscia. Gli sparano alla coscia e non lo uccidono perché aveva un nome abbastanza conosciuto, infatti nel manicomio è un paziente abbastanza conosciuto.

L’INTERVENTO RIVOLUZIONARIO DI GREGOIRE

Prima dell’arrivo di Gregoire i pazzi venivano trattati in un modo violento (legati con le corde e mandati al letto con i psicofarmaci), ma con l’arrivo di Gregoire essi sono stati slegati e lui cominciò a trattarli in un modo più pacifico cosicché loro stavano così bene con lui che si dimenticarono dei loro problemi e del loro essere pazzi. Quando il 19 settembre 2002 scoppiò la guerra e quasi tutti fuggirono dal villaggio di conseguenza Gregoire si preoccupò di come far sopravvivere i pazzi alleandosi con i francesi e con i capi ribelli per non far scarseggiare il cibo. La guerra è tra il governo avoriano e i capi ribelli, entrambi tolgono il cibo alla popolazione:

•Il governo: spera che la popolazione si ribelli contro i capi ribelli per la scarsità di cibo,

L’INTEGRAZIONE TRA DUE RELIGIONI

•I Capi ribelli: sperano nell’arruolamento (motivo per cui tolgono il cibo) Gregoire invece di dare il cibo solo ai pazzi lo dà anche al resto della popolazione affamata. Lui decide di non allearsi più con nessuno perché c’era il rischio di essere ammazzati se si cambia sempre fazione. Visto che Gregoire adorava tutti organizzò una festa di carnevale dove invitò tutti compreso i musulmani e alla festa si poté notare l’integrazione tra le due religioni. Gregoire era un nullatenente che faceva il gommista poi nel 1971 va in Costa d’Avorio dove fa un sacco di soldi ma poi li perde tutti quanti e così abbraccia Gesù e la chiesa. Dopo va in un ospedale dove stringe un buon rapporto con un proprietario di un bar dell’ospedale e riesce a trasformare il bar in una cappella per pregare. Il ministro della sanità scoprendo questo fatto ne fa visita e, rimasto contento dell’idea di Gregoire, gli offre uno spazio più grande dove lui crea uno spazio per i malati mentali. Salie era la ragazza che piaceva a Gregoire però non la poteva sposare perché il padre di lei voleva che lui si convertisse all’Islam. Gregoire non si converte e quindi il padre la      in   sposa   ad   un   altro.   Così   Gregoire   cerca   un’altra   donna   per   distrarsi   dal pensiero di lei e si sposa con Leontine. All’inizio Gregoire diventa un imprenditore facendo il tassista finché non viene sommerso da debiti che non riesce a pagare. Un giorno guidando un taxi taglia la strada ad un motociclista e litigando con lui finisce per fare a botte e alla fine il motociclista gli fa causa sbattendo in galera Gregoire e lì pensa   al   suicidio.   Gregoire   stava   quasi   sempre   in   galera   perciò   non   riusciva   a mandare   avanti   la   sua   impresa   e   quindi   l’impresa   stava   sull’orlo   del   fallimento. All’inizio Gregoire non voleva andare in Terra Santa però dopo ha incontrato Joseph Pasquier  che   lo   convince  ad   andare   nel   1982. 

 Gregoire,   appena   arrivato   in   Costa d’Avorio viene sfruttato da due delinquenti, Michel e Winsou, però riesce a scappare a Bouakè e lì lo aiuta Ousmane. Dopo che Ousmane lo aiuta si avvicina ai malati e così fonda una associazione. Lui in Terra Santa si rese conto che ha commesso degli errori nella vita e decide di compensarli.

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Centro B.R.A.I.N per le Neuroscienze, Università degli Studi di Trieste

http://www.lucaticini.com/wp-content/uploads/Neuroscienze_per_iniziare.pdf

“ESSERE SANI IN LUOGHI FOLLI” BY DAVID ROSENHAN

 

 

Sitografia

http://www.provinz.bz.it/sanita/download/Turoldo-L-AUTONOMIA-NELLA-SALUTE-E-NELLA-MALATTIA.pdf

accademiadellacrusca.it/it/consulenza/unidea-di-unicit%C3%A0-lidiosincrasia/1717

 

Videografia

La pazza della porta accanto, intervista ad Alda Merini. Regista: Antonietta de Lillo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN SENSO DELLA LETTURA

“Ho letto moltissimi libri, ma ho dimenticato la maggior parte di essi. Ma allora qual è lo scopo della lettura?”

Fu questa la domanda che un allievo una volta fece al suo Maestro.

II Maestro in quel momento non rispose. Dopo qualche giorno, però, mentre lui e il giovane allievo se ne stavano seduti vicino ad un fiume, egli disse di avere sete e chiese al ragazzo di prendergli dell’acqua usando un vecchio setaccio tutto sporco che era lì in terra.

L’allievo trasalì, poiché sapeva che era una richiesta senza alcuna logica.

Tuttavia, non poteva contraddire il proprio Maestro e, preso il setaccio, iniziò a compiere questo assurdo compito. Ogni volta che immergeva il setaccio nel fiume per tirarne su dell’acqua da portare al suo Maestro, non riusciva a fare nemmeno un passo verso di lui che già nel setaccio non ne rimaneva neanche una goccia.

Provò e riprovò decine di volte ma, per quanto cercasse di correre più veloce dalla riva fino al proprio Maestro, l’acqua continuava a passare in mezzo a tutti i fori del setaccio e si perdeva lungo il tragitto.

Stremato, si sedette accanto al Maestro e disse: “Non riesco a prendere l’acqua con quel setaccio. Perdonatemi Maestro, è impossibile e io ho fallito nel mio compito”

“No — rispose il vecchio sorridendo — tu non hai fallito. Guarda il setaccio, adesso è come nuovo. L’acqua, filtrando dai suoi buchi lo ha ripulito”

“Quando leggi dei libri — continuò il vecchio Maestro — tu sei come il setaccio ed essi sono come l’acqua del fiume” “Non importa se non riesci a trattenere nella tua memoria tutta l’acqua che essi fanno scorrere in te, poiché i libri comunque, con le loro idee, le emozioni, i sentimenti, la conoscenza, la verità che vi troverai tra le pagine, puliranno la tua mente e il tuo spirito, e ti renderanno una persona migliore e rinnovata. Questo è Io scopo della lettura”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ISTANTI PRIORITARI, ISTANTI CONCORRENTI E L’UNIVERSO DEL SECONDO

Potremmo inventare una teoria, chiamiamola la teoria ‘degli istanti prioritari’ secondo cui tra i miliardi di istanti della vita di ciascuno alcuni di essi sono fondamentali poiché devianti radicalmente il percorso di vita di ciascuno. Contesti di rilevanza dei secondi prioritari sono relativi - ad esempio sia la variabile della solitudine, sia la variabile della relazione possono essere contesti utili alla esistenza degli istanti prioritari. Pensiamo ad uno studioso che reinventa una scienza in solitudine • e parallelamente pensiamo al cantante che realizza un concerto in relazione a milioni di persone. Il principio attitudinale potrebbe prevedere che per essere preparati ad affrontare giustamente gli istanti prioritari della sua vita debba credere che ciascun istante della sua vita sia prioritario - ad esempio gli istanti di preparazione ad un esame sono prioritari poiché concorrono alla buona riuscita dell’esame i cui istanti sono prioritari.

Esistono istanti di vita prioritari? Sarebbero quei secondi che impieghi una vita per agirvi giustamente e che rimpiangeresti la vita se non riuscissi a gestire quei secondi adeguatamente. È vero che quei secondi definiscono inesorabilmente una direzione? È vero che il battito d’ali di una farfalla implica un tornado lontano?

Amo credere che la direzione sia reversibile, c’è una possibilità alternativa all’inesorabilità.

Tuttavia occhi più umani perdonerebbero l’incertezza del trovarvisi li impreparati e si riconoscerebbe in verità che ciascun istante della vita possa cambiare un destino inesorabile che sembra un muro e che è in verità un ponte. Ciascun istante può essere un istante prioritario.

C’è chi ha voluto nuotare l’oceano dell’improbabilità ed ivi vi ha trovato la sua nave di possibilità:

 

 

Un gruppo consuetudinario di giovani si incontrò per anni, un appartenente al gruppo si separò da loro per molto tempo, tuttavia il suo allontanamento non fu definitivo, egli ritornò non fu rifiutato e fu accolto come prima. Si riconoscono gli istanti prioritari nell’esempio del perdono, in verità quando nell’occasione del primo incontro insieme seduti intorno al tavolo, un amico tra i presenti si assentò per alcuni secondi dalla stanza, egli voleva comunicare a colui che era ritornato. “Vedi? Come me, ci siamo lasciati per un attimo, (furono anni di lontananza relazionale) e adesso siamo nuovamente insieme, va tutto bene.”

Allora distinguiamo tra istanti concorrenti e istanti prioritari. Gli istanti concorrenti sono il tempo che concorrono alla buona riuscita del compimento degli istanti prioritari. La buona riuscita degli istanti prioritari può dipendere dalla resilienza, perseveranza e quotidianità delle attitudini buone realizzate nel tempo degli istanti concorrenti. La seconda chiave utile al buon conseguimento degli istanti prioritari è la coerenza - ovvero il conciliare il continuum degli istanti concorrenti con la qualità degli istanti prioritari. Solitamente il tempo degli istanti prioritari è caratterizzato da contesti di ipersensibilità relazionale e severità - ln quei momenti non si deve e non si può sbagliare - altrimenti? Altrimenti la direzione della nostra vita devia verso contesti ambientali imprevisti, o avversi o inconciliabili con il nostro mindset. Vi è una seconda teoria relativa al butterfly EFFECT (attrattore di Lorenz) che possiamo applicare alla dialettica di relazione - il battito d’ali di una farfalla implica lontano un uragano - pertanto è bene stare accorti quando attribuiamo scontatezza alle realtà della nostra vita poiché possono essere proprio quelle banali realtà a implicare una variazione grave del nostro destino o del destino del prossimo - la premura relazionale prescriverebbe di intendere il prossimo gracile come una foglia - estremizzando si intende che una attitudine di negatività lieve può implicare nel prossimo gravi status di sofferenza. Non sempre è così ma può succedere. 

Relazione tra status di ansia e periodo di percezione di istanti prioritari

La percezione di responsabilità sulla base del “Come agire giustamente” nel momento in cui si vivono momenti di vita fondamentali per la propria vita implica un incremento della concentrazione e parallelamente un incremento della tensione emotiva e pertanto un aumento dello status ansioso.

Come riconoscere allora gli istanti prioritari relazionali? Quando per esempio si percepiscono fisiologicamente, psicologicamente o istintivamente status di ansia o di aumento di concentrazione – l’aumento della concentrazione non è che il sintomo dell’incremento della attenzione volontaria o subconscia in relazione pertanto al focus con cui ci relazioniamo – ovvero la percezione di rilevanza fattuale maggiore di un contesto e situazione rispetto ad altri ed insieme una attribuzione di importanza ed interesse a cui dedichiamo la nostra attenzione attiva o passiva.

Argomento del libro “Tesi” L’universo del secondo

Sia gli istanti prioritari, sia gli istanti concorrenti, ovvero ciascuno degli istanti di vita personali sono caratterizzati dalla gravosità della generalità e della universalizzazione – In relazione ai concetti di “sincronismo” e di “frattalismo”, di decontestualizzazione argomentati nel libro “Tesi”. Il nostro pensiero possiede la abilità della esteriorizzazione contestuale, pertanto ciascuno di noi non vive esclusivamente i contesti relazionali adiacenti, bensì altresì i contesti relazionali lontani e svariati nel tempo e nello spazio.

 

 

 

 

 

 

 

 

ubiquita

 

 

ubiquità s. f. [dal lat. mediev. ubiquitas -atis (der. del lat. ubīque «in ogni luogo»), sull’esempio del fr. ubiquité e dell’ingl. ubiquity]. – 1. a. L’essere contemporaneamente in ogni luogo, detto di Dio e di alcuni santi che ebbero da Dio questa facoltà (sinon. di onnipresenza): l’u. di Dio; sant’Antonio ebbe il dono dell’ubiquità. b. estens. La facoltà di essere fisicamente presenti nello stesso momento in due o più luoghi; per lo più in frasi iperb. o negative: quell’uomo è presente dappertutto, come se avesse il dono dell’u.; fam., non ho il dono dell’u.!, non posso essere in più luoghi al tempo stesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA TEORIA DELLA MARGINALITA’

La bontà del negativo risiede nella vastità del margine di possibilità di essere positivizzato e dunque della elevata probabilità di rilevanza fattuale di cambiamento positivo.

Il margine positivizzante esiste in premessa dell’ambiente negativo, qualunque esso sia, ciascun ambiente negativo è garanzia e premessa della esistenza di una iniziativa positiva in quanto a percezione di differenza contestuale tra i contesti dell’olismo ambientale.

Se segniamo un punto con inchiostro bianco su un foglio bianco – la rilevanza fattuale di cambiamento olistico non si percepisce come rilevante, differentemente se segniamo un punto con inchiostro bianco su un foglio nero – la rilevanza fattuale di cambiamento olistico si percepisce come rilevante.

 

LA FATTIBILITA’ DI CONVERSIONE

Una realtà interamente nera, universalmente nera ha come proprietà ambientale una fattibilità di conversione in realtà bianca del 100%: Sul foglio nero sono segnabili miliardi di punti bianchi ed il foglio diverrebbe bianco. In quale luogo ambientale possiamo iniziate a segnare un puto bianco? La libertà di iniziare dovunque sul foglio nero – poiché dovunque nel foglio nero il nostro segno ha rilevanza fattuale.

Questa riflessione adduce che i climi ambientali di severità ontologica di dispotismo di una realtà rispetto alle realtà minori sono i più suscettibili al cambiamento.

Il punto sul foglio bianco

Utilita marginale

Vediamo degli esempi

LA CONVERSIONE MARGINALE

La reiteratività di una singolarità in un olismo caratterizzato da unicità

Segnando un punto nero su un foglio nero reiteriamo, diamo ennesima prova delle proprie qualità, riaffermiamo la qualità nera del foglio nero, il foglio in grazia del nostro punto nero è più nero. Se lasciamo il foglio nero e non adduciamo né un punto nero, né un punto bianco, né un punto colorato, non via agiamo alcun valore aggiunto? No, la inazione è valore aggiunto neutrale che reitera in grazia di noi la sua essenza di essere nero. Il foglio in grazia del nostro punto nero è nero. Se segniamo un punto bianco sul foglio bianco – in grazia della nostra iniziativa il foglio è già divenuto bianco e nero.

 

La neutralità ambientale e l’origine della pura creatività.

La pura creatività si realizza nel ritorno all’origine ambientale, nella ininfluenzabilità dell’ambiente esteriore sulla essenza interiore di mindset creativo.

In origine il foglio è trasparente –

Il puro valore aggiunto

La pura creatività e rivelazione della nostra essenza si avrebbe nella buona conversione dell’ambiente in grazia della iniziativa nostra la cui qualità è pura il quanto conciliata con la nostra pura essenza e ininfluenzabile dalle qualità ambientali – Potremmo allora vedere un foglio interamente nero come trasparente, il foglio non è vergine poiché è già stato segnato, ma noi lo crediamo vergine e trasparente per agirvi creativamente puramente in esso, poiché in tal modo non siamo influenzati dalla qualità ambientale, e ad esempio saremmo in grado di essere oltre il timore del dispotismo ambientale del foglio nero, e saremmo sì coraggiosi da segnare il primo punto bianco.

 

 

 

 

 

 

 

IL TIMORE DI CAMBIARE UN AMBIENTE DI OLISMO DISPOTICO.

Abbiamo timore di segnare il primo punto bianco sul foglio interamente nero perché?

Perché il fatto del segno del nostro punto bianco significherebbe la dimostrazione della nostra differenza ontologica essenziale e di mindset testimoniata dalla nostra attitudine di avere segnato il punto di colore bianco, rispetto alle miriadi di persone che hanno segnato i punti neri.

LA CONVERSIONE MARGINALE E LA ILLIBATEZZA E RESILIENA ESSENZIALE ALLA RELAZIONE CON MINDSET CONTRARI

Se adduciamo un punto bianco sul foglio nero metaforicamente non sostituiamo un punto nero con un punto bianco ma poniamo “al di sopra” del punto nero il punto bianco.

Questo sta a significare che la differenza di mindset e confutazione attitudinale di una idea non implica annichilimento essenziale di della persona che la pensa diversamente da noi.

LA TEORIA DEL SUPERFLUO MARGINALE

Quando la aggiunta d’acqua in una caraffa satura implica lo sgorgare d’acqua dalla caraffa.

O il segno colorato del medesimo colore del foglio su cui si segna.

Quando una iniziativa è ininfluente, quando una azione si percepisce come inazione – Avete mai percepito un fiume come se in movimento reiterasse la sua essenza in ogni istante uguale?

Il flutto d’acqua di una semplice fontana sembra solidamente immobile e marmoreo.

Il vaso saturo non può essere riempito, il vaso vuoto può essere riempito.

 

 

 

 

In verità il vaso saturo può essere riempito, ma questa aggiunta in un ambiente saturo implica un sacrificio delle realtà che la vastità contestuale ambientale non può ammettere – L’avere luogo implica la sottrazione di spazio ambientale come implementazione qualitativa del medesimo spazio ambientale.

Quando l’avere luogo è un impoverimento del luogo? Quando una esistenza inficia, corrode, avvelena, compromette la vita e la vitalità stessa di quel luogo, pensiamo alla pallottola nel cuore.

Ma il vaso saturo può essere svuotato: Il miglioramento come sacrificio

IL MARGINE DI POSSIBILITA’ DI INIZIATIVA CREATIVA RELAZIONALE E’ MAGGIORE IN UNO STATUS RECIPROCO RELAZIONALE DI DECADENZA RELAZIONALE –

Immaginiamo l’esempio metaforico con la fattibilità di restauro di un immobile, così è per ciascuna nostra relazione. La fattibilità creativa di restauro di un immobile in rovina è maggiore rispetto alla fattibilità creativa di modificazione essenziale di un immobile in status ottimale.

Altresì per le relazioni con le quali abbiamo raggiunto lo zero di vitalità relazionale c’è possibilità di variazione, anzi, c’è più spazio di miglioramento (Come abbiamo già argomentato) rispetto alle relazioni il cui status di vitalità è al 100%, ciò che è migliore non può essere migliorato, è ciò che non è perfettamente migliore e ottimale che può essere migliorato.

Il margine di possibilità di conoscenza tra due sconosciuti è diametralmente superiore rispetto al margine di possibilità di conoscenza tra due persone che giudicano di conoscersi.

In uno status relazionale di antipatia c’è maggior possibilità di iniziativa di instaurare simpatia.

 

 

 

Quale è il valore insito nella stoltezza? La possibilità della non ignoranza – Poiché il margine di miglioramento culturale è vastissimo in un mindset caratterizzato da povertà culturale.

Il frutto immaturo può maturare, il frutto maturo matura meno del frutto immaturo.

 

Ed il valore aggiunto di un opposto di simpatia in un clima di antipatia relazionale assume maggiore rilevanza fattuale i

IL CONTRASTO MARGINALE ED IL VALORE AGGIUNTO DISSONANTE

La percezione di un valore aggiunto dissonante è discreta rispetto all’andamento continuum dell’opposto gemello.

Ed il valore aggiunto di un opposto dissonante rispetto alla qualità che imperversa universalmente nell’ambiente olistico assume maggiore rilevanza fattuale in quanto compimento di un opposto caratterizzato da minoranza quantitativa rispetto all’opposto maggiormente esistente nell’olismo di questi opposti, il flebile lume di una candela nel buio è una luce che attira l’attenzione poiché crea un forte contrasto con l’ambiente buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ALEATORIETÀ DEL MAYBE

 

Uno scrittore creativo grazie alla sua fervida immaginazione volle immaginare una simulazione di distruttività, egli non escluse a priori che nella distruttività potesse risiedere un valore, quale? .

Lo scrittore immaginò di bruciare interamente il libro che ebbe scritto di vastità di centinaia di pagine e di struttura letteraria romanzesca. Distinguendo due casi, se questo libro fosse stato l’unica sua copia, cosa avrebbe implicato il fatto del rogo dell’unico libro per il suo stato d’animo altresì in relazione al fatto che la sua opera certamente non avrebbe avuto nuovi lettori. Il secondo caso, ovvero la possibilità che il libro bruciato fosse una delle copie autografe. Egli da questa esperienza di associazione immaginativa imparò :

 

“Ho dovuto paragonarti ad una assenza affinché mi mancassi, affinché potessi comprendere il valore profondo dell’avere luogo di ciascuno di noi, basterebbe mostrare a qualunque osservatore il vuoto che sostituisce il luogo di una precedente presenza per fare comprendere all’osservatore la grave dissonanza cognitiva che compendia la relazione presenza-assenza.” Questa dinamica di pensiero vale per la relazione persona-oggetto (scrittore e libro autografo in questo caso) ma altresì nel caso relazionale persona-persona.

Con i libri, siamo fortunati, vedete, si possono replicare, in essenza virtuale, o in numerose stampe cartacee, se si rovina una copia la possiamo sostituire con una sua copia appunto. Ma noi persone non siamo intercambiabili. Ciascuno di noi è una unica copia autografa, e nel caso si andasse a perdere una unica copia di un libro autografo, nessuno scrittore/scrittrice in questo mondo avrebbe una memoria così mirabile da ritrascrivere perfettamente le medesime parole di una opera autografa di miriadi di pagine, il presupposto è che ciascuno di noi non è ritrascrivibile dal prossimo, la nostra manifestazione autentica è la rivelazione della nostra presenza-essenza, non lo spettro del ricordo che un prossimo può cogliere dei noi che fummo, poiché una assenza relazionale coincide con una presenza che è dissimile dallo spettro del ricordo altrove nel tempo e nello spazio.

Sappiamo che il libro di ciascuno di noi possiede miriadi di pagine metaforiche . L’analogia metaforica sarebbe questa: La variazione di quantità ha il medesimo valore qualitativo:  Qualcuno della sua essenza ha realizzato un museo, altri una biblioteca, qualcuno un segno, altri una parola; ed un segno o una parola sarebbero analogamente valevoli rispetto al museo o alla biblioteca.

 

 E se l’autore perdesse la sua unica opera si dispiacerebbe di tre qualità essenziali.

1 Si dispiacerebbe della corporeità del libro, del profumo delle sue antiche pagine, delle fini ondulature della carta e sbavature d’inchiostro che le lacrime cadendo hanno implicato su alcune pagine,  dell’ingiallimento che il sole ha implicato sulle sue candide pagine, delle pieghe sui lembi delle pagine che il lettore-scrittore ebbe realizzato per incontrare più rapidamente le pagine più importanti, si dispiacerebbe della superficialità della copertina.

2 Si dispiacerebbe del profondo significato generale olistico del suo romanzo.

3 Si dispiacerebbe di avere realizzato un luogo relazionale che empisse un vuoto che tuttavia ha ora prevalso. 

 

Così è se dovesse accaderti una o più lontananza relazionale - fingiamo che non gravi sul nostro cosentimento la dissonanza cognitiva presenza-assenza descritta dal concetto - Non è più qui - ma ci accontentiamo dello spettro del ricordo qualora non ci impegnassimo a colmare il vuoto di assenze che potremmo colmare semplicemente cercandoci, qualcuno dei due inizierà per primo a cercare. Allora ritorniamo all’esempio del libro.

 

Come lo scrittore si sarebbe dispiaciuto della corporeità del libro, noi persone ci rattristeremmo della assenza concreta del corpo della persona e delle sue caratteristiche, qualunque esse siano, annettiamo ogni devianza superficiale corporea poiché sintomo ontologico della nostra non sostituibile unicità essenziale. Ci rattristeremmo della conoscenza olistica che acquisimmo nel tempo di relazione con lei in quanto a percezione presente di senso generico del ricordo di una presenza che fu e che è ricordo. Ci dispiaceremmo infine di avere realizzato un luogo relazionale che empisse un vuoto che tuttavia ha ora prevalso.

Ed è proprio questo vuoto la negatività che in paradosso e contraddizione si rivela essere il malinconico ambiente florido di riconoscimento della causa prima motivo della nostra iniziativa relazionale di incontro. Poiché lo scrittore che perse per sempre la sua unica opera autografa la piange, come piangiamo i nostri defunti - ma lo scrittore che perde il suo unico libro lo può ritrovare solo se lo cerca. E nel mentre del suo cercare sarebbe preoccupato della situazione ambientale del suo libro - se le piogge vanno scemando i suoi inchiostri o se il sole incanutisce le pagine rendendo inintelligibili i suoi significati.

L’aleatorietà del maybe imperversa l’urgenza di sapere se siamo e come stiamo.

Ma non siamo solamente come libri che l’autore bene conosce, siamo altresì libri nuovi di cui il lettore è curioso – allora esiste altresì la malinconia causata da una mancanza superficiale futura, piangiamo i sogni non avverati – allora comprendiamo che anche gli sconosciuti possono mancarsi, ma che cosa mancherebbe tra di loro se non si avverasse? La potenzialità relazionale – il lettore piangerebbe il non potere arricchirsi della lettura di un nuovo libro di cui vede solo la copertina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ELASTICO DEL RISPETTO

Secondo te il rispetto è importante?.

Sì il rispetto è importante. Perché? Ora. Ci sono due possibilità. Il fatto di rispettare ha due implicazioni che possono accadere simultaneamente: in sé il rispetto è una variabile che determina la misura di relazionalità reciproca. Premettiamo che il dono di rispetto e la pretesa di ricevere rispetto determina dal punto di vista della relazione la giusta distanza dialogico-relazionale – in direzione di un limite che reciprocamente si istituisce da non superare in contesti di amistà parliamo delle qualità di fedeltà – il rispetto esula il tradimento – e di tutela alla intimità della persona da rispettare – in una relazionalità rispettosa si esulano le attitudini oltraggiose che ad esempio oltrepassano la privacy, o che non tutelano la persona stessa come nel caso di attitudini irrispettose che dialogicamente o attitudinalmente compromettono o infangano la essenza di una persona – tuttavia estremizzando la bontà delle attitudini Riguardose e rispettose rischiamo che la presa delle distanze di una persona non sia della giusta misura ma ecceda in attitudini di aggressività passiva di apatia, di indifferenza relazionale – asetticismo – la gravità della radicalizzazione rispettosa degenera ad esempio nel caso della differenza di genere nella disaffettività e nella distanza concreta dei corpi, un mindset velenoso che ha come sintomo più grave il divieto del contatto emotivo, intimo, e fisico, il sintomo più grave ed evidente è il non sfiorarsi delle persone – pertanto questa dinamica degenerata è deviante di cui il germoglio del rispetto è origine è da ricusare in quanto fonte di stasi relazionale, immaturità reciproca, in direzionalità della fine inesorabile relazionale in casi sia di principio di incontro sia in casi di profonda conoscenza reciproca. Pertanto la iniziativa di rispetto può essere intesa in analogia al significato che associamo al pudore –

 

 

come ostacolanti la profondità relazionale. Ora – in situazioni di amistà superare la linea del rispetto può sia temprare la amistà, sia decaderla ad esempio in situazioni in cui l’eccesso di libertà decisionale del prossimo su una persona si ripercuote e non tutela la libertà, la carriera, la reputazione sociale, la essenza e la vitalità della persona che vede un amico/a realizzare una attitudine gravemente negativa e inconciliabile con lui/lei – in questi casi la superficiality relazionale è più benevola perché più Riguardosa. In relazioni tra diversità di genere il rispetto può implicare decadenza dialogica – in sintesi non si sa di che parlare proprio al fine di non oltrepassare il limite rispettoso – tuttavia se vogliamo profondità relazionale e affettività e sessualità il primo e più radicale livello di rispetto che prescrive la radicale superficiality contattivo – dialogica deve essere superato – per evitare ciò che nominiamo imbarazzo e aridità di approccio. Kant sosteneva che il limite non è solo ciò che delimita una realtà bensì il limite è altresì ciò che è garante della esistenza delle realtà che il limite circoscrive – pertanto la misura del nostro estendere il nostro ‘elastico’ di rispetto reciproco implicherà la nostra qualità di profondità relazionale. Ora. Questo discorso è personale non nella accezione del riguardare i miei affetti bensì nella accezione dell’essere relativa all’olismo relazionale equilibrato persona – persona che va oltre ogni delega di responsabilità relazionale o disequilibrio di responsabilità come discriminazione di genere vicendevole sia nel verso donna=> uomo, sia nel verso uomo => donna. Non è intimabile al solo sesso maschile o al solo sesso femminile la responsabilità di superficializzare o di intimizzare una relazione – semplificando, la imposizione di apposizione di un limite di crescita e approfondimento relazionale è una responsabilità sia dell’uomo, sia della donna – in cosa risiede la responsabilità?

 

 

 

Risiede nella procrastinazione relazionale nella disadattabilità e non intraprendenza reciproca di non sapere sfruttare appieno le potenzialità e le possibilità insite in ogni relazione che instauriamo – non vorrei che la dialettica del rispetto fosse o diventasse garante del rifiuto e annichilimento personale – perché ci tratteremo come libri in vetrina di un museo che nessuno legge e che nessuno può toccare – ebbene questo eccesso di rispetto dell’oggetto libro non segnerebbe che la sua morte ontologica e creativa. Comunitariamente possediamo un mindset libertario – approfondiamo in un contesto ambientale dialogico questa accezione libertaria in ottemperanza della regola del non varcare il limite di rispettabilità del prossimo/a. Un contesto di aridità di approccio può risolversi nella domanda: “Come stai? “ che in origine può essere veramente sentita e interessata o un cliché della quotidianità ormai privo di valore. Ma poniamo la nostra attenzione sulla risposta – allora ci possono essere tre casi – la non risposta – la percezione di un cliché può essere interpretato come indifferenza sullo status di salute o sulla situazione di vita di una persona, la persona percepisce la mancanza di rispetto e manca di rispetto non rispondendo. Un secondo caso si ha in qualità della risposta cliché “Bene” alla domanda “Come stai” ed anche qui distinguiamo tre casi – il primo caso è che la risposta “bene” sia vera, in questo caso potremmo confermare la veridicità di questo fatto osservando come è la persona di fronte a noi, se fisicamente sta bene, se sorride…  solitamente questa dinamica di dialogo è fiorente ovvero di solito si è in situazioni relazionali amicali in cui si prosegue il percorso di dialogo approfondendo la relazione, in questa situazione la dinamica del rispetto è equilibrata. Un secondo caso è che la risposta “bene” sia falsa – qui distinguiamo due casi, il primo è la difensifità, la persona che risponderebbe fingendo la risposta si mette sulla difensiva.

 

 

Che cosa implica questa dinamica in una relazione dialogica? indifferenza che causa fine dialogica, noia, decadenza relazionale – prescriviamo che l’intraprendenza relazionale è una buona cosa non è negativa, poiché il meccanismo di difensività di una persona non relazionabile - che ad esempio non risponderà se la medesima persona che ha domandato “Come stai? “ proverà a intraprendere un dialogo – implica nel mindset della persona relazionale sconcerto, senso di colpa, autoinduzione di un mindset di autodisistima provocato dal silenzio della persona non relazionabile ( qui è la persona non relazionabile ad essere antipatica, a mancare di rispetto alla persona relazionale – simpatica).

 

Che cosa sta comunicando con il suo silenzio la persona non relazionabile alla persona empatica? Restando in silenzio lei innalza il muro del suo livello di rispettabilità – pertanto la persona empatica si trova al di là di questo muro solitamente elevatissimo – allora secondo questa metafora, più la persona empatica cercherà il dialogo con la persona non relazionabile più quest’ultima innalzerà il suo muro di rispettabilità – Ripresentiamo la giustezza morale dell’incontro relazionale, del dialogo per comprendersi – qualora non si dialogasse rischieremmo di non potere avere prova della veridicità, corretta contestualità, misura, e giusto valore delle nostre percezioni, supposizioni e pregiudizi sulla pura essenza del prossimo/a relazionale, creando fallimenti di senso che possono appunto mancare di rispetto al prossimo/a.

 

 

 

 

 

 

 

 

– (un eccesso di difensività rispettosa autoindotta e severamente pretesa può implicare ad un primo livello incomunicabilità ed incomprensioni in un clima di passività, e ad un secondo livello aggressività attiva in misura e in qualità della percezione della persona non relazionabile del varco del limite del rispetto che lei ha determinato per il/la prossimo/a.  Pertanto caratterizzano le estremità passive attitudinali della difensività come dirimenti a priori. Perché a priori? Perché in tali dinamiche relazionali sussiste questa probabile realtà – la percezione di memoria o di previsione falsificante della persona non relazionabile sulla persona che dimostra invece intraprendenza relazionale ed empatia. La persona non relazionabile tace o intima violenza dialogica verso la persona empatica non per come è ora lei (empatica) , bensì in nome di una astrazione temporale rispetto al presente – la persona non relazionabile addurrebe più rilevanza fattuale alla sua percezione della sua essenza passata o futura rispetto alla relativa attitudine presente. La persona non relazionabile pensa dunque – Conosco come sei stato-a e pertanto non ti parlo o ti intimo violenza dialogica – o ancor più gravemente – conosco come sarai (questa percezione è un nonsense assurdo) e pertanto non ti parlo o ti intimo violenza dialogica. Ora, la radicale tutela della personale rispettabilità implica attitudini di difensività che mancano di rispettabilità verso il prossimo, non è la persona empatica a mancare di rispetto, meglio la sua è una forma lieve di mancanza di rispetto in quanto ciò che semplicemente adduce al suo comportamento è la intraprendenza relazionale.

 

 

 

 

 

 

 

Mentre la persona non relazionabile adduce più e diversi livelli gravi di irrispettabilità – la fine inesorabile relazionale, la falsificazione identitaria sulla base delle sue percezioni non comprovate, il senso di colpa (sfiduciato-a) , passività come chiusura interpersonale che ha altresì una incidenza comunitaria in quanto a reputazione interpersonale sociale – tanto che i meccanismi del silenzio dialogico sono il germoglio di ciò che nominiamo emarginazione in quanto a simulazione di analogia attitudinale di una molteplicità che replica il mindset di disistima e di sfiducia di una persona che subisce diffidenza relazionale – riflessione sul tema della ‘etichettatura’ come falsificazione identitaria , la non relazionalità e le possibili attitudini di severità e violenza dialogica attiva.

Sì evince una criticità in misura ed in qualità in cui usiamo come metodo e monito di superficializzazione relazionale il limite del rispetto. Conosco floride e profonde relazioni di amistà costituite fin dalle origini da relazioni dialogiche floride, gradualmente scemate nella aridità di saluti non corrisposti o del cliché della iconica domanda e risposta “come stai? “ “bene” e punto.

Ma ritorniamo alla qualità ontologica della risposta “bene” alla domanda “come stai?” – se questa risposta è falsa può essere sintomo di un motivo di benevolenza tutelate una persona amica – ebbene la persona che risponde “bene” pone un velo sulla propria sofferenza verso il prossimo affinché non si preoccupi per lui/lei è affinché la sua sofferenza non sia gravante sulla persona che si sta relazionando con lui/lei. Adduciamo comunque che le relazioni amicali profonde sono altresì costituite dall’onestà e cosentimento nella reciproca consapevolezza delle proprie debolezze, non solo delle proprie resilienze – perché nella misura delle nostre facoltà innate o acquisibili desidereremmo servire, nella accezione di essere utili, di aiutare, di compartecipare alla soluzione delle flebilità relazionali.

 

 

Ma abbiamo compreso che la amistà e la reciproca conoscenza non devono essere le cause della creatività relazionale ma i suoi effetti – perché se non percepiamo amistà a priori non la creiamo, analogamente per la dinamica della conoscenza, tanto è vero che il non conoscersi in essere  sta divenendo motivo del non conoscersi in divenire. Una summa di creatività relazionale prescrivere be la flessibilità dell’elastico della rispettabilità così da potere dedicare possibilità oneste e chiarificanti dialogico-attitudinali al prossimo che si relaziona sì da potere acquisire ciò che nominiamo la saggezza relazionale in qualità della consapevolezza e reale compimento delle latenti potenzialità che ciascuna nostra relazione possiede.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CONTRIBUTO

 

Tutte le superfici velano il profondo:

Chi vide il profondo,

Vide già ogni superficie.

All the surfaces veil the deep:

Who saw the abysmal profound

already knows all Surfaces.

Parole di introduzione

 

AUTOGRAFIA

L’ARTISTA ALL’INGRESSO DELLA BIBLIOTECA E LA SCRITTRICE ALL’INGRESSO DEL MUSEO

La persona a cui fu detto “Il tuo segno non vale nulla, è solo un foglio bianco.” Realizzò un museo dei suoi disegni. La persona a cui fu detto “Questa lettera non mi dice niente, ho letto solo le prime parole.” Realizzò una biblioteca dei libri di cui fu scrittrice. Quando questa biblioteca e questo museo divennero famosi le persone che in passato ebbero annichilito il segno dell’autorevole artista e la lettera della rinomata persona scrittrice andarono per visitare questi ambienti. TUTTAVIA l’artista all’ingresso della biblioteca proibì l’accesso alla persona che diniegò la lettera della autrice dei numerosi libri esposti in biblioteca sostenendo: “Non leggesti la lettera per intero, perdesti le parole che non volesti leggere. ” E la scrittrice all’ingresso del museo proibì l’accesso alla persona che diniegò il segno del disegnatore dei numerosi dipinti e disegni esposti in biblioteca sostenendo: “Come vedesti del suo segno un foglio bianco, hai già visto questo museo, per te questo museo sono soltanto pareti bianche, non occorre che entri qui.”

LA UMILTA’ E’ IL LIMITE CHE CIRCOSCRIVE E CHE E’ GARANTE DELLA POTENZIALITA’

Foreword

 

We all dedicate different and changeable values and meanings about the reality we live in.

Do not misinterpret my words, my silences, my story of life, my feelings, my thoughts through yours, through the common mood of now, trough others preconceived knowledges and interpretations cause they’re 99 % in fault. Just serenely and lightly talk with me to achieve the awareness of my veiled truth, it may hug the 1 % or the 99 %, the oversight in caring in the false % may be unfavorable for the entire our relationship because of the ghost of the prejudice and the chain of certainties.

THE CONTRIBUTION: THE FUNDAMENTAL SENSE OF SHARING

Are you a born writer? Where you put on Earth to be a painter, a scientist. An apostle of peace? In the end the question can only be answered by action. Do it or don’t do it. It may help to think of this way. If you were meant to cure cancer or write a symphony or crack cold fusion and you don’t do it, you not only hurt yourself, even destroy yourself. You hurt your children. You hurt me. You hurt the planet. You shame the angels who watch over you and you spite the Almighty, who created you and only you with your creative idiosyncrasy unique gifts, for  the sole purpose of nudging the human race one millimeter farther along its path back to God. Creative work is not a selfish act or a bid for attention on the part of the actor. It’s a gift to the world and every being in it. Don’t cheat us of your contribution, Give us what you’ve got.

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA ACCEZIONE ALTERNATIVA DEL CONCETTO DI UMILTA’

Una critica alla dinamica dell’umiliazione. Parliamo a esempio del tema dell’umiltà. Associamo solitamente la mentalità della umiltà alla magnanimità ed alla sprezzatura - definiamo magnanimità:

Grandezza di animo, generosità - umiltà come gratitudine e spirito di dono del valore aggiunto. Sprezzatura - realizzare miracoli attitudinali come se fossero attitudini semplici, quotidiane, normali caratterizzate dal non vanto e dalla non maestosa esternazione delle personali potenzialità.

Tuttavia etimologicamente il concetto di umiltà è altresì:

Umiltà dal lat. humilĭtas -atis].

(Da rilevare la consonanza e assonanza etimologica con il temine di attitudine attiva umiliazióne s. f. [dal lat. tardo humiliatio -onis].)

- L’essere di condizione sociale, origine e sim., non elevata: u. di natali. In relazione alla concezione limitativa ontologica di una persona: Sentimento e conseguente comportamento improntato alla consapevolezza dei proprî limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé. Sentimento e atteggiamento umilmente riverente e sottomesso.

Ma solitamente nessuno pensa ad una prospettiva negativa dell’umiltà indotta, ovvero la concezione secondo cui l’umiltà sia uno strumento deviante l’essenza del prossimo nella accezione di impoverimento e non equilibrato riconoscimento delle reali facoltà del prossimo?

TO DEFINE IT IS TO LIMIT.

TO BE ESTIMATED MORE TO BE ESTIMATED DIFFERENTLY TO BE ESTIMATED BETTER: DON’T JUDGE, DON’T DEFINE.

 

 

 

 

DON’T CUT THE FLOWER BEFORE HIS NATURAL GROWTH ONLY TO SAY: THE FLOWER, IT IS SO AND NOTHING MORE. BE PATIENT AND GIVE THE FLOWER THE WATER, THE TIME AND THE SPACE TO BECOME, AND IF YOU BELIEVE IT, THE FLOWER WILL DONATE YOU SOONER OR LATER HIS BEST SHAPES AND HIS BEST SHADES.

Approfondiamo - l’umiltà implica nella relazione un substrato strutturale di misura di proprietà, di abilità, di essenze – Imposizione di umiltà si può intendere come attitudine giudicante MINORATIVA instaurando un sistema relazionale sbilanciato non egualitario di diritti essenziali e di non rispetto - realizzando non una relazione valoriale di simili ma di un/a superiore che sottopone un inferiore adducendogli la necessità essenziale della bassezza rispetto alla altezza. State molto attenti a chi vi impone il messaggio - devi essere umile, riflettete sulla possibilità che questa persona vi stia mancando di rispetto, questa vi starebbe semplicemente intimando – Stai al di sotto di me - nella direzione di una sequenza attitudinale volta alla vostra manipolazione caratteriale, essenziale, attitudinale. Siate voi gli artefici della vostra direzione, ma non fatevi deviare. NON PERMETTERE A NESSUNO Dl LIMITARTI O DI VEICOLARE IL TUO MINDSET. Essi direbbero - pensa cosi – o non hai la autorità di pensare alcuni pensieri piuttosto che altri –

LA MINORAZIONE E LA LIMITAZIONE DELL’OSSERVAZIONE

The image-forming, defensive mechanism.

“Relationship between human beings is based on the image-forming, defensive mechanism. In all our relationships each one ofus builds an image about the other and these two images have relationship, not the hunzan beings themselves.”

KRISHNAMURTI

 

Has someone ever Heard about the summation: “You don’t know me?” well, that’s probably true. So be patient in judging, do dedicate with prudence provision to your near. Be available in changing your mind in the true direction that is suggested by your near attitudes and words: The movement is more opened to possibility than stasis.

The mindset of self defensive mechanism may traduce itself responding to a specular contrary attitude into nichilist attitudes.

 

Siamo poveri osservatori nella misura in cui crediamo di sapere l’universo, al nostro osservare la polvere volitare a terra. Ma la nostra povertà è soprattutto nel credere di avere visto, e che non vi sia altro da vedere; la prima nostra povertà è il non credere, la sfiducia del pregiudicare, di dichiarare ed agire in causa ed onore di una consapevolezza precaria che sospendiamo sin dalle prime origini del nostro percorso conoscitivo: ovvero compiamo un passo, vediamo la polvere, pensiamo di avere l’universo ed agiamo in base alla miseria di cui aneliamo affinché sia intercambiabile con nuova polvere: così scegliemmo la polvere e sacrificammo gli universi del poter essere e del potere divenire.

Quante volte la vita ci dedicò nuovi dadi, e li gettammo al nulla? E a Noi è il dono e la responsabilità di dedicare al nostro prossimo nuovi dadi, e di custodirli quando il nostro prossimo li dona a noi.

Crediamo che le persone cambino, forse. Dubito del finto, non vedo maschere, piuttosto quando guardo ad ogni persona vedo un prisma con miriadi di geometrie variopinte, alcune traslucenti, alcune opache, alcune riflettenti, alcune curvilinee, altre più ispide, ed in verità siamo prismi velati, e secondo natura, indole, necessità, istintività, casualità, riveliamo e disveliamo alcune delle nostre variopinte singolarità mantenendo quiescenti altre nostre sfumature, per il momento. Pertanto chiariamo che la osservazione di un osservante non è che una percezione limitata e limitante dell’olismo ontologico di una essenza.

Pertanto può non essere raro il nostro non riconoscerci, il sorprenderci di vedere ciò che non è visto del prossimo; tuttavia il valore della variabile del disvelamento delle nostre singolarità risiede nella facoltà della sorpresa in divenire, una iridescenza, un riconoscimento sempre vivido che in nome del nostro rinnovato potere essere inaugura la fine d’ogni termine inesorabile: alla nostra partita terminata dichiareremmo: lo conosco te poiché ti ho visto, pertanto prendo i miei provvedimenti nei tuoi confronti sulla base di ciò che ho visto di te. Sì limitiamo noi stessi e ci concediamo come appunto “gentile” concessione inesorabili vincoli di crescita relazionale pronunciando troppo spesso le parole: “È così. Non è e non sarà diversamente. Punto.

 

 

IL SISTEMA DELLA DELIMITAZIONE ONTOLOGICA

Quando ti dicono No. Quando ti dicono è impossibile. Sii grato di incontrare queste ed altre indifferenze, poiché esse non sono che i tacenti confini della immaginazione di coloro che già a te si sono voltati e che tuttavia ti dedicano quel lontano ascolto, la tipica sommaria provvisorietà del giudizio da due soldi, non approfondito, di superficie. Poiché incontrando queste Inesorabilità avrai incontrato il grezzo marmo da cui poter scolpire la tua statua, il luogo del vasto silenzio la possibilità del tuo momento creativo. Non può esserci creatività per gli accondiscendenti poiché coloro che credono in coloro che non credono in loro si fermano. Ricredere significa aver cura che il loro confine visionario non divenga il tuo.

Non temere, te che sei creativo/a quando secondo reciprocità la cecità del prossimo implicherà la tua, quando il silenzio del prossimo necessariamente ti tacerà. Il dono di possibilità è interpersonalmente intelligente, umano, ricreativo, il dono di inesorabilità è attitudinalmente ignorante, deplorevole poiché dirimente.

 

Come è possibile tuttavia ricredere coloro che non voltandosi, più non vedranno? Così in questo gioco tra volontarie cecità si assumerà la dignità d’essere seguiti e di non necessitare di seguire. Sì il tuo sogno diverrà il sogno di coloro che più non sanno sognare.

Il sogno è possibilità previsionale di cambiamento creativo e di incremento accrescitivo di una essenza – Chi non sogna non oltrepassa il muro della impossibilità tuttavia in atto e in causa della sua mentalità strutturale che realizza la non realizzabilità di ogni possibilità che appunto è per loro impossibile.

 

LA CONVERSIONE BUONA

In the measure you’re able to shield your pains in your heart you’ll purify the whole world, annihilating into your mind your failures and others offences you’re changing the world in better, you’re realizing a mystical creativity, to you is given dust and you make of this powder golden sand.

 

Come l’atto dello scrivere realizza la dignità della persona come scrittrice, l’atto del pensiero realizza la dignità della persona come pensatrice ed in sé il diritto valoriale della sua essenza e del suo pensiero – Un povero mendicante emarginato vagabondo non autorevole avrebbe avuto un pensiero così importante da migliorare l’intero pianeta, ma non è stato ascoltato, così per l’umiliazione del povero il pianeta non è migliorato.

 

WRITING RULE #131

Writing is writing. It isn’t craft or “wordsmithing”. You don’t “pen” it. What you write – whatever you write – is writing – and you’re a writer.

Riflettiamo, quando accoglieremo il mindset di umiliazione da indotta umiltà sarà per giovamento di questi invidiosi che circoscrivono la nostra volontà creativa non a noi stesso/a. 

 

ASCOLTIAMO NOI STESSI

DUBITA Dl QUALSIASI INDOTTRINAMENTO E SISTEMA Dl GIUDIZIO DALL’ALTO. Il significato più profondo è l’annichilimento essenziale ( non sai pensare, sei piccolo/a, il messaggio sarebbe – sei più piccolo di me -  hai bisogno di essere guidato/a, qui si insinua il veleno della coartazione )

Dubita anche del mio mindset - di ogni suo aspetto o di alcune parti se questa riflessione costituisce confutazione del le tue idee.

 

Allora affiancatevi a coloro che credono in voi e che vi incoraggiano, ed affiancatevi a coloro che non credono in voi e che non vi incoraggiano, non negate a voi stessi la possibilità di imparare anche da questi, i maestri dei quali insegnarono loro che le chiavi dei portali del cambiamento non sono accessibili nella realtà esterna bensì sono custodite negli scrigni del nostro cuore, della nostra mente e della nostra anima; dunque essi, riconoscendo in voi ciò che non avevano visto in origine, la vostra tenacia, il vostro spirito creativo cambieranno idea, ora essi crederanno in voi e vi sosterranno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OLTRE IL LIMITE DELLA FINE DEL TEMPO

Una lettera per chi non la leggerà

#blockingitiskilling

Je suis le temps que je te consacre.

Io sono il tempo che ti dedico

We choose in every now our length of time, maybe to be infinite... I dreamed a watch with no hands where the end can’t exists, time isn’t an abstract concept or a virtual reality. we’re the time; in the lenght we dedicate our presence we’re the hands of the watch, really I’ve never believed in who a priori told me “It is the end”, or “there’s no more time”, or, “it is too late”, these preconceived ideas annihilate the evident existence of miriads of instants of the time of the future that are beneficial to change the present circumstance, similarly I don’t believe in who tells me, “I hadn’t time”, now you have the time you need, to arrange by default and to change it.   Consider what had been to know the quality of the black and follow his specular white. And living with the methodical mindsets “you’ve to deserve my time”, or “you don’t deserve my time” or “It is what it is”, is unfavorable, these are sacrificed sands of time that gather in hearts through our consciousness, our innate integrity and our memory, simply we’ll be sorry for the choice of nihil. But Life is so generous; life give us miriads of instants to change. Every instant of our life, it is the opportunity to change, to hug the new.

Death: It is the only one inexorability, the only one end.

“No length of time or relational remoteness is enough to erase friendships.”

Giacomo Leopardi

Je suis le temps que je te consacre.

Io sono il tempo che ti dedico

In ciascun adesso della vita ci è donata l’opportunità di ridefinire il nostro periodo di tempo, potrebbe sfiorare l’infinito, se solo non scegliessimo l’essere il nostro tempo infinitesimo...

 

Ho sognato un orologio senza lancette dove la fine non può esistere, il tempo non è un concetto astratto o una realtà virtuale. Noi siamo il tempo; nella misura in cui dedichiamo la nostra presenza e la nostra iniziativa di dono di opportunità, attitudine che non può che evolvere dallo spirito materno e naturale che si dimostra evidente nelle attitudini dei bambini. Siamo le lancette dell’orologio, davvero non ho mai creduto in chi mi dicesse a priori “È la fine”, o “non c’è più tempo”, oppure “è troppo tardi “, Queste idee preconcette annullano l’evidente esistenza di miriadi di istanti del tempo del futuro che sono utili per cambiare la situazione , al limite eternamente presente a causa di ciò si definisce vicendevole delega di iniziativa e di responsabilità, allo stesso modo non credo in chi mi dice” Non avevo tempo “, ora hai il tempo necessario, per premeditare ed organizzare a tavolino il cambiamento, che non può che divenire compimento della premessa della volontà. Consideriamo insieme cosa è stato conoscere la qualità del nero e seguiamo il suo bianco speculare. Vivere con le mentalità metodiche “devi meritare il mio tempo”, o “non meriti il mio tempo” o “È quello che è”, è sfavorevole, queste sono sabbie del tempo sacrificate che si accumulano nei cuori attraverso la nostra coscienza, la nostra innata integrità e la nostra memoria, semplicemente ci dispiacerà per la scelta del nihil. Ma la vita è talmente generosa; la vita ci dà miriadi di istanti per cambiare.

In ogni istante della nostra vita, è l’opportunità di abbracciare una novità più adeguata rispetto alle novità immutate del passato. Tuttavia la vita generosa non sarà, se in principio noi stessi generosi non saremo.

La morte: è l’unica inesorabilità, l’unica fine.

“Nessuno spazio di tempo è sufficiente per cancellare le amicizie.”

Giacomo Leopardi

 

 

 

VIRTUALE

Che è in potenza e non in atto: le sue qualità sono più v. che reali; talvolta con allusione all’imminenza e inevitabilità di una situazione della quale sono già in atto tutte le premesse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PENSIERO PURO

 

No need anyone legitimation for being an intellectual thinkeable essence and no need anyone evaluation of my thoughts - for my mindset to be a creative origin and typical instance for arousing your curiosity.

A lot of “freedom of” are “freedom from”

Non c’è bisogno della legittimazione di nessuno affinché io sia riconosciuto essere un’essenza pensabile intellettuale e non c’è bisogno di alcuna valutazione e valorizzazione dei miei pensieri che siano per loro stessa ontologica natura degni di esistenza e di riconoscimento - perché la mia mentalità pura sia un’origine creativa e un tipico esempio per suscitare la tua curiosità.

Molte “libertà di” sono “libertà da”.

The idiosyncrasical mindset has essential and ontological value itself - this is the prove that the unique characterization and the legitimal existence of the mindset, they are a priori irrefutable - the everyone mindset does not need anyone external legitimacy, because it has an inner validity - there are not scientifical structures that prove the legitimation of an idiosyncrasy to overcome or to legitimate or to confute another idiosyncrasy - because of the fundamental complex holistic nature that both (all) the idiosyncrasys have.

L’equilibrio ontologico valoriale delle idiosincrasie :

La mentalità idiosincrasica ha essa stessa valore essenziale e ontologico - questa è la prova che la caratterizzazione unica e l’esistenza legittima della mentalità, sono a priori inconfutabili - la mentalità di ognuno non ha bisogno di legittimità esterna di nessuno, perché ha una validità interna - non esistono strutture scientifiche che provano il diritto decisionale di legittimazione della ontologica superiorità di un’idiosincrasia che allora non possa legittimare o confutare un’altra idiosincrasia - a causa della analoga complessa natura olistica fondamentale che entrambe le idiosincrasie hanno.

So no matter how intelligent you are, you have not got the priviledge of being an overcoming decisional essence for other mindsets, and simultaneously the mindset has the priviledge of the auto-legitimation and of the inner possibility of being an intellectual increments for other mindsets. So the relational between idiosyncrasys mindset it is about increments not about confutation. The person itself it is a relational thinkeable essence.

Quindi, non importa quanto tu sia intelligente, non hai il privilegio di essere un’essenza decisionale dispoticamente alienante, annichilente, umiliante e superante rispetto ad altre mentalità, e contemporaneamente la mentalità ha il privilegio dell’auto-legittimazione, dell’auto - denominazione e dell’auto oggettivazione e della possibilità interiore di essere un incremento intellettuale per altre mentalità. In ottemperanza della teoria della marginalità altresì la devianza della fragilità povertà può essere fondante un miglioramento in quanto a riconoscimento del mindset dell’ imperfezionismo che ammette le devianze dalle ‘normalità’ (ricchezza) come strutturanti di un sistema più accogliente e meno severo verso le diversità.

Quindi la mentalità relazionale tra idiosincrasie riguarda gli incrementi non la confutazione. La persona stessa è un’essenza pensabile relazionale.

Another fact it is that the external behavioural read of an attitude that we call perception it is not the idiosyncrasy. So when someone think he/she is confuting a thought or a mindset, in truth he/she is not touching the essential idiosyncrasical mindset, but he/she is confuting his/her mindset into the morfology of his her perception and interpretation of the aptitudinal explanation of the inner mindset of the other person. So we understand that the inner mindset essence it is untouchable and flawless.

 

 

 

Un altro fatto è che la lettura comportamentale esterna di un atteggiamento che chiamiamo percezione esteriore di un osservatore non è il pensiero puro del pensante, non è l’idiosincrasia del pensante la realtà letta dallo spettatore giudice, bensì la sua stessa percezione e pertanto l’osservatore è giudice del suo stesso pensiero, della sua percezione e interpretazione del risultato attitudine le conseguente al mindset del pensante. Quindi quando qualcuno pensa di confutare un pensiero o una mentalità altrui, in verità non sta toccando la mentalità idiosincrasica pura essenziale altrui, ma sta confutando la sua stessa mentalità nella morfologia della sua percezione e interpretazione dell’attitudine immagine della mentalità interiore dell’altra persona. Quindi capiamo che l’essenza della mentalità pura interiore è intoccabile e illibata.

NON VEDIAMO LE COSE COME SONO, MA VEDIAMO LE COSE COME SIAMO. Jung

 

“È una cosa strana quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai stato dentro. È il tuo posto ma tu non ci sei mai.”

Baricco

“Vedere è già di per sé un atto creativo”

Matisse

“Ciò che si vede dipende da come si guarda, poiché l’osservare non è solo un ricevere, uno svelare, ma al tempo stesso un atto creativo. “

Kierkegaard

La osservazione è falsificazione della pura essenza osservata come integrazione della essenza osservata insieme alla percezione dell’osservante. Pertanto la superficie della pura essenza osservata risulta relazionalmente integrata dalla percezione dell’osservante, e di questa integrazione non è responsabile l’osservato ma l’osservante -

 

tuttavia si adduce che nelle dinamiche di giudizio sia attribuita all’Osservato la responsabilità della qualità percettiva del giudice osservante come se la qualità percettiva coincidesse con la essenza dell’osservato e come se di questo connubio l’osservato dovesse esserne responsabile - NON dovrebbe essere così - in quanto la pura essenza dell’osservato è impermeabile alla percettività del giudice osservatore che è semplicemente un surplus falsificante. (La falsificazione è intrinseca alla osservazione in quanto a mediazione delle qualità di mindset della essenza giudicante.)

“L’osservatore non può essere separato da ciò che osserva, nessun osservatore, nessuna realtà da osservare.” Heisenberg.

La responsabilità della esistenza ontologico-universale di Dio è dello sguardo credente di ciascuna persona.

Anche Dio muore se non lo si vuol più vedere.

 

“Kannst du nicht gefallen durch deine That und dein Kunstwerk. Mach es wenigen recht. Vielen gefallen ist Schlimm” Non puoi piacere a tutti attraverso la tua azione e la tua arte. Fa’ in modo di piacere a pochi. È male piacere a tutti.

Schiller a klimt

 

There’s a reciprocal influence about mindsets - There’s a liaison between inner mindset and behavioural manifestation - and superficially creating behavioural relationships between people they consciously and unconsciously change improving their mindsets. The mindset always improves - even into the cases of behavioural inequality the people who are aptitudinally and essentially overcomed are maybe silenced but their mindset continues growing and increasing, notwithstanding other people aptitudinally do not permit them to manifest their increasing inner intelligence. Tuttavia esiste un’influenza reciproca sulle mentalità -

 

C’è un legame tra la mentalità interiore e la manifestazione comportamentale - è creando superficialmente relazioni comportamentali tra le persone che cambiano consciamente e inconsciamente i mindset, migliorando le loro mentalità. La mentalità migliora sempre - anche nei casi di disuguaglianza comportamentale i corpi delle persone che sono attitudinalmente ed essenzialmente sottovalutate e intellettualmente avvilite possono essere messi a tacere, (Il dispotismo annichilente ha qualità modificanti di tipo comportamentale, non si può tacere il pensiero ma si può ostacolare il corpo pensante, un semplice esempio è l’indifferenza.

La dinamica di intimazione di indifferenza ha evidenti relazioni con l’annientamento di pensiero e con l’annichilimento ontologico - non ascolto il tuo corpo parlare, non mi comunichi niente, non sento niente, le tue parole non sono, il tuo pensiero non esiste, non sei una essenza pensante. - da evincere qui la decadenza morale della sordità e l’immortalità ontologica della persona annichilente che volendo sminuire il prossimo dimostra la propria inferiorità valoriale-morale.

Tuttavia il flusso di pensiero delle persone ostacolare incede, la loro mentalità continua a crescere e aumentare, nonostante le altre persone attitudinalmente non permettano loro di manifestare la loro crescente intelligenza interiore.

But we must say something important - the aptitudinally manifest of the mindset has fundamental importance, it has the same priority as the idiosincrasycal mindset -

So we are talking about active or passive violence - we must conceive that the quality of the mindset has second importance in the cases of damaging behaviours - So only the negativity of the behaviour has the legitimal property of saying that that this mindset it is a venom that needs to be purified , (we remember that relations between mindsets it is always about reciprocal increasing)

(Anyway the aptitude don’t ontologically confute the mindset)

so no matter the quality of the mindset, it is considered negative. I end this reflection through the thought : The realization of the purpose do not legitimates every aptitudinal method. In Italian - la causa non legittima il mezzo.

Ma dobbiamo dire una cosa importante - la manifestazione attitudinale della mentalità ha un’importanza fondamentale, ha la stessa priorità e urgenza valoriale della mentalità idiosincrasica - Quindi staremmo parlando del caso limite negativo della violenza attiva o passiva - dobbiamo concepire che la qualità della mentalità ha una seconda importanza nei casi di comportamenti dannosi - in quanto a gravosa rilevanza fattuale dell’atto - Quindi solo la negatività del comportamento ha la proprietà legittima di dire che quella mentalità è un veleno che ha bisogno di essere purificato,

 (ricordiamo che le relazioni tra le mentalità sono sempre sull’aumento reciproco)

(comunque la negatività comportamentale non annienta e non confuta ontologicamente la idiosincrasi del mindset)

Quindi, indipendentemente dalla qualità della mentalità, essa è considerata nella qualità decadente di negativa in quanto causa dell’effetto di attitudine negativa. Concludo questa riflessione con il pensiero: La realizzazione dello scopo non legittima ogni metodo attitudinale. In italiano - la meta non legittima i mezzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Frattalità

Il macrocosmo è il microcosmo,

L’infinito è nell’infinitesimo,

l’oceano in una goccia,

l’albeo in ungermoglio

un fulmine in un filo d’elettricità

Il subconscio nel sogno.

E’ la potenzialità.

L’essere in potenza,

il divenire resiliente nell’essere gracie.

E’ la mentalità in un pensiero,

la fede in una preghiera,

l’affetto in un abbraccio.

Così ogni slancio vitale nasce dall’imprevisto,

dall’assenza del consuetudinario,

dalla percezione di una assenza affinché possiamo colmarla.

E’ l’eterno nel secondo,

il temppo è un flusso costante,

noi siamo universi.

Così come il vasto vuoto d’un bianco è l’ubiquità della luce.

Nel nulla è l’energia del tutto,

è dal nulla ogni creativa novità.

La novità dona vita a ciò che non esisteva.

E’ allora dal nulla la mia ispirazione creativa e la mia vitalità.

Ogni realtà che nasce nel luogo del nulla acquisisce valore

empiendo il vuoto del nulla rinominandolo

e ricaratterizzandolo,

in questo luogo una piuma non volita leggera

ma piomba gravemente, ed una pietra grezza ha il valore di un diamante.

 

 

 

L’ORDINE CAOTICO

 

PEDAGOGIA RELAZIONALE E SPERSONALIZZAZIONE

 

La questione fondamentale è che voi riflettete e argomentate per avere ragione o per arricchirvi o per un riconoscimento culturale, io rifletto e argomento per comprovare la dignità ontologica di tutte le persone, altresì delle più povere, diverse e fragili, tutti coloro a cui il diritto di dignità e valore umani non viene legittimato o viene annichilito o viene immiserito del suo originale valore. Il principio secondo cui il diritto di dignità e valore umani sono autonomi non eteronomi non sono legittimabili esteriormente – il diritto di dignità e valore umani non ha realtà ontologica per gentile concessione di una persona esterna da noi stessi. Il diritto di dignità e valore umani è illibato, è innato e immanente e intimamente correlato alla vita – la esistenza vitale ontologica è garante aprioristicamente rispetto ___ e indipendentemente da ___ della dignità di avere luogo come valore aggiunto per l’ambiente in cui si ha luogo.

Argomentiamo qui la tesi secondo cui _ Ciascuno è meritevole e rispettabile _

Ad utrumque paratus _ Proviamo a esistere nel “qui” e nel “lì”, solamente la consapevolezza olistica onnisciente può condurre alla giustizia, alla verità, alla dignità ontologica universale, poiché solamente la prospettiva universale risolve nella consonanza di valore ontologico le dissonanze ontologiche tra egemoni e subalterni. Seppur la consonanza a livello fonico realizzi la risonanza ovvero un implemento reiterativo del volume del suono altresì le note dissonanti sono costitutive dell’ordine caotico del sistema ambientale in relazione al diritto ontologico di dignità delle note dissonanti come puro valore aggiunto al sistema ambientale musicale.

 

 

Che il pubblico di un concerto lirico applauda all’orchestra lirica che avvicendi alla soavità lirica il caos delle metriche iconiche della musica “metal”. Colei che suona l’arpa, ora suonerebbe la chitarra elettrica.

Il sistema pluricontestuale istituendo la relatività contestuale-ontologica reallizzerebbe infatti la realtà secondo cui gli egemoni dei subalterni sono ontologicamente subalterni ai medesimi subalterni che sono egemoni agli egemoni, e la realtà parallela secondo cui i subalterni degli egemoni sono ontologicamente egemoni ai medesimi egemoni che sono subalterni ai subalterni.

 

IL PRINCIPIO DI SINERGIA RELAZIONALE

1+1=3

Persona + Persona = Persona + Persona + Noi interpersonale

 

ASSERTIVITÀ RELAZIONALE COME ASSERTIVITA’

DIALOGICA

Applicare alla relazionalità i principi e gli assiomi della assertività dialogica: Lettura di “Tesi”

 

LA DEVIANZA E LA DIVERSITA’ ONTOLOGICA E’

FONDANTE LA PERSONALIZZAZIONE

Assumere che ciascuno è meritevole e che a ciascuno debba essere riconosciuta dignità valoriale ontologica non premette che siamo tutti uguali, nonché la nostra intima unicità è fondante la nostra più profonda caratterizzazione e possibilità di riconoscimento e valorizzazione come agenti puri discriminanti - la possibilità di discernimento si ha per l’essenza di un punto di dissimile colore rispetto al colore del foglio.

 

 

 

 

Tuttavia premettiamo che l’essenza del segno sia ontologicamente dissimile dall’assenza dell’ambiente foglio colorato, pertanto il riconoscimento si può ottenere altresì in analogia delle tinte del segno e dell’ambiente foglio.

IL FALLIMENTO, L’ERRORE E’ LA IMPRONTA DIVERSIFICANTE COSTITUTIVA DELLA PERSONALIZZAZIONE

Il valore dell’errore, del fallimento è che diversifica. Poiché la giustezza, la correttezza e la perfezione sono adattative omologanti, mentre la fragilità è l’errore sono manifestazioni intime della unicità individuali.

Modi diversi di raggiungere il corretto risultato.

In una classe in cui si consegna lo stesso compito, gli studenti consegnano i compiti tutti esatti - la giustezza è omologante. Se alcuni studenti consegnano il compito inesatto essi manifestano una variazione di difformità rispetto alla omologazione della giustezza.

La presenza dell’errore istituisce il valore di difformità nel sistema che cortocircuita il sistema di dispotismo di perfezionismo - si verrebbe a creare un dualismo nell’olismo in cui ciascuna delle due parti reclama il suo diritto valoriale e di dignità ontologica.

Solitamente istituiamo come meritevoli di dignità ontologica coloro che consegnano il compito esatto - ed è nella dicotomia tra essere e non essere che focalizziamo la decadenza del sistema competitivo-gerarchico-unicontestuale - ovvero che la presenza dei meritevoli è accompagnata dalla presenza dei non meritevoli o dei meno meritevoli - pertanto il sistema perde i più fragili nel contesto del rendimento -

 

 

 

 

 

Secondo allora la prospettiva della valorizzazione ontologica umana universale i meno meritevoli che nel sistema del compito consegnano un compito errato sarebbero i più meritevoli in quanto il loro mindset non istituisce un criterio valoriale per denigrare coloro che consegnano il compito esatto - coloro che consegnano un compito errato sono costituenti del messaggio - esistiamo anche noi come parte ontologica contribuente del sistema classe. In ottemperanza allora della mentalità pluricontestuale - coloro che consegnano il compito inesatto avrebbero conseguito e imparato le strutture mentali che solo chi ha vissuto il fallimento può avere - sì la parte fallimentare insegnerebbe l’umiltà, la resilienza, la solidarietà (i più deboli si sostengono vicendevolmente) alla parte dei meritevoli - pertanto concludiamo che nel sistema pluricontestuale classe sono tutti meritevoli. Ed i non meritevoli che non consegnano il compito esatto sono analogamente meritevoli per altre facoltà che li appartengono, e meritevoli inoltre per avere istituito un sistema nella classe ad ottimale rendimento in quanto unico sistema che non perde essenzialità ontologiche.

Lettura coerente: Lettera a una professoresa. Don Milani

 

Incremento della idea della negatività del fallimento

Il sistema unicontestuale o la persona che attribuisce la etichetta del fallimento in relazione al diniego di una persona sono pertanto ontologicamente fallimentari in quanto a perdenti della essenza della realtà giudicata non valevole.

L’atto di attribuzione di etichette negative come oggettivazione di una essenza - Lettura di “Tesi” e di “Tesi ll”: la oggettivazione non è la essenza della realtà giudicata ma falsificazione percettiva del giudicante

Non è un atto universalmente utile - Si dice per dir bene.

 

 

 

La attribuzione della etichetta di fallimento ontologico è sorto da una idea del giudicante di fallimento specifico contestuale - Il giudicante suol dire - non sai far questo, non sai far niente - dimostrando la cecità del giudicante in atto di non sapere vedere le potenzialità latenti dell’osservato, la mentalità del giudicante è all’insegna del demerito e pertanto una mentalità non proattiva ma decadente moralmente e relazionalmente.

Quando il fallimento è Catartico.

Premesso che la nostra ontologia del rendimento è assimilabile ad un plasma mutevole nel tempo e avente miriadi di prospettività si comprende che sia impossibile fallire omnicontestualmente - se falliamo in un contesto reale restiamo proattivi e resilienti in altre miriadi di contesti, in più il luogo del fallimento è un luogo suscettibile di serendipità  - la possibilità in cui si crede di non potere acquisirvi ciò che è nella nostra attenzione, ed in alternativa si incontrano altre realtà disattese, forse più importanti di tali che si cercavano.

LA RI_CONOSCENZA E IL RICONOSCIMENTO COME MATRICE COEVOLUTIVA FONDANTE LA PERSONALIZZAZIONE

Il valore della parola “ANCORA”

Matrice adattativa ontologica Relazionale: la coevoluzione. L’amore è amarsi infinite (Personalizzazione)volte come l’odio è l’odiarsi infinite volte (Spersonalizzazione). La costanza periodica delle semplici attitudini buone costituiscono la complessità della tempra relazionale.

Gli olismi (macrocosmi) relazionali sono le reiterazioni dei microcosmi delle iniziative concilianti o inconcilianti. Il “non riconoscimento” implica spersonalizzazione.

 

 

 

 

Significato di coevoluzione

TRATTO DA “TESI”

 

 

Esistono sistemi complessi adattativi  (CAS – Complex Adaptive Systems), cioè sistemi complessi in grado di adattarsi e cambiare in seguito all’esperienza. Il sistema umano è considerato un “sistema complesso adattativo” (CAS) ed è definito “sistema Io-soggetto”. Di centrale importanza in questo contesto è il concetto di linearità, che non va confuso con l’omonimo concetto colloquiale, ma va inteso nel senso della teoria dei sistemi. In generale un problema è lineare se lo si può scomporre in un insieme di sotto-problemi indipendenti tra loro. Quando, invece, i vari componenti/aspetti di un problema interagiscono gli uni con gli altri così da renderne impossibile la separazione per risolvere il problema passo-passo e “a blocchi”, allora si parla di non-linearità. “Il biologo americano Kauffman (2001) sostiene che i sistemi  complessi adattativi si muovono in paesaggi adattabili, o elastici, (fitness landscape), in continua deformazione per l’azione congiunta dei sistemi stessi, di altri sistemi, e di elementi esogeni.

(“Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità”, De Toni e Comello (2005))

Lo spazio delle possibilità è la situazione in cui sistemi complessi adattativi possono scegliere tra più comportamenti e configurazioni alternative. È in questo particolare stato, infatti, che questi sistemi agiscono in maniera più creativa, operando eventuali evoluzioni sfruttando le proprie peculiari capacità di apprendimento e adattamento.

 

 

 

 

 

“Un CAS può essere descritto come un instabile aggregato di agenti e connessioni, auto-organizzati per garantirsi l’adattamento. Secondo Holland (1995), un CAS è un sistema che emerge nel tempo in forma coerente, e si adatta ed organizza senza una qualche entità singolare atta a gestirlo o controllarlo deliberatamente. Il fenomeno della co – evoluzione.” (“Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità”, De Toni e Comello (2005))

Il fenomeno della co – evoluzione

“L’adattamento è raggiunto mediante la costante ridefinizione del rapporto tra il sistema e il suo ambiente.”

 Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità”, De Toni e Comello (2005)

“Le rocce, i campi, i boschi, i corsi d’acqua, le case, i beni, la carne, il sangue, le ossa, i nervi – queste sono realtà da interpretare, con caratteri essenziali che permangono a tutti i cambiamenti, ma il mio Ego non perdura; è fabbricato di nuovo ad ogni cambiamento di queste. E innanzitutto, contro l’accettata formula del Materialismo moderno, “Gli uomini sono ciò che le condizioni producono”, io stabilisco un’affermazione opposta, “Le condizioni sono ciò che gli uomini producono”.

In altre parole, la mia concezione della mente, o del carattere, non è che sia un inefficace riflesso di una momentanea condizione di materia e forma, ma un agente modificatore attivo, che reagisce sul suo ambiente e trasforma le condizioni qualche volta lievemente, qualche volta molto, qualche volta, sebbene non spesso, totalmente.”

L’idea dominante, Voltarine de Cleyre

 

 

 

 

 

 

La co – evoluzione sociale: il pensiero adorniano

Si differenzia sia dal pensiero Heideggeriano che da quello Lévinassiana in quanto la definizione dell’identità non coincide con un processo finalizzato all’espressione dell’autenticità dell’io, né tantomeno con uno sbilanciamento etico in favore di un appello che mi viene rivolto dall’esterno. Priorità: Permettere la ridefinizione del concetto.

Premessa: Rigenerabilità delle definizioni concettuali.

L’uomo come ordinatore

La razionalità risiede nella capacità di identificare e ordinare i concetti coinvolti nella riflessione. La definizione di concetti risponde alla necessità umana di mettere ordine nel molteplice mondo degli enti e degli eventi naturali e sociali. Chi mette ordine è colui che stabilisce le differenze, in ultima istanza, colui che, disponendo, crea.

È hybris (sinonimo di ideale:http://www.treccani.it/vocabolario/hybris/) che ci sia identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma il suo ideale non sarebbe semplicemente da gettare via: nel rimprovero che a cosa non è identica al concetto vive anche la brama che lo possa diventare, in tal senso la coscienza dell’identità contiene identità. Sostenere che l’identità non c’è ancora, non equivale a dire che è impossibile definirla concettualmente nella sua concretezza storica, ma che la cifra essenziale dell’ identità risiede nella sua processualità storica. L’identificazione  formale e concettuale, nel momento in cui circoscrive e delimita un oggetto deve anche creare le condizioni per cui diventi altro rispetto a ciò che è. Si potrebbe sostenere che la teoria Adorniana dell’identificazione sia tutt’uno con una teoria del Nuovo, ovvero con una teoria delle condizioni di possibilità dell’insorgere del Nuovo e del Non Ancora.

 

 

 

Nei processi costitutivi dell’individualità, l’istanza di ridefinizione si traduce nella negazione di tutte quelle pratiche di identificazione che, nello stabilire ciò che il soggetto è in un dato momento, pongono vincoli e limiti a ciò ce il soggetto potrà diventare. Il Nuovo, ovvero il semplice mutamento di una situazione attuale è necessario ma non sufficiente:  Cosa altrettanto fondamentale è che la Novità diventi trasformazione, sia cioè anche argomentabile. Il Nuovo, per esser veramente tale deve poter essere valutato e considerato più giusto rispetto a ciò che lo ha preceduto.

L’atto di identificazione non risponde mai esclusivamente a una logica di definizione o di determinazione di una identità, infatti se lo stesso pensiero identificante vuole continuare a sussistere, vuole perciò progredire nella sua opera di ordine e creazione, deve continuare a tener viva e aperta la possibilità che, le identità da lui poste, possano trasformarsi in qualcosa d’altro rispetto al modo con cui vengono espresse. Se una determinata individualità soggettiva viene definita mediante un apparato categoriale che la racchiude, avvolgendola completamente, non solo verrà spogliata di tutte le contraddizioni interne e esterne alle implicazioni storico- sociali dell’individuo, ma lo stesso pensiero identificante, privandosi della possibilità che l’identico soggettivo possa trasformarsi e assumere nuove conformazioni storiche, priverà anche sé stesso della propria azione ri-definitrice.

La necessità di identificare è dunque tutt’uno con la necessità di trasformare. Tutelare e salvaguardare la possibilità di ridefinire i concetti è un’azione possibile solo in un contesto discorsivamente e intersoggettivamente allargato, che si apra all’argomentazione di tutti, non solo sulla correttezza espressiva dei significati, ma anche sulla comparabilità ed equivalenza tra il significato attribuito alla realtà da un singolo ed il significato conseguente allo scambio intersoggettivo di conoscenze della medesima realtà tra persone tenendo dunque aperta la ridefinibilità ti tali significati.

 

La mancanza (spesso utilitaristica) di obiettività può divenire causa di pregiudizi, la mancanza (spesso utilitaristica) di criticità può divenire causa di consenso al pregiudizio. Tali mancanze costituiscono un limite alla definizione intersoggettiva di una identità; tale limite si può risolvere nella misura in cui le persone coinvolte nel reciproco scambio di idee sono aperte alla ri-definizione di tale identità. Trasponendo le precedenti osservazioni sul piano della teoria sociale , è necessario leggerle alla luce di quella trasformazione che ha portato a considerare l’individuo, persona. L’individuo è persona nel senso che non è più una forma astratta e indipendente della singolarità rispetto alla totalità sociale ma il soggetto di pratiche reciproche ed intersoggettive di identificazione.

Secondo il modello di teoria sociale di Adorno il pensiero dell’identità deve essere ricondotto a una teoria dell’uso dialettico e intersoggettivo delle categorie identificanti che tenga conto sia della relativa oggettivabilità dell’individuo, sia della possibilità di trasformazione e ridefinizione di esso. L’antropologia sociale adorniana guarda a una soggettività inevitabilmente sospesa tra un non più  e un non ancora.

Ciò che conta non è tanto la permanenza e la continuità di un proprium antropologico soggettivo, ma la costitutiva sospensione antropologica tra una dimensione identitaria dell’io, che chiede di essere espressa e una tensione alla riconfigurazione e alla trasformazione soggettiva che deve essere messa nelle condizioni di svilupparsi.

 

 

 

 

 

 

 

In quest’orizzonte la concezione di identità personale non può intendersi ponendo attenzione al permanere costante dell’individuo nel continuum storico, quanto al momento storico presente in cui il soggetto si rivela sempre costitutivamente premessa e promessa.

“Ascolta, caro, ascolta bene! Il peccatore non è in cammino per diventare un giorno una persona migliore. E ora vedi: Questo “un giorno” è illusione, è mero simbolo! Il peccatore non è coinvolto in un processo evolutivo, sebbene il nostro pensiero non sappia rappresentarsi le cose diversamente. No, nel peccatore è, già ora, oggi stesso, il futuro santo, il suo avvenire è già tutto presente, tu devi venerare in lui, in te, in ognuno il santo potenziale, il santo in divenire, il santo nascosto. Il mondo, caro, non è imperfetto, o impegnato in una lunga via verso la perfezione: no, è perfetto in ogni istante. La meditazione profonda consente la possibilità di abolire il tempo, di vedere in contemporaneità tutto ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà.”

La sociologia contemporanea ha fatto propria l’esigenza di leggere e interpretare l’identità dando notevole rilievo all’inoggettivabilità della storia biografica del soggetto. In quest’ottica il soggetto è identificabile in base a processi di riconoscimento intersoggettivi.

L’approccio sistemico – costruttivista e la co – evoluzione:

L’approccio sistemico – costruttivista si riferisce alla metodologia generale della Sistemica, cioè ai concetti, ai principi, alle applicazioni e ai metodi basati sul concetto di sistema, alle proprietà sistemiche, all’interazione riferiti alla scienza della complessità, fondata negli anni Sessanta del XX secolo da un gruppo di studiosi tra i quali Prigogine, Gell-Mann, Shannon, Weaver, Wiener, Ashby, von Foerster, Atlan, von Neumann, Bateson, von Glasersfeld, Maturana, Varela, Morin, per cui considerando un fenomeno e usando l’approccio sistemico è valutata l’efficacia di modellare, identificando il livello di descrizione più adeguato, come: i componenti, le interazioni, il ruolo costruttivista dell’osservatore che inventa variabili, in seguito alle quali fa e verifica esperimenti e gli esperimenti si profilano come domande alla natura, che risponde facendoli accadere, dunque, risponde alle domande poste.

Se non si pongono domande non si hanno risposte

“La dialettica si attua come domandare e rispondere, o meglio come passaggio di ogni sapere attraverso il domandare.”

Gadamer

Tuttavia è con il modello cognitivo – costruttivista che il soggetto viene inteso non solo come colui che è re – attivo, ma attivo nel sistema in cui si trova. Ciò vale anche per l’uomo considerato da Morin un cosmo ricco di personalità e definisce l’identità umana. L’unitas multiplex, ovvero l’unità molteplice composta di molte dimensioni: biologica, antropologica, sociologica, psicologica ed essendo un’unità molteplice questa è intrisa e tessuta, presa e compresa nella realtà anch’essa complessa e multidimensionale, difficile da penetrare e comprendere.

Conoscere i problemi

“Nel regno del Kitsch totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia domanda. Ne deriva che il vero antagonista del Kitsch totalitario è l’uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro. Davanti c’è la menzogna comprensibile e dietro, intravista, l’incomprensibile verità. Quello che c’è sotto la superficie è un mondo estraneo.”

L‘ insostenibile leggerezza dell’essere, Milan Kundera

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ANONIMIZZAZIONE COSTITUISCE

SPERSONALIZZAZIONE

Il mancato riconoscimento interpersonale è la tendenza verso l’anonimizzazione.

Abbiamo un nome e tuttavia valorizziamo l’anonimato nelle forme di analogia e omologia ontologica.

Omologazione e standardizzazione implicano depersonalizzazione.

 

LA SPERSONALIZZAZIONE IN AMBITO RELAZIONALE

I TRE GIOCHI RELAZIONALI DIRIMENTI

1 Il gioco del silenzio.

Il nostro gioco del silenzio consisterebbe nel ridurre al minimo il dialogo, il confronto verso le problematicità relazionali, nei casi più gravi di silenzio sistematico e lontananza relazionale in cui si istaura la realtà della aleatorietà del maybe. Le tendenza verso l’assottigliamento del filo relazionale in direzione di un conto alla rovescia che nominiamo “Infinite counting back to nihil”.

2 Il gioco del nascondino.

Il gioco del nascondino è un secondo gioco a cui ci piace giocare, e la cui manifestazione non implica che il ghosting.

3 Il gioco dello specchio.

Il terzo gioco è il gioco degli specchi la cui regola è in nome di uno spirito vendicativo reciproco.

“I am your mirror; no more, no less, you deserve

No relational added value. I have never acted towards you anything identical that you had not acted towards me before. By showing your attitude, take responsibility for it, then I’ll take mine.”

Ci accorgiamo che questi tre giochi relazionali dirimenti non sono salutari per la nostra relazione e per noi.

 

 

 

 

LA INDIVIDUALITA’ E’ SPERSONALIZZAZIONE RELAZIONALE

Rapporto individuo _ persona

La spersonalizzazione implica la svalorizzazione della caratteristica relazionale appartenente al concetto di persona ammettendo la egemonia dell’individualismo che è un sistema carente di relazionalità.

Spersonalizzazione relazionale come vanificazione del tempo relazionale.

La delega di responsabilità relazionale alla astrazione temporale è una causa di spersonalizzazione in quanto a sacrificio di tempo relazionale che sarebbe catartico per la persona a cui viene procrastinata la relazione.

Perché procrastinare alle età adulte, alla anzianità, al mai inesorabile che è ontologicamente il fin di vita relazionale e talvolta ontologico, le realtà della gioventù?

Procrastinazione e inesorabilità relazionale. Ciò che è ora è sempre – non ci diamo motivi per credere che non sia diversamente.

Il tempo in sé procrastina non risolve relazionalmente niente. Il tempo dialogico non deve essere fine a se stesso.

Ciascuna persona è meritevole di tempo dialogico indipendentemente. La vendicatività è la risonanza della negatività. Applichiamo questa idea alla dinamica del tempo relazionale e della vicinanza_lontananza _ inesorabilità relazionale.

Esempio immaginativo di radicale dimenticanza e inesorabilità relazionale.

“Una persona morì in casa dopo essere stata abbandonata per anni; per dieci anni nessuno si accorse del corpo, né trovarono solo le ossa quando per sbaglio qualcuno di sconosciuto ebbe accesso alla abitazione.”

 

 

 

Avverrebbe che la persona che percepisce l’atto della persona dinanzi a lei del semplice voltarsi e del muovere lei stessa di un passo lontano dalla persona percepiente – induce nella persona percepiente l’idea:  “Te ti allontani di un passo da me, Io mi allontano di anni luce da te”.

Non è una realtà impensabile, alcune persone sanno essere così severe.

Ricercare la positività nella negatività.

Un esempio.

La purificazione attitudinale della vendicatività

Il valore pedagogico della vendicatività come metodologia speculare di comprensione di negatività di una attitudine. – farsi specchio delle negatività altrui per mostrare loro i loro limiti – facilitare il primo passo del miglioramento ontologico personale è il riconoscimento del l’attitudine negativa.

“Ti rivelo come ti stai comportando con me.”

In adduzione ad una rivelazione delle implicazioni negative in relazione alla dimostranza della qualità di sentimenti intimi che la attitudine negativa induce – si adduce la caratteristica di negatività alla neutralità di una attitudine.

“ Poiché agisci questo io mi sento così – io agisco verso te la medesima attitudine ed induco in te il medesimo sentimento”

“Ti rivelo come ci si sente in causa del tuo comportamento.”

Il terzo punto è la confutazione:

“Poiché senti che il tuo comportamento implica un sentimento negativo, impari che il comportamento che hai agito verso il prossimo non è da agire.”

Solo chi dispone il prossimo in un luogo di avversità allena il prossimo e lo dispone dinanzi alla ‘negativa’ realtà affinché acquisisca la tempra per essere esso/a stesso/a a sanare la negatività ambientale.

 

 

Affinché una persona sia abituata al perdono deve essere posta in una situazione ambientale-relazionale in cui vi sia ‘qualcosa da perdonare’.

 

LA CATENA DELLA VENDICATIVITA’

TUTTAVIA

La vendicatività si dimostra essere un metodo relazionale non catartico perché istituendo la reciprocità delle negatività decade la relazione verso la dirimenza definitiva _

La dinamica della vendicatività reitera la risonanza delle negatività attitudinali innestando un sistema relazionale di tipo – Negativo _ Negativo _ Negativo.

La immagine delle calamite relazionali risulterebbe questa:

(+-)            <-->             (-+)

Come si può riconoscere la vendicatività implica dirimenza inesorabile.

 

LA SPERSONALIZZAZIONE E’ ONTOLOGICAMENTE UNA AUTO_SPERSONALIZZAZIONE

La catena speculare del sistema di vendicatività

L’arma del forte verso il debole si ripercuote su lui/lei stessa:

Lo specchio è la persona depersonalizzata che depersonalizza colui/colei che depersonalizza.

La svalorizzazione è una autosvalorizzazione. La depersonalizzazione è una autodepersonalizzazione

Chi sottostima viene sottostimato a causa dell’atto stesso della adduzione di sottostima. Chi misconosce viene

misconosciuto/a

Adduciamo che il sistema di giudizio interpersonale valoriale discendente è avvilente un sistema universale relazionale mentre un sistema di giudizio interpersonale valoriale ascendente è ricreativo del sistema universale relazionale.

 

La purificazione attitudinale del perdono. Sì insegna ad agire benevolmente a coloro che agiscono malevolmente.

L’azione malevola non è causa della privazione di dignità ontologica, educando il maleducato gli/le si attribuisce valore in quanto a riconoscimento delle potenzialità latenti in lui/lei .

Il valore pedagogico del perdono come metodologia speculare di comprensione di negatività di una attitudine.

Insegnamento come esempio della conversione da attitudine negativa subita percepita a attitudine dedicata benevolente verso la persona offensiva.

L’insegnamento è “L’atto negativo non ha valore e rilevanza fattuale” la negatività attitudinale merita annichilimento della attitudine negativa, non dell’agente.

La severità più radicale è la definitività o inesorabilità.

Un caso radicale di inesorabile fine relazionale.

La severità relazionale e la vendicatività relazionale sono forme di delega di responsabilità.

Vediamo una situazione radicale di severità e di vendicatività relazionale.

Nella dinamica padre – figlio/a supponiamo un padre che mette al mondo un figlio in età adulta – nel corso degli anni accadono due realtà – il padre si separa dal matrimonio con la madre e si ammala di una malattia terminale la cui scadenza è reiteratamente annuale. Il padre per suo carattere non prende l’iniziativa di incontrare il figlio/a.

I figli non incontrano il padre per 30 anni, quando lo incontreranno di loro iniziativa? In ospedale, sul letto di morte, quando è incosciente, e si presentano al funerale.

I figli si giustificano attribuendo al padre la responsabilità di non essersi mai fatto sentire.

Tuttavia risulta evidente che i figli sono analogamente colpevoli della medesima attitudine del padre verso il padre –

 

Si dimostra la evidenza della difficoltà e indisposizione di perdonare.

Ma i figli che colpevolizzano il padre inducono il loro mindset come verità del mindset del padre – in atto la reiterazione dell’idea che il padre si isoli perché non voglia incontrare i figli.

Tuttavia questa dinamica di pensiero non è comprovabile, nella situazione qui descritta – la prova del giusto pensiero del figlio/a si avrebbe nel caso in cui fossero i figli ad intraprendere la iniziativa di incontro relazionale verso il padre e se il padre si rifiutasse di incontrarli.

Qui si dimostrerebbe la avversità relazionale del padre.

Il problema della dirimenza relazionale si acuirebbe nella misura in cui istaurassimo il sistema della vendicatività come catena di causa-effetto relazionale e non il perdono.

Il perdono è atto puro valore aggiunto indipendente dalla percezione di attitudine esteriore’ la vendicatività non è atto puro, è atto spurio in quanto il risultato attitudinale è influenzato dalla qualità di attitudine del prossimo con noi.

Non dedicare scherno alle fragilità umane e nemmeno alle persone che le stanno vivendo, la vita di ciascuno è caratterizzata da una elevata suscettibilità alla aleatorietà e alla pluricontestualità situazionale.

Pertanto perché valorizzare i più fragili? Perché loro sono gli unici hanno vissuto il luogo ambientale psicologico della fragilità _ Pertanto possono insegnare e consegnare a coloro che non sono ancora ontologicamente e psicologicamente stati nei luoghi esistenziali situazionali della fragilità, debolezza, perdimento… le strutture di mindset utili alla sopravvivenza e i metodi attitudinali o psicologici affinché la persona possa convertire a suo arricchimento un ambiente esteriore o psicologico avverso o nocivo.

 

 

 

Perché è utile sensibilizzazione comunitaria nei confronti delle labilità psicologiche? Poiché altresì i più resilienti sono suscettibili alle fragilità. Così impariamo che altresì i deboli sono arricchenti per i resilienti, ma è vero altresì il contrario, ovvero che i resilienti possono essere catartici per i più fragili:

Ha una influenza curativa il trattare un/una depresso/a come se non lo fosse – in quanto a positivizzazione di un mindset di negatività.

Infatti la reiterazione dialogica dell’argomento ‘depressione’ o argomenti sinonimici ad essa con la persona che vive la depressione vincolano e veicolano il mindset psicologico della persona depressa alla sua depressione.

Che i fragili si sostengano a vicenda è una realtà, tuttavia la verità più profonda è che i simili si sostengono a vicenda, poiché si instaura tra loro la reciprocità del cosentimento e di vicinanza esistenziale _ la diversità esistenziale si percepisce come lontananza esistenziale poiché intellettivamente si auto induce una dissonanza di luoghi psicologici tra il luogo della persona soggetto ed il “lì” mentale della persona che dimostra attitudini comportamentali_dialogiche a cui la persona soggetto non è abituata.

Si riconosce che la somiglianza non è un criterio sempre catartico – ad esempio difficilmente può  instaurarsi positivizzazione di stato d’animo nel dialogo tra due persone depresse.

 

LA SPERSONALIZZAZIONE IN AMBITO DIALOGICO

Spersonalizzazione dialogica e annichilimento comunicativo

SIAMO IPERSENSIBILI

“Quali sono le due emozioni più preoccupanti, tali che preoccupano più me : Il senso di colpa e la paura.

Di queste non vi posso parlare, ma vi posso parlare, ma vi posso dire quali sono le emozioni antagoniste :

Al senso di colpa, il grande antagonista è il diritto all’errore :

 

Se noi ci mettiamo in questa consapevolezza che dobbiamo far crescere i nostri figli nel diritto all’errore, nell’errore come processo di modifica e di miglioramento continuo (il principio della co - evoluzione), cambia il livello di consapevolezza. Abbiamo detto ‘sussurri e voci’ : Se noi pronunciamo la parola: “bravo” con tonalità di voce diverse noi diamo informazioni completamente differenti perché è l’emozione che facciamo transitare attraverso l’indicatore che stiamo utilizzando che influenza quel grande decisore che dice “proteggiti” o “sii senza timore” .

Che cosa è celato dietro alle parole che dici, quale pensiero è nascosto dietro alla tua tonalità vocale.

Emotional short-circuits, the intelligence behind mistakes, Daniela Lucangeli

Ipersensibilità percettiva.

La differenza tra una risposta affermativa o negativa è nella tonalità vocale.

Ho esperito nella esperienza di volantinaggio – che reiterando la medesima frase di presentazione del proprio biglietto da visita, la qualità della tonalità della ultima parola se alta e ascendente implicava che il biglietto venisse accettato e consegnato,

Se cupa e discendente implicava che il biglietto venisse rifiutato.

Quando parlare è come ‘dir niente’. L’ascolto annichilente è una arma di spersonalizzazione.

La spersonalizzazione parallela come reazione di coloro che non sono ascoltati è insita nella sordità di coloro che non ascoltano (caratterizzante la mediocrità morale di coloro che sono indifferenti alle parole o agli atti altrui).

L’indifferenza è spersonalizzazione _ In quanto a vanificazione attitudinale dell’atto e della persona che coglie l’iniziativa di agire.

Chi è indifferente comunica alla persona a cui attribuisce indifferenza _ Te non hai luogo qui con me _ Poiché ciascun avere luogo implica la modificazione creativa del luogo.

!

La sordità intenzionale dialogica può essere un atto puricativo relazionale – nella situazione in cui il relatore comunichi parole maleducate o significati dannosi per la relazione e per la essenza ontologica dell’ascoltatore –

La negatività attitudinale merita annichilimento della attitudine negativa, non dell’agente. L’annichilimento della attitudine negativa ha implicazioni purificative la relazionalità.

Spersonalizzazione nella forma di superficializzazione relazionale conoscitiva.

Il non voler conoscersi.

L’indisponibilità a oltrepassare la soglia dell’essere sconosciuti nonostante la vastità di tempo dialogico e di possibilità di conoscenza – Il parlare del blu del cielo per anni non implica alcuna incidenza sul valore della conoscenza e sulla fiducia interpersonali – la delega di responsabilità dialogica alle astrazioni implica il nostro restare sconosciuti.

“Non parlare con gli sconosciuti. Non accettare nulla dagli sconosciuti. “ A livello di profondità e intimità ontologica conoscitiva universale è probabilisticamente maggiore la nostra non conoscibilità della nostra conoscibilità. In ottemperanza della teoria della marginalità il non conoscere ha valenza proattiva in quanto si realizza che sia nella realtà della nostra non conoscenza che è vasto il luogo del nostro potere conoscerci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA SPERSONALIZZAZIONE IN AMBITO VIRTUALE, IL BLOCKING

Il blocking è atto dannoso che annichilisce ontologicamente la parte lesa che subisce il blocking,  blocca le iniziative relazionali dialogico_affettive, implica fine di vita relazionale definitiva e inesorabile, è pertanto causa di spersonalizzazione.

 

LA SPERSONALIZZAZIONE IN AMBITO ECONOMICO

Il denaro _ esteriorità a cui non si riesce a rinunciare _ l’incremento di esso è guida attitudinale - non è l’uomo facoltoso di sé stesso ma è l’oggetto denaro e la astrazione del suo incremento a guidare le azioni umane – è il denaro a vincolare le scelte dell’uomo/donna fino al sacrificio dei suoi simili. Il sacrificio del prossimo e del suo potenziale umano per l’incremento di denaro _ si istituisce un sistema carente e decadente in quanto sistema che perde potenziale umano per la acquisizione della astrazione oggettuale danarosa.

 

LA VOLONTA’ E’ VOCE DELLA PERSONALITA’ INDIVIDUALE

Trascurare la volontà del prossimo è una spersonalizzazione del prossimo

Insegnano ai bambini a non volere.

“L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re”

 

LA SPERSONALIZZAZIONE DEI MIGLIORI _ LA SVALORIZZAZIONE DEL MERITO

Spersonalizzazione come annichilimento della creatività personale – la vanità dell’impegno e dell’investimento economico_culturale.

 

 

 

 

 

La creazione di una realtà che viene percepita esteriormente come non esistente, implica vanificazione ontologica del creatore.

Esempio: Come annientare uno scrittore? Non leggendo il suo libro.

Come annientare un laureato? Non riconoscendo il suo titolo di studio come fondante l’opportunità lavorativa e una adeguata retribuzione economica.

Perché istituire la dissonanza cognitiva del non riconoscimento – Vedo il non essere, dinanzi all’essere come valore discriminativo relazionale e ontologico_umano?

Se una realtà esiste, è ed ha valore esistenziale modificativo l’ambiente in cui possiede luogo e diritto di dignità funzionale per quel luogo.

Coloro che constatano: “Se una realtà esiste, non è.” Sono pertanto da ritenere ciechi o peggio annichilenti della realtà che vedono essere e che pronunciano non esistente.

LA SPERSONALIZZAZIONE DEI PEGGIORI

Confutazione del principio di selettività fondato sul criterio selettivo del perfezionismo.

Si accoglie solo la realtà perfetta implicando una strage di dinieghi ed una ingente perdita di potenziale umano di rendimento e relazionale.

Per l’ottenere il perfetto diniego le molteplicità degli imperfetti.

!

LA DISTINZIONE MIGLIORE_PEGGIORE E’ UNA MENTALITA’ CHE NON MI APPARTIENE, UNA MENTALITA’ CHE CON QUESTO SCRITTO HO PROVATO A INCREMENTARE_ Uso qui questa distinzione che appartiene alla mentalità comune come valore esplicativo e non come caratterizzazione ontologica umana.

 

 

 

LA SPERSONALIZZAZIONE IN AMBITO MNEMONICO INTELLETTIVO

Chi la pensa diversamente varrebbe meno in ottemperanza della valorizzazione della mentalità che si dichiara avversa nei confronti delle devianze di pensiero – Semplificando secondo questa mentalità la esistenza di una mentalità dovrebbe assumere la confutazione di una mentalità deviante, non la conciliazione delle mentalità e la intima modificazione coevolutiva delle due mentalità affinché queste possano convivere essendo vicendevolmente una mentalità l’ incremento per l’altra. In relazione al “Cogito ergo sum” il pensiero è inscindibile dalla persona pensante – tuttavia l’annichilimento ideale non dovrebbe consistere come metodo mediativo per l’annichilimento e spersonalizzazione ontologica della persona _ Ecco perché è di primaria e fondamentale importanza la conciliazione delle idee altresì dissonanti e non la confutazione delle idee.

LE IMPLICAZIONI FISIOLOGICHE DELLA SPERSONALIZZAZIONE

Spersonalizzazione e anoressia (altre forme di debilitazione fisica, Autolesionismo, assunzione di alcool e droghe)

Il corpo è immagine ontologica della interiorità.

La auto induzione di danno fisiologico, la mano che muove il bicchiere d’alcool è il risultato della volontà della persona che vuol bere, degli effetti inibenti e di dipendenza che l’alcool induce nella ontologia della essenza dipendente, della astrazione della sommatoria olistica delle negatività / sofferenze indotte che gravano sulla persona ed a cui la persona non riesce autonomamente a ricondurre senso utile alla assimilazione e positiva accettazione come proprietà sana e salvifica _ come se vi fosse una mano eterea invisibile che muove energicamente la mano della persona che sta per assumere alcool –

 

 

La mano invisibile sarebbe costituita altresì dalla sommatoria delle deleghe di responsabilità relazionali gravanti sulla persona _ Coloro che pongono danno ontologico_relazionale solitamente svaniscono nel nulla in sentimento di falsa innocenza.

La disaffettività è una prospettiva di depersonalizzazione – gli atti affettivi di carezza, abbraccio e bacio sono attitudini di valorizzazione ontologica personale – la inettitudine, il privare una altra persona di questi implicano svalorizzazione della sua esistenza corporea e pertanto annichilimento.

La reciproca complicità di intimità è una vicendevole valorizzazione ontologica delle esistenze personali. La dignità esistenziale ontologica è implicata dalla autovalorizzazione e dalla valorizzazione esteriore.

Se viene a mancare la valorizzazione ontologica della persona da parte delle altre persone esiste uno sbilanciamento – la disistima esteriore ( il non valere niente per l’altro- l’iconico NON SEI NESSUNO  ) manda in cortocircuito il bilanciamento tra autostima e stima esteriore – se manca la stima esteriore resta soltanto la autostima.

È se la integrità della persona è fragile – la attività inibente di annichilimento di stima negativa (disistima) inficia la resilienza di autoinduzione di stima e valore personale – autostima – implicando la decadenza altresì della autostima – sono rare le persone che restano resilienti a sé stessi in assenza o in aridità di riconoscimento esteriore ed in assenza di possibilità di buona identificazione ed immedesimazione – Alcuni possono.

Altri no. Che cosa accade fisiologicamente a questi? Virano il vuoto dell’annichilimento personale verso la analogia traduttiva mente corpo – l’impoverimento valoriale della mente implica l’impoverimento del corpo, ovvero la magrezza.

 

 

 

Di contro l’assunzione smodata di cibo è la traduzione fattuale della necessità di ricolmare un vuoto esistenziale indotto o autoindotto con la realtà dell’eccesso dell’alimentazione.

La noia del non allenamento fisico è una terza implicazione della spersonalizzazione relazionale.

Cosa implica il giudizio indotto “non valere niente” comunicato dialogicamente o attitudinalmente nella persona giudicata e nella persona giudicante.

 

LA SPERSONALIZZAZIONE IN AMBITO AFFETTIVO_SESSUALE

Ciascuna persona esprime la propria identità nelle esistenzialità della superficiality relazionale ma anche della intimità relazionale. Pertanto si dichiarano annichilenti e spersonalizzanti le attitudini di diniego aprioristico e di annichilimento di volontà affettive - la istituzione della negazione del consenso affettivo-sessuale “NO” (che sia nel verso uomo=>donna, o nel verso donna=>uomo) ha ingenti negative implicazioni nel luogo della integrità personale del carattere del self esteem della persona rifiutata - in particolare l’atto di negazione relazionale-affettiva ha implicazioni plasmanti il carattere della persona rifiutata i cui sintomi caratteriali si rivelano essere odio, introversione, apatia, disaffettività, antipatia - l’atto di negazione sessuale ha importanti implicazioni psicologiche poiché istituisce la asessualità e non la normalità sessuale come matrice identitaria della persona – Vi sono importanti ricerche che argomentano le negative implicazioni relazionali-ontologiche – fisiologiche della astinenza affettivo-sessuale. La negazione della sessualità è annichilimento da evirazione (Ingenti implicazioni negative nei contesti fisico-fisiologico e psicologico-attitudinale) in quanto a negazione ontologica della essenza corporea e di dignità decisionale uomo/donna.

 

 

Il diniego è atto svilente e prostrante la parte lesa ma purtroppo è atto rinvigorente e temprante la parte offensiva in quanto ad essenza autorevolmente decisionale sulla persona rifiutata - nella dinamica del diniego o negazione del consenso - si istituisce uno sbilanciamento di autorevolezza decisionale che implica la perdita ontologica della persona rifiutata in relazione a gravi implicazioni caratteriali-relazionali di questa persona in relazione ad altre persone.

La negazione del consenso deve comunque essere ascoltata e accettata come rispetto della volontà del prossimo e non deve sussistere alcuna dinamica di coartazione. Tuttavia nella realtà del diniego deve sussistere il sistema della coevoluzione, in atto la disponibilità e la flessibilità relazionale-dialogica affinché non esista definitività decisionale in quanto a equilibrio di reciproco rispetto delle identità e ambivalenza e analogia valoriale dei bisogni, volontà e esigenze delle due persone.

Critica e incremento della filosofia del demerito

 

IL DEMERITO E’ IL METRO DISCRIMINATORIO DEL SISTEMA COMPETITIVO

Il merito è un valore di gerarchizzazione

Tra tre dignità ontologiche:

Coloro che scelgono – chi sceglie ha dignità decisionale ed è il più meritevole

Coloro che sono prescelti – coloro i quali sono prescelti hanno minore dignità ontologica rispetto a coloro che li hanno scelti

Coloro che sono diniegati – coloro i quali sono diniegati hanno minore dignità ontologica dei giudici che scelgono e dei prescelti.

 

 

 

 

 

Solitamente il sistema decisionale non è specificatamente contestuale, bensì acontestuale universale ed ontologico – accade che il rifiuto attitudinale che si applica in un contesto di rendimento attitudinale implica il sacrificio ontologico essenziale della persona e pertanto di ciascuna sua potenzialità e qualità attitudinale diverse rispetto alla singolarità attitudinale presa in esame.

 

Ma perché il sistema di merito-competitivo non è ottimale?  Un sistema ottimale è esente dalla perdita.

Perché presuppone sempre e comunque una perdita – la perdita di coloro che sono diniegati.  In essere in questo sistema vi è un altro grave limite – la inflessibilità di variazione gerarchica.

Il sistema del merito istituisce IL DEMERITO COME METRO DI GIUDIZIO –

Ciascun sistema funzionale alla persona non è ammissibile che perda la persona e che agisca in direzione della perdita della persona

SI ISTITUISCE IL “NON ESSERE” COME PRIMARIAMENTE VALEVOLE RISPETTO ALL’”ESSERE” .

SI ISTITUISCE IL “NEGATIVISMO” COME PRIMARIAMENTE VALEVOLE RISPETTO AL’”POSITIVISMO” .

 

UN SISTEMA OTTIMALE ACCOGLIE NON SCEGLIE. Poiché la scelta presuppone la perdita della essenza rifiutata.

IL SISTEMA DI MERITO OLISTICO

OTTIMIZZAZIONE DEL RENDIMENTO

 

 

 

 

 

IL SISTEMA DI MERITO OLISTICO PRESUPPONE COME FONDAMENTO LA VALORIZZAZIONE ONTOLOGICA OLISTICA DI UNA PERSONA –

IL SISTEMA DI MERITO OLISTICO ASSUME COME

REGOLA PRIMARIA CHE

“LA DIGNITÀ ONTOLOGICA DI CIASCUNA PERSONA HA VALORE PRIMARIO” – LA REGOLA PARALLELA ASSUMA CHE “QUALUNQUE PERSONA SIA DEGNA E MERITEVOLE.”

Il caso esemplificativo in cui

Colui che fu rescisso e licenziato da un ambiente lavorativo sartoriale perché “Non cuciva bene all’amo” fu accolto in assenza di dimostrazione di aprioristiche competenze universitarie in una seconda azienda sartoriale, fu messo a cucire all’amo, agli occhi di tutti non era in grado di cucire all’amo, ma il capo che era sul limite di licenziarlo, lo sentì parlare di economia di gestione aziendale con un collega sarto, il capo allora lo incontrò di sua iniziativa e lo ebbe condotto a dialogare con lui – il suo contributo negli alti livelli aziendali incrementò i guadagni di questa seconda azienda ingentemente.

Ma come può accadere questo?

La possibilità di realizzazione del sistema di merito olistico si fonda sul poliedro del rendimento della essenza di ciascuna persona.

Ovvero.

Il sistema del rifiuto adduce questo:

Che la povertà di rendimento di una faccia del poliedro sia in analogia con la povertà di rendimento della totale universalità ontologica del poliedro.

 

Ora il poliedro del rendimento di ciascuna persona non è perfettamente geometrico e cristallizzato – è un plasma mutevole nel tempo- un secondo limite del sistema di giudizio dell’ambiente è di stimare una limitatezza attitudinale definitivamente tale – non suscettibile a immediato miglioramento. Si argomenta della severità e plasticità del sistema unicontestuale nella indisponibilità di dare opportunità e nuove possibilità.

(la statica conservativa implica il deficit di innovazione e cambiamento puro e buono.)

Allora abbiamo incontrato un primo motivo di valorizzazione interpersonale e di merito – ovvero la flessibilità di adattamento della persona immeritevole

Una persona che non è adatta in un contesto di rendimento, in un altro contesto può dimostrare la sua validità essendo utile al sistema pluricontestuale.

 

IL SISTEMA DI MERITO OLISTICO adduce una responsabilizzazione del sistema pluricontestuale – in atto di qualità ontologica del sistema stesso di essere un plasma mutevole del rendimento – l’idea che si instaura è che una qualità di rendimento del sistema è la sua flessibilità nella tolleranza in quanto a modificazione dei suoi criteri di investimento interpersonale nello spirito di adattamento del macrocosmo sistemico verso il microcosmo della essenza individuale umana.

Perché? Al fine della ottimizzazione delle risorse – ovvero ciò che il sistema pluricontestuale deve evitare è la perdita della persona che vuol partecipare al sistema.

Un sistema che diniega è allora un sistema intollerante non meritevole.

La dignità ontologica plurale è dipendente dal non sacrificio di dignità ontologica del singolo.

In verità ciascun singolare inner mindset è un macrocosmo del tutto analogo alla complessità di un sistema ambientale – pertanto è altresì in facoltà di ciascuna persona di relazionarsi con il suo prossimo secondo il metodo di demerito-competitivo-rivendicativo o secondo il metodo di tolleranza-perdono e merito olistico –

 

 

L’ATTO PURO

 

LA SPERSONALIZZAZIONE DEL PROSSIMO RELAZIONALE E’ IMPLICATA DALLA DELEGA DI RESPONSABILITA’ E DALLA DERESPONSABILIZZAZIONE DI SE’ STESSI.

CONTRARIAMENTE LA RECIPROCA PERSONALIZZAZIONE RELAZIONALE E’ GARANTITA DALLA RECIPROCA AUTO_RESPONSABILIZZAZIONE IN RELAZIONE ONTOLOGICA CON IL PERDONO PURIFICATIVO DELLE ATTITUDINI NEGATIVE SUBITE DAL PROSSIMO.

Come poter riconoscere le conseguenze del “che cosa ho fatto”.

Un atto non è mai astratto, assume sempre qualità ontologiche relazionali nel luogo della complessità della dicotomia relazionale.

Pertanto per rispondere alla domanda “che cosa ho fatto?” non possiamo che domandare alla persona verso cui abbiamo agito le implicazioni che questo atto neutro ha avuto nella complessità relativa e unica della persona _ istituendo la percezione altrui come metro di giudizio valoriale della qualità dell’atto neutrale da noi agito. Vi sono realtà percettive oggettive ed oggettivabili il cui riconoscimento da parte dell’agente in seguito ad una stima probabilistica ed evidentistica sono più semplicemente conseguibili e vi sono percezioni reattive soggettive, la cui complessità del prossimo instaura nella realtà fattuale la qualità di possibilità aleatoria del come è veramente percepibile e percepito un atto subito.

 

 

 

 

 

 

Resta presente la considerazione secondo cui la realtà delle conseguenze ha una complessità difficilmente prevedibile in quanto suscettibile di aleatorietà, la caoticità deducibile dal butterfly effect implica che sia arduamente gestibile dal creatore dell’imput l’effetto conseguente alla causa della sua attitudine, la consapevolezza, la coscienza di ciò che si realizza è secondo probabilità difficilmente accessibile.

Tuttavia la difficoltà previsionale non deve essere una delega di responsabilità attitudinale – il constatare che “Le realtà che accadono siano più grandi e complesse di me” non deve essere motivo di rifiuto di volontà di consapevolezza delle conseguenze delle proprie attitudini e della deresponsabilizzazione.

 

La responsabilità dell’atto indotto e la deresponsabilizzazione della parte lesa.

 “Amato, stimato, abbandonato/a, male _ detto/a, sottostimato/a, tradito/a, schernito/a, illuso/a, allontanato/a, emarginato/a, asessualizzato/a, ostacolato/a, sacrificato/a, procrastinato/a, annichilito/a, disorientato/a, defideizzato/a, depauperato/a, diniegato/a, delegato/a, sfruttato/a, deromanticizzato/a, escluso/a, mentito/a, nascosto/a, taciuto/a, accecato/a, pregiudicato/a, desensibilizzato/a, disamorato/a, odiato/a, coartato/a,discriminato/a, indebolito/a, costernato/a,disaffezionato/a, sconosciuto/a, dimenticato/a, … “

Sono termini che premettono un “Da chi”, Si adducono due possibilità di responsabilizzazione.

La responsabilità è del subente l’iniziativa attitudinale. Ad esempio “l’amato si ama, lo stimato si autostima…”

 

 

 

 

La responsabilità non è del subente l’iniziativa attitudinale ma di altre persone agenti la iniziativa attitudinale verso il/la subente. “, il male _ detto è male _ detto a causa dei maledicenti secondo la concezione e percezione dei male_dicenti di attitudine pura del male_detto suscettibile di male_dicenza. Adduciamo intanto che le oggettivazioni negative implicano incattivimento indotto_ Ovvero il male_detto se rinominato tale perpetuerà le attitudini iconiche che hanno implicato il suo essere denominato ed aggettivato male_detto.

In secondo luogo sussiste la relatività gnoseologica secondo cui – (Non considerando le attitudini universalmente riconosciute negative, la cui principale è l’omicidio _ ) Sussistono giudizi comportamentali diversi in culture dislocali. Un giudizio comportamentale consentito in un luogo culturale può essere giudicato non consentito e disistimato e criticato in un dissimile luogo culturale. E viceversa.)

L’abbandonato è in qualità di abbandono secondo la causa degli abbandonanti che abbandonano l’abbandonato, pertanto la responsabilità dell’abbandono deve essere altresì dovuta agli emarginanti …

Pertanto

 

 

 

SIAMO DAVVERO CERTI CHE SUSSISTA ANALOGIA ONTOLOGICA TRA LA PERCEZIONE ED OGGETTIVAZIONE ESTERIORE ED IL DEMERITO DELLA PERSONA CHE SUBISCE LA OGGETTIVAZIONE?

 

 

 

 

 

SOLITAMENTE AL PROCESSO DI OGGETTIVAZIONE E’ ACCOMPAGNATA LA RADICALE DELEGA DI RESPONSABILITA’ – UN OSSERVATORE OGGETTIVA DENIGRANDO UNA PERSONA SOSTENENDO CHE L’OSSERVAZIONE NON SIA RESPONSABILE DELLA QUALITA’ NEGATIVA ATTRIBUITA _ SI EVINCE SECONDO STUDI GNOSEOLOGICI CHE L’ATTO OSSERVATIVO E’ PERCETTIVO E NON E’ IN CORREAZIONE CON LA REALTA’ ONTOLOGICA DELL’OSSERVATO _ TUTTALPIU’ SI RICONOSCE CHE SIA IMPOSSIBILE CHE LA QUALITA’ ATTITUDINALE DI UNA ESSENZA ONTOLOGICA MICROCOSMICA NON SIA INDIFFERENTE ALLA QUALITA’ ONTOLOGICA DELL’AMBIENTE MACROCOSMICO CHE CONTIENE LA REALTA’ MICROCOSMICA –Più semplicemente è ontologicamente impossibile che la qualità attitudinale del singolo sia ininfluenzabile dall’ambiente relazionale e pertanto confutiamo la credibilità secondo cui la responsabilità ontologica di un singolo sia al 100% del singolo e dello 0% delle persone che sono in relazione ambientale con il singolo.

Pertanto la responsabilità della qualità ontologica che sussiste in un singolo deve essere correttamente riequilibrabile tra gli artefici che hanno indotto una iniziativa relazionale negativa e tra colui/colei che la vive e la attua.

 

APPLICHIAMO QUESTO MINDSET DELL’EQUILIBRIO DI RESPONSABILIZZAZIONE A CIASCUNA DELLE AGGETTIVAZIONI SOPRA ELENCATE.

IL SISTEMA DI GIUDIZIO DELL’ATTO SPURIO

Pertanto associamo alla equilibrata responsabilizzazione relazionale biunivoca tra ambiente macrocosmico e singolarità attitudinale microcosmica un SISTEMA DI GIUDIZIO DELL’ATTO SPURIO

Per comprendere e qualificare l’atto spurio argomentiamo che cosa sia l’atto puro.

 

LA REGOLA DELLA NECESSITA’ RELAZIONALE UNIVERSALE

Denominiamo atto puro _ L’atto di una persona come se fosse causa prima indipendente da alcuna causa _ Ovvero che la attitudine di una persona non sia effetto di alcuna causa _ Comprenderemo ovviamente che non possa essere così in quanto ciascuna esistenza ontologica non può essere non relazionale ed in vicendevole influenza con l’ambiente delle persone con cui esiste – Altresì l’eremitismo non è esente dalla regola della necessità relazionale universale _ In quanto ad esistenza ontologica plurale d’aver avuto relazione precedentemente all’eremitismo.

Allora solo nella impossibilità della iniziativa attitudinale di una persona come causa prima sarebbe corretto attribuire il 100% della responsabilità della attitudine della causa prima solamente a questa persona e lo zero % all’ambiente relazionale.

Comprendiamo allora con chiarezza il significato di “atto spurio”

Denominiamo atto spurio _ L’atto di una persona come effetto dipendente da una o più cause aventi radici ontologiche nella relazionalità con le persone dell’ambiente in cui vive la persona che attua l’attitudine _ Ovvero che la attitudine di una persona sia effetto di cause relazionali – Ed una corretta stima di equilibrio di responsabilizzazione deve prevedere che sia responsabilizzata la persona che coglie l’iniziativa attitudinale ed altresì responsabilizzate le persone essenti ontologicamente causa attitudinale dell’atto agito.

 

 

 

 

 

Proviamo ad argomentare di rendimento _

Solitamente si adduce il 100% di responsabilità della fragilità di rendimento alla persona che non ottempera al livello di resilienza richiesta dall’ambiente _ Ma siamo davvero certi che ad esempio la fragilità del rendimento non sia ad esempio implicata dal’eccesso di pretesa di rendimento dell’ambiente verso la persona che ad esempio per sua struttura fisiologico – psicologica giunge a vivere uno status di burnout indotto?

Per risolvere il disquilibrio di delega di responsabilità dell’ambiente verso il singolo: E’ allora nella induzione che riconduciamo la giustezza del criterio di responsabilizzazione ambientale eteronoma equilibrante la qualità e la quantità ontologiche della responsabilizzazione autonoma.

Le deleghe di responsabilità alle astrazioni

Allora se ad esempio fosse attribuita ad una persona ed al suo olismo attitudinale la responsabilità d’essere stata causa di una attitudine di una altra persona – questa persona direbbe “Sono tutti come me”, sostenendo questo attuerebbe la delega di responsabilità verso la astrazione della generalità ambientale.

Oppure sosterrebbe _ “E’ andata così” sostenendo questo attuerebbe la delega di responsabilità verso la astrazione della aleatorietà.

Quando si comunica “Che Dio sia con te” La persona che pronuncia questa frase vela il messaggio _ Io per te non ci sarò _

Il dialogo fondato sul tempo futuro è una delega di responsabilità della negazione di iniziativa presente reiterata nel tempo futuro, la cui traduzione attitudinale è che la attitudine non attuata nell’adesso non avverrà mai o probabilmente non avverrà.

Per il possibile futuro si perde il presente.

Il mindset di atto puro positivo è ricreativo la decadenza relazionale.

 

Abbiamo chiarito che non può esistere la realtà attitudinale di atto puro _ Tuttavia la realtà eterea di atto puro può avere due valenze immaginativa.

1.

In “Tesi II” si argomenta come in una catena relazionale di vicendevoli negatività il fatto di riassettare la dinamica relazionale con una nuova attitudine positiva indipendentemente dalle passate negatività è funzionale per la resurrezione e ricreazione relazionale.

Oltre le deleghe di responsabilità

La responsabilità che grava sulla parte offensiva non è indifferente dalle cause comportamentali che avrebbero innestato le attitudini negative della parte offensiva, solitamente la parte offensiva è parte offesa.

2.Vedere l’ambiente indifferentemente dall’osservatore: Vedere la molteplicità del voi dalla prospettiva dell’outsider.

Auto annichilimento immaginativo, provare a sparire (metaforicamente) per vedere l’atto puro del prossimo e la sua reale essenza.

 

LA SPERSONALIZZAZIONE NELL’AMBITO DELLE FACOLTA’ UMANE

LA CALLIGRAFIA, IL SEGNO E’ MATRICE IDENTIFICATIVA DISCRIMINANTE E LA PERSONALIZZAZIONE

La calligrafia è indicativa della caratterialità. Dalla calligrafia si deducono tratti caratteriali della persona scrittrice.

La scrittura al computer è omologante.

Esempio della scrittura di una lettera la cui lettura da parte di una lettrice implica il riconoscimento della calligrafia della persona in associazione ontologica della persona.

La omologazione toglie dignità ontologica alla persona. La svalutazione del segno e la secondarietà dell’arte.

 

 

 

Calligrafia è dignità ontologica personale

N paragrafi aventi le stesse parole trascritti in scrittura calligrafiCa autografa indicano la diversità di N persone come fonte identitaria della diversa singolarità di ciascuna di loro.

N paragrafi trascritti al computer con lo stesso font omologano le scritture e omologano le persone che hanno digitato questi scritti, esse risultano tutte uguali.

Pertanto assumiamo la calligrafia come importante discriminante fonte di dignità ontologica come essenza di diversità e diverse peculiarità personali.

Le scuole di scrittura omologavano la scrittura

Anche la scrittura del passato era standardizzata – Nelle scuole di scrittura insegnavano la analogia di morfologia calligrafica, gli scritti artigianali dovevano avere il medesimo font.

LA SPERSONALIZZAZIONE IMPLICATA DALLE MACCHINE CHE SOSTITUISCONO LE FACOLTA’ UMANE

Calcolo _ calcolatrice

Memoria è ancora una discriminante importante. (Internet è un mondo culturale mnemonico accessibile immediatamente)

Traduzione _ Traduttore

LA SPERSONALIZZAZIONE DIALOGICA E GLI

SMARTPHONE

L’interlocutore reale viene svalorizzato in relazione alla esistenza contemporanea dei contatti virtuali onnipresenti.

Più valore alla molteplicità virtuale che alla unicità reale relazionale.

La comunicazione virtuale onnipresente come soluzione alla preoccupazione:

La possibilità di chiedere “come stai?”

 

 

 

 

TUTTAVIA. Non è detto che cogliamo l’opportunità della onnipresenza virtuale relazionale – vi sono ad esempio persone che nel vasto periodo annuale non ricevono né alcuna chiamata né alcun messaggio nonostante sia reale la loro suscettibilità alla fragilità fisiologico-ontologica.

Le lingue greco latine stanno scomparendo. La lingua greca ha una variability contestuale maggiore.

Un vocabolo greco ha più traduzioni e maggiori sfumature contestuali di un vocabolo italiano. => Incremento di flessibilità e di spazio dialogico _ contestuale ma incremento di aleatorietà di percezione contestuale – maggiore suscettibilità alle incomprensioni di senso.

La profondità del mindset matematico e del mindset filologico:

La profondità intellettiva_ Non è detto che la profondità intellettiva sia intelligenza, ovvero che nella superficiality intellettiva non ci sia intelligenza

La profondità intellettiva metafora dello scendere in una grotta buia, non è detto che sia una attitudine migliore di coloro che restano sulla superficie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA RELAZIONALITÀ COEVOLUTIVA

 

Premessa_l’argomento è personale, non nella accezione del termine che riguarda la vita delle relazioni dello scrittore, ma è relativo alla dinamica di relazione persona-persona, quindi è oltre la distinzione di genere femminile-maschile, sussiste dunque un equilibrio di responsabilità nelle cause di resilienza/dirimenza relazionale, (Tuttavia ontologicamente/caratterialmente le donne sono suscettibili a realizzare inesorabilità e severità di fine relazionali secondo intensità, molteplicità e modalità attitudinali diverse rispetto agli uomini). Le donne analogamente agli uomini sono responsabili della salute COEVOLUTIVA relazionale o della malattia o fine di vitalità e vita relazionale.

La sofferenza adiacente al non aver nulla è l’aver tutto per poi dover subirne la perdita.

Premessa: Nelle dinamiche relazionali macrocosmo ambiente/microcosmo persona

Sussiste il principio di equilibrio di ambivalenza delle responsabilità - le responsabilità del “ciò che è” relazionale e le sue qualità positive o negative non sono attribuibili solamente alla persona che vive l’ambiente e nemmeno si può assumere che l’ambiente sia totalmente responsabile della qualità relazionale/attitudinale/caratteriale della persona che lo vive. In quanto sussiste reciprocità di influenza tra l’ambiente (pluralità ontologico/attitudinale/caratteriale/relazionale di persone) e la persona.

Cerchiamo di non realizzare nel nostro arco di vita relazionale nel lungo periodo radicali dissonanze caratteriali/attitudinali/relazionali - esemplificando:

In analogia della attitudine dell’osservatore tra il macroperiodo primo e secondo si argomenta la modificazione ambientale relazionale.

 

 

IL MACROPERIODO PRIMO POSITIVOTIVO E IL

MACROPERIODO SECONDO NEGATIVO

IL MACROPERIODO PRIMO

Macroperiodo primo - smodata gioia relazionale, contentezza, complicità, familiarità, gratuità, sostegno interpersonale, predisposizione alla promessa, costante periodicità dell’incontro relazionale, disponibilità di investimento di tempo oltremodo, iniziativa relazionale e progettualità relazionale nel breve-lungo termine, valorizzazione del tempo relazionale trascorso insieme, self responsibility relazionale del prossimo, profondità dialogica e interesse personale, lo sguardo delle persone che si relazionano è introversivo, non estroversivo - critico - diffamatorio. Non sussistono dinamiche attitudinali “Sulla difensiva”, onestà. Ove vi siano fragilità attitudinali si instaura la dinamica di perdono relazionale e non di vendicatività relazionale. Esistenza di affettività relazionale. Volontà di approfondimento dialogico culturale affettivo.

 

IL MACROPERIODO SECONDO

Graduale o drastica inversione di tendenza dell’ambiente relazionale indotto:

La intima gioia relazionale diviene il cliché del sorridere disinteressato, la complicità viene sostituita dalla dirimenza ontologico/relazionale. La familiarità viene sostituita dalla atomizzazione che implica reciproco non riconoscimento, la gratuità viene sostituita dalla responsabilizzazione di merito attitudinale necessario alla acquisizione delle realtà che venivano precedentemente donate. Il sostegno viene a mancare. Le promesse delegate alle astrazioni del futuro e del mai. Assenza di incontro relazionale annuale o nei casi più gravi decennale o per sempre. Silenzio dialogico reciproco.

 

 

 

Procrastinazione di investimento di tempo relazionale, la persona avente in origine diritto di priorità relazionale si vede decadere questo diritto, nel presente gli/le si dedica la priorità relazionale di secondo/ultimo ordine. Svalutazione del tempo relazionale presente ove vi sia sussiste superficializzazione relazionale. Sussiste la carenza di iniziativa reciproco-relazionale, ove vi siano fragilità attitudinali si instaura la dinamica di vendicatività relazionale e non di perdono relazionale. Assenza di progettualità relazionale. Delega di responsabilità relazionale dell’ambiente delle persone che precedentemente dedicavano self responsibility relazionale. Dialogical Superficiality e non profondità dialogica. Disinteresse relazionale. lo sguardo delle persone che si relazionano estroversivo - critico - diffamatorio, non introversivo, sussiste l’abitudine a giudicare e non all’autorevisionalità coscienziosa. Sussistono dinamiche relazionali “Sulla difensiva” fondanti le quali il mindset di possibile stima di veemente ostilità. Disonestà comunicativa, complotto e tradimento relazionali. Non Volontà di approfondimento dialogico culturale affettivo. Assenza di affettività relazionale. Non riconoscimento e non volontà di ri-conoscersi, riconoscenza, ci si allontanerebbe talmente nello spazio relazionale e nel tempo da cambiare il carattere, sicché quando ci si incontra nei fuori luogo relazionali non esiste alcun riferimento mnemonico di somiglianza, e di immedesimazione, cosentimento, viene a crearsi la dissonanza cognitiva di irriconoscibilità dei conoscenti, non dovremmo permettere che questa realtà avvenga.

Per evitare che ciò avvenga instauriamo più frequenti fuori luogo relazionali, inizialmente percepiremmo questi incontri forzature relazionali prive di senso e fuori luogo appunto, ma gradualmente ci riabitueremo e l’abitudinarietà cancellerà la qualità percettiva di “fuori luogo” degli incontri.

 

 

 

Ci allontaniamo relazionalmente per insegnarci la malinconia, il mancarsi è lo spirito della volontà di incontrarsi di nuovo.

Possibilità della esistenza della negatività dello zero relazionale, la solitudine. Le perdite relazionali.

Il senso dell’incontro fuori luogo è la resurrezione relazionale

In situazioni di radicale inesorabilità relazionale ciascun flebile barlume di iniziativa relazionale è fondamentale come spirito di resurrezione relazionale.

Il fuori luogo dell’incontro relazionale può essere catartico per la relazione in quanto a chiarimento perdono, pacificazione, tempra delle positività relazionali passate.

Il giudizio di buona fede e di mala fede appartiene all’Osservatore della medesima attitudine dell’osservato di congedarsi.

 Dicotomia valoriale relazionale tra dono di libertà e abbandono - il chiarimento è attuabile solo mediante il dialogo tra osservatore e osservato nella possibilità dell’incontro relazionale fuori luogo.

Si instaura lo spettro del “Fuori luogo relazionale”. È esemplificativo il caso del “Vedere le foto famigliari d’infanzia.” che implica una radicale asincrona esperienziale che disorienta nei casi meno severi e che deprime nei casi più severi.

Perché viene a realizzarsi la depressione dello stato d’animo?

Perché a livello di stato d’animo si realizza la negativizzazione esperienziale ovvero la dinamica discendente del peggioramento universale di vita relazionale.

Nel periodo primo l’ambiente relazionale rischia di instaurare la idea indotta di illusorietà del per sempre probabilisticamente irrealizzabile poiché in età adulta le relazioni sono suscettibili a fragilità.

 

 

 

 

 

A livello di mindset il periodo secondo è suscettibile a far vivere alla persona che ha vissuto l’ambiente relazionale descritto nel periodo primo reiterati burnout psicologico/relazionali provocati da svariate dissonanze cognitive indotte strutturate sulle dinamiche esperienziali del passato che non è presente e che non sarà futuro.

Pertanto è primariamente importante per la resilienza universale, che se nel peggior dei casi debba verificarsi la qualità del periodo secondo, ci auguriamo che almeno questo passaggio sia graduale nei modi, nei luoghi e nei tempi. Ottimale sarebbe la coincidenza delle qualità del periodo primo nel periodo secondo in quanto a positività relazionale in ciascuno dei tempi generazionali, infanzia, giovinezza, età adulta, anzianità.

Tale questione relazionale può verificarsi altresì nel breve periodo relazionale, (microperiodo) certo è che in questo caso la questione relazionale sarebbe custodita nel primo o nel secondo macroperiodo.

Nel microperiodo le realtà relazionali fragili sono più suscettibili a risolversi, ovvero che ad un secondo microperiodo negativo possa sussistere un terzo microperiodo relazionalmente migliore.

LA IMPROBABILE REALIZZABILITA’ DEL POSITIVO MACROPERIODO TERZO IN SEGUITO AD UN PRIMO O SECONDO MACROPERIODO NEGATIVO

Attribuendo questa possibilità di miglioramento relazionale nel caso dei macroperiodi, solitamente è difficile che si realizzi un terzo macroperiodo relazionalmente reciprocamente migliore, poiché nel secondo macroperiodo si sono innestate le dirimenze relazionali della severità, della inesorabilità, della non coevoluzione e flessibilità al cambiamento relazionale.

 

 

 

 

 

 

IL MACROPERIODO PRIMO NEGATIVO E IL MACROPERIODO SECONDO POSITIVO

Nella intima intenzionalità di non valorizzare le “tristi infanzie” premettendo e ripetendo che una giusta vita è degna di vivere in tutte le sue vite relazionali le qualità relazionali descritte precedentemente nel macroperiodo primo. Provo ora ad argomentare quanto il meccanismo di dissonanza cognitiva indotta possa invece essere neutrale o catartico per il benessere relazionale/psicologico della persona adulta che in età infantile/giovanile visse un ambiente relazionale decadente. Si realizzerebbe una positivizzazione presente della memoria passata.

Il “come è ora” migliore del “Come è stato” Implica serenità presente e sentimento di ottimistica previsionalità per il futuro.

A livello di stato d’animo si realizza la positivizzazione esperienziale ovvero la dinamica ascendente del miglioramento universale di vita relazionale.

LA RELAZIONALITA’ COEVOLUTIVA NEI TRE MACROPERIODI GENERAZIONALI

La relazionalità coevolutiva:

Una terza ed ultima possibilità è che a livello globalmente relazionale dei macrocosmi delle generazioni di vita non vi sussistano le radicalizzazioni della positività relazionale e della negatività relazionale, ma si avvererebbe la realtà relazionale secondo cui ciascun macrocosmo è costituito da pluralità relazionali/caratteriali/attitudinali di qualità neutrale - ovvero caratterizzate da un ordinato ed equilibrio olistico di lievi negatività e di lievi positività che costantemente nei brevi microperiodi relazionali avvicendano loro stesse.

In questo caso non si avvisano gravi dissonanze cognitive indotte perché la realtà globalmente relazionale è priva di eccessi relazionali di tipo positivo o di tipo negativo - qui le peculiarità sopra descritte si equilibrano in questo modo.

 

La gioia relazionale esiste ma è dilatata nel tempo ed è sospesa da rari periodi di sospensione di malcontento relazionale disponibile a risolversi. Esiste complicità nella qualità intenzionale di essere resilienti ai periodi di sospensione relazionale ( il caso in cui non ci si incontra anche per alcuni mesi e si  riconosce vicendevolmente la amistà precedente non intaccata dal tempo di separazione.) esiste un lieve sentimento di familiarità nella forma della ri-conoscenza e riconoscimento non ostentati ma esistenti. La gratuità è il sostegno relazionale sono alternati in un clima di rispetto e impegno relazionale reciproco. Non esiste predisposizione alla promessa, piuttosto dimostrazione periodica di atti attitudinali/dialogici di iniziativa periodica nella massima scissione relazionale mensile. Non esiste periodicità di incontro relazionale in periodi quotidiani. Disponibilità di investimento di tempo non oltremodo, si esclude la vanità del tempo relazionale dilatato superfluo caratterizzato da superficializzazione dialogico/attitudinale/relazionale e di cliché dialogici non funzionali al conoscersi o alla tempra relazionale. Esiste quindi valorizzazione del tempo relazionale. Sussistono saltuarie discussioni, anche di gravità dialogico-espressiva ma non definitive ed inesorabili, suscettibili a risolversi.  Esiste raramente progettualità, il flow relazionale consegue in grazia della catena relazionale che esiste coevolutivamente, in itinere. Esistono sia self responsibility sia deleghe di responsabilità. La costante di profondità dialogica e di interesse interpersonale è sospesa da episodi di disinteresse e di libertà dalla relazione. Lo sguardo delle persone che si relazionano è sia introversivo, sia estroversivo - critico - diffamatorio. Possono sussistere dinamiche attitudinali “Sulla difensiva” ma mai di tipo definitivo/inesorabili. Esiste onestà relazionale e esistono casi di disonestà comunicativa, non di complotto e tradimento relazionali implicanti dirimenza definitiva.

 

 

 

Ove vi siano fragilità attitudinali si instaurano sia la dinamica di perdono relazionale sia la dinamica di vendicatività relazionale, ma quest’ultima non implica dirimenza definitiva. Esistenza di affettività relazionale dilazionato. Volontà di approfondimento dialogico culturale affettivo non ferrea e serrata. Chi abbandona la relazione oltre la lontananza temporale mensile o in seguito a gravi dissonanze comprtamentali/caratteriali che consiglierebbe la fine relazionale definitiva viene perdonato e cercato in una vicendevole alternanza di iniziative di incontro pur sempre rispettando il diritto di libertà individuale.

La interpersonalità non deve essere omnicomprensiva e monopolizzante la individualità.

E la individualità non deve essere alienante la interpersonalità.

Impossibilità della esistenza della negatività dello zero relazionale, la solitudine. Le perdite relazionali. Impossibilità della esistenza della positività del 100% relazionale e di costanza di incontro quotidiano.

Tale terza dinamica macrocosmica relazionale è avversa agli estremismi ma soprattutto è costituita dalla mentalità relazionale CAS dei sistemi complessi adattivi che costituisce come suo baluardo il principio del /cambiamento/miglioramento traslando l’egemonia dell’essere relazionale verso la flessibilità del divenire migliore relazionale - Il movimento è indicatore della essenza relazionale, pertanto tale facoltà del sistema relazionale adattivo salva la relazione dalle definibilità e dalle inesorabilità che la realtà di fine relazionale costituirebbe, tra cui ad esempio il lasciarsi relazionalmente tormentati incompresi per sempre o semplicemente serenamente liberi, dipende da come siamo e da quale prospettiva guardiamo. La sorpresa è la curiosità relazionale sono tra i valori costitutivi della relazionalità COEVOLUTIVA.

 La valorizzazione delle opportunità relazionali.

La valorizzazione delle differenze come realtà che costituiscono curiosità.

La valorizzazione della novità relazionale e della sua innovazione.

La stima dell’essere secondo gradiente di probabilità sconosciuti è di monito a incontrarsi e a conoscersi.

La valorizzazione del fallimento relazionale come motivo di ridefinizione delle profonde strutture dialogico/comportamentali/relazionali.  Non il perfezionismo relazionale, che è suscettibile al rimprovero e al diniego delle realtà imperfette, ma i perfezionismo relazionale che compendia accoglie e abbraccia le imperfezioni.

Il valore dello spirito di previsionalità latente – ciò che è “esteriormente negativo” è suscettibile alla rivelazione esteriorizzante dell’ “interiormente positivo”, la fiducia nel miglioramento.

La relazionalità COEVOLUTIVA Predilige gli incontri vis a vis alle relazionalità di gruppo (lettura di “sistema di gruppo.)

Volere osservare dalla prospettiva della benevolenza implica il realizzare il bene relazionale.

La legge dell’osservazione come valore attivo e creativo plasmante le dinamiche relazionali.

Il valore del ritorno relazionale.

Lettura: La teoria relazionale della marginalità.

La fiammella elevandosi gioconda, brucia, illumina, riscalda, colora, scioglie, rinsalda.

Se la fiammella ha sciolto, questa verità non implica che la fiammella non possa rinsaldare.

E la più importante verità è che una attitudine passata non annienta la facoltà del realizzarsi di una attitudine diversa.

In ultima istanza per argomentare della velata resilienza relazionale esemplifichiamo la realtà della velata resilienza ontologico-esistenziale.

 

 

 

 

Pertanto riconosciamo che nella apparente debolezza della persona che fisiologicamente, psicologicamente ed esteriormente dimostra fragilità e debolezza, insomma un danno ingente che intercorre parallelamente ad una apparente non resilienza, in relazione alla possibile esistenza di disorientamento provocato dalla percezione dell’aleatorietà del maybe futuro, ebbene in sé ed in relazione a ciò che questa persona sta supportando lei stessa sarebbe universalmente tra le più resilienti nonostante non dimostri resilienza.

Il concetto è presto compreso spiegando che se l’ancora del connubio delle sofferenze di questa persona fosse gravato su una altra persona, questa seconda non riuscirebbe a dimostrare il livello della esteriore resilienza che dimostra la prima, bensì la seconda sarebbe suscettibile a manifestazioni fisiologiche più fragili, decadenti, e psicologicamente più nevrotiche.

Allora nominiamo il concetto di resilienza intima latente – la resilienza intima latente è garante della personalizzazione ed è fondata dalla esperienzialità abitudinaria della persona.

Allora in ottemperanza del concetto di sinergia relazionale 1+1=3

Persona+persona= Persona+persona+noi

Esiste la resilienza intima latente del noi – che appartiene e riguarda solamente il dualismo persona-persona, non dipendente dalle altre persone estranee alla relazione, istituendo allora la intimità di resilienza ausiliaria utile all’autoriconoscimento delle potenzialità latenti della relazione che realizza la possibilità di rivoluzionare la fragilità di esteriorità relazionale. Si dimostra così che la dinamica di resilienza intima latente individuale può essere altresì applicabile alla realtà relazionale.

 

 

 

 

 

 

 

a

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“a“ Does exists and has place into the environment of this paper –

Because of the fact “a” changes the ontological quality of the white paper, the essence of “a” has the innate esistential dignity of reality that implicate the change of the quality of the white paper.

The creator of the essence “a”, because of the creation of a worthy essence has himself the innate esistential dignity reality that implicate the change of the quality of the white paper, of the place he lives in, of the relational environment, of the culture he innovates and integrates through the fact of signing the essence “a”.

The intelligibility of “a” that hugs the value of the writer mindset it is into the inner quality of the essence “a” –

So the essence “a” and the essence of her creator, the writer “Michele Vitti” are not responsible of the incapability of the correct reading of the readers, simply the readers aren’t able to understand the inner value of “a” and the readers are usual to say ““a” does not exists or “a” has not value or gignity of existance, so readers delete “a” ontologically deleting “a” with a eraser or not reading “a”-

So the writer will have to write “a” again and has to show the same readers they deleted “a” telling them to learn the language of “a” to understand “a”. Or the writer will show “a” to other readers.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“a” esiste e ha luogo nell’ambiente di questo foglio. _

Per il fatto che la essenza “a” modifica e incrementa la realtà ontologica del foglio bianco, la essenza di “a” ha la innata essenziale dignità ontologica di realtà che implica una modificazione ambientale del foglio bianco. La sua dignità esistenziale – ontologica è intima, autonoma, indipendente, non eteronoma-dipendente da una lettura esteriore – poiché la modificazione è una realtà realmente nata ed esistente – nella realtà ambientale reale e nella realtà ambientale psicologico mnemonica del suo creatore e dei suoi lettori.

Il creatore della essenza “a”, in grazia della creazione della valevole essenza possiede lui stesso la innata legittimazione di creatore degno della modificazione non solo del foglio bianco, bensì anche del luogo in cui ha segnato “a” dell’ambiente relazionale, in quanto a dono di possibilità alle persone di potere essere lettori di “a”, ed altresì della cultura che lo scrittore innova integrandola del valore aggiunto della essenza “a”. La intelligibilità di “a” che abbraccia il valore del mindset dello scrittore è innata nella intima qualità della degna esistenzialità di “a” non nella qualità di lettura del prossimo.

“a” è ontologicamente una realtà valevolmente comunicativa indipendente.

Pertanto la essenza valoriale di “a” e la essenza valoriale del suo creatore, lo scrittore “Michele Vitti”, non sono responsabili della percettività di inintelligibilità o percettività di intelligibilità, della svogliatezza di corretta lettura, della ignoranza di indifferenza dei lettori di “a”.

 

 

 

 

 

 

 

Il valore ontologico del creatore di “a” si desume dal fatto che la corretta lettura di “a” sia raggiungibile sia leggendo e decodificando la astrazione “a”, sia dialogando a riguardo di “a” con il suo scrittore – “a” e il suo creatore sono inscindibili ed una realtà ontologica compendia l’altra – è come osservare la medesima realtà da due prospettive diverse. Il creatore è il conoscente migliore della sua creatura, lo scrittore conosce la lingua della sua scrittura – La degna identità della sua scrittura e la sua ontologica dignità sussistono in quanto ai principi di originalità e di autografia – Pertanto ogni semplificazione o adattamento conformista della scrittura culturale dello scrittore è una volontà di falsificazione del sé, è una copiatura delle strutture dialogico-culturali dei suoi prossimi, un mentire a sé stesso ed agli altri della onestà intellettuale dello scrittore.

Semplicemente se i lettori non leggono o non sono interessati nella lettura della realtà creativa dello scrittore non è un limite dello scrittore, il loro giudizio attitudinale non cortocircuita la validità, il valore, la dignità ontologica della creatura dello scrittore. semplicemente i lettori scelgono di perdere e di non giovare sé stessi del puro valore aggiunto della creatività intellettiva dello scrittore.

E i lettori svogliati o indifferenti sono soliti testimoniare “”a” non esiste o “a” non ha valore ontologico e dignità di esistenza. Quindi il lettori disinteressati e indifferenti “annienterebbero” “a” cancellando “a” con un cancellatore o non leggendo “a”. Tuttavia la rilevanza fattuale di “a” eterna innata è che il momento della nascita di “a” ha creato una variazione universale che realizza che l’avverarsi di “a” influenza il presente/passato/futuro universale, la nascita di “a” induce un macroclisma di curiosità  che raggiunge per “sentito dire”altresì le persone più lontane da “a”  e dal suo scrittore.

 

 

 

 

Altresì le persone che cancellano con la gomma “a” saranno nel loro futuro influenzate dall’avere visto “a” e dall’avere cancellato “a”, ad esempio incontreranno coloro che valorizza”va”no “a” e che credevano”credono” in “a” e noteranno in essi avversione e biasimo attitudinale, essi ad esempio domanderanno agli “annichilenti” – Perché avete annientato “a” ?

“a” non è Dio, (Dio è Dio), ma nella ipotesi immaginativa in cui “a” fosse Dio gli atei non sarebbero in diritto ed in autorevolezza e autorità di confutare la essenza ontologica degna di Dio. Semplicemente loro sarebbero ciechi alla realtà di Dio, è un loro limite, non della realtà ontologica Dio”

Pertanto se “a” non sarà letta o se sarà cancellata, il creatore scrittore di “a” dovrà riscrivere nuovamente “a”, riuscirebbe con fatica a ripristinare e a dare nuova vita alla complessità di “a”, per ciò che abbiamo già assunto, che il seme germoglio simbolo di “a” è innato nel mindset dello scrittore. Così lo scrittore ripresenterà “a” ai medesimi lettori che hanno misconosciuto lui e la sua creatura culturale-intellettiva “a” – LO SCRITTORE SI DIMOSTRA PERTANTO ESSERE BUONO DONANDO AI LETTORI UNA NUOVA POSSIBILITA’ PER I LETTORI INDIFFERENTI DI GIOVARSI DELLA SUA OPERA “a”.

La aggettivazione di “genio incompreso” dei lettori verso lo scrittore testimonia il limite di non comprendere o di non volere comprendere dei lettori verso il “genio d’autore creativo scrittore, non il limite di dignità ontologico essenziale dello scrittore e delle sue opere.  

Se una persona esteriormente giudica “Non riconosco nulla” di una realtà creativa, questa persona non testimonia, non prova che il suo limite di cecità.

 

 

 

 

Se una persona esteriormente giudica “Non è leggibile, non capisco” di una realtà creativa, questa persona non testimonia, non prova che il suo limite di “Inabilità di lettura, e di non comprensione.”.

Se una persona esteriormente giudica di un dipinto “_” testimonia il suo limite di giudizio osservativo, non il limite di abilità del dipingere del pittore, né la inconsistenza ontologico valoriale del dipinto – Tanto è che appena il primo osservatore giudica “_”, un secondo osservatore giudica “+”. Ma IL VALORE ONTOLOGICO DEL DIPINTO E DEL SUO CREATORE SONO DISSIMILI E NON SONO L’EQUILIBRIO DELLE DUE PERCEZIONI “+”,”_”.

L’equilibrio olistico “+” “_” costituisce piuttosto la QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE.

IL GRAVE ERRORE ONTOLOGICO ESISTENZIALE E’ CHE CONSIDERIAMO

IL VALORE ONTOLOGICO E LA QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE

 LA MEDESIMA ESSENZA.

NON E’ COSI’ – IL VALORE ONTOLOGICO DI UNA REALTA’ E INNATO INDIPENDENTE ED ONNIPRESENTE

E CONSISTE NELLA DIGNITA’ E VALORIZZAZIONE APRIORISTICA DELLA REALTA’. E’ SUL VALORE ONTOLOGICO CHE DOBBIAMO FONDARE IL RICONOSCIMENTO NON SULLA ALEATORIETA’ DELLE FALSIFICAZIONI PERCETTIVE ESTERIORI. LA QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA E’ SOLITAMENTE UN SURPLUS DI DEVALORIZZAZIONE PERCETTIVA E PERTANTO INSTAURA DIALETTICHE DI NEGATIVIZZAZIONE DELLA ONTOLOGIA REALE DELLA REALTA’.

 

 

SE NOMINIAMO LA REALTA’ ONTOLOGICA DEL DIPINTO “Dipinto” E SE NOMINIAMO LA REALTA’ ONTOLOGICA DEL PITTORE “Pittore”, SE NOMINIAMO “+”,”_” LE QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE DELL’OSSERVTORE “Osservatore”:

“Dipinto” NON E’ “+”,“Dipinto” NON E’ “_”, “Pittore” NON E’ “Dipinto”, “Osservatore” NON E’ “Dipinto”, “Osservatore” NON E’ “Pittore”.

“Dipinto” E’ “Dipinto” E PER LA SUA REALE ESISTENZA DI ESSERE “Dipinto” – E’ degno di dignità, riconoscimento e valorizzazione ontologico apprezzativa, lo stesso sistema valoriale vale per la realtà “Pittore”.

“_” RACCONTA DI COME E’ “Osservatore” Mentre osserva “Dipinto”. Ma “_” ha autorità attributivo-esistenziale su “Osservatore”, ma non ha autorità attributivo-esistenziale su “Dipinto”.

“Osservatore” sostiene che la sua ontologia è un attitudine osservativo-qualificativa della realtà esteriore “Dipinto” di qualità “_”.

“Osservatore mediante il giudizio di valorizzazione percettiva “_” esprime la sua percettibilità nelle parole “Io vedo e caratterizzo “Dipinto”: § ”, ma “Dipinto” non è §.

Analogamente: Ciò che si vede, si giudica, di valorizza – devalorizza del prossimo, non è il prossimo, ma è la qualità ontologico osservativa dell’osservatore.

 “+” RACCONTA DI COME E’ “Osservatore” Mentre osserva “Pittore”. Ma “+” ha autorità attributivo-esistenziale su “Osservatore”, ma non ha autorità attributivo-esistenziale su “Pittore”.

“Osservatore” sostiene che la sua ontologia è un attitudine osservativo-qualificativa della realtà esteriore “Pittore” di qualità “+”.

 

 

“Osservatore” mediante il giudizio di valorizzazione percettiva “+” esprime la sua percettibilità nelle parole “Io vedo e caratterizzo “Pittore”: Ω”, ma “Pittore” non è Ω.

Le essenzialità ontologiche hanno autorevolezza attributivo-esistenziale-decisionale solamente su loro stesse – IL SE’ HA AUTOREVOLEZZA ATTRIBUTIVO-ESISTENZIALE-DECISIONALE SUL SE’ _ TUTTAVIA LA OSSERVAZIONE PERCETTIVA DEL SE’ NON LEGITTIMA LA AUTOREVOLEZZA ATTRIBUTIVO-ESISTENZIALE-DECISIONALE SUL NON-SE’ PERCHE’ LA ATTITUDINE DEL SE’ VERSO IL NON-SE’ HA FONDAMENTO SULLA PERCETTIVITA’ DEL SE’ OVVERO SUL NON ESSERE DEL NON-SE’.

 

Ora, una realtà è data al mondo affinché sia di utilità comune – allora si realizza che il creatore doni agli osservatori la possibilità di elevare loro stessi mediante il confronto con le sue opere. Questo concetto in particolare relazione con un livello di complessità lessicale-culturale- intellettiva della opera dello scrittore – tuttavia generalizzando il dono creativo è sempre e comunque un valore aggiunto per gli osservatori poiché il creatore dedica una realtà di confronto per gli spettatori, indipendentemente dalla qualità dell’opera creativa i lettori e spettatori incrementeranno il loro sé ontologico della relazione con la opera donata dal creatore. Generalizzando e decontestualizzando dai contesti arte/letteratura, in ciascuna nostra dinamica relazionale siamo sia creatori, sia spettatori, pertanto è di valore aggiunto per tutti noi un approfondimento sulla qualità ontologico-creativa dei creatori.

 

 

 

 

IL VALORE ONTOLOGICO E LA POSSIBILITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE.

Forse i lettori resteranno indifferenti e nuovamente non leggeranno restando nella loro povertà privativa di ”a”, ma secondo probabilità è impossibile che tutti i lettori indifferenti reiterino la loro indifferenza – Così la resilienza creativa dello scrittore implica la valorizzazione non ontologica ma percettiva esteriore della essenza “a” e del suo creatore.

Abbiamo argomentato la primarietà valoriale gerarchica del VALORE ONTOLOGICO INNATO di “a” e del suo creatore rispetto alla valorizzazione percettiva esteriore. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I TRE MINDSET ATTITUDINALI REPLICATIVO-PERCETTIVI

 

Il mindset replicativo di tipo = prevede

+ -> +

- -> -

0 - > 0

 

(i valori +, -, 0 a sinistra della freccia sono le attitudini del prossimo osservate iniziativa buona, negatività attitudinale, indifferenza, i valori a destra della freccia sono le risposte attitudinali dell’osservatore)

 

Il mindset minorativo peggiorativo prevede

+ -> -

- -> -

0 - > -

 

(i valori +, -, 0 a sinistra della freccia sono le attitudini del prossimo osservate iniziativa buona, negatività attitudinale, indifferenza, i valori a destra della freccia sono le risposte attitudinali dell’osservatore)

Pertanto le attitudini sono consonanti con la osservazione attitudinale del prossimo (considerazione oltre la distinzione di genere).

Ma è bene provare a migliorarsi, ovvero sostituire il mindset replicativo o il mindset minorativo con un mindset integrativo

Che prevede di integrare con un valore aggiunto positivo e positivizzante la attitudine del prossimo osservata -

Il mindset integrativo prevede:

- - > +

0 - > +

+ - > +

LE CALAMITE RELAZIONALI

 

Il mindset minorativo di tipo relazionale -

Il mindset minorativo è relazionalmente peggiorativo e implica dirimenza relazionale.

I simboli delle calamite relazionali sono

(+ -) (- +) oppure  (- +) (+ -)  , pertanto è da dedurre che la reiterazione del mindset attitudinale minorativo implichi l’allontanarsi definitivo inesorabile delle calamite relazionali – ciascuna calamita può essere metaforicamente assimilata alla persona che agendo attitudini dirimenti si allontana dal suo prossimo, ed il prossimo ugualmente, sincronicamente.

 

Il mindset replicativo di tipo relazionale =

Il mindset replicativo = può essere relazionalmente peggiorativo, proattivo migliorativo o inattivo.

Può pertanto implicare dirimenza relazionale, avvicinamento relazionale, o procrastinazione di analogia di status relazionale.

Da cosa dipende la qualità della implicazione del mindset replicativo?

Dipende dalla qualità attitudinale del prossimo rispetto all’osservatore –

Il mindset replicativo e il mindset minorativo-peggiorativo instaurano come sistema proattivo di analogia attitudinale o di reattività peggiorativa la percettività osservativa della attitudine del prossimo in relazione al sistema psicologico autotutelante dell’osservatore/osservatrice, il “image-forming self defensive mechanism”:

 

 

 

 

The desire to do harm, to hurt another, whether by a word, by a gesture, or more deeply, is strong in most of us; it is common and frighteningly pleasant. The very desire not to be hurt makes for the hurting of others; to harm others is a way of defending oneself. This self-defence takes peculiar forms, depending on circumstances and tendencies. How easy it is to hurt another, and what gentleness is needed not to hurt! We hurt others because we ourselves are hurt, we are so bruised by our own conflicts and sorrows. The more we are inwardly tortured, the greater the urge to be outwardly violent. Inward turmoil drives us to seek outward protection; and the more one defends oneself, the greater the attack on others.

What is it that we defend, that we so carefully guard? Surely, it is the idea of ourselves, at whatever level. If we did not guard the idea, the centre of accumulation, there would be no “me” and “mine.” We would then be utterly sensitive, vulnerable to the ways of our own being, the conscious as well as the hidden; but as most of us do not desire to discover the process of the “me”, we resist any encroachment upon the idea of ourselves. The idea of ourselves is wholly superficial; but as most of us live on the surface, we are content with illusions.

The desire to do harm to another is a deep instinct. We accumulate resentment, which gives a peculiar vitality, a feeling of action and life; and what is accumulated must be expended through anger, insult, depreciation, obstinacy, and through their opposites. It is this accumulation of resentment that necessitates forgiveness – which becomes unnecessary if there is no storing up of the hurt.

 

 

 

 

 

 

 

Why do we store up flattery and insult, hurt and affection. Without this accumulation of experiences and their responses, we are not; we are nothing if we have no name, no attachment, no belief. It is the fear of being nothing that compels us to accumulate; and it is this very fear, whether conscious or unconscious, that, in spite of our accumulative activities, brings about our disintegration and destruction. If we can be aware of the truth of this fear, then it is the truth that liberates us from it, and not our purposeful determination to be free. “

Jiddu Krishnamurti

 

 

I simboli delle calamite relazionali nel caso del mindset attitudinale replicativo o reiterativo possono variare sulla base della qualità della attitudine osservata. In particolare le attitudini disinteressate di indifferenza di tipo 0 = 0 implicano ibernazione relazionale e procrastinazione relazionale, in reazione all’esempio delle calamite relazionali le calamite si fermano, non ruotano i loro poli, pertanto le loro posizioni reciproche di avvicinamento o di allontanamento dipendono dalle posizioni originarie precedenti alla desistenza reciproca di iniziative relazionali, pertanto alla indifferenza si desume specularmente una indifferenza.

Tuttavia se una delle due persone agisce una attitudine, la persona secondo questo mindset implicherà la attitudine analoga, questo movimento implicherà l’inversione dei poli delle calamite relazionali.

Pertanto abbiamo chiarito insieme che l’immagine delle calamite è variabilmente dipendente dall’osservazione comportamentale esteriore.

(-+) (+-)

(+ -) (- +)

Oppure (+ -) (+ -)

 

Altresì il mindset comportamentale proattivo integrativo costituisce come sistema proattivo di differenza positivizzante attitudinale la percettività osservativa della attitudine del prossimo in relazione al sistema psicologico autotutelante dell’osservatore/osservatrice, il “image-forming self defensive mechanism”

 

Tuttavia in questo caso non sussiste una analoga replicazione della attitudine osservata, bensì una positivizzazione attitudinale della attitudine osservata.

Nel caso di attitudine proattivo relazionalmente integrativa i poli delle calamite relazionali dispongono i loro poli affinché le calamite si avvicinino in questo modo:

(+ -) (+ -)

ESEMPI DI MINDSET ATTITUDINALI

Facciamo alcuni esempi dei tre mindset attitudinali.

Un mindset minorativo prevede

Che una persona ad una indifferenza (0) o ad un abbraccio (+) reagisca ad esempio con un atto di violenza verbale – attitudinale (-)

Un mindset reiterativo prevede

Che ad una indifferenza (0) osservata la persona che osserva reagisca con una indifferenza (0)

Che ad un abbraccio (+) reagisca con una carezza (+)

Che ad un atto di violenza verbale ( -) reagisca con un atto di violenza attitudinale ( -)

 

Un mindset integrativo prevede

Che ad una indifferenza (0) osservata la persona che osserva reagisca con una carezza o una iniziativa relazionale di conforto (la fiammella affettiva che scioglie il ghiaccio) (+)

Che ad un abbraccio (+) reagisca con un bacio (++)

Che ad un atto di violenza verbale o attitudinale ( -) reagisca con un atto di perdono ( 0)

LA RESPONSABILIZZAZIONE BIUNIVOCA TRA OSSERVATORE E AMBIENTE

 

La vicendevole responsabilità tra osservatore e ambiente.

Premettendo che ciascuno dei tre mindset attitudinali riconducono il loro spirito proattivo alla osservazione percettiva riconduciamo alla analogia di gravità di responsabilità tra persona/e che agiscono una azione (iniziativa ambientale) e osservatore reattivo.

 

Tuttavia applichiamo una distinzione tra mindset replicativo e (mindset peggiorativo e migliorativo). In realtà la scelta attitudinale della persona che replica la attitudine che osserva è di non scegliere e di replicare semplicemente come uno specchio la attitudine che osserva. Pertanto l’identità dell’osservatore è non è rilevabile se non nella qualità di reiteratività attitudinale, ovvero la attitudine dell’osservatore non aggiunge e non toglie nulla alla attitudine ambientale che osserva.

Diversamente si riconosce che nel mindset peggiorativo l’osservatore applica una modificazione di riflesso nel verso peggiorativo dell’atto puro che osserva – il demerito attitudinale e ontologico esistenziale è coerente con la sua attitudine peggiorativa.

Si riconosce inoltre che nel mindset migliorativo l’osservatore applica una modificazione di riflesso nel verso migliorativo dell’atto puro che osserva– il merito attitudinale e ontologico esistenziale è coerente con la sua attitudine migliorativa.

Le attribuzioni oggettivizzanti nominali

A differenza della attitudini migliorative, le attitudini reiterative o peggiorativo a livello dialogico e di riconoscimento adducono la maldicenza come valore di analogia attitudinale o di peggioramento attitudinale –

 

 

 

Pertanto in una statica relazionale 0 = 0 di attitudini reiterative di indifferenza – l’osservatore indifferente criticherebbe della sua medesima colpa di essere indifferente/menefreghista, l’indifferente che sta osservando.

Nel caso della dinamica relazionale 0 - > - di attitudini peggiorativo di violenza sorte da indifferenza – l’osservatore applica una decontestualizzazione temporale dell’osservato (vedo come sarai) attribuendo ad esempio all’indifferente il valore comportamentale nominativo peggiorativo di essere ai suoi occhi violento e pertanto di “meritare”, in ottemperanza del self induce defensive image-forming mechanism, una risposta attitudinale violenta.

In terzo luogo citiamo che a livello dialogico in un sistema relazionale creativo integrativo non si instaura la vendicatività come metro di dinamica di risposta attitudinale, bensì il perdono, pertanto colui che attua attitudini costruttiviste dirà del prossimo indifferente, non “sei menefreghista” ma ad esempio “sei sereno e tranquillo” applicando una variazione di contesto qualitativo percettivo della prospettiva attitudinale che osserva.

Si conclude che relazionalmente i mindset attitudinali di reiterazione e di replicazione attitudinali sono da evitare se implicano una negatività alla negatività osservata e se implicano lo 0 dell’indifferenza attitudinale allo 0 osservato (procrastinazione).

Sono da accogliere se implicano la statica relazionale (+=+)

I mindset attitudinali peggiorativi sono perentoriamente categoricamente da evitare?

La risposta tende verso l’affermativo ma con importanti sfumature eccezionali, quali?

Il valore relazionale catartico chiarificanti o del litigio:

 

 

 

 

 

Premettendo che la violenza attitudinale – verbale è da diniegare – ci riserviamo di tenere in considerazione la realtà secondo cui l’iperpefezionismo positivo relazionale esente dall’onestà di condivisione delle problematicità individuali e interrelazionali può implicare dirimenza reciproca, incomprensioni e aridità dialogica che si concludono spesso con definitività di fine relazionale.

 

Giungiamo a considerare il terzo caso in cui attribuiamo valore positivo e di merito alle attitudini creative integrative. Che sono da scegliere poiché implicano un avvicinamento relazionale un riavvicinamento, la resilienza e la resurrezione relazionali.

I mindset attitudinali migliorativi sono strutturati dalla proattività COEVOLUTIVA dei CAS sistemi attitudinali adattivi, pertanto avversi alla staticità reciproca delle attitudini replicative.

 

TUTTAVIA

Questa riflessione sui tre mindset attitudinali premette questa verità di dinamica attitudinale:

“Prima vedo, ed in base a ciò che osservo, agisco. “

 

ELEVIAMO LA DINAMICA ATTITUDINALE DALLA ETERONOMIA ATTITUDINALE ALLA AUTONOMIA ATTITUDINALE:

 

La nuova dinamica risulterebbe allora:

“Agisco aprioristicamente al fine di implicare un innesto immediato della mia qualità attitudinale nell’ambiente. “

LA INIZIATIVA ATTITUDINALE ANTICIPANTE

Così il precedente osservatore diviene l’osservato dall’ambiente; e sia l’ambiente, non l’attuale osservato ad essere ontologicamente attitudinalmente eteronomo a lui/lei.

 

 

La risposta comportamentale diviene iniziativa anticipante attitudinale.

LA REPLICATIVITÀ INNER->OUTSIDE

L’osservatore spettatore sulla “ difensiva “ che fondava le sue attitudini sul self defensive image forming mechanism – ora è ATTORE/ATTRICE della PURA REPLICATIVITÀ INNER->OUTSIDE.

Questa dinamica non ha relazione con la replicatività tra osservatore e ambiente di cui argomentavamo precedentemente. Perché? Perché è una dinamica a senso opposto.

Caso precedente: l’osservatore vede l’ambiente per agire

Osservatore < - ambiente

OUTSIDE->INNER

Implicano                Osservatore - > ambiente,               INNER->OUTSIDE

Caso di PURA REPLICATIVITÀ DELLA ONTOLOGIA DELL’ATTORE

INNER->OUTSIDE.

L’attore agisce verso l’ambiente:              INNER->OUTSIDE                    Attore|attrice < - ambiente

IL PURO ATTORE CREATIVO HA LA RESPONSABILITÀ DELLA INFLUENZABILITÀ UNIVERSALE DELL’AMBIENTE. LA INNOVAZIONE

È pertanto dell’attore la responsabilità implementativo-creativa dell’ambiente mediante attitudini proattive pure (non positivizzanti, la positivizzazione prevede un paragone con la realtà da positivizzante, bensì implementativo-creative) la creatività innesta la nascita del nuovo nell’ambiente.

 

 

 

 

LA PAGINA 15

IL PRESENTISMO

La dissonanza cognitiva ambizionistica e le dissonanze cognitive dislocali e atemporali

La dissonanza cognitiva ambizionistica:

Inconcilianza tra essere presente e non essere mentale (nella qualità di “dover essere” psicologico astratto)

Divario temporale presente/futuro mentale programmato non realizzato di un passato progettuale.

La progettualità è una scommessa caratterizzata da aleatorietà, pertanto la realtà induce la caoticità nella certezza del raggiungimento di un obiettivo che è da ritenersi possibilmente non raggiungibile.

La dissonanza cognitiva dislocale

La obbligatorietà del raggiungimento di un obiettivo caratterizza sia l’impegno e la dedizione bene valorizzati nell’itinere progettuale, tuttavia caratterizza analogamente la severità dell’istaurarsi della realtà dell’aumento di dislivello tra tempo dedicato nella iniziativa obiettivante e tra tempo da dedicarsi ad altre realtà (relazionali) instaurando la dissonanza tra essere presente reale ed il “dove dovrei essere” presente in relazione al concetto di sincronismo approfondito in “TESI”.

Qualora avvenisse che una realtà caoticizzante cortocircuitasse il buon andamento del percorso buono al raggiungimento dell’obiettivo futuro - l’obiettivo futuro non sarebbe raggiunto e la bontà della dedizione di tempo dedicato al raggiungimento dell’obiettivo risulterebbe corrotta:

La certezza è contrario logico dell’aleatorietà.

 

 

 

 

Non possiamo fondare e strutturare certezze progettuali-attitudinali sul mindset psicologico di previsionalità in quanto il fondamento della certezza porrebbe i suoi baluastri sulla instabilità del futuro irreale, poiché la complessità della vastità del periodo futuro è denotata di flussi di variabilità pluricontestuali. Per argomentare questa immagine pensiamo ad una conchiglia madreperlata denotata sia da resilienza sia da fragilità - la persona vuole condurre la conchiglia da A a B - l’unico ambiente di percorso tra A e B sono le rapide di un fiume - la persona non è onnipresente alla conchiglia, la persona può agevolare il percorso della conchiglia qualora lei si fermasse, ma dovrebbe calarsi dai non numerosi ponti che scandiscono il percorso fiume.

Comprendiamo che la conchiglia potrebbe non raggiungere B, le onde o gli scogli potrebbero frammentarla.

Metaforicamente le onde e gli scogli sono i contesti aleatori ostacolanti l’obiettivo, ciò che nominiamo “le cause che non dipendono da noi” e nella vastità del periodo futuro ne sussistono miriadi.

È proprio la irrealtà del futuro a caratterizzarne la possibilità di irrealizzabilità futura.

Le dissonanze cognitive atemporali e la dissonanza realismo/cognitivismo

Dovremmo fondare e strutturare le certezze progettuali-attitudinali sulla realtà presente discostandoci dall’attribuire valore decisionale ambientale sulle atemporalità, ovvero sulle dissonanze cognitive indotte temporali (l’esempio coerente è di dissonanza tra presente e futuro) e sulla dissonanza realismo presente/cognitivismo futuro.

 

 

 

 

 

 

Le realtà del tempo sprecato e del fallimento.

PREMESSA

La realtà della vicendevole influenza e responsabilizzazione macrocosmo-microcosmo

Il fallimento di una persona è il fallimento dell’ambiente in cui vive la persona, il fallimento dell’ambiente in cui vive la persona è il fallimento della persona.

Le cause della proattività catartica e la resilienza reciproca tra ambiente-persona sono da individuare nelle singolari fragilità delle due entità multisistemiche- dalle fragilità indotte dall’ambiente la persona può ottenere autocoscienza, imparare e migliorarsi ed Imparando e migliorandosi migliora l’ambiente, dalle fragilità indotte dalla persona l’ambiente può ottenere autocoscienza, imparare e migliorarsi ed Imparando e migliorandosi migliora la persona.

 

LA SERENDIPITÀ

La verità della serendipità confuta la concezione secondo cui il fallimento sia negativo - la serendipità ricaratterizza il luogo del fallimento attuando una decontestualizzazione, la serendipità induce nel luogo del fallimento specificatamente contestuale l’incontro di eccentricità disattese catartiche e vantaggiose per la persona - questa mentalità assume che qualunque sia il destino fallimentare, la serendipità è quella qualità che permette la serenità dell’accoglimento della perdita dell’obiettivo in quanto ad acquisizione (insieme alla perdita dell’obiettivo) di altre disattese realtà talvolta più importanti dell’obiettivo stesso non conquistato. Pertanto abbiamo realizzato che il tempo di vita, comunque sia, non è mai sprecato.

La previsionalità come salvaguardia del tempo di vita, il sentimento intuitivo di improbabilità del raggiungimento di un obiettivo induce la saggezza di non dedicare tempo ad obiettivi che sentiamo essere lontani da noi o inconciliabili con noi.

La coartazione conformista nelle forme di flow attitudinali invogliano, talvolta obbligano, a seguire percorsi di vita generazionalmente adiacenti - tuttavia questa coartazione può implicare come abbiamo visto dissonanze cognitive ambizionistiche e dissonanze cognitive dislocali specificatamente nelle persone con una elevata coscienziosità creativa alternativa e non omologabile e standardizzabile.

 

IL PRESENTISMO

Perché sacrifichiamo l’essere presente al dover essere futuro?

La delega di responsabilità alla astrazione non esistente del futuro

La questione “cosa fare per il proprio presente “ ha primaria importanza rispetto alla questione “cosa fare per il proprio futuro” semplicemente perché il futuro è una astrazione mentale non esistente.

 

Essere ciò che si diviene ha primaria importanza di divenire ciò che si è.

Divenire ciò che si è.

È una procrastinazione possibile e pertanto possibilmente improbabile della realizzazione delle nostre latenti facoltà.

La proattività può non essere poiché è una idea di progettualità futura.

ESSERE CIÒ CHE SI DIVIENE

Siamo fisiologicamente-psicologicamente organismi plurisistemici complessi adattivi.

ESERE DIVENIENTI – Si instaura la primarietà valoriale del movimento e del cambiamento essenziale, non della attesa

La proattività è.

È l’attuale, reale compimento del nostro ontologico flusso diveniente – questa mentalità ha importanti correlazioni con il concetto di coevoluzione descritto in TESI II

 

Il dimorfismo reale - virtuale

La virtualità ha importanti interrelazioni con i concetti di delega di responsabilità dislocale e di dissonanza cognitiva dislocale.

In relazione alla dissonanza (essere reale/ non essere reale=essere virtuale) e (essere reale/dover essere reale e virtuale)

 

L’idea del “ciò che ne sarà “ non deve ostacolare o annichilire la proattività presente.

 

LA PAGINA 15 DEL 14. 11. 2022 DEL DE BREVITATE VITAE

LA COMPLESSITÀ MISTERIOSA DEL PRESENTE

Sincronicità, sincronismo multisistemico adattivo, sincronizzazione e coincidenze.

La realtà in cui uno scrittore scrive sulla problematicità della instabilità del futuro e la virtualità di una donna che pubblica la pagina 15 dal libro “De brevitate vitae” di Seneca

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fine