DIGNITÀ
THINK TWICE
MICHELE VITTI
DIGNITÀ THINK TWICE
© 2022
Michele Vitti
Data di pubblicazione:
22/11/2022
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dalla legge sul diritto d’autore.
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duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
ISBN: 9798365129856
Il sito dell’autore
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INDICE
p.
LA TESI
Tesi bibliografica
con argomenti personali autografi
Principi di relatività ontologica
Elementi autografi dell’autore Michele Vitti
Un senso della
lettura
Istanti prioritari,
istanti concorrenti
e l’universo del secondo.
La teoria della
marginalità
L’aleatorietà del
maybe
L’elastico del
rispetto
Il contributo
Umiltà
Il pensiero puro
Poesia
L’ordine caotico -
Pedagogia relazionale e
Spersonalizzazione
La relazionalità
coevolutiva
a
I tre mindset attitudinali replicativo percetttivi
Le calamite
relazionali
La pagina 15. Il
presentismo
LA TESI
BEYOND ≠
L’UNITÀ DELLA PACE DEI
CONTRARI
La tesi di TESI II
Si propone qui una unione
interculturale, una fusione olistica delle eccentricità culturali affinché sia
raggiungibile un equilibrio di convivenza pacifica tra diversi ed un sistema
fondato sulla reiterata coevoluzione delle relazionalità tra le diverse
singolarità - pertanto in principio vi deve sussistere una reciproca
considerazione ontologica delle singolarità - l’idea che la singolarità abbia
diritto di dignità di esistenza - in secondo luogo l’impegno reciproco affinché
ciascuna delle singolarità plasmi la sua qualità affinché possa combaciare con
le diversità delle altre singolarità di mindset per compendiarle la semplice immagine
qui esposta è di un puzzle tridimensionale la cui morfologia è ontologia
essenziale dei suoi elementi sia consonante con le altre parti.
Come quando due bolle
aventi morfologia sferica sfiorandosi connubiano modificando reciprocamente la
morfologia e creando una superficie in comune di morfologia discoidale.
In terzo luogo sussiste il principio di
equilibrio valoriale delle idiosincrasie che implica che non vi siano
singolarità che nella qualità di misura valoriale divengano monopolizzanti
rispetto alle altre.
In quarto luogo sussiste
il principio di tutela autonoma e eteronoma delle idiosincrasie, in questo
punto si argomenta che ciascun singolare mindset sia al contempo tutelante
della propria autonomia ed insieme curativo, non minorativo e non cancerogeno
per le altre singolarità di mindset o per le essenze stesse scrigni di tali
mindset idiosincratici -
pertanto esemplifichiamo
che le singolari idiosincrasie in relazione alle droghe (il cui uso è abuso è
fondante il cortocircuito del mindset della persona che sceglie queste sostanze
- effetto cancerogeno del mindset) o alle violenze di variabile qualità
(violenza ontologica - assassinio, violenza sessuale-stupro) siano in antinomia
ontologica con la esistenza e la sopravvivenza del sistema stesso - giungiamo
alla considerazione che le idiosincrasie “Auto-distruttività”, “distruttività”
“annichilimento” consistano nella unica eccezione della regola di tutela e di
salvaguardia delle idiosincrasie - pertanto caratterizziamo tali mindset come
devianze nocive al sistema olistico di buona collaborazione ed unione delle
diverse mentalità. L’esempio più semplice è esemplificato dall’avere luogo di
un proiettile nel cuore - in atto un oggetto alieno che compromette la
funzionalità del sistema ambientale cuore.
Innoviamo una verità -
ciascun mindset ha pertanto funzione ambientale - di accoglienza di
idiosincrasie dissimili o simili, ed ha funzione implementativa di un altro
mindset - ambiente.
Una seconda verità da
tutelare è che il valore universale olistico del sistema che abbraccia diverse
idiosincrasie non sia monopolizzante rispetto a ciascuna delle singole
sottocategorie idiosincratiche sino ad arrivare alle singolari mentalità di una
persona.
Pertanto vale la
possibilità equivalente che una idea conformista del sistema influenzi il
singolo e che questo singolo abbia la autorità aprioristica di influenzare e
rivoluzionare il sistema. Questo principio si fonda e si avvale sulla analogia
ontologica tra macrocosmo e microcosmo -
La influenza ambientale del
singolo sul sistema.
In atto vi è un universo
nel mindset di una singola mente analogamente alla struttura ontologica
universale del mindset olistico del
sistema - pertanto un universo ha diritto di influenzare un secondo universo in
quanto ad analogia ontologica valoriale.
Il sistema macrocosmico è
dipendente dalle singolarità che ne compongono l’olismo – le discrepanze
sociali in grande scala sorgono dalle incomprensioni procrastinate e non sanate
relazionali individuali.
Le guerre in larga scala,
come le incomprensioni relazionali in piccola scala esistono perché le
differenze sono percepite come devianze, con il concetto ontologico di
idiosincrasia si rispettano le differenze come fondanti l’opportunità di un
luogo culturale di espansione e di miglioramento non a dispetto delle
differenze di mindset stimate come virus da debellare, bensì in grazia delle
differenze di mindset e attitudinali. Affinché ciò sia possibile questo luogo
culturale (mediante il sentimento di identità idiosincratica comune a tutti gli
uomini e donne indifferentemente dalle proprie diverse singolarità religiose,
politiche, economiche, culturali...) può andare oltre il proprio limite di
mentalità locale per abbracciare le diversità di mindset dislocati nel tempo e
nello spazio rispetto al proprio.
Immagino un mondo in cui
le diverse divinità del tempo si abbracciano intorno a ciascuna singola persona
ed a ciascun singolo essere vivente affinché sia salvaguardata la sua esistenza
e le sue dignità e vitalità. Sicché quando una persona di una singolare cultura
religiosa ne incontra una seconda con una diversa cultura religiosa – esse
possano identificarsi – immedesimarsi e provare cosentimento, empatia,
ri-conoscenza e sentimento di compartecipe appartenenza.
Che il mindset
spirituale-religioso annetta insieme al politeismo la possibilità dell’ateismo
e l’agnosticismo. Affinché l’olismo del pensiero non sia radicale – dispotico
non deve essere una dicotomia tra il credo del proprio mindset che è non credo
di mindset dissimili.
Per assolvere a questa
questione è fondante la esistenza della sfumatura di mindset spirituale
dell’agnosticismo insieme alla esistenza del proprio credo, perché la esistenza
del “Non sapere” ammette la flessibilità mentale garante della possibilità del
“potere essere diversamente dal mio pensiero-credo” e secondo la medesima
dinamica la assoluzione di una questione importante – ciascun contesto
idiosincratico deve essere relazionale non dirimente – la ontologica esistenza
del divino decadrebbe in ultima priorità valoriale se ad esempio il divino sia
causa fondante prima di incomprensioni relazionali, poi di divisioni, di
imposizioni di mindset, e nei casi più gravi di guerre religiose.
Ma come potremmo allora
conciliare un ateo con un credente con un credente ossessivo-intollerante-dispotico,
con un agnostico e con un politeista.
Essi si conciliano
secondo queste argomentazioni
Premessa
La idiosincrasia olistica
di ciascuna mente è il connubio di diverse sfumature di mentalità devianti –
the inner mindset è un flusso alternante di contraddizioni che determinano il
loro implemento, la loro manifestazione o la loro latenza.
Pertanto sussiste la
relazione combinatoria delle contraddizioni – in colui che si aggettiva nella
qualità di ateo permane latente la idea del divino, esiste un credente latente,
esiste un agnostico in lui nel sintomo di ciò che nominiamo incertezza
conoscitiva, esiste un politeista in quanto a riconoscimento latente della
molteplicità. Scegliere significa prendere una posizione mentale ambientale –
ovvero scelgo di essere qui e non lì, ma non significa che il lì non esista,
che io non abbia avuto esperienza e conoscenza del lì, che qualcuno mi abbia
raccontato o scritto come sia il lì, pertanto sussiste la possibilità che io mi
sposti mentalmente dal qui al lì.
Esiste la scelta dello
zero in paragone alla consapevolezza della possibilità dell’uno e della
molteplicità
ASCOLTIAMO NOI STESSI PER
COMPRENDERE IL PROSSIMO
La idiosincrasi
ambientale spirituale
LA TOLLERANZA
IDIOSINCRATICA
Ciascuno ha una idea
soggettiva di Dio, connubio di idee conformiste-soggettive – letture di testi
sacri autografi ancestrali e letture di più recenti scritti
filosofico-religiosi – ascolto delle scuole spirituali – profonda riflessione
sorgente dai flussi di coscienza e subconscio, la idea intersoggettiva di Dio è
in relazione all’istinto di self – resilience psicologico-attitudinale – l’idea
di Dio come garante della origine di una substruttura dei sistemi contestuali
di ‘buona morale relazionale’ e di ‘esistenza di un senso di vita’, la
preghiera come metodo di dialogo con il sé nel luogo dell’anima – la unicità della intimità della
spiritualità.
L’onniscenza sarebbe la
chiave della tolleranza idiosincratica – poiché l’onniscente annette nel suo
mindset il connubio di ogni diversità, pertanto quando entra in relazione con
ciascuna diversità può instaurare un clima di cosentimento intellettivo
razionale e spirituale. ciascuno ha una idea soggettiva di Dio, connubio di
idee conformiste-soggettive.
PERTANTO sussiste il
teorema secondo cui la percezione di diversità idiosincratica non sia
Confutazione della idiosincrasi percepiente, bensì connubiante di essa.
PERTANTO un ateo non è in
essere a confutare l’esistenza di Dio verso un credente. Approfondiamo.
La resilienza
idiosincratica
La vacillazione, la
normalità, la radicalità
Ciascuna fede, fiducia,
credo nel continuum ha variabili intensità – vi sono periodi della vita in cui
si crede intensamente in una realtà, vi sono situazioni che determinano che la
fiducia in una realtà contestuale vacilli, periodi di labilità di un mindset
contestuale nei quali si perde la speranza e la fiducia nella implementazione
di una singolare idiosincrasi contestuale, in questi periodi si è più
influenzabili e meno influenzanti nell’ordine attitudinale-dialogico di certi
contesti.
Pertanto possono esistere
periodi in cui l’ateo sia credente appoggiandosi ad un credo, periodi in cui il
credente monoteista non trovi le risposte alle sue necessità ontologiche nelle
singolarità ontologiche di una religione e vada cercando nel “lì” di altre
culture religiose le sue risposte. Periodi in cui l’agnostico sia per sua
ontologica essenza condotto ad ascoltare il credente per colmare la sua
incertezza e parallelamente periodi in cui il credente radicale conduca lui
stesso a confrontarsi con l’agnostico o con l’ateo per ristabilire il suo
equilibrio di normalità e non sbilanciamento radicale della sua mentalità –
poiché il margine della
incertezza è il luogo del mutamento e del movimento di pensiero che permette il
divenire del pensiero a coloro la cui mentalità resterebbe cristallizzato
nell’immobile pensiero radicale.
Ma perché un credente può
compendiare la mentalità di un ateo essendo una ricchezza valoriale-ontologica
per lui (1) e perché un ateo può compendiare la mentalità di un credente
essendo una ricchezza valoriale-ontologica per lui. (2)
Allora riflettiamo
insieme sulla mentalità di un ateo.
Un ateo riflette se
medesimo nella percezione della non esistenza ontologica del divino.
La concezione tipica di
un ateo potrebbe essere questa –
“Il pensiero di Dio mi
presenta a dirimpetto del vuoto.
Allora il mio dio è il
nulla poiché quando stavo soffrendo solo, il nulla mi abbracciò non dio, e dal
nulla trassi ispirazione e energia. “
In un ateo il sistema di
self-resilience è autonomo, non è eterno o, è indipendente, non è dipendente da
realtà esteriori, come ad esempio il divino. Pertanto non si appoggerebbe alla
preghiera nei periodi di fragilità ontologico-esistenziale, bensì ad una
autoinduzione di Rehab la cui fonte olistica è compiutamente in sé stesso,
nelle sue realtà e potenzialità essenziali.
Allora giungiamo alla
conclusione che nei periodi di vita di vacillazione della fede di un credente,
in cui lo stesso credente non può ricondurre la sua resilienza al divino,
l’ateo dona al credente gli strumenti conoscitivi di resilienza indipendente
necessari affinché il credente divenga nuovamente forte di sé stesso nonostante
in questo periodo il lume della sue fede spirituale sia flebile. Al
disorientamento delle ombre di un credente in un sole che sta tramontando – un
uomo che sa vedere nel buio lo può orientare e aiutare.
(2)
La argomentazione del
motivo per cui un credente possa connubiare la mentalità di un ateo dipende
dalla possibilità che il credente colmi il vuoto della non credenza dell’ateo,
pertanto nella possibilità in cui l’ateo non abbia alcun punto di riferimento,
il credente accorre a lui condividendo con lui la realtà del punto di
riferimento della sua fede.
(3) abbiamo già
argomentato perché l’agnostico può essere una ricchezza per il credente
radicale, perché il primo ristabilisce l’equilibrio normale del disequilibrio
della degenerazione di radicalità di pensiero.
(4) Parallelamente il
credente radicale può essere il lume per il buio del profondo nonsense
dell’agnostico, seppur in un clima di rispetto ideologico e di non imposizione
dispotico di mentalità.
La tolleranza delle
diversità idiosincratica e ha evidente relazione con la teoria della
marginalità, ovvero la realtà secondo cui il non essere empie l’essere. In
relazione con una idea positiva della utilità marginale.
Istintivamente
riconduciamo il luogo marginale del “non essere “ come negazione dell’essere di
una realtà – innestando una mentalità della accoglienza dell “è” e del
sacrificio, disistima e rifiuto del “non è” in quanto a riconoscimento
percettivo di una devianza rispetto alla normalità dell’ “è” – impariamo allora che il nostro
cervello elabora la flessibilità della accoglienza e della tolleranza sulla
base della frequenza di esistenza di una realtà fenomenologica – una realtà che
si verifica nel continuum, nella quotidianità è più accolta di una realtà la
cui manifestazione sia discreta, ovvero che si verifichi raramente – allora
nominiamo
Essere la frequente
realtà, ovvero la realtà che si manifesta reiteratamente e frequentemente,
mentre nominiamo non essere la realtà nuova e rara.
Conformismo e
pluralità
È per questa analisi che
adduciamo alla pluralità di opinione analoga la caratterizzazione di normalità
e alla minoranza di pensiero il carattere di dissonanza e di devianza.
L’illusione della
dissonanza.
Tuttavia dovremmo
sensibilizzare il nostro mindset sulla base del principio che non sia il valore
della molteplicità il discriminante valido a realizzare la dicotomia tra
molteplicità (Essere)pura e normale e singolarità, minoranza e novità (Non
essere) devianza anormale.
Sulla base della
decontestualizzazione una realtà dissonante ad una seconda può essere
riconosciuta consonante a questa realtà.
La mentalità secondo cui
non solamente il “non essere” abbia relazione con l’essere ma che il “Non
essere” abbia una identità ontologica valevole quanto l’essere – in atto la
dignità del “Non essere” come ciò che manca all’”essere” in ottemperanza della
teoria della marginalità. Il luogo del “Lì” è il sogno sotteso alla esperienza
di coloro che sono “Quì”-.
Se ti chiedessi di NON pensare
ad una realtà a cosa penseresti?
Curioso vero? Penseresti
proprio a tale realtà.
Allora la denominazione
della differenza è un focus della nostra attenzione in quanto a
riconoscimento di una dissonanza
discreto in un andamento continuum, la goccia che crea le venature della quiete
delle acque del lago, o il tinnìo del cadere della goccia che interrome la
calma del silenzio.
Dovremmo dedicare allora
valore alle realtà che destano magicamente la nostra istintiva e subconscia
attenzione.
La curiosità smuove la
noia
L’esistenza dell’altro è lo spirito motore
della volontà che estende la mano verso le realtà che non siamo e che non
abbiamo.
Proviamo ora ad estendere
la riflessione della pace tra le eccentricità religiose alla pace tra le
eccentricità culturali, politiche, economiche, razziali, di genere,
amicali-sessuali-affettive, gerarchico- istituzionali, nell’ottica della
implementazione e ascendenza valoriale delle gerarchie fragili e subordinate a
complemento, non a danno, delle gerarchie superne –
L’umiltà delle gerarchie
superne per l’olistico miglioramento comunitario.
Si conclude nella critica
sociale delle gerarchie superne in difetto attitudinale di non rispettare il
principio di equilibrio valoriale delle idiosincrasie.
ARGOMENTI COSTITUTIVI
DELLA TESI
PRINCIPI DI RELATIVITA’
ONTOLOGICA
LE IDIOSINCRASI E LE SANE
NEVROSI
OLTRE IL LIMITE DI
MENTALITA’ LOCALE
LA NORMALITA’ DELLA
DEVIANZA
Premessa
I concetti qui
argomentati sono relative e caratterizzanti la persona, pertanto sono oltre la
distinzione di genere tra i due sessi ed insieme appartengono e descrivono le
strutture di mindset che appartengono ad entrambi i sessi, questa appartenenza
testimonia una analogia di mindset idiosincronico tra i due sessi – Tuttavia
questa riflessione non confuta importanti studi che argomentano che
nell’analogia dell’olismo della struttura idiosincronica generale personale vi
siano differenze di genere in fondamentale relazione con la morfologia corporea
umana e con la sessualità, è proprio il carattere di differenzazione che adduce
la unicità individuale idiosincronica che è garante della possibilità che vi
siano fondamentali differenze che si possono categorizzare e unificare
rispettivamente nel polo femminile e nel polo maschile, allora due categorie
caratterizzate sia da differenze sia da analogie di idiosincrasia –
Semplificando, ciascuna singola persona poiché unica possiede idiosincrasi,
nevrosi buone o devianze di pensiero e attitudinali uniche che distinguono tale
persona dalle altre, la sostanza ed il meccanismo intellettivo è pertanto
unificante la distinzione tra genere, vi è una analogia strutturale del sistema
di mindset tra uomo e donna, in più le donne poiché femmine possiedono devianze
di pensiero e attitudinali analoghe alle altre donne e gli uomini poiché maschi
possiedono devianze di pensiero e attitudinali analoghe agli altri maschi.
Il concetto di
“IDIOSYNCRASY“
secondo accademiadellacrusca.it
A distinctive way of
thought or behaviour that someone possesses.
LA DEFINIZIONE
CONTEMPORANEA
Alcuni nostri lettori
(Giulia C., Angelo M. da Valencia, Francesco P. da Chicago) avvertono uno
scarto non facilmente decifrabile tra l’accezione corrente più comune di
idiosincrasia (una singolare e spiccata ‘avversione’ per qualcosa o qualcuno) e
il significato etimologico del termine; Stefano V. chiede se l’aggettivo più
corretto per indicare chi è “affetto da idiosincrasia” sia idiosincratico
oppure idiosincrasico.
Nell’uso contemporaneo
più frequente e comune il termine idiosincrasìa esprime una ‘forte avversione
per qualcosa o qualcuno’, una ‘ripugnanza esasperata’, una profonda
insofferenza fino a una ‘forma di rifiuto assoluto, di incompatibilità
radicale, di repulsione’ (definizioni di Zingarelli 2020, Devoto-Oli 2020,
Sabatini-Coletti 2008, accanto al significato specialistico medico).
La definizione
contemporanea di idiosincrasi testimonia i caratteri del nostro essere di
essere unici e diversi. Come premesso l’etimologia del termine idiosincrasi
esclude la qualità di inconciliabilità, qualità che ha assunto questo termine
nel processo evolutivo della concezione del termine, il significato etimologico
di idiosincrasi che non esclude la compatibilità tra diversi è in aperta
analogia con l’argomento di conciliabilità e MESCOLANZA tra SINGOLARI diversi,
la tesi di questo documento.
LA DEFINIZIONE
ETIMOLOGICA
Il termine idiosincrasia
è un prestito dal greco antico idiosynkrasía, parola composta dal prefisso
idio- (dall’aggettivo ídios ‘proprio, particolare, privato, personale’, e anche
‘distinto, singolare, insolito’) e dal sostantivo sýnkrasis (con cambio di
terminazione) ‘mescolanza’, ‘temperamento’.
CONSIDERAZIONI MEDICO-PSICOLOGICHE
DEL
TERMINE IDIOSINCRASIA: LA
MEDICINA UMORALE
Il suo significato
letterale era di ‘mescolanza individuale di ‘umori’, di ‘particolare
temperamento’, ‘costituzione’, secondo la medicina umorale: se la discrasia è
la disomogenea mescolanza delle singolarità costitutive di temperamento
psicologico che provoca la malattia, l’idiosincrasia è la peculiare condizione
dell’organismo di un singolo essere umano, in cui la predominanza di un umore,
di una singolarità costitutiva di temperamento psicologico, senza arrivare a un
disequilibrio patologico, determina tuttavia la predisposizione ad alcune
malattie, l’aspetto fisico e caratteriale e condiziona i comportamenti
individuali.
La individualità della
cura
Galeno attribuisce il
termine alle scuole mediche rivali (la parola è attestata in Sorano di Efeso,
medico esponente della scuola metodica, nella prima metà del II sec.), con le
quali polemizza, perché trascurano le idiosincrasie dei singoli, e falliscono
nella cura, mentre il trattamento deve essere appropriato allo stato del
paziente nella sua individualità.
Tolomeo descrive le
idiosincrasie come i tratti di fondo, le caratteristiche naturali tipiche di
ogni individuo.
La complessione.
La nozione di complexio
‘complessione’, per indicare la natura psico-fisica di un individuo.
IDIOSINCRASIA E
INDISPOSIZIONE ATTITUDINALE
LA DIVERSA REATTIVITA’ DI
CIASCUN SINGOLO ALLE REALTA’ RELAZIONALI E NATURALI DELL’AMBIENTE ESTERIORE
ll vocabolo è inserito
tra le Voci (lasciate fuori dal Vocabolario della Crusca) di Giovan Pietro
Bergantini (1745) ancora come “temperamento, e proprietà dei corpi”. Con il
progressivo distacco dalla teoria degli umori assistiamo a un primo movimento
semantico della parola: da ‘condizione’ particolare, specifica di un organismo
e di un organo al significato di ‘disposizione’ (sfavorevole), di ‘reattività’
(patologica) a qualcosa. Sono i trattati e l’uso medico prima e i dizionari
medico-scientifici poi a veicolare il secondo significato: nei repertori
lessicali si comincia a intendere l’idiosincrasia come una:
“indisposizione particolare che determina in
alcuni individui […] fenomeni differenti […] da quelli che accadono nel maggior
numero degli uomini” (Dizionario classico di medicina interna ed esterna, o di
chirurgia e d’igiene pubblica e privata, composto dai signori Adelon, Andral,
Beclard et al., prima traduzione italiana [dal francese] di Mosè Giuseppe Levi,
1831-1840).
Attestano già un
significato analogo i dizionari di grecismi di Aquilino Bonavilla e Marco
Aurelio Marchi (1819-1821) e del solo Marchi (1828-1829), il vocabolario
Tramater (1829-1840) e il Panlessico italiano diretto da Marco Bognolo (1839),
dove l’idiosincrasia è una “particolare organica avversione o suscettibilità a
risentirsi per l’azione di certi agenti esterni, che per la maggior parte degli
uomini sono invece utili e piacevoli”. Insomma, la parola indica una
irregolarità, un’incompatibilità sintomatica.
IDIOSINCRASIA COME
UNICITA’ SINGOLARE DI AFFEZIONE PSICHICA E COME SANA NEVROSI
Nel corso del secolo il
termine va progressivamente diffondendosi: è attestato nella quinta edizione
del Vocabolario della Crusca (vol. 8, 1889) come “abito o costituzione propria
e particolare di ciascun individuo”, registrato nel Novo dizionario universale
della lingua italiana di Policarpo Petrocchi (1887-1891) come “disposizione
individuale a risentire di certi effetti e agenti”.
IDIOSINCRASIA NEVROTICA,
ALLERGIA
L’introduzione del
concetto di allergia (1906) da parte del pediatra viennese Clemens von Pirquet,
nei suoi studi sulla febbre, permette di comprendere meglio una serie variegata
di fenomeni patologici, prima classificati come antipatie o idiosincrasie e ora
interpretabili come manifestazioni allergiche. L’ipotizzato legame tra reazioni
allergiche, idiosincrasiche e tratti psicologici individuali (fino allo
squilibrio mentale) ha così ricondotto, per una parte del Novecento, a quadri
clinici di idiosincrasia alcuni disturbi psichiatrici e ha mantenuto in uso il
termine soprattutto nel vocabolario della psichiatria per indicare disordini
depressivi, fenomeni di nevrosi o di insana fobia (idiosincrasia nevrotica,
fobica).
IDIOSINCRASI E FATALITA’
La fatalità è una
proprietà del subconscio agente la singolarizzazoine attitudinale e di
pensiero:
Si introduce il concetto
di “Idiosincrasia nevrotica sana” il quadro non clinico, normale consonante con
i tratti psicologici di devianza unica di pensiero caratterizzante l’unicità
essenziale strutturata sulle realtà esperienziali, le singolarità caratteriali,
il subconscio singolare caratterizzato da fatalità.
IDIOSINCRASIA NEVROTICA
SANA E IPERSENSIBILITA’ INDIVIDUALE
Nel linguaggio medico
moderno idiosincrasia ha assunto dunque per estensione il significato di
ipersensibilità individuale.
IDIOSINCRASIA
RELAZIONALE, L’ATTRAZIONE DEI DIVERSI
Se è vero che l’individuo
si accoppia di preferenza al suo contrario (la “legge della vita”), ciò nasce
dal fatto che esiste un orrore istintivo di esser legato a chi esprime i nostri
stessi difetti, le nostre idiosincrasie, ecc. La ragione è evidentemente che
difetti ed idiosincrasie, scoperti in chi ci è vicino, ci tolgono l’illusione -
prima da noi nutrita - che fossero in noi singolarità scusabili perché
originali (Cesare Pavese, 21 maggio 1940, da Il mestiere di vivere. Diario
1935-1950, Torino, Einaudi, 1952).
Tra l’ultima parte
dell’Ottocento e il primo Novecento il vocabolo attrae non solo diversi
scrittori e letterati (Vittorio Imbriani, Giuseppe Chiarini, Gian Pietro
Lucini, Giovanni Papini ecc.), ma si diffonde anche nei giornali, che assorbono
novità lessicali e le propagano, soprattutto in ambito politico-istituzionale:
così “chi governa il paese sappia prescindere dalle personali idiosincrasie”
(“La Stampa”, 13 settembre 1911).
IDIOSINCRASIA E TENDENZA
LIBERALISTA-ANARCHICA
Edmondo De Amicis
nell’Idioma gentile (1905), “ce n’è una che vale per cento: l’idiosincrasia. Le
declamazioni d’una liberale e civile idiosincrasia. C’è chi ne va matto”.
IDIOSINCRASIA,
RIVENDICAZIONE DEL SE’ IN RELAZIONE AD ALTRI SE’
L’estensivo atteggiamento
di rifiuto (che non si materializza in odio) veicolato dall’idiosincrasia, si
può verificare per un oggetto, un concetto astratto o una persona, ma anche
verso, a, nei confronti di, da, riguardo a, con, di, contro, rispetto a
qualcosa o qualcuno, oppure, come incompatibilità o contrasto, tra due
referenti: ciò avviene in disparati contesti d’uso, dall’ambito
politico-economico a ciascun altro ambito relazionale.
In altre lingue la parola
non ha avuto questa specifica evoluzione semantica, con connotazione negativa.
In inglese, per esempio, oltre al significato medico storico e corrente
(costituzione fisiologica; reazione farmacologica inattesa e avversa), il
termine idiosyncrasy indica il ‘temperamento’ individuale, un tratto distintivo
della personalità, una ‘peculiarità’, un’attitudine o un comportamento
particolare, proprio di un singolo o di una collettività (cfr. l’Oxford English
Dictionary). Un significato dunque più neutro, che denota gusti e preferenze,
includendo predisposizioni e stravaganze.
LA POSSIBILITA’ DI
ADATTIBILITA’ CONTESTUALE DEL TERMINE IDIOSINCRASIA TESTIMONIA LA SUA
CORRELAZIONE CON LE SINGOLARITA’ ONTOLOGICHE UMANE
L’adattabilità del
termine al contesto, ora alla stregua di tecnicismo medico, ora come sinonimo
di ‘intolleranza’, ora come ‘originalità peculiare’, con margini di
soggettività.
Questi usi e significati,
anche antitetici, convivono, generando talvolta ambiguità di comprensione: la
corretta interpretazione dipenderà dal contesto d’uso, dalla consapevolezza
linguistica del parlante o dello scrivente, del destinatario o anche del
traducente.
Il termine mostra inoltre
una certa predisposizione a essere applicato ad altri linguaggi specialistici,
anche per influsso angloamericano, da un maggiore a un minore grado di (pseudo)tecnicità:
in economia l’idiosincrasia rappresenta il “fattore esogeno che influenza una
particolare variabile e nessun’altra” (Alessio Moneta, s.v. idiosincratico, nel
Dizionario di economia e finanza Treccani 2012, poi in Dizionario Treccani
2014): transazione idiosincratica, rischio o shock idiosincratico sono
espressioni legate a eventi non macroeconomici, ma si riferiscono, e ne
dipendono, alle variabili specifiche della singola azienda o attività
finanziaria; nell’ambito della gestione dei beni culturali indica l’intrinseca
specificità del bene (monumento, luogo ecc.).
Le caratteristiche della
sua natura localizzata (posizione, accesso, legame indissolubile con il
territorio), considerate in chiave economica per la sua fruizione.
Le idiosincrasie linguistiche
si riferiscono alla creazione di parole o a usi linguistici particolari di
singoli parlanti (idioletto), di gruppi ristretti, di una determinata zona o
comunità, che attribuisce loro un significato diverso da quello socialmente
condiviso; il linguaggio idiosincratico è una caratteristica sintomatica di
disturbi autistici. In ambito sociologico e antropologico l’insieme dei
caratteri di una popolazione (idiosincrasia nazionale) porta alla costruzione
dello stereotipo, mentre l’idiosincrasia sociale riflette i comportamenti e le
abitudini dipendenti dal condizionamento dall’ambiente, dagli spazi e dal
contesto culturale; dal punto di vista psicologico ciò può portare, tra
conformismo e personalizzazione, rispetto o sovvertimento di codici etici, a idiosincrasie
nell’aspetto e nell’atteggiamento (tatuaggi, abbigliamento insolito). In campo
letterario e artistico le idiosincrasie di un autore ne rappresentano i furori,
le ossessioni e i demoni, lo stile riconoscibile.
Le consuetudini
strutturali e linguistiche, e in sintesi anche il suo genio e il suo estro.
Per comunicare davvero
occorre mettersi in gioco, gettare sulla scena sé stessi - la propria
biografia, le proprie emozioni, i propri idiosincratici umori - anche un po’
rischiando (Filippo La Porta, “Corriere della Sera”, 19 novembre 2009).
L’IDIOSINCRASIA PER LE
COSE PIU’ NORMALI –
LA DEVIANZA DEL VALORE
DI MAGGIORANZA NORMALITA’
L’idiosincrasia
rappresenta il proprio temperamento caratteriale, la radice delle nostre più
intime inclinazioni, che emergono, nelle loro sfaccettature, nell’atteggiamento
e nell’interazione con l’esterno: ogni relazione, priva o meno di immunità,
nella sua ambivalenza può rivelarsi armonica o conflittuale, e non sempre
facile può essere capire se il nostro sentire è un bisogno o una mania. Ognuno
di noi è (e si considera, forse non senza una punta di compiacimento)
“naturalmente strano”: la singolarità può condurre talvolta a incomprensioni e
scivolare, come recitava una canzone di qualche anno fa, “verso l’idiosincrasia
per le cose più normali”**.
*Giovanni Nencioni,
Autodiacronia linguistica: un caso personale, in La lingua italiana in
movimento. Atti degli Incontri del Centro di studi di grammatica italiana
(Palazzo Strozzi, 26 febbraio-4 giugno 1982), Firenze, Accademia della Crusca,
1982, pp. 7-33 (pubbl. anche in “Quaderni dell’Atlante lessicale toscano”, 1,
1983, pp. 1-25)
LE IDIOSINCRASI VELATE e
la difficoltà di conoscenza del prossimo.
La realtà del nostro
essere sconosciuti, anche tra conoscenti, è più vera e probabile della
possibilità di conoscerci.
“Non si può mai conoscere
davvero una persona, neppure un parente, a volte. Le persone ti mostrano quello
che vogliono farti vedere.”
Da come gli altri si
comportano con noi non dobbiamo desumere e apprendere chi siamo noi, bensì chi
sono loro.
Questa proposizione
descrive la realtà secondo cui la idiosincrasi attitudinale sia manifestazione
del sé indifferentemente dalla catena delle reciprocità attitudinali
relazionali causa-effetto.
Distinguiamo tra
idiosincrasi di pensiero e attitudinali, le idiosincrasi attitudinali sono la
rivelazione delle idiosincrasi di pensiero. Ma le idiosincrasi attitudinali
sono una manifestazione di alcune, non di tutte le idiosincrasi di pensiero.
La mediazione di
purificazione del sentimento di odio è un esempio di questa dinamica, può
accadere infatti che una persona provi sentimenti di odio ma che li celi in se
stessa così da manifestare attitudini buone e benevolenti in evidente
dissociazione con l’idiosincrasi del suo pensiero.
“E’ noto infatti che i
più frenetici ribelli in teoria sono la gente più serena e più quieta nei
rapporti con gli altri e si appagano delle audacie del proprio pensiero senza
mai tradurlo in azione. ”
La lettera scarlatta,
Hawthorne
SIAMO ONTOLOGICAMENTE
IDIOSINCRATICI
LA IMPREVEDIBILITA’
ATTITUDINALE IN RELAZIONE ALLA VARIAZIONE ISTANTANEA DELLA IDIOSINCRASI DI
PENSIERO INDIVIDUALE
Sintomi e cause delle
decontestualizzazioni sincroniche e del subconscio. Lettura di “Tesi”.
“Viviamo nell’idea che –
quando salutiamo una persona – la ritroveremo esattamente uguale a prima.
Facciamo fatica a pensare che basta un secondo a creare un’ombra sul viso, a
sconvolgere un destino, a ribaltare quello che siamo. Siamo anime in movimento
e, nel tempo di un sospiro, siamo già diversi da noi.”
Letizia Cherubino
“Riemergere da se stessi
è tanto più difficile quanto più si è profondi.”
Michela Murgia
L’INCONTRO TRA LE
IDIOSINCRASI DEL MALATO E DEL CURANTE
L’AUTONOMIA DEI SANI E
L’AUTONOMIA DEI MALATI
(Fabrizio Turoldo)
{
Il principio di autonomia
in medicina
Il processo di
riconoscimento della coscienziosità del paziente da parte del medico
1.
Tale processo di
trasferimento del principio di autonomia dall’etica giuridica all’etica medica
è stato
particolarmente intenso
nella seconda metà dell’800, quando la comparsa dell’anestesia chirurgica ha
iniziato a sollevare gravi problemi di consenso informato. L’anestesia
chirurgica, infatti, veniva inizialmente usata non solo per evitare il dolore,
ma anche per vincere la resistenza dei malati contro le operazioni. I medici
del secolo scorso, com’è infatti noto, ritenevano che il rifiuto di una cura
efficace manifestasse la palese incompetenza del paziente e che, dunque, fosse
lecito procedere, per il bene di quel paziente, contro la sua volontà.
2.
Il fatto, comunque, che
decise in modo irreversibile dell’imprescindibilità del diritto all’autonomia
fu il nazismo. Al processo di Norimberga (1946) in cui si dichiara e si
legittima il carattere cruciale della regola del consenso informato fornito dal
paziente, a salvaguardia del valore imprescindibile della sua autonomia.
3.
Il suggello definitivo al
riconoscimento del valore dell’autonomia è infine venuto dalle battaglie civili
negli Stati Uniti, degli anni ‘60 e ‘70. I movimenti civili sorti in quegli
anni avevano tra le proprie parole d’ordine l’individualità, la libertà, l’autonomia
e la creatività.
Nascevano, in quel clima,
movimenti che avrebbero portato avanti importanti battaglie sociali e civili:
il movimento di liberazione della donna, il movimento ecologico, il movimento
in difesa dei consumatori, il movimento per i diritti dei malati, ecc. In
Europa le battaglie sessantottine si concentrarono soprattutto nelle
università, sulla scia delle manifestazioni del Maggio francese. Tutte queste
battaglie avevano come comune denominatore la rivendicazione del diritto all’autonomia,
contro il paternalismo e l’autoritarismo che avevano caratterizzato sino ad
allora la classe docente.
LA BIUNIVOCITA’
RELAZIONALE TRA MEDICO E MALATO, UNA EQUILIBRALIZZAZIONE VALORIALE E DI ESSENZE
INTELLETTIVE NELL’AMBITO DELLE CURE PICOLOGICO-PSICHIATRICHE – L’ARRICCHIMENTO
ESSENZIALE-CULTURALE RECIPROCO TRA MALATO E CURANTE
Il valore dell’autonomia
del malato
L’autonomia è necessaria
all’umanizzazione della medicina.
Il principio che ha
guidato la prassi medica sin dal suo nascere non è stato il principio di
autonomia, ma piuttosto quello di beneficenza. Nel corso della storia, inoltre,
il principio di beneficenza è stato inteso secondo diverse curvature
interpretative, alcune delle quali si sono poste in aperto contrasto con il
principio di autonomia. Si può sinteticamente dire che nella cultura greca,
latina e cristiano-medievale è prevalsa un’interpretazione paternalistica del
principio di beneficenza, dalla quale ci si è liberati solo nella
tarda modernità, quando
si è iniziato a valorizzare il punto di vista del malato, prendendo in
considerazione la sua rivendicazione dell’autonomia decisionale. Grazie a
questo cambiamento di prospettiva il malato oggi non è più percepito come un
semplice paziente, ossia come colui che deve subire passivamente l’azione del
medico, ma come una persona il cui punto di vista va ascoltato e preso nella
massima considerazione.
Questa mutazione
nell’etica e nella prassi medica costituisce una delle grandi conquiste della
nostra epoca: essa va nella direzione di una giusta ed opportuna valorizzazione
dei rapporti intersoggettivi anche nella pratica clinica.
Il rapporto tra medico e
paziente non è più inteso in modo univoco, secondo una direzione senza ritorno,
che va solo dal medico al paziente e non viceversa, ma secondo un movimento
biunivoco, in base al quale medico e paziente devono essere capaci di
ascoltarsi e di vestire l’uno i panni dell’altro.
TO CURE => TO CARE
La parola “cure“ implica
un disequilibrio valoriale essenziale tra agente attivo curante e subente
passivo curato, la parola “care” riequilibria tale disquilibrio – in quanto a
responsabilità e possibilità reciproche di avere cura sia del malato nei
confronti del curante, sia del curante nei confronti del malato – Tale
possibilità si esprime nella realtà della decontestualizzazione esperienziale
in cui le dinamiche di resilienza, forza attitudinale che si assumono essere
possedute dal curante che supporta e conforta le debolezz cognitive del malato
– in mindset di decontestualizzazione vi possono esistere labilità psicologiche
in cui il precedente curante è più gracile e fragile del precedente malato – in
atto può esistere un reciproco arricchimento tra curato e curante, poiché
decontestualizzando il curante può essere “curato” dal suo stesso curato. Tale
tesi è supportata dall’argomento della idiosincrasi nevrotica come devianza di
pensiero e attitudinale comune a ciascuna persona. Invariabilmente dai suoi
studi, dalle sue esperienze, dalla sua tempra caratteriale e proprio in grazia
di queste ed altre singolarità si relativizzano le dinamiche relazionali
curante-curato e soggetto autonomo decisionale-soggetto eteronomo che subisce
la decisione.
Ascoltare il paziente
significa non renderlo oggetto di un anonimo e impersonale trattamento medico.
Il paziente che viene
ascoltato dal suo medico ha la sensazione di non essere solo un corpo-oggetto
che deve essere curato (in inglese “to cure”), ma una persona, intesa nella sua
globalità, di cui ci si deve prendere cura (in inglese “to care”).
Da questo punto di vista
si deve dire che la valorizzazione dell’autonomia del paziente costituisce uno
degli elementi indispensabili nel processo di umanizzazione della medicina.
Il principio di autonomia
è coerente con l’odierna epistemologia medica Il mutamento nell’impostazione
delle basi logiche della medicina, verificatosi nel secolo scorso, costituisce
un altro elemento fondamentale a favore dell’autonomia. La medicina ha subito
infatti, nel corso del ‘900, una rivoluzione interna che l’ha condotta a
ripensare le sue basi epistemologiche e, di conseguenza, il modo di intendere
il rapporto medico-paziente.
LA LOGICA
PROBABILISTICA-STATISTICA-INTERSOGGETTIVA DELLA CURA – IL DIALOGO ASSRTIVO TRA
MALATO E CURANTE
Questa impostazione
conduceva inevitabilmente al paternalismo, perché il medico credeva di sapere
molto bene quello che doveva fare e di non avere alcuna necessità di
consultarsi con il paziente. Più recentemente invece la logica determinista è
stata sostituita, in medicina, da una logica probabilistica e statistica.
Oggi si ritiene infatti
che per la gran parte delle malattie molte siano le cause possibili e, di
conseguenza, che molte siano anche le cure adottabili. I casi che escono dalle
vecchie norme deterministe risultano essere sempre più frequenti, al punto che
l’eccezione, ossia il caso dubbio, diventa sempre più la regola. Il medico è
costretto a prendere delle decisioni in situazioni di incertezza, basandosi,
perlopiù, sul calcolo delle probabilità. Stando così le cose si rende
assolutamente necessario coinvolgere nella cura gli stessi pazienti, esponendo
loro un ventaglio di possibilità diagnostiche, di prognosi e di terapie sul
caso, in modo che essi stessi diventino responsabili, assieme al medico, di una
scelta che è sempre rischiosa.
LA RESPONSABILIZZAZIONE
DEL MALATO COME SOGGETTO AUTOREVOLE DELLA PROPRIA SITUAZIONE DI VITA E
IDIOSINCRASIA ATTITUDINALE
3.3. L’autonomia
costituisce il fine stesso della medicina
Gli esseri umani non
nascono autonomi, ma lo diventano, attraverso un processo in cui hanno un ruolo
fondamentale le relazioni con gli altri. Sono gli altri che ci aiutano ad
acquisire autonomia. Questo è particolarmente evidente nell’educazione dei
figli: gli si insegna a mangiare da soli, a camminare, a parlare, a riconoscere
i pericoli del mondo esterno, perché, ad un certo momento, possano rendersi
autonomi e farsi la loro vita. Gli psicologi insegnano infatti che è un cattivo
genitore quello che impedisce ad un figlio di rendersi autonomo, creando con
lui un rapporto di tipo simbiotico. Oltre alla famiglia, però, esistono anche
altre istituzioni sociali deputate alla promozione dell’autonomia degli
individui: lo scopo della scuola, ad esempio, è quello di formare soggetti
autonomi, che siano in grado di sviluppare pienamente le loro potenzialità
umane. Ma, allora, non si può dire lo stesso anche della medicina?
Se la malattia è qualcosa
che ci impedisce di essere autonomi, di realizzare i nostri fini e di
perseguire la piena realizzazione delle nostre potenzialità umane, ne consegue
che la medicina, che combatte la malattia, promuove, al tempo stesso
l’autonomia. Affermare questo significa legare l’autonomia alla medicina in una
maniera più organica e
significativa rispetto a quella usuale, che vede semplicemente l’appello
all’autonomia come fondamento di vincoli esterni al modo in cui la medicina
viene praticata. Noi invece continuiamo a vedere la nozione di autonomia come
un fattore che si è sovrapposto dall’esterno all’impresa medica, in quanto
estraneo alla sua “essenza” e persino in potenziale conflitto coi fini
tradizionali della medicina.
Con il rischio che la
nozione, e le pretese normative su di essa fondate, vengano non solo
marginalizzate - come nella pratica medica spesso accade - ma anche espunte,
come inutili e persino dannose, dalla relazione medico-paziente. Negli ospedali
americani e, ora, anche se in misura minore, anche da noi, l’autonomia del
paziente viene invocata e rispettata in funzione “difensiva”, per evitare guai
con la magistratura. Il consenso informato, ad esempio, non costituisce spesso
uno strumento che consente di valorizzare l’autonomia del paziente, ma un
documento da firmare (qualcuno lo definisce ironicamente “consenso firmato”)
per mettere al riparo il medico da eventuali ripercussioni penali.
LA DIGNITA’ LA INTEGRITA’
E LA ‘SANITA’’ DEL MALATO, IL DIRITTO DI AUTOREFERENZIAITA’ DELLA VOLONTA’
. Ciascuno sa qual è il
suo bene e la collettività non può far prevalere un proprio diverso criterio di
bene su quello del singolo individuo.
Primo limite:
La concezione
individualistica dell’autonomia presente in alcune prospettive della
letteratura bioetica contemporanea. Il diritto all’autonomia costituisce uno
dei fondamenti imprescindibili della morale, perché senza autonomia non c’è
soggetto morale e senza soggetto morale non c’è etica. L’utilitarismo è stata
una delle correnti filosofiche che ha sottolineato con più forza questo
concetto, facendo del principio di autonomia il proprio vessillo. Per gli
utilitaristi l’autonomia viene concepita come una specificazione di un più
generale diritto a non subire sofferenze inutili e non volute. L’autonomia,
secondo questi autori, sarebbe giustificata dal fatto che essa protegge i
migliori interessi del soggetto a cui viene riconosciuta.
Ciascuna persona, anche
se talvolta agisce imprudentemente, sa, meglio di chiunque altro, quali siano i
propri interessi; per questo, la sua autonomia non può essere conculcata per
alcun motivo, nemmeno per il suo presunto bene. L’autonomia, secondo gli
utilitaristi, dovrebbe generare, nel lungo periodo, un comportamento che, nel
suo complesso, sarà sicuramente conforme ai migliori interessi del soggetto che
la esercita. Nella prospettiva utilitaristica non c’è, dunque, conflitto tra
autonomia e beneficenza John Stuart Mill riteneva che lo stato non dovesse mai
interferire con la libertà dell’individuo, nemmeno per un suo presunto bene
oggettivo, ma solo per impedire danni a terzi.
Un’altra versione del
principio di autonomia, basata sulla nozione di «integrità», è offerta da
filosofo americano Ronald Dworkin, in contrapposizione alla tesi utilitarista,
da lui definita «evidenziale». Secondo Dworkin la tesi utilitarista
sull’autonomia non è condivisibile per il semplice fatto che il fine
dell’autonomia spesso non è affatto quello di proteggere il bene dell’agente.
Ci sono infatti delle persone che decidono in piena autonomia di sacrificare la
propria vita per gli altri, oppure, molto più semplicemente, ci sono molte
persone che fumano per una vita intera pur sapendo, fin dall’inizio, che fumare
non è nel loro migliore interesse. Talvolta chi agisce autonomamente contro il
proprio interesse viene persino lodato, se il suo è uno scopo altruistico. Per
queste ragioni il fine dell’autonomia deve essere indipendente dalla tesi
evidenziale secondo cui una persona generalmente sa qual è il suo migliore interesse
meglio di chiunque altro. E, sempre per queste ragioni, un demente può ben aver
diritto all’autonomia, anche se può sbagliarsi riguardo ai suoi migliori
interessi. Dworkin propone una concezione dell’autonomia basata sull’integrità,
piuttosto che sul benessere dell’agente che sceglie.
Ecco infatti come egli si
esprime: «Il valore dell’autonomia deriva dalla capacità che viene in tal modo
protetta: la capacità di esprimere il proprio carattere nella vita che si
conduce (valore, impegni, convinzioni, interessi critici così come interessi di
esperienza). Riconoscere un diritto individuale all’autonomia rende possibile
l’autocreazione. Permette a ciascuno di noi di essere responsabile di dar forma
alla propria vita secondo la propria coerente o incoerente, ma comunque
peculiare, personalità. Ci permette di condurre la nostra vita, anziché essere
trascinati da essa, cosicché ciascuno di noi possa essere, per quanto può
renderlo possibile uno schema di diritti, ciò che ha fatto di se stesso. La
concezione dell’autonomia basata sull’integrità (…) riconosce che le persone
fanno spesso scelte che riflettono debolezza, indecisione, capriccio o evidente
irrazionalità» Il limite delle due prospettive sopra esposte consiste
essenzialmente nel loro individualismo. In entrambe manca una considerazione
della dimensione relazionale della vita morale in cui il principio di autonomia
si
Inserisce.
1 R. DWORKIN, Il dominio
della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni di
Comunità, Milano 1994, p.
309.
Trascurando le
implicazioni intersoggettive dell’autonomia i neoutilitaristi e Dworkin hanno
perso di vista il significato originario che l’autonomia aveva acquisito nel
pensiero di Kant, il quale aveva per primo fornito un’autentica dignità
filosofica a questa nozione. L’autonomia a cui pensa Kant è infatti l’autonomia
di una persona razionale, che vuole liberamente la legge morale universale e
che dispone di ragioni morali universalizzabili per giustificare le sue
opzioni.
Kant lega la figura
dell’autonomia all’universalità della ragion pratica che si esprime
nell’imperativo categorico, ossia nella legge intesa come «fatto della ragione»
(Factum der Vernunft). Questo «fatto», però, non è inteso come un prodotto del
singolo e della sua ragione, così come avviene nella tesi dell’integralità
proposta da Dworkin, ma come un dato che la ragione deve assumere, ossia come
qualcosa che trova la sua origine in un ordine universale esterno ai singoli
individui empirici. Uno dei pilastri di questo ordine è l’uomo come fine, così
come si afferma nella seconda delle tre formulazioni della legge morale esposte
nella Fondazione della metafisica dei costumi: «Agisci in modo da trattare
l’umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre e
a un tempo come fine, e mai semplicemente come mezzo». Ma, se l’autonomia deve
esercitarsi guardando ad un fine, e se questo fine è anch’esso incondizionato,
allora non si può dire che l’autonomia sia assolutamente incondizionata. Per
Kant, infatti, noi siamo incondizionatamente autonomi solo al fine di trattare
incondizionatamente gli altri come nostro fine. Per questo non c’è, in Kant,
identità tra scelta individuale e scelta morale, e l’individuo non può mai
essere norma a se stesso. Il filosofo Tom Beauchamp, scrive, a questo
proposito, molto categoricamente che «ogni filosofia nella quale un diritto
all’autonomia individuale può legittimamente superare i dettami dei principi
morali oggettivi del dovere è aliena dalla teoria morale di Kant» La concezione
individualistica dell’autonomia, secondo Beauchamp, «non è quella di Kant.
È attribuita a Kant in
letteratura solo attraverso l’acritica confusione di un’ampia famiglia di idee
associate all’autonomia nella contemporanea filosofia morale e del diritto: i
diritti di libertà individuale e di privacy, la libera scelta, lo scegliere per
sé, l’essere una persona unica, creare una propria posizione morale, assumere
la responsabilità finale per le proprie idee morali, e simili»
Anche secondo Massimo
Reichlin, «la nozione contemporanea di autonomia ha (…) radici
individualistiche, rintracciabili in Hume, nella filosofia libertina e nella
concezione milliana della libertà»
Un secondo limite:
L’ipertrofia cognitiva
della nozione moderna di autonomia
L’autonomia a cui pensano
i moderni è un’autonomia intesa in senso cognitivo: è l’autonomia di un
soggetto adulto, sano, perfettamente in grado di intendere e di volere. Questa
autonomia, così sbilanciata sul piano cognitivo, fonda, secondo alcuni, lo
stesso concetto di dignità umana, quasi che non avesse più dignità chi, a causa
di qualche malattia psicoinvalidante, non fosse più in grado di garantire un
tale tipo di autonomia. Ecco che allora uno dei compiti più importanti per la
bioetica, oggi, consiste proprio nel mettere in discussione un’autonomia
viziata da una forte ipertrofia cognitiva, a partire dalla sfida lanciata al
pensiero dalle malattie neurodegenerative.
T. BEAUCHAMP, Suicide and
Eutanasia. Historical and Contemporary Themes, Kluwer
Academic, Dordrecht 1989,
p. 214.
M. REICHLIN, Autonomia e
responsabilità nella sfera procreativa, in Bioetiche in dialogo.
La dignità della vita
umana e l’autonomia degli individui, Zadig, Milano 1999, p. 182.
LE FORME DI DIALOGO
ALTERNATIVO PER VALORIZZARE LA DIGNITA’ DEL MALATO CON DIFFORMITA’
COMUNICATIVE.
Ho appunto prescritto
“Difformità” comunicative, non “Disabilità” comunicative, argomentiamo:
Dobbiamo destrutturare
l’idea che una forma dialogica alternativa che possiede il malato sia una
disabilità nella accezione di giustificazione del non diritto di dignità
essenziale del malato in quanto diverso dalla normale sanità – Si istaura
allora un dialogo alternativo tra curato e curante, si parla e si impara una
altra lingua, come l’inglese si adatta a parlare l’italiano con un italiano e
un italiano si adatta a parlare l’inglese con un inglese. Quando un italiano e
un inglese si incontrano e nessuno dei due è intelligente della lingua che non
è in lui innata, ovvero nel caso in cui l’italiano non conosca l’inglese e
l’inglese non conosca l’italiano, allora non può esserci interscambio culturale
e reciproca interazione conoscitiva e comprensione. Ma la povertà è insita
nella non intelligenza della lingua secondaria, non nella essenza della persona
che comunica in quella lingua – L’inglese pronuncia parole intelligenti
all’italiano, le cui parole intelligenti ed insieme l’intelligenza e la dignità
umana della essenza dell’inglese sono inintelligibili per l’italiano poiché
l’italiano non conosce la lingua inglese e viceversa se l’italiano pronunciasse
parole intelligenti all’inglese e nel caso in cui l’inglese non sapesse
l’italiano – giungiamo al punto della questione – Pensiamo al malato con
difformità comunicativa come se fosse l’inglese che pronuncia parole
intelligenti nella sua lingua – e al medico curante del malato come l’italiano
che conosce molto bene l’italiano (Nel caso del medico il corredo intellettivo-
culturale- esperienziale-attitudinale che gli appartiene) ma non conosce
l’inglese, l’italiano deve imparare l’inglese come il medico deve imparare il
linguaggio alternativo del curato –
Pertanto giungiamo alla
evidenza che la precarietà dialogica appartiene al curante e non è per questo
motivo che deve essere attribuita non dignità umana al curato che è
intelligente della sua lingua proprio come l’inglese è intelligente
dell’inglese. Ma estendiamo questa dinamica concettuale alla
contestualizzazione dialogico culturale tra diversi, in questo caso non è la
struttura di linguaggio, la lingua ad essere la variabile, bensì gli strumenti
conoscitivi-culturali ad essere la chiave variabile – La relazione dialogica
tra stoltezza-intelligenza – qui dichiareremmo allora che la stoltezza
dell’intelligente risiede nella non comprensione valoriale e qualitativa della
stoltezza dello stolto che è intelligente e saggio della sua stoltezza.
I malati terminali, i
malati affetti da malattie neurodegenerative, come ad esempio l’Alzheimer,
esprimono infatti un’autonomia non lineare, ma puntuale, un’autonomia del
momento, un’autonomia residuale. L’attenzione a questo tipo di autonomia
sviluppa in chi sta di fronte al malato una capacità di entrare
responsabilmente all’interno di sistemi di comunicazione differenziati, che
permettono di entrare in dialogo con il malato.
Ma come si fa, nel
concreto, ad entrare in dialogo con chi non può più parlare, per cogliere questa
forma residuale di autonomia? Quali modalità comunicative ci rimangono a
disposizione in questi casi?
1)Una prima risposta ce
la potrebbe dare una qualsiasi madre, perché ogni madre comunica intensamente
con il suo bambino, anche se il piccolo non è in grado di parlare. Se il
bambino piange, la mamma si rattrista con lui; se il bambino ride, la mamma
gioisce con lui.
La mamma sa ascoltare,
osservare, comunicare con le carezze, i baci, la mimica del volto. Il bambino
non capisce le parole della mamma, ma la mamma gli parla, perché comunica
attraverso il tono della voce, la dolcezza delle parole. Ma se la mamma fa questo
con il figlio piccolo, non può fare altrettanto questo figlio quando, divenuto
adulto, si trova ad accudire la madre malata? Non si tratta dello stesso tipo
di comunicazione?
Alcuni metodi di dialogo
alternativo.
2)Una risposta più
articolata ed approfondita potrebbe venire dai testi di alcuni medici e
psicologi che hanno studiato approfonditamente le modalità di comunicazione non
verbale con soggetti che si trovano all’inizio o alla fine della vita.
Penso, ad esempio, al
medico olandese, Frans Veldman, che ha ideato una pratica di approccio
psicotattile a cui ha dato il nome di “aptonomia”, cioè “scienza
dell’affettività espressa attraverso il contatto” (dal greco hapsis, “tocco” e
nomos, “regola”). Veldman utilizzava questa tipo di approccio per favorire le
relazioni tra i genitori ed il loro bambino, dal concepimento alla nascita,
sino al periodo post-natale.
Da poco meno di vent’anni
la disciplina ideata da Veldman è stata applicata con successo anche alla fase
finale della vita. Una delle più strenue sostenitrici dell’utilità
dell’approccio aptonomico anche alle fasi finali della vita è Marie de
Hennezel, autrice de La morte amica.
M. DE HENNEZEL, La morte
amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, Milano 1998.
Lezioni di vita da chi
sta per morire
Le analogie tra la fase
finale e quella iniziale della vita sono infatti evidenti: sono questi i
momenti in cui si è più fragili e vulnerabili, in cui la comunicazione e le
relazioni con gli altri avvengono prevalentemente od esclusivamente attraverso
il canale non verbale, in cui si ha più bisogno della cura e della presenza
attenta ed amorosa degli altri. Le percezioni sensoriali sono al centro
dell’affettività e l’affettività è amplificata nei momenti della vita in cui si
è più vulnerabili. Nelle persone allettate le capacità percettive si acuiscono
in modo del tutto particolare. Il contatto aptonomico, offrendo una conferma
affettiva al soggetto, gli consente di acquisire una “sicurezza di base”, che
mette in moto una serie di fenomeni psicofisici positivi, che possono
modificare anche la capacità di rispondere alle malattie e di vivere il tempo
del morire. Chi si pone al livello del malato è in grado di cogliere anche la
sua autonomia residuale, autonomia che il malato comunica essenzialmente
attraverso il linguaggio non verbale. Nella lingua tedesca esiste un
espressione molto interessante e ricca, che definisce molto bene questo tipo di
autonomia: “Die autonomie des Augenblicks” (L’autonomia del momento,
dell’istante. L’autonomia che si offre a tratti, in modo puntuale). Augenblick
(momento, istante, attimo), contiene in sé il termine “Blick”, ovvero sguardo,
occhiata. Augenblick, dunque, è il momento che gli altri possono cogliere con
lo sguardo, ma solo se il loro sguardo è allenato. Merleau-Ponty parla di una
sorgente di autonomia che non emerge da ciò che io sono capace di percepire, ma
dalla capacità che io ho di essere percepito. Allo sesso modo Paul Ricoeur
parla di una “attestazione”, di una fiducia, nel nostro poter fare, che consiste
nel riconoscimento e nell’approvazione che ciascuno di noi riceve da se stesso
e dagli altri. Dunque, esiste una duplice fonte dell’autonomia: c’è l’autonomia
che io riesco ad esercitare e c’è l’autonomia che gli altri mi riconoscono.
Questo discorso raffinato
dei filosofi trova riscontri nella pratica quotidiana e anche nelle vicende di
cronaca. Il caso Terry Schiavo, ad esempio, è il classico caso in cui si
confrontano e si scontrano tra di loro due diverse concezioni dell’autonomia.
Da un lato l’ex marito faceva riferimento ad una volontà espressa in un lontano
passato, quando Terry era nel pieno delle sue capacità cognitive. Dall’altro
lato c’erano i genitori, che facevano appello ad una diversa autonomia, che
Terry esprimeva attraverso lo sguardo, il contatto fisico. Attraverso questa
autonomia residuale Terry diceva di voler rimanere in vita, protraendo quel
rapporto così intenso con i genitori che la accudivano. E allora a quale
autonomia occorre dare ascolto, a quella in cui si esprime l’identità personale
attuale, o a quella espressa da una identità personale che non appartiene più a
quella persona? È possibile che una persona venga condannata a morte per una
sentenza emessa da un’altra persona che non è più lei, e con cui lei non è più
d’accordo?
La conclusione di quanto
osservato sopra è che il malato apparentemente privo di autonomia non è un
problema per se stesso, ma sono gli altri, che gli stanno accanto, che possono
diventare un problema per lui, nella misura in cui non lo considerano più come
una persona in grado di esprimere un autonomia residuale e come una persona
meritevole di rispetto, anche quando non dovesse essere più in grado di
percepire le ferite inferte alla sua autostima.
L’uomo, finché vive, è
sempre unità di anima e corpo. Noi siamo abituati a una rappresentazione sempre
contemporanea di tutto il corpo in tutta l’anima, ma ci sono invece degli stadi
di oblio dell’anima, in cui l’anima resta sullo sfondo e il corpo rinuncia a
parlare dei linguaggi, perché l’anima non gli è totalmente presente. Eppure
anche questa è unità di corpo e anima.
La nostra cultura,
purtroppo, ci porta ad una considerazione eccessiva per i fattori cognitivi.
Sembra che, quando una persona non è più in grado di esprimere pensieri e
parole (o non lo è ancora), essa non abbia lo stesso valore o non meriti lo
stesso rispetto di chi è in grado di esercitare queste facoltà. Alcuni
bioeticisti giustificano l’eutanasia, l’aborto e a volte persino l’infanticidio
anche in base al minor valore attribuito alla vita di chi non esercita capacità
cognitive e linguistiche
Quando ad una persona si
spegne il cervello, non per questo si spegne anche il cuore, perché il cuore si
perde solo con la morte.
}
Sitografia
http://www.provinz.bz.it/sanita/download/Turoldo-L-AUTONOMIA-NELLA-SALUTE-E-NELLA-MALATTIA.pdf
ESSERE SANI IN LUOGHI
FOLLI
BY DAVID ROSENHAN
{
Se la sanità mentale e la
follia esistono, come le riconosceremo?
Più in generale, vi è una
gran mole di dati contrastanti sull’affidabilità, l’utilità, e il significato
di termini come “sanità mentale”, “follia”, “malattia mentale”, e
“schizofrenia” (1 ). Infine, come già nel 1934, [Ruth] Benedict suggerì: la
normalità e l’anormalità non sono universali (2 ). Ciò che è considerato
normale in una cultura può essere considerato abbastanza aberrante in un’altra.
Perciò, le nozioni di normalità e anormalità potrebbero non essere accurate
quanto la gente crede che siano.
Sollevare domande sulla
normalità e l’anormalità non intende mettere in discussione il fatto che alcuni
comportamenti sono devianti o anomali. L’omicidio è devianza. Così come lo sono
le
allucinazioni. Né
sollevare tali questioni nega l’angoscia personale che è spesso associata con
la “malattia mentale”. L’ansia e la depressione esistono. La sofferenza
psicologica esiste. Ma
normalità e anormalità,
sanità mentale e pazzia, e le diagnosi che ne derivano potrebbero essere meno
sostanziali di quanto molti credono che siano.
Il nocciolo della domanda
se sia possibile distinguere tra i sani di mente ed i folli (e se sia possibile
distinguere tra loro i vari gradi della follia) è una questione molto semplice:
i tratti salienti che portano alla diagnosi risiedono nei pazienti stessi o
negli ambienti e contesti in cui gli osservatori li incontrano? Partendo da
Bleuler, e passando per Kretchmer, fino ai redattori del Manuale Diagnostico e
Statistico rivisto della Associazione Psichiatrica Americana, si è coltivata l’incrollabile convinzione che
i pazienti presentino sintomi, e che questi sintomi possano essere
classificati, e, implicitamente, che i sani di mente siano distinguibili dai
folli.
LA RECENTE CONFUTAZIONE
DELLA TESI SECONDO CUI “I sani di mente siano distinguibili dai folli.”
Recentemente, tuttavia,
questa convinzione è stata messa in discussione. Basata in parte su
considerazioni teoriche e antropologiche, ma anche filosofiche, giuridiche, e
terapeutiche, è maturata la convinzione che la classificazione psicologica
della malattia mentale sia, nel migliore dei casi, inutile, nel peggiore dei
casi addirittura dannosa, fuorviante e spregiativa. Secondo questo punto di
vista, le diagnosi
psichiatriche sono nella
mente dell’osservatore, e non sono validi riassunti di caratteristiche
manifestate
dall’osservato. NON SUSSISTE ANALOGIA ONTOLOGICA TRA LA PROSPETTIVA DEL
GIUDICANTE E LA ESSENZA DEL GIUDICATO.
UN METODO DI
DISCERNIMENTO TRA SANITA’ E
FOLLIA
Sarebbe proficuo, al fine
di stabilire quale [tra le due ipotesi] sia più accurata, far ricoverare in
ospedale psichiatrico
persone normali (ossia, persone che non soffrano, né abbiano mai sofferto, di
sintomatologie psichiatriche gravi) e poi stabilire se la loro sanità mentale
viene notata e, in tal caso, in che modo. Se la sanità mentale di simili
pseudopazienti venisse sempre rilevata, ci troveremmo di fronte a una prova
prima facie che una persona sana di mente può essere distinta dal contesto di
follia in cui si trova.
LA QUALITA’ DELL’AMBIENTE
La normalità (e
presumibilmente l’anormalità) è sufficientemente distinta da poterla
riconoscere ovunque la si incontri, dato che accompagna la persona. Se, d’altro
canto, la sanità mentale degli pseudopazienti non venisse mai scoperta, si
solleverebbero serie problematiche per i sostenitori del modello diagnostico
psichiatrico tradizionale. Dato che il personale dell’ospedale non era
incompetente, che gli pseudopazienti si erano comportati altrettanto
normalmente come quando erano fuori dal ricovero, e che non era mai stato
suggerito prima che sarebbero dovuti stare in un ospedale psichiatrico, un tale
esito inverosimile sosterrebbe l’opinione secondo cui la diagnosi psichiatrica
rivela poco del paziente, ma molto circa l’ambiente in cui vi si imbatte il suo
osservatore.
CONSIDERAZIONI PERSONALI
E TESI opposta a tale documento come COMPORTAMENTI ATTUALI PATOLOGICI DEGLI
ATTORI e simulazioni di sintomi di anormalità coincidenti e / o somiglianti e\o
analoghi alle devianze attitudinali relazionali iconiche appartenenti
all’ambiente clinico (Il documento a trattato dell’esperimento in cui gli
attori non abbiano adottato comportamenti patologici, bensì sani)
La simulazione di
attitudine normale e non anormale ha concorso nello smascheramento della sanità
mentale, tuttavia sarebbe veramente avvenuto tale smascheramento nella
possibilità in cui tali attori avessero simulato attitudini anormali
somiglianti alle qualità devianti dell’ambiente stesso? –
La finzione simulativa
proprio poiché realizzata sarebbe stata costitutiva della pluralità
esperienziale e percettiva del personale dell’ospedale – in aperta tendenza e
comprovazione di uno status di anormalità dell’attore sano e normale – pertanto
comprendiamo che si sarebbe realizzato uno switch di status di sanità passato
dell’attore ad uno stato di anormalità e di malattia – Pertanto si sarebbe
stimata di considerevole valore la dinamica di idiosincrasi anormale presente
dell’attore e meno la sua sanità passata
Un importante argomento è
come la variabile della abilità di simulazione incida sulla realtàontologica
del giudicato attore – La manifestazione di una attitudine deviante è la
essenza della persona attore nonostante il suo mindset velato sia in
dissociacione e in relazione di opposizione intenzionale con la attitudine? (Il
sano che simula la attitudine malata è sano o è malato? QUALE MISURA VALORIALE
ATTRIBUIAMO AL (PENSIERO O MINDSET) E QUALE MISURA VALORIALE ATTRIBUIAMO ALLA
ATTITUDINE, QUALE E’ LA GERARCHIA VALORIALE TRA PENSIERO E ATTO NELLA
ATTRIBUZIONE DI QUALITA’ ONTOLOGICA DI UNA ESSENZA: Chi ha una mentalità sana
ma tuttavia agisce una attitudine difforme rispetto al suo mindset, ovvero una
attitudine deleteriamente deviante si riconoscerebbe come deviato e malato. E
colui/colei che possiede una mentaità, una categoria di pensieri devianti e
malati ma attua iniziative attitudinali di normalità si riconoscerebbe come
sano – Perché? Perché l’atto puro del pensiero, qualunque sia la sua qualità, è
attitudinalmente neutrale – ovvero si rivela nella realtà con la immobilità
dialogica e corporea, ovvero con una inazione, e la inazione è neutrale. Allora
comprendiamo che la scelta medesima della simulazione è costituente della
qualità attitudinale e quindi della rivelazione del sé come sano o malato.
In misura delle abilità
di simulazione dell’attore è comunque difficile per l’osservatore essere a
conoscenza delle realtà di pensiero ed intenzionali coincidenti ed in relazione
con una data attitudine, è inoltre difficile comprendere se il pensiero sia antinonimico
o sinonimico alla attitudine.
Premettiamo che si può
agire in sincronia con l’atto del pensare.
La inazione può essere
fonte ontologica di malattia?
Ma ora dobbiamo
considerare il caso in cui il pensiero in relazione con la inazione e immobilità
sia fonte di attitudine deviante e malata, quando? Ad esempio in tutti i casi
in cui non si deve restare immobili, nei casi di istanti prioritari in cui il
pensiero sia distrazione. La attribuzione di malattia ontologica si prescrive
altresì in relazione agli effetti che la causa attitudinale inazione ha
implicato. Ad esempio una inazione che ha implicato gravi ferite ad una persona
– l’esempio iconico può essere l’investimento con una vettura.
Abbiamo pertanto
argomentato che lo smascheramento della sanità degli attori non sarebbe
avvenuto nel caso in cui gli attori avessero simulato negli ambienti di cura
attitudini insane, in quanto avariazione ontologica ed essenziale degli stessi
da persone sane a persone malate, le loro attitudini ne sarebbero state la
prova, nonostante la loro mentalità fosse rimasta sana.
Abbiamo allora
strutturato le tesi secondo cui:
Le diagnosi psichiatriche
sono nella mente dell’osservatore come qualità di percezione attitudinale del
curato (Indifferentemente dal mindset del curato se non in relazione tra
l’influenza del suo pensiero nelle sue attitudini)
Se, d’altro canto, la
sanità mentale degli pseudopazienti non venisse mai scoperta, si solleverebbero
serie problematiche per i sostenitori del modello diagnostico psichiatrico
tradizionale:
Nel caso prescritto la
sanità mentale degli attori pseudo pazienti non sarebbe stata scoperta – se
istituiamo la analogia tra il loro mindset sano e la suddetta sanità mentale
entrambe velate dal velo della attitudine insana dissonante e antinonimica
rispetto al loro mindset sano.
Tale esito si rivela
allora non inverosimile e sostiene l’opinione secondo cui la diagnosi
psichiatrica rivela poco del paziente, ma molto circa l’ambiente in cui vi si
imbatte il suo osservatore.
LA REALIZZAZIONE DI
QUESTO ESPERIMENTO
Questo articolo descrive
un simile esperimento. Segretamente, otto persone sane di mente hanno ottenuto
il ricovero in 12 diversi ospedali (6 ). Le loro vicissitudini diagnostiche
costituiscono i dati della prima parte di questo articolo, mentre il resto è
dedicato alla loro descrizione delle esperienze negli istituti psichiatrici.
Troppi pochi psichiatri e psicologi — incluso chi ha lavorato in simili
ospedali — si rendono conto di cosa voglia dire quest’esperienza. Raramente ne parlano
con gli ex pazienti, forse perché diffidano delle informazioni provenienti
dagli ex-matti. È probabile che chi ha lavorato negli ospedali psichiatrici si
sia così tanto adattato al suo ambiente da essersi
desensibilizzato
all’impatto con quell’esperienza.
E quantunque vi siano
state sporadiche relazioni di ricercatori sottopostosi al ricovero psichiatrico
(7 ), questi ricercatori sono generalmente rimasti negli ospedali per periodi
di tempo brevi, e spesso il personale ne era al corrente. È difficile sapere in quale misura furono
trattati come pazienti e non come colleghi ricercatori. Ciò nonostante, le loro
testimonianze dall’interno dell’ospedale psichiatrico sono state preziose.
Questo articolo estende quegli sforzi.
Gli otto pseudopazienti
costituivano un gruppo variegato. Uno era un laureando in psicologia sulla
ventina. I restanti sette erano più anziani e “affermati.” Tra di loro c’erano
tre psicologi, un
pediatra, uno psichiatra,
un pittore, ed una casalinga. Tre pseudopazienti erano donne, cinque erano
uomini.
Tutti usarono pseudonimi,
per evitare che le loro presunte diagnosi potessero causargli disagio in
seguito. I professionisti della salute mentale dichiararono un’altra
occupazione al fine di evitare trattamenti di riguardo da parte dal personale,
vuoi per cortesia o per prudenza, verso colleghi in difficoltà.
Oltre alle difficoltà
personali che lo pseudopaziente verosimilmente affronterà in ospedale, ve ne
sono anche alcune legali e sociali che, abbinatamente, richiedono considerevole
attenzione prima dell’ingresso. Per esempio, una volta ricoverato in un
istituto psichiatrico è difficile, se non impossibile, essere dimessi con breve
preavviso, nonostante la legge statale lo preveda. Al principio del progetto
non prestai attenzione a queste difficoltà, né alle emergenze personali le
situazionali che possono verificarsi, ma in seguito venne preparato un ordine
di habeaus corpus per ciascun pseudopaziente che veniva ricoverato e garantimmo
la reperibilità di un avvocato durante ogni ricovero. Sono grato a John Kaplan
e Robert Bartels per i consigli e l’assistenza legale forniteci in materia.
Tranne nel mio caso (fui
il primo pseudopaziente, e la mia presenza era nota all’amministrazione
ospedaliera e allo psicologo capo e, per quanto ne so, a loro soltanto), il
personale ospedaliero non era a conoscenza della presenza di pseudopazienti né
della natura del progetto di ricerca.
I setting, gli ambienti
Similmente, anche i
setting erano diversificati. Al fine di generalizzare i risultati, puntammo a
ricoveri in ospedali vari. I 12 ospedali del campione si trovavano in cinque
diversi stati della costa orientale ed occidentale. Alcuni erano vecchi e
malandati, altri erano discretamente nuovi. Alcuni erano orienta alla ricerca,
altri no. Alcuni avevano un buon rapporto tra personale e pazienti, altri erano
piuttosto carenti di personale. Uno solo degli ospedali era esclusivamente
privato.
Tutti gli altri erano
sostenuti da fondi statali o federali o, in un caso, da fondi universitari.
Dopo aver chiamato
l’ospedale per un appuntamento, lo pseudopaziente giungeva all’ufficio
ammissioni lamentando di aver udito delle voci. Alla domanda su che cosa gli
dicessero le voci,
rispondeva che erano
perlopiù poco chiare, ma che secondo lui dicevano “vuoto”, “vano” e “tonfo.”
Le voci erano estranee e
dello stesso sesso dello pseudopaziente. La scelta di questi sintomi fu
adottata per la loro apparente somiglianza con sintomi esistenziali. Si suppone
che tali sintomi derivino da dolorose preoccupazioni riguardo la percezione di mancanza
di significato della propria vita. È come se la persona allucinata stesse
dicendo, “La mia vita è vuota e vana.” La scelta di questi sintomi fu anche
determinata dall’assenza nella letteratura di qualsiasi menzione di psicosi
esistenziali.
Al di là della
proclamazione di suddetti sintomi, della falsificazione del nome,
dell’aspirazione professionale, e dell’attuale occupazione, non fu alterato
nient’altro della persona, la sua storia, e le sue circostanze. Gli eventi
biografici significativi degli pseudopazienti furono presentati come accaddero
realmente. Compatibilmente con suddette falsificazioni, i rapporti con genitori
e fratelli,
coniugi e figli, colleghi
di lavoro e di studio, vennero descritti così com’erano, o erano stati.
Raccontarono delle
proprie frustrazioni e turbamenti, così come delle gioie e soddisfazioni.
Questi fatti sono importanti da tenere a mente. Come minimo, hanno esercitato
una forte influenza sui risultati finali giocando a favore dello smascheramento
della sanità mentale, dato che nessuna delle loro storie o comportamenti
attuali era in alcun modo gravemente patologica.
Immediatamente dopo
l’ammissione al reparto psichiatrico, gli pseudopazienti smisero di simulare
qualsiasi sintomo di anormalità. In alcuni casi, vi fu un breve periodo di
lieve nervosismo ed ansietà poiché nessuno degli pseudopazienti credeva che
sarebbe stato realmente ammesso così facilmente.
In effetti, il loro
timore comune era che sarebbero stati immediatamente smascherati come impostori
e messi seriamente in imbarazzo. Inoltre, molti di loro non hanno mai visitato
un reparto psichiatrico e anche coloro che lo avevano fatto, nutrivano genuina
paura per ciò che gli sarebbe potuto capitare. Il loro nervosismo, quindi, era
appropriato alla novità della situazione
ospedaliera, e scemò
rapidamente.
A parte questo breve
nervosismo, gli pseudopazienti si comportarono nel reparto così come si
comportavano “normalmente”. Gli pseudopazienti parlavano agli altri pazienti e
allo staff nelle
maniere che gli erano usali.
Poiché in un reparto psichiatrico vi è insolitamente poco da fare, gli
pseudopaziente tentarono di intavolare conversazione con gli altri. Quando il
personale chiedeva loro come si sentissero, riferivano di star bene, che non
esperivano più i sintomi. Seguivano le istruzioni dagli operatori, rispondevano
alle chiamate per la terapia farmacologica.
Al di là delle attività
messe a disposizione dal reparto, passavano il tempo a scrivere le proprie
osservazioni sul reparto, i suoi pazienti e il personale. Inizialmente queste
note vennero scritte “in segreto”, ma poiché divenne ben presto chiaro che a
nessuno importava granché, furono in seguito scritte su fogli di carta standard
e in luoghi pubblici quali il soggiorno. Non venne fatto alcun segreto di queste
attività.
Gli pseudopazienti,
pressappoco come i pazienti psichiatrici veri, entravano nell’ospedale senza
una previsione di quando sarebbero stati dimessi.
A ciascuno di loro fu
detto che sarebbe dovuto uscirne con le proprie forze, essenzialmente convincendo
il personale che era sano di mente. Gli stress psicologici associati al
ricovero erano notevoli, e tutti, tranne uno degli pseudopazienti, desideravano
essere dimessi quasi subito dopo il ricovero. Erano dunque motivati non solo a
comportarsi in modo sano, ma ad essere modelli di cooperazione.
Che il loro comportamento
non fu affatto distruttivo è confermato dalle relazioni infermieristiche, che
ottenemmo per la maggior parte dei pazienti. Questi rapporti indicano
uniformemente che i pazienti erano “amichevoli”, “cooperativi” e “non esibivano
segni di anomalia.”
La Sanità dei Normali Non
È Individuabile
Nonostante
“l’ostentazione” pubblica di sanità mentale, gli pseudopazienti non furono mai
individuati. Tutti i ricoverati, tranne in un caso, con una diagnosi di
schizofrenia.
È interessante notare che
dei 12 ricoverati, 11 furono diagnosticati schizofrenici e uno, con la stessa
identica sintomatologia, come psicotico maniaco-depressivo. Quest’ultima
diagnosi, che ha una prognosi più favorevole, fu effettuata nell’unico ospedale
privato del campione. Riguardo le relazioni tra classe sociale e diagnosi
psichiatrica.
Vedi A. deB. Hollingshead
e F. C. Redlich, Social Class and Mental Illness: A Community Study (Wiley, New
York, 1958).
Il fallimento della diagnosi
nel reale esperimento è costituente delle tesi suddette.
L’ETICHETTA E LA
AGGETTIVAZIONE INESORABILE COME ATTRIBUZIONI DI GIUDIZIO DI MALATTIA ALLE
SANITA’ DEGLI PSEUDOPAZIENTI.
Ciascuno fu dimesso con
una diagnosi di schizofrenia “in remissione.” L’etichetta” in remissione” non
dovrebbe in alcun modo essere liquidata come una formalità poiché in nessun
caso, nel corso di ciascun ricovero, fu mai sollevato alcun dubbio circa la
simulazione di alcuni pseudopaziente. Né vi è
alcuna traccia nelle cartelle
cliniche che lo status dello pseudopaziente fosse sospetto. Piuttosto, è
fortemente comprovato che, una volta etichettato schizofrenico, lo
pseudopaziente rimaneva incastrato in quella etichetta.
Per poter essere dimesso,
naturalmente, lo pseudopaziente doveva essere “in remissione”; ma non era sano
di mente, né, dal punto di vista dell’istituzione, lo era mai stato.
Il costante fallimento
nel riconoscere la sanità non può essere attribuito alla qualità degli ospedali
dato che, nonostante vi fossero considerevoli variazioni tra loro, molti erano
considerati
eccellenti.
Né si può sostenere che
non vi fosse stato tempo sufficiente per osservare gli pseudopazienti. La
durate dei ricoveri oscillava tra 7 i 52 giorni, con una media di 19 giorni. In
effetti, gli pseudopazienti non furono sottoposti ad un’osservazione attenta,
ma questo fallimento dice più sulle consuetudini all’interno degli ospedali
psichiatrici che non sulla mancanza di opportunità.
IL VAGLIO ONTOLOGICO DEI
PAZIENTI FU PIU’ ACCURATO E VERO RISPETTO ALLA PROSPETTIVA DI GIUDIZIO DEI
MEDICI CURANTI. QUESTA REALTA’ E’ SOSTENITRICE DELLA LUNGIMIRANZA INTELETTIVA
DI CUI PUO’ UNA PERSONA MALATA.
Infine, non si può dire
che il mancato riconoscimento della sanità mentale degli pseudopazienti fosse
dovuto al fatto che non si comportavano in modo sano. Sebbene vi fosse
chiaramente una certo grado tensione in ognuno di essi, i loro visitatori
giornalieri non rilevarono gravi conseguenze comportamentali, così come non le
rilevarono neppure gli altri pazienti. Si rivelò normale che i pazienti fossero
in grado di “individuare” la sanità mentale degli pseudopazienti. Nel corso dei
primi tre ricoveri, durante i quali furono tenuti conteggi accurati, 35 dei 118
pazienti ricoverati nel reparto espressero i loro sospetti, alcuni
vigorosamente. “Tu non sei pazzo. Sei un giornalista, o un
professore (riferendosi
al continuo prendere appunti). Stai verificando sull’ospedale.”
Mentre la maggior parte
dei pazienti furono rassicurati dall’insistenza degli pseudopazienti riguardo
il fatto che erano stati male prima del ricovero, ma che ora stavano bene,
alcuni seguitarono a credere che lo pseudopaziente fosse sano di mente lungo
tutto il ricovero. Il fatto che sovente i pazienti abbiano saputo riconoscere
la normalità laddove il personale non ne fu in grado, solleva importanti
domande.
L’ERRORE DI TIPO 2
Il fallimento nel
riconoscere la sanità durante il ricovero può essere dovuto al fatto che i
medici operano con una spiccata tendenziosità verso quello che gli statistici
chiamano errore di tipo 2.
Ossia, che i medici sono
più inclini a definire malata una persona sana (un falso positivo, tipo 2) che
non a dichiarare sana una persona malata (un falso negativo, tipo 1).
Le ragioni di questo non
sono difficili da trovare: è chiaramente più pericoloso mancare una diagnosi di
malattia che non una di salute. Meglio sbagliare sul versante della cautela, e
sospettare la malattia anche tra i sani. Ma ciò che vale per la medicina non
vale altrettanto bene per la psichiatria. Le malattie mediche, per quanto
spiacevoli, non hanno
solitamente una valenza spregiativa. Le diagnosi psichiatriche, al contrario,
veicolano stigma personale, giuridico e sociale.
L’ESPERIMENTO INVERSO
Era quindi importante
verificare se la tendenza a diagnosticare la follia nei sani potesse essere
invertita.
Il seguente esperimento è
stato organizzato in una clinica per la ricerca e l’insegnamento il cui
personale aveva sentito parlare di questi risultati ma dubitava che un errore
del genere potesse verificarsi nel loro ospedale.
Il personale venne
informato che ad un certo punto, nel corso dei tre mesi successivi, uno o più
pseudopazienti avrebbero tentato di farsi ricoverare nell’ospedale psichiatrico.
Ad ogni membro del personale venne chiesto di
valutare ciascun paziente che si fosse presentato per il ricovero, o in
reparto, in base alla probabilità che il paziente fosse uno pseudopaziente.
Venne impiegata una scala di 10 punti, in cui un punteggio da 1 a 2 indica un
alto grado di certezza riguardo al fatto che il paziente fosse uno
pseudopaziente.
Ottenemmo valutazioni su
193 pazienti ricoverati per cure psichiatriche. Tutto il personale che era in
stretto contatto con i pazienti, o che rivestiva ruoli di responsabilità
primaria nei loro
confronti — inservienti,
infermieri, psichiatri, medici, psicologi — furono invitati a esprimere una
valutazione.
Quarantuno pazienti
vennero valutati essere pseudopazienti, con ferma convinzione, da almeno un
membro del personale. Ventitré furono valutati come sospetti da almeno uno
psichiatra.
Diciannove vennero
giudicati sospetti da uno psichiatra e da un altro membro del personale. In
realtà, nessun autentico pseudopaziente (quantomeno, non dal mio gruppo) si era
presentato durante questo periodo. L’esperimento è istruttivo. Indica che la
tendenza a designare come folli le persone sane può
essere invertito quando
la posta in gioco è elevata — in questo caso, il prestigio e l’acume
diagnostico. Ma che cosa si può dire delle 19 persone sospettate di essere
“sane” da uno psichiatra e
un altro membro del
personale? Queste persone erano veramente “sane” o si trattava invece del fatto
che, nel tentativo di evitare l’errore di tipo 2, il personale tende a fare più
errori del primo tipo —dichiarando “sano di mente” il pazzo? Non v’è modo di
saperlo. Ma una cosa è certa: qualsiasi processo diagnostico che si presta così
facilmente a enormi errori di questo tipo non può essere molto affidabile.
LA INESORABILITA’ E LA INFLESSIBILITA’
DEL PREGIUDIZIO
La Viscosità delle
Etichette Psicodiagnostiche
Al di là della tendenza a
definire sano il malato — una tendenza rende meglio conto del comportamento
diagnostico all’atto del ricovero rispetto al m desimo comportamento dopo un
periodo di prolungato contatto — i dati evidenziano il ruolo massiccio dell’etichettatura
nella valutazione psichiatrica. Una volta etichettato schizofrenico, non vi è
nulla che lo pseudopaziente
possa fare per
sconfiggere questa marchiatura. L’etichetta tinge profondamente la percezione
che gli altri avranno di lui e del suo comportamento.
LA MISURA DI ATTRIBUZIONE
VALORIALE COME PERCEZIONE DI IMPORTANZA ATTITUDINALE E DI RILEVANZA FATTUALE
VARIABILE IN UNA GERARCHIA DI ATTITUDINI – ALCUNE ATTITUDINI SONO STIMATE
SOGGETTIVAMENTE PIU’ RILEVANTI DI ALTRE – COSTITUISCE E DETERMINA LA
ETICHETTATURA E LA OGGETTIVAZIONE DELLA ESSENZA, IN ESSERE I GIUDIZI SUCCESSIVI
ALLA ETICHETTATURA SI FONDERANNO SULLE ATTITUDINI CONSONANTI CON LA QUALITA’
DELLA ETICHETTATURA E SARANNO TRASCURATE COME MENO IMPORTANTI E RILEVANTI LE
ATTITUDINI DEL GIUDICATO DISSONANTI CON LA ATTRIBUZIONE DI ETICHETTA –
NOMINIAMO QUESTA DINAMICA – IL GIUDIZIO IN ESSERE. – DIVERSAMENTE IL GIUDIZIO
IN DIVENIRE RIASSETTA E RIEQUILIBRA REITERATIVAMENTE I PRESUPPOSTI DEL GIUDIZIO
FONDANDO COME METRO DI GIUDIZIO NON LA ETICHETTATURA INESORABILE MA LA FACOLTA’
IN DIVENIRE SCORGENDO IN CIASCUNA ATTITUDINE IL GERMOGLIO DI UN NUOVO FIORE NEL
PRATO DELL’ANIMA ESSENZIALE.
Da un certo punto di
vista, questi dati non sorprendono affatto, perché è noto da tempo che gli
elementi traggono significato dal contesto in cui si verificano. La psicologia
della Gestalt ha
evidenziato energicamente
questo punto, e Asch ha dimostrato che ci sono tratti “centrali” della
personalità (come “caldo” rispetto a “freddo”) talmente potenti da colorire
marcatamente il
significato di altre
informazioni durante il processo in cui si forma l’impressione di una data
personalità . “Folle”, “schizofrenico”, “maniaco-depressivo” e “pazzo” sono
probabilmente tra i
più potenti di tali
tratti centrali.
Una volta che una persona
è stata definita anormale, tutti i suoi altri comportamenti e caratteristiche
saranno tinti da tale etichetta. Infatti, quest’etichetta è così potente che
molti dei comportamenti normali degli pseudopazienti furono completamente
ignorati o profondamente fraintesi. Alcuni esempi chiariranno questo punto.
Per quanto ho potuto
stabilire, le diagnosi non vennero in alcun modo influenzate dalla relativa
salute delle circostanze
di vita degli pseudopazienti. Piuttosto,
accadde il contrario: la percezione delle circostanze fu modellata interamente
dalla diagnosi. Un chiaro esempio di una simile
traduzione la si trova
nel caso di uno pseudopaziente che durante l’infanzia ebbe un legame stretto
con la madre, ma uno piuttosto distaccato col padre. Tuttavia, durante
l’adolescenza, e anche oltre, il padre divenne per lui un caro amico, mentre il
rapporto con la madre si raffreddò. Il suo attuale rapporto con la moglie era
tipicamente stretto e caldo. A parte occasionali battibecchi, l’attrito era
minimo. I bambini erano stati raramente sculacciati. Sicuramente non v’era
nulla di particolarmente patologico nella sua storia. In effetti, molti lettori
possono intravedere un modello simile nelle proprie esperienze, senza
conseguenze particolarmente dannose. Osservate, tuttavia, come questa storia fu
tradotta nel contesto psicopatologico —
quanto segue è tratto
dalla sintesi della relazione sul suo caso, preparata in seguito alle
dimissione del paziente.
“Questo maschio, bianco,
di 39 anni … manifesta una lunga storia di notevole ambivalenza nelle relazioni
strette, che inizia nella prima infanzia. Il rapporto caloroso con la madre si
raffredda durante l’adolescenza. Il rapporto distaccato con il padre è
descritto come diventato molto intenso.
La stabilità affettiva è
assente. I suoi tentativi di controllare l’emotività con la moglie ed i figli
sono punteggiati da scoppi d’ira e, nel caso dei bambini, sculacciate. E mentre
asserisce di avere molti buoni amici, si avverte una notevole componente di
ambivalenza anche in queste relazioni…”
LA FALSIFICAZIONE
PERCETTIVA DEI CURANTI
La dinamica è il
sacrificio della identità dignitosa del paziente in garanzia della dignità
carrieristica e considerazione sociale e tutela della superiorità ontologica e
di giustezza decisionale del soggetto giudicante medico come parte sociale che
svolge bene il proprio lavoro.
I fatti del caso sono
stati involontariamente distorti dal personale per renderli congruenti alla
celebre teoria della
dinamiche della reazione schizofrenica.
IN REALTA’
Nelle descrizioni dei
suoi rapporti con i genitori, la moglie, o gli amici, non riferì alcunché di
natura ambivalente. Nella misura in cui l’ambivalenza potesse essere dedotta,
non era probabilmente superiore a quella che si riscontra in tutte le relazioni
umane. È vero che le relazioni dello pseudopaziente con i suoi genitori erano
cambiate nel corso del tempo, ma in un contesto ordinario questo sarebbe a
stento degno di nota — anzi, potrebbe benissimo essere considerato prevedibile.
Chiaramente, il significato attribuito alle sue verbalizzazioni (cioè,
ambiguità, instabilità affettiva) fu determinato dalla diagnosi: schizofrenia.
Se il soggetto fosse
stato risaputamente “normale”, vi si sarebbe attribuito un significato
completamente diverso.
Se non venivano poste
domande agli pseudopazienti, come veniva interpretato il loro prendere appunti?
I rapporti infermieristici di tre pazienti indicano che la scrittura fu vista
come un aspetto del loro comportamento patologico. “Il paziente si intrattiene
in comportamenti di scrittura”
LA ASSOCIAZIONE
CONTESTUALE “ESSENZA APPARTENENTE AD UN AMBIENTE” E’ COSTITUDIVA DE REGIUDIZIO
“LA ESSENZA HA LE MEDESIME QUALITA’ DELL’AMBIENTE.” MA PUO’ NON ESSERE COSI’ E
PUO’ NON ESSERE VERO – UNA ESSENZA PUO’ ESSERE IDIOSINCRASICAMENTE DIVERSA
DALLE IDIOSINCRASI DELL’AMBIENTE IN CUI SI TROVA – IN QUEST CASO QUESTA ESSENZA
E’ UN AGENTE MODIFICATRICE DELL’AMBIENTE.
Poiché il paziente si
trova in ospedale, deve essere psicologicamente disturbato.
E dato che è disturbato,
la scrittura continua deve essere una manifestazione comportamentale di tale
disturbo, forse un sottoinsieme dei comportamenti compulsivi che a volte sono
correlati alla schizofrenia.
Una tacita caratteristica
della diagnosi psichiatrica è che essa individua le origini dell’aberrazione
all’interno dell’individuo e, solo raramente, all’interno del complesso di
stimoli che lo circonda. Di conseguenza, i comportamenti stimolati
dall’ambiente circostante vengono solitamente attribuiti erroneamente al
disturbo del paziente.
Per esempio, un
infermiera premurosa notò che uno pseudopaziente andava su e giù per i lunghi
corridoi dell’ospedale. (IL NERVOSISMO E’UN SINTOMO SCHIZOFRENICO) “Nervoso,
Mister X?» chiese lei. ”No, annoiato,” rispose lui.
LA DELEGA DI
RESPONSABILITA’ DELLE PERSONE DELL’AMBIENTE ALLA MALATTIA DEL MALATO IN ATTO DI
CAUSA DI UN SINTOMO DELLA MALATTIA
QUANDO LA FONTE DEI
SINTOMI NON E’ LA MALATTIA INTERIORE BENSI’ L’AMBIENTE ESTERIORE LA
RESPONSABILITA’ NON E’ DEL PAZIENTE MA DELLE PERSONE CHE INTERAGISCONO CON LUI
IMPLICANDO IL SINTOMO DELA MALATTIA.
Le annotazioni prese
dagli pseudopazienti sono colme di fraintendimenti del comportamento dei
pazienti da parte di membri del personale benintenzionati. Sovente, i pazienti
andavano “in
escandescenza” perché venivano
maltrattati, consapevolmente o meno, per esempio da un inserviente.
L’infermiere che giungeva sulla scena, raramente si informava, anche solo di
sfuggita,
riguardo gli stimoli
ambientali del comportamento del paziente. Presupponeva che l’arrabbiatura
derivasse dalla patologia anziché dalle sue attuali interazioni con altri
membri dello staff.
A volte, il personale
supponeva che lo scoppio d’ira fosse stato stimolato dai familiari del paziente
(soprattutto se erano venuti a trovarlo di recente) o dagli altri pazienti. Ma
in nessun caso si riscontrò mai un membro del personale che ipotizzasse che un
suo collega, o la struttura ospedaliera stessa, potesse avere nulla a che fare
con il comportamento di un paziente.
Le etichette
psichiatriche hanno una vita e un’influenza propria. Una volta formatasi
l’opinione che il paziente sia schizofrenico, l’aspettativa è che continuerà ad
essere schizofrenico.
Trascorso un lasso di
tempo sufficiente, durante il quale il paziente non ha fatto nulla di strano,
viene considerato in via di remissione e pronto per la dimissione. Ma
l’etichetta sopravvive alla
dimissione, portando con
sé l’aspettativa non confermata che egli si comporterà nuovamente come uno
schizofrenico.
Tali etichette, conferite
dai professionisti della salute mentale, hanno tanta influenza sul paziente
quanto sui suoi parenti ed amici, e non dovrebbe sorprendere nessuno che la
diagnosi agisce su ognuno di loro come una profezia che si auto-avvera.
Anche il paziente stesso
finisce con l’accettare la diagnosi, con tutti i suoi significati extra e le
aspettative, e si comporterà di conseguenza.
LA VARIABILITA’
NELL’EQUILIBRIO DICOTOMICO SANITA’-FOLLIA – IL COMPORTAMENTO COMPLESSIVO E’ UN
CONNUBIO DI OPPOSTI DI CUI TALVOLTA UN OPPOSTO SI MANIFESTA MENTRE L’ALTRO
RESTA LATENTE E VICEVERSA.
IL PREGIUDIZIO DI
ESTREMIZZAZIONE DI UNA SINGOLARITA’ TENUE (TENUITA’ DI MANIFESTAZIONE TEMPORALE
E TENUITA’ DI GRAVITA’ ATTITUDINALE )
LA OCCASIONALITA’ DI
MANIFESTAZIONE DI UN OPPOSTO NON DEVE ESSERE FONDANTE DI ETICHETTATURA
ESSENZIALE IN ANALOGIA CON TALE OPPOSTO
Le inferenze che possiamo
trarre sono abbastanza semplici. Così come Zigler e Phillips hanno dimostrato
c’è un enorme sovrapposizione dei sintomi presentati dai pazienti che sono
stati
variamente diagnosticati,
vi è anche una grande sovrapposizione dei comportamenti dei sani di mente e dei
folli. I sani non sono “sani” per tutto il tempo.
Perdiamo le staffe “senza
una buona ragione.”Talvolta siamo depressi o ansiosi, sempre senza validi
motivi. E ci capita di trovare difficile andare d’accordo con questa o
quell’altra persona — di nuovo, senza capirne il motivo.
Allo stesso modo, i pazzi
non sono sempre pazzi. In effetti, gli pseudopazienti, mentre vivevano con
loro, ebbero l’impressione che erano sani di mente per lunghi periodi di tempo
— che i
comportamenti bizzarri su
cui le loro diagnosi erano state presumibilmente costruite costituivano solo
una piccola frazione del loro comportamento complessivo. Se non ha senso
etichettarci come depressi cronici per via di una depressione occasionale,
allora servono prove più solide di quante ne abbiamo allo stato attuale per
etichettare tutti i pazienti come pazzi o schizofrenici in base a comportamenti
o ragionamenti bizzarri. Sembrerebbe più utile, come ha sottolineato Mischel
(17 ),
limitare le nostre
discussioni ai comportamenti, agli stimoli che li provocano, e alle loro
correlazioni.
È concepibile che quando
le origini di un comportamento, o gli stimoli che vi danno il via, sono remoti
o sconosciuti, o quando il comportamento ci sembra immutabile, subentra
l’etichettatura dei tratti verso colui che emette i comportamenti. Quando, d’altra
parte, le origini e gli stimoli sono noti e a portata di mano, il discorso è
circoscritto al comportamento stesso. Quindi, posso avere allucinazioni perché
sto dormendo, o posso averle perché ho ingerito una particolare droga. Queste
vengono rispettivamente denominate allucinazioni indotte dal sonno profondo, o
sogni, e allucinazioni indotte dalla droga.
Ma quando gli stimoli
delle mie allucinazioni sono sconosciuti, la si chiama follia, o schizofrenia —
come se, inqualche modo, questa inferenza fosse illuminante come le altre.
L’Esperienza del Ricovero
Psichiatrico
LA IGNORANZA IMPLICA
PERCEZIONE DI CAOS DI NONSENSE E SENTIMENTO DI PAURA
Il trattamento dei malati
mentali è considerevolmente migliorato nel corso degli anni. Ma mentre il
trattamento è migliorato, è dubbio che le persone considerino realmente i
malati di mente allo stesso modo in cui considerano i “malati fisici”. Una
gamba rotta è qualcosa da cui si guarisce, ma si presume che la malattia
mentale duri per sempre.
Il più recente e spiacevole
esempio di questa convinzione è quello del Senatore Thomas Eagleton.
[N.d.T.:] Thomas Francis
Eagleton (1929–2007) fu un senatore statunitense dal 1968 al 1987; nel 1972
divenne il candidato dei Democratici alla vicepresidenza, finché George
McGovern (all’epoca candidato dei Democratici alla presidenza) non scoprì che
Eagleton aveva taciuto riguardo ai propri trascorsi psichiatrici, e gli chiese
di dimettersi dalla candidatura. Prima della rivelazione psichiatrica, McGovern
aveva dichiarato pubblicamente di sostenere Eagleton “al 1000 percento.”
Una gamba rotta non intimorisce l’osservatore,
ma un matto schizofrenico? Vi sono una serie di prove che mostrano che
l’atteggiamento verso i malati mentali è caratterizzato dalla paura,
l’ostilità, il distacco, il sospetto e il timore.
Che tali atteggiamenti
infettino la popolazione generale forse non ci sorprende, ci infastidisce
soltanto. Ma che colpiscano anche i professionisti — inservienti, infermieri,
medici, psicologi e assistenti sociali — che curano e seguono i malati di mente
è più sconcertante, sia perché tali atteggiamenti sono palesemente perniciosi,
sia perché sono inconsapevoli. La maggior parte dei professionisti della salute
mentale ribadirebbe di essere comprensivo verso i malati di mente, e di non
essere né schivo né ostile nei loro confronti.
Ma è più probabile che le
loro relazioni con i pazienti psichiatrici siano caratterizzate da una
raffinata ambivalenza, e che la loro dichiarata propensione costituisca solo
una parte del loro atteggiamento complessivo. Gli atteggiamenti negativi sono
anch’essi presenti, e possono essere facilmente individuati. Simili
atteggiamenti non
dovrebbero sorprenderci.
Essi sono il prodotto naturale delle etichette indossate dai pazienti e dei
luoghi in cui questi si trovano.
L’organizzazione
gerarchica dell’ospedale psichiatrico è stata commentata in precedenza (20 ),
ma il significato latente di questa tipologia organizzativa merita ulteriori
commenti. Coloro che detengono più potere sono meno coinvolti con i pazienti, e
quelli che ne hanno meno sono più coinvolti con essi. Ricordiamoci, tuttavia,
che l’acquisizione dei comportamenti appropriati al ruolo avviene
principalmente attraverso l’osservazione degli altri, e che i più potenti hanno
un’influenza maggiore.
Di conseguenza, è
comprensibile che gli inservienti non solo trascorrano più tempo con i pazienti
di quanto non facciano altri membri del personale — come richiesto dalla loro
posizione
gerarchica — ma anche
che, nella misura in cui imparano dai comportamenti dei loro superiori,
trascorrano con essi meno tempo possibile.
I PRINCIPI RELAZIONALI
DELLA VALORIZZAZIONE ONTOLOGICA DEL PROSSIMO SONO L’INIZIATIVA DELL’INCONTRO
RELAZIONALE E IL DONO DI TEMPO RERLAZIONALE INTERPERSONALE.
Je suis le temps que je
te consacre. IO SONO IL TEMPO CHE TI DEDICO.
È da lungo risaputo che
la quantità di tempo che una persona trascorre con voi può essere indice
dell’importanza che vi attribuisce. Se ella avvia e mantiene il contatto
oculare, vi è motivo di credere che stia prendendo in considerazione le vostre
richieste ed esigenze.
Se per chiacchierare con
voi si concede una breve pausa, o si ferma con voi a parlare, vi sono ulteriori
motivi per dedurre che stia cercando di conoscervi.
CONTESTUALIZZAZIONE CON
IL LUOGO DI CURE PSICHIATRICHE
In quattro ospedali, gli
pseudopazienti approcciarono i membri del personale con una richiesta che aveva
questa forma: «Mi scusi, signor [o Dott., o Signora/ina] X, mi può dire quando
avrò diritto a spostarmi fuori dal reparto?” ( o “... quando verrò presentato
in occasione della riunione del personale?” o “... quando crede che verrò
dimesso?”). C’erano i presupposti per intavolare una buona conversazione con
loro. Il personale evitava il prolungamento del contatto avviato dai pazienti.
Di gran lunga, la loro reazione più frequente consisteva o in una breve
risposta alla domanda, proferita mentre
erano “indaffarati” e con la testa rivolta altrove, oppure nessuna risposta.
L’incontro spesso
assumeva la seguente forma bizzarra: (pseudopaziente) “Mi scusi, dottor X.
Potrebbe dirmi quando
avrò diritto a spostarmi fuori dal reparto?” (medico) “Buon giorno, Dave.
Come stai oggi?” (Se ne
va senza aspettare una risposta.)
È istruttivo confrontare
questi dati con i dati recentemente ottenuti alla Stanford University. È stato
affermato che le università grandi ed eminenti sono caratterizzate da docenti
così impegnati da non avere tempo per gli studenti.
Impotenza e
Depersonalizzazione
Il contatto oculare e
verbale riflettono preoccupazione e individuazione; la loro assenza, evitamento
e spersonalizzazione. I dati che ho presentato non rendono giustizia alla
ricchezza degli incontri quotidiani sviluppatisi intorno alla materia della
spersonalizzazione e dell’evitamento. Ho documentazioni di pazienti che sono
stati picchiati dal personale per aver commesso il peccato di dare il via al
contatto verbale. Durante la mia esperienza personale, per esempio, un paziente
fu picchiato in presenza di altri pazienti per aver avvicinato un inserviente e
avergli detto: “Mi piaci.”
A volte, la punizione
inflitta ai pazienti per le infrazioni sembravano così eccessive da non essere
giustificabili neanche dalle interpretazioni più radicali del canone
psichiatrico. Tuttavia, sembrava che non venissero messe in discussione.
Sovente, la pazienza era al limite. Un paziente che non aveva sentito la
chiamata per la distribuzione della terapia veniva rimproverato duramente, e
gli inservienti del mattino spesso svegliano i pazienti con un: “Muovetevi,
brutti fi___i di p____ana, alzatevi dal letto! ”
Né gli aneddoti né i dati
“solidi” sono in grado di trasmettere lo schiacciante senso di impotenza che
pervade l’individuo continuamente esposto alla spersonalizzazione dell’ospedale
psichiatrico.
Poco importa di quale
ospedale psichiatrico si tratti — le cliniche statali d’eccellenza e quelle
private di gran lusso si rivelarono migliori di quelle rurali e fatiscenti a
questo riguardo, ma, ancora una volta, le caratteristiche comuni agli ospedali psichiatrici
erano tali da mettere in secondo piano
le loro apparenti
differenze.
Il senso d’impotenza era
evidente ovunque. Con l’internamento psichiatrico, il paziente viene spogliato
di parecchi diritti giuridici (21 ). Viene privato della propria credibilità in
virtù della sua etichetta psichiatrica. La sua libertà di movimento è limitata.
Non gli è concesso di stabilire contatto con il personale, può solo rispondere
agli approcci da parte loro. La privacy personale è ridotta al
minimo. Qualsiasi membro
dello staff può entrare negli alloggi dei pazienti, ed esaminare i loro
possedimenti, per qualsivoglia motivo. La sua storia personale e la sua
sofferenza sono accessibili a qualsiasi membro del personale (spesso, anche ai
volontari) che decida di leggere la sua cartella clinica, indipendentemente
dalla loro relazione terapeutica con lui. Sovente, viene monitorato durante le
attività di igiene personale e di evacuazione. I gabinetti possono essere privi
di porte.
A volte, la
depersonalizzazione raggiunse proporzioni tali che gli pseudopazienti ebbero
l’impressione di essere invisibili, o per lo meno indegni di nota.
All’atto del ricovero, io
e altri pseudopazienti fummo sottoposti alle visite mediche preliminari in una
stanza semi-pubblica, dove i membri del personale svolgevano le loro attività
come se noi non esistessimo.
Nel reparto, gli
inservienti elargivano insulti — e a volte anche gravi abusi fisici — ad alcuni
pazienti, il tutto di fronte agli altri pazienti che assistevano alla scena, e
alcuni (gli pseudopazienti)
che trascrivevano il
tutto. Gli abusi, d’altro canto, cessavano bruscamente quando si sapeva che
stavano per arrivare altri membri dello staff. I membri del personale sono
testimoni credibili. I pazienti non lo sono.
Un’infermiera si sbottonò
la divisa per aggiustarsi il reggiseno di fronte a un intero reparto di uomini
che guardavano. Non dava l’impressione di voler essere seducente. Piuttosto,
non faceva caso alla nostra presenza. Accadeva che un gruppo di membri dello
staff indicasse un paziente nel soggiorno e discutesse animatamente di lui,
come se questi non si trovasse lì.
Un esempio illuminante di
spersonalizzazione e invisibilità si è verificato per quanto riguarda i
farmaci. Complessivamente, agli pseudopazienti furono somministrate circa 2.100
pillole, tra cui Elavil, Stelazine (triflupromazina), Compazine (proclorperazina),
e Torazina (clorpromazina), per citarne solo alcuni. (Che una tale varietà di
farmaci venisse somministrata a pazienti che presentavano sintomi identici è di
per sé degno di nota). Solo due furono inghiottite.
Il resto vennero o
intascate o gettate nel gabinetto. Gli pseudopazienti non erano gli unici a
farlo. Pur non avendo dati precisi su quanti pazienti gettavano via i farmaci,
gli pseudopazienti prima di gettare le proprie pastiglie trovavano spesso
farmaci di altri pazienti nel gabinetto. Fintanto che si mostravano cooperativi
il loro comportamento e quello degli pseudopazienti passava del tutto
inosservato in questi frangenti, così come in altri frangenti importanti.
Le reazioni degli
pseudopazienti a questa spersonalizzazione furono intense. Anche se erano
giunti in clinica come osservatori partecipanti ed erano pienamente consapevoli
della loro “non appartenenza”, si ritrovarono tuttavia imbrigliati nel processo
di spersonalizzazione, e a combatterlo. Ecco alcuni esempi: uno studente
laureato in psicologia chiese alla moglie di portargli in ospedale i suoi libri
di testo in modo da poter “recuperare con gli studi” — questo nonostante le
elaborate precauzioni intraprese per occultare la sua associazione
professionale.
Lo stesso studente, che
si era allenato a lungo per entrare in ospedale, e che aveva atteso con
entusiasmo l’esperienza, “si ricordò” di alcune gare automobilistiche a cui
voleva assistere nel fine settimana e insistette per essere dimesso in tempo.
Un altro pseudopaziente si mise a corteggiare un’infermiera.
Successivamente, informò
il personale che stava facendo domanda per l’ammissione alla scuola di
specializzazione in psicologia e che era molto probabile che sarebbe stato
ammesso dato che uno dei professori lo veniva a trovare regolarmente in
ricovero. La stessa persona iniziò a far psicoterapia agli altri pazienti —
tutto questo come un modo di diventare una persona in un ambiente impersonale.
Le Cause della
Spersonalizzazione. Quali sono le origini della spersonalizzazione? Ne ho già
menzionate due. In primo luogo sono gli atteggiamenti che tutti noi riserviamo
ai malati mentali — inclusi quelli che li hanno in cura — atteggiamenti
caratterizzati da paura, diffidenza, aspettative, da un lato, e intenzioni
benevole, dall’altro. La nostra ambivalenza conduce, in questo caso come in
altri, all’evitamento. In secondo luogo, e non del tutto separatamente, la
struttura gerarchica dell’ospedale psichiatrico facilita la spersonalizzazione.
Coloro che sono ai vertici sono quelli che hanno meno a che fare con i
pazienti, e il loro comportamento ispira il resto del personale. Il contatto
quotidiano medio con psichiatri, psicologi, residenti e medici, combinato,
variava da 3,9 a 25,1 minuti, con una media complessiva di 6,8 (sei pseudopazienti
su un totale di 129 giorni di ricovero).
Inclusi in questa media
sono il tempo trascorso nel primo colloquio dell’ammissione, nelle riunioni di
reparto in presenza di un membro del personale di alto livello, negli incontri
di psicoterapia di gruppo e individuali, nelle riunioni dedicate al caso
clinico e in quelle per le dimissioni. Chiaramente, i pazienti non trascorrono
molto tempo nel contatto interpersonale con il personale medico.
E il personale medico
funge da modello per infermieri e inservienti.
Probabilmente ci sono
anche altre fonti. Le strutture psichiatriche sono attualmente in gravi
ristrettezze finanziarie. La carenza di personale è pervasiva, i turni
lavorativi in straordinario. A
qualcosa si deve
rinunciare, e quel qualcosa sono i contatti con i pazienti. Tuttavia,
nonostante le tensioni finanziarie siano reali, si tende a sopravvalutarle. Ho
l’impressione che le forze
psicologiche che
determinano la spersonalizzazione siano molto più forti di quelle economiche, e
che un incremento del personale non apporterebbe un miglioramento delle
attenzioni verso i pazienti. La frequenza delle riunioni del personale e la
mole di annotazioni cliniche sui pazienti, per esempio, non sono state ridotte
nella misura in cui lo sono stati i contatti con i pazienti. Esistono priorità,
anche nei momenti difficili. I contatti con i pazienti non sono una priorità
importante nell’ospedale psichiatrico tradizionale, e le pressioni economiche
non hanno alcun ruolo in questo.
L’evitamento e la
spersonalizzazione, invece, potrebbero.
Il marcato affidamento ai
farmaci psicotropi contribuisce tacitamente alla spersonalizzazione convincendo
il personale che le cure sono a tutti gli effetti in corso e che ulteriori
contatti con i pazienti sarebbero superflui. Anche qui, tuttavia, bisogna
procedere con cautela nella comprensione del ruolo dei farmaci psicotropi.
Se i pazienti fossero in
una posizione di potere, anziché in una di impotenza, se fossero visti come
individui interessanti, anziché come entità diagnostiche, se fossero
socialmente significativi, anziché lebbrosi sociali, e se le loro angosce
suscitassero veramente e appieno la nostra simpatia e preoccupazione, non
cercheremmo dunque il contatto con loro,
nonostante la
disponibilità di farmaci? Se non altro, perché sarebbe piacevole?
Le Conseguenze dell’
Etichettatura e della Spersonalizzazione
Ogni volta che il
rapporto tra ciò che è conosciuto e ciò che deve essere conosciuto si avvicina
allo zero, tendiamo a inventare la “conoscenza” e a presumere di aver compreso
più di quanto in
realtà abbiamo compreso.
Sembriamo incapaci di riconoscere che noi semplicemente non lo sappiamo. Le
esigenze per la diagnosi e per la soluzione dei problemi comportamentali ed
emotivi sono enormi. Ma anziché riconoscere che ci stiamo appena imbarcando
nella comprensione, seguitiamo ad etichettare i pazienti “schizofrenici”,
“maniaco-depressivi” e “folli”, come se in quelle parole avessimo catturato
l’essenza della comprensione. I fatti sull’argomento sono che sappiamo già da
molto tempo che le diagnosi sono spesso inutili e inaffidabili, ma abbiamo
comunque continuato ad
usarle. Ora sappiamo di non essere capaci di distinguere la follia dalla sanità
mentale. È deprimente considerare come verranno utilizzate quelle informazioni.
Non solo deprimente, ma
spaventoso. Quante persone, vien da chiedersi, sono sane di mente ma non
riconosciute come tali nei nostri istituti psichiatrici?
Quante sono state
inutilmente spogliate dei loro privilegi di cittadinanza — dal diritto al voto
e alla guida a quello di gestire i propri conti?
Quanti hanno simulato la
follia, al fine di evitare le conseguenze penali del loro comportamento, e,
viceversa, quanti preferirebbero affrontare un processo che vivere
interminabilmente in un ospedale psichiatrico — ma vengono erroneamente
considerati malati di mente? Quanti sono stati stigmatizzati da diagnosi che,
per quanto formulate con buone intenzioni, sono tuttavia errate?
Riguardo a quest’ultimo
punto, rammentatevi ancora una volta che un “errore di tipo 2” nelle diagnosi
psichiatriche non ha le stesse conseguenze che ha nelle diagnosi mediche. Una
diagnosi di cancro rivelatasi erronea è motivo di festeggiamento. Ma le
diagnosi psichiatriche vengono raramente smentite.
L’etichetta resta
appiccicata, per sempre un marchio di inadeguatezza.
Infine, quanti pazienti
potrebbero essere “sani di mente” al di fuori dell’ospedale psichiatrico, ma
sembrano folli al suo interno — non perché la follia risiede in loro, per così
dire, bensì perché stanno rispondendo a un ambiente bizzarro, che può essere
esclusivo delle istituzioni che accolgono sub-persone? Goffman (4) chiama il
processo di socializzazione in tali istituti “mortificazione” — un’appropriata
metafora che comprende i processi di spersonalizzazione che sono stati qui
descritti.
E mentre è impossibile
sapere se le risposte degli pseudopazienti a questi processi siano
caratteristiche di tutti gli internati — essi, in fondo, non erano dei pazienti
reali — vien difficile
credere che questi
processi di socializzazione in un ospedale psichiatrico forniscano
atteggiamenti o
abitudini di risposta
utili per vivere nel “mondo reale”.
Sintesi e Conclusioni
È chiaro che non
riusciamo a distinguere i sani dai malati di mente negli ospedali psichiatrici.
L’ospedale in sé impone
un ambiente speciale in cui il significato del comportamento può essere facilmente
frainteso. Le conseguenze per i pazienti ricoverati in un simile ambiente —
impotenza, spersonalizzazione, segregazione, mortificazione, e
auto-etichettatura — sembrano indubbiamente anti-terapeutiche.
Neanche ora comprendo
questo problema abbastanza bene da poter concepire delle soluzioni.
Ma due punti sembrano
offrire speranze. Il primo riguarda la proliferazione di strutture comunitarie
per la salute mentale, dei centri crisi, del movimento per il potenziale umano,
e delle terapie comportamentali che, nonostante tutte le loro problematiche,
tendono ad evitare le etichette psichiatriche, a concentrarsi sui problemi e
comportamenti specifici, e a mantenere l’individuo in un ambiente relativamente
non spregiativo.
Chiaramente, nella misura
in cui ci asteniamo dall’inviare
le persone angosciate nei
luoghi folli, l’immagine che abbiamo di loro ha meno probabilità di essere
distorta. (Il rischio di percezioni distorte, mi sembra, è sempre presente,
visto che siamo molto più sensibili ai comportamenti e alle verbalizzazioni di
un individuo che non ai sottili stimoli contestuali che spesso li promuovono.
Ma qui si tratta di una questione di grandezza. E, come ho dimostrato, l’entità
della distorsione è eccessivamente elevata nel contesto estremo dell’ospedale
psichiatrico.)
Il secondo punto che
potrebbe rivelarsi promettente riguarda la necessità di aumentare la
sensibilità degli operatori della salute mentale e dei ricercatori riguardo la
posizione di stallo Comma 22 in cui vengono a trovarsi i pazienti psichiatrici.
La semplice lettura di materiale sull’argomento sarà di aiuto per alcuni di
questi operatori e ricercatori. Per altri, l’esperienza diretta
dell’impatto del ricovero
psichiatrico sarà di enorme utilità. Chiaramente, ulteriori ricerche sulla
psicologia sociale di simili istituzioni totali agevolerà il trattamento e
approfondirà la
comprensione.
Io e gli altri
pseudopazienti nelle strutture psichiatriche abbiamo avuto reazioni decisamente
negative. Non pretendiamo di descrivere le esperienze soggettive dei veri pazienti.
Le loro possono essere diverse dalle nostre, specialmente con il passare del
tempo e l’inevitabile processo di adattamento al proprio ambiente. Ma possiamo
parlare — e lo facciamo — attraverso gli indici,
relativamente più
oggettivi, del trattamento all’interno dell’ospedale. Sarebbe un errore
increscioso considerare che quello che ci è capitato sia riconducibile alla
malizia o alla stupidità del personale.
Al contrario, la netta
impressione che avemmo di loro è stata di persone che ci tenevano, che erano
dedicate e che erano spiccatamente intelligenti. Laddove hanno fallito, come a
volte è
dolorosamente accaduto,
sarebbe più corretto attribuire quei fallimenti all’ambiente in cui si sono
ritrovati anche loro, piuttosto che all’insensibilità personale. Le loro
percezioni e comportamenti erano controllati dalla situazione, piuttosto che
motivati da una predisposizione malvagia. In un ambiente più benigno, meno
legato alla diagnosi globale, i loro comportamenti e giudizi avrebbero potuto essere
più benigni e efficaci.
}
Sitografia
https://www.corsi.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid958500.pdf
Science, New Series, Vol.
179, No. 4070. (Jan. 19, 1973), pp. 250-258.
TRASCENDENZA ATTITUDINALE
IL MINDSET ALTERNATIVO E
IL VALORE DELL’EMARGINATO
“Si sta vicini per fare
miracoli, non per ripetere il mondo che già c’è, che già siamo.”
Franco Arminio
‘’ L’albero è di fronte
alla finestra della sala. Lo interrogo tutte le mattine: ‘’ Cosa c’è di nuovo
oggi?” ka risposta giunge senza esitazione, portata da centinaia di foglie:”
Tutto “.
Trascendenza, antitetico
al concetto di immanenza, deriva dal latino (“trans” + “ascendere” = salire al
di là) e indica la qualità di una realtà
concepita come ulteriore, “al di là”,
“esterna a...”, “non riconducibile a...” rispetto ad una realtà, al
quale si contrappone una visione
dualistica.
Secondo Edmund Husserl, la
coscienza è intenzionale, cioè si rivolge a oggetti che sono trascendenti
rispetto ai vissuti della coscienza medesima, ovvero sono al di là di essi: in
questo senso, trascendente è l’oggetto, il contenuto dell’atto che compie la
coscienza.
Karl Jaspers, il teorico
dell’esistenzialismo assume l’impossibilità per l’uomo di raggiungere l’essere
in sé, che rimane sempre al di là delle sue possibilità, tuttavia la coscienza
della realtà è una immagine speculare, rifratta e cangiante della realtà stessa
come l’immagine di una realtà riflessa sulle tenui e brillanti oscillazioni di
uno specchio d’acqua ravvivato dai lumi solari.
La luce, i cambiamenti ambientali come l’intensità dello zefiro che
riverbera la superficie dello specchio d’acqua, la qualità delle diverse realtà
(acqua e materia) sono le variabili che in questo esempio intervengono.
Noi siamo cangianti come
lo specchio d’acqua plasmato dall’ambiente, dallo spazio, dal tempo, tuttavia
in noi intervengono altresì le singolarità della memoria, del sentimento, delle
emozioni, dei sensi...
Simultaneamente siamo osservatori di noi
stessi e di realtà esterne che non possiamo conoscere nella qualità che è in
essere, bensì nelle qualità di immagini riflesse sullo specchio della nostra
coscienza plasmate dalle nostre singolarità. La trascendenza dell’essere si
rivela per l’uomo nelle situazioni-limite (Di profonda sensibilità) in cui le
nostre singolarità, il nostro pensiero, ogni nostro dualismo si risolvono in
olismo del reale, poiché in esse esperiamo lo scacco che subiamo nel tentativo
di superarle e di comprenderle. La trascendenza non è esistenza. L’esistenza
infatti sussiste solo in quanto c’è comunicazione e relazione; la trascendenza
invece è se stessa senza bisogno d’altro, è possibile la conoscenza della
trascendenza poiché si è trascendenza. NOSCE TE IPSVM.
Il/la Trascendente,
participio presente di “trascendere”, nel significato originario latino può
essere riferito a “colui che trascende”, che “passa il limite. ‘’
Assumere che la coscienza
sia intenzionale implica che senza volontà di coscienza, non può esservi
coscienza.
Secondo questa logica
assumono valore di senso i significati di incoscienza e follia. In onore di una
mentalità dualistica siamo abituati a definire la razionalità positiva e la
follia negativa, in verità al di là di questo giudizio di valore, la follia è
in verità una alternativa struttura mentale, la follia è la seconda struttura
mentale gemella della razionalità , è un mindset alternativo, un sistema di
valori dissimili e lontani rispetto ad altri, se una possibilità di valori è
dissimile rispetto ad un sistema di valori comunitariamente accolto e
strutturato, questo non implica che questi ulteriori valori possibili siano
negativi: inoltre considerando che la possibilità di diversità dei valori è
fondante la libertà di pensiero.
Coloro che viaggiano
molto sia nel tempo con la lettura, sia nello spazio (Incontro di nuove
culture) hanno forse riconosciuto il limite di pensiero locale e nella loro
coscienza lo hanno superato, incrementando i loro valori con altri dissimili
sino, forse, ad ottenere l’abilità di usufruire al bisogno di più di un unico
sistema di valori, ovvero di più di una struttura mentale.
La consapevolezza del
bene agire è fortemente dipendente dalla ricchezza di valori acquisiti e dalla
loro dissimilarità in quanto nell’atto di volontà si realizza un aumento di
possibilità di confronto tra valori, di ragionamento.
La ricchezza di valori
influenza la superficie della coscienza, la consapevolezza, tuttavia questa
variazione di limite di coscienza non può che avere altresì implicazioni più
profonde, incidendo sulle qualità di subconscio e istinto, incrementando la
sensibilità del singolo.
Una concezione positiva
della follia
Concludiamo che la follia,
nella sua accezione di struttura mentale caratterizzata da valori dissimili può
essere utile in relazione con la razionalità, la struttura mentale
caratterizzata dai valori primari, (i valori dell’infanzia, della tradizione
familiare e comunitaria) e fonte di creatività buona.
La relazione follia
- innovazione
La follia intesa come
innesto relazionale di valori dissimili rispetto ai valori già presenti è il
presupposto della innovazione sociale
La volontà di coscienza
come innovazione
Abbiamo assunto che senza
volontà di coscienza, non può esservi coscienza.
Coloro che non vogliono vedere, non vedono,
coloro che non vogliono ascoltare, non odono, coloro che non vogliono parlare,
tacciono: Sé stessi e gli altri, mai una azione è unilaterale, non possiamo che
essere sempre in relazione.
La volontà è una abilità
soggettiva e individuale caratterizzata pertanto dalla responsabilità delle
implicazioni della volontà.
Qualunque abilità
individuale è soggettivamente e intimamente plasmabile sin dalle sue origini a
priori, nel tempo nella sua velata elaborazione e a posteriori:
Evoluzione, stasi o
involuzione di volontà.
Essendo la coscienza un
atto intenzionale è il singolo a predefinire i limiti e le qualità dei sistemi
che originano la volontà.
Il bianco non è il nero,
secondo la singolarità del pigmento.
In termini di frequenze
di luce, il bianco è la presenza di tutti i colori ed è quindi un colore. Il
nero è al contrario la completa assenza di colori. In termini di pigmenti
invece il bianco è la completa assenza di un qualsiasi colore mentre il nero è
la somma di tutti quanti.
La possibilità di
contestualizzare ogni dualismo, ovvero caratterizzarlo secondo una singolarità
o un’altra è un valore aggiunto di utilità non indifferente. Prendiamo il caso
del bianco che non è il nero.
In verità è possibile
affermare che il bianco non solo sia simile al nero, bensì che il bianco sia
uguale al nero.
Prendiamo ad esempio
queste due texture 2D caratterizzanti le entità di bianco e di nero: siamo noi
a definire i limiti di volontà di coscienza.
Il giudizio è
psicologicamente relativo:
Semplicemente associando
al nostro giudizio di valore una singolarità dissimile rispetto a quella del
pigmento.
Come ad esempio:
Omogeneità, traslucenza,
trasparenza, luminanza, metallicità, opacità, rilievo, sensibilità alla
desatuzazione, struttura spaziale 3d, intensità e rarefazione, sfocatura,
nebulosità, regolarità ...
Possiamo attribuire al
bianco e al nero il giudizio di somiglianza o analogia.
Dire che il nero è simile
o uguale al bianco è vano?
Sì se arrestiamo qui il
nostro passo.
Dualismo, dicotomia,
antagonismo, dissidio, rivalità, implicano attitudini in cui necessariamente
una parte della realtà sarà sacrificata, con le conseguenze che il sacrificio
comporta: Nell’ideogramma jin - yang, lo jin e lo yang coesistono.
Tuttavia generalizzando
questa mentalità che è al di là del limite del dualismo vincolato e limitato da
una singolarità. Giungiamo ai primi albori dell’olismo hòlos, cioè «totale»,
«globale». Il termine olismo pone come chiave di volta il simbolo: concordia.
Quanti furono gli
scrittori che in passato consigliarono a noi di ‘vedere con gli occhi del
cuore?’ tra i molti Antoine de Saint-Exupéry.
Ken Wilber ed i teorici
della Spiral Dynamics considerano l’olismo come un particolare livello
transpersonale dello sviluppo umano, conseguente al livello sistemico o
integrale. Nella teoria della Spiral Dynamics, l’olismo è il livello più
avanzato di sviluppo umano finora documentato. Wilber vede anche livelli più
elevati, mistici.
Oltre l’idea “Non può
essere diversamente”
Il riconoscimento di una
singolarità buona, una lente che permetta di vedere oltre il limite del ‘non
può essere diversamente’ è una chiave etica che può aiutare ad affrontare con
resilienza e fiducia le realtà negative della vita in quanto abilità di
riconoscere il lume del buono e del bene in ciò che ci appare in qualità
oscure. Ad esempio soffriamo di una situazione di vita in quanto attribuiamo
una misura di valore estrema ad una singolarità della situazione, rispetto alle
altre di cui sovente nemmeno riconosciamo l’esistenza. Ritornando all’esempio
del bianco e del nero, giudichiamo la distinzione tra bianco e nero in quanto
attribuiamo il 100 per cento di rilevanza alla singolarità del pigmento e lo 0
per cento alle singolarità alternative che inizialmente non riconosciamo.
La mentalità olistica:
Come concordia nella relazione tra diversità essenziali
La mentalità dualistica
ha implicato l’abitudine alla competizione; poniamo attenzione a coloro i
quali limitano le proprie abilità in
onore delle attitudini altrui, essi sono coloro i quali sacrificano il loro
spazio di azione affinché le altrui iniziative possano simultaneamente fiorire.
Così comprendiamo che il
silenzio di una persona è la possibilità di parola per una seconda, la
timidezza di una persona è una occasione di relazionalità per una seconda
persona, l’abbaglio di una persona è l’opportunità di una seconda di mostrarle
fiducia o la sua disposizione al giudizio e al tradimento.
“Everything’s connected,
right?
Everything’s connected.
And even if I can’t read
it right, everything’s a message.
We die, so others can be
born. We age so others can be young.
The point o life is live.
Love if you can. Then pass it on.
We die, so others can be
born. We age so others can be young.
The point o life is live.
Love if you can. Then pass it on.”
Let them eat chaos, Kate
Tempest
“Ma solitude est une
condition necessaire de ta liberté.”
Il consiglio: “Ascolta il
silenzio. “ non è insensato, è in realtà una frase benefica, poiché implica il
dialogo con la coscienza di sé, ed una attività purificatrice dell’io, come
accade grazie alla lettura. La trascendenza può essere acquisita in quanto
consapevolezza autoreferenziale o “senza
pensieri” (Il potere di adesso. Eckhart Tolle)
‘’ If one wants to abide
in the thought free state, a strugge is inevitabile. If o è succeeds in the
fight and reaches the goal, the enemy, namely the thoughts, will all subside in
the Self and e isappear entirely. ‘’
Ramana Maharshi
Le attitudini olistiche
vanno in direzione della concordia, sono sovente altruiste e magnanime in
quanto pongono come valore principe la relazione, insieme agli enti che la
costituiscono: Olismo è pertanto volontà di incontro e accoglienza, iniziative
di apertura e curiosità.
È assolutamente rilevante
l’origine e la qualità dell’oro fluido del kintsugi affinché saldi con
resilienza i frammenti della ceramica, insieme ai singoli elementi del sistema,
le scaglie di ceramica che per quanto siano smussate, resterebbero separate e
disgiunte.
In onore delle parole di
Aldo Masullo si crede ad una realtà che disapprovi l’omologazione in quanto
peculiarità limitante la libertà di pensiero e attitudinale individuale, si
crede alle opportunità di relazione tra diversità in quanto spirito attivo di
creatività:
“Il sentire, il mio
vissuto è costitutivamente incomunicabile, perciò io lo dico incomunicativo,
non fatto per essere comunicato. Ma ciò che dà senso all’umano vivere, è la
cultura, l’operare insieme dei viventi, il comunicare tra loro con le opere, a
cominciare dalle lingue. Così le nostre solitudini si fanno compagne.
In un celebre testo
teatrale di Sartre, l’uomo dice alla sua donna: “vorrei proprio che fossimo
uno”; e la donna risponde: “se fossimo uno, come potremmo amarci?”.
L’insuperabile solitudine fa di ognuno un individuo. Così ci sono tante teste,
tante idee, tante passioni, tante volontà, tutte diverse. È il gioco del mondo
e la condizione della libertà. Altrimenti saremmo un tutto unico.”
LA DEVIANZA CONSISTE DEL
LIVELLO OLISTICO DELLA UNIVERSALITA’, OVVERO DI UN LIVELLO DI GERARCHIA
SUPERIORE RISPETTO ALLA MOTEPLICITA’ DEL GRUPPO SOCIALE, I GRUPPI SOCIALI SONO
DEVIANZE LOCALI SOTTOCATEGORICHE DELL’OLISMO UNIVERSALE CHE ABBRACCIA TUTTE LE
DEVIANZE – LE DEVIANZE PERSONALI INDIVIDUALI COME SANE NEVROSI SONO ULTERIORI
SOTTOCATEGORIE DELLE DEVIANZE DEI GRUPPO SOCIALI –
Il concetto di devianza è
oltre la località - le realtà spaziali in quanto a devianza di mindset – Ad
esempio vi possono essere persone che si trovano in diverse luoghi del mondo e
che tuttavia possiedono ad esempio il medesimo credo religioso.
La Dislocazione culturale
come possibilità di arricchimento interculturale. Sia dell’outsider, sia delgruppo sociale diverso
in cui e con cui l’outsider entra in relazione.
Dislocazione -
Spostamento di un componente da quella che sarebbe la sua posizione ritenuta
normale.
Il caso in cui una
persona o un gruppo culturale appartenente ad un gruppo sociale locale si
disloca dalla località spaziale di quel gruppo culturale – per entrare in una
località diversa con un mindset diverso – Le devianze rispettivamente del
gruppo sociale e dell’outsider entrano in relazione come percezione reciproca
di Novità culturale –
Le modalità di percezione
di novità di mindset deviante, difforme rispetto al mindset locale
caratterizzato come normale sono due – Accoglimento o rifiuto e le implicazioni
attitudinali sono in aperta relazione con queste due possibilità categoriali.
L’Annichilimento della
differenza o devianza
We destroy what we think
it’s difference
La prospettiva di
Durkheim sulla persona - Emarginato
Se la devianza è il
prodotto della tensione tra autonomia dell’individuo e la costruzione sociale,
ne consegue che per Durkheim:
“Non ci sarà mai una
società senza devianza. Anche laddove la costrizione è più forte, ci sarà
sempre qualcuno che si comporterà in modo difforme rispetto alle regole
socialmente condivise, proprio perché non potranno mai essere cancellate le
duplicità della coscienza (individuale - collettiva. Intima e esteriore.
Autoreferenziale e relazionale. Attiva, libera e passiva, autoritariamente
subita).
Inoltre, la devianza,
oltre ad essere un fenomeno ineliminabile e quindi normale, può essere utile
alla società: Senza devianza infatti, non ci sarebbe cambiamento sociale. Se
tutti si comportassero sempre in modo conforme, le rappresentazioni collettive
non subirebbero alcun cambiamento. Ma perché ciò non avvenga, occorre che
l’originalità individuale abbia la possibilità di emergere.”
Il limite morale della
devianza.
La premessa è che la
devianza non sia criminalità, la legittimità della valorizzazione del concetto
di devianza come sana nevrosi individuale è finché pensare differente non
diventi causa o attitudine fattuale di lesione fattuale.
LA DEVIANZA IMPERFEZIONISMO
RISPETTO ALLA NORMALITA’ DEL PERFEZIONISMO – I VALORI DEL FALLIMENTO E
DELL’ERRORE
Un concetto importante
ideato dall’astrologo Rob Brezsny: l’”imperfezionismo”. Serve a identificare
quel tipo di persone che non si lascia sopraffare dall’ansia del perfezionismo
e gode delle anomalie della vita.
Gli imperfezionisti
sanno, con Borges, che soltanto insieme al disordine la simmetria trova il suo
senso. ln altre parole, sanno che “perfetto” significa “chiuso”, e cioè “che
non lascia spazio” ad altri innesti.
E che, quindi, se vuoi
divertirti davvero devi imparare ad amare l’imperfezione.
Gli imperfezionisti non
escludono affatto la perfezione dalla loro vita. Semplicemente smettono di
cercarla nelle azioni e nelle persone. Non costringono più il mondo ad entrare
dentro le cornici: accettano che la penna dell’esistenza scriva anche (e
soprattutto) fuori dai bordi.
Sentono la perfezione
della Vita che si manifesta nella relazione tra le infinite imperfezioni.
Cercano e generano la
meraviglia degli “errori”.
LA DEVIANZA ANTIPATIA
RISPETTO ALLA NORMALITA’ SIMPATIA
“Rispettare le persone in
quanto tali, si può tradurre come “dare valore all’esistenza e alla libertà di
ciascuno di scegliere come essere”. Questo include l’accettazione e
comprensione dell’altr*, dei suoi limiti, opinioni e punti di vista, anche
quando sono diversi dai nostri. Si tratta quindi di un’azione che va attuata in
maniera attiva e consapevole, e sulla quale si basano i concetti di empatia e
uguaglianza.
Il rispetto è completo
quando si dimostra contemporaneamente verso l’altr* e verso sè stess* È importante tener conto anche dei propri
pensieri e bisogni, ed essere in grado di esprimere opinioni ed emozioni, senza
passività né arroganza. L’obiettivo non è la ‘vittoria’ di una parte, ma
l’equilibrio.
Quando manca il rispetto?
Quando ci crediamo
superiori, quando consideriamo la nostra opinione come l’unica giusta, quando
non ci mettiamo in discussione, quando imponiamo le nostre idee a chi ci
circonda.
Avere opinioni diverse,
avendo vissuto esperienze diverse, è non solo cosa comune, ma anche una
preziosa occasione per aprire la propria mente. L’obiettivo non è eliminare le
differenze, ma allenare la capacità di affrontarle e gestirle per il bene di
tutt*.
Howard Gardner parla di
Intelligenza Rispettosa come una delle intelligenze fondamentali per il
presente e futuro del lavoro e dei rapporti interpersonali. Si focalizza sulla
capacità di accettare e convivere con le diversità, trovando il modo per farle
cooperare efficacemente tra di loro.
Questo tipo di rispetto
si distanzia dal concetto di stima: se quest’ultima si intende come ammirazione
per alcun*, il rispetto andrebbe invece dato a tutt* senza considerare
simpatie.
L’educazione al rispetto
potrebbe quindi essere uno strumento necessario in un mondo di soggettività
uniche e interconnesse tra loro, che andrebbe insegnata fin da piccoli e messa
in pratica attivamente ogni giorno.”
Il dono di rispetto sia
alle persone antipatiche, sia alle persone simpatiche esprime una qualità
attitudinale olistica in quanto riassume la dicotomia simpatia-antipatia
nell’olismo patìa (derivato dal tema pat- del verbo greco pàtein ‘soffrire’)
comunemente indicante sentimenti e passioni reciproche costitutive della
umanità e naturalità e pertanto si risolve la distinzione tra percezione di
devianza e di normalità nelle universalizzazioni olistiche di umanità e
naturalità.
CIASCUNO DI NOI E’ UMANO
! Le universalizzazioni
olistiche “umanità e naturalità” risolvono e uniscono la dissociazione
dicotomica di normalità/devianza.
Universalizzazione – individuo
– ambiente
“A proposito del rapporto
dell’individuo con il suo ambiente, Nichiren Daishonin utilizza la metafora del
corpo e ombra:” L’ambiente è paragonabile all’ombra e la vita al corpo. Senza
il corpo non può esisttere l’ombra e
senza vita non c’è l’ambiente. Inoltre la vita è modellata dall’ambiente
e la vita modella l’ambiente.“ RSND,1, 574.
Ognuno di noi crede che
la propria vita sia limitata al corpo – La proprietà di avere luogo del nostro
corpo – e separata dall’ambiente – Ma ciò non è vero – La proprietà di avere
luogo relazionale della nostra essenza.
Ma il Buddismo insegna
che la nostra vita comprende la nostra famiglia, la società e il luogo in cui
viviamo e persino l’universo. (I concetti di sincronismo e di frattalismo nel
libro ‘Tesi’) Proprio come le isole sembrano separate una dall’altra ma in
fondo all’oceano sono parte della stessa terra, così le persone apparentemente
sono separate le une dalle altre e dall’ambiente che le circonda, mentre in
realtà sono parte della grande vita cosmica. Ciò significa che sebbene
percepiamo le cose che ci circondano come separate da noi, al livello
fondamentale della vita questa separazione non c’è.
Secondo il buddismo ogni
cosa è il riflesso della nostra vita interiore, anche le nostre relazioni. Allo
stesso tempo ogni cosa viene percepita attraverso il sé, e cambia a seconda del
nostro stato vitale. Per questo motivo, cambiando noi stessi cambia anche
‘ambiente.”
L’OLISMO NEL DUALISMO
DEVIANZA – NORMALITA’ E LE SOVVERSIVITA’ POSITIVE E NEGATIVE
L’INCONTRO DI DIVERSE
IDIOSINCRASI (DEVIANZE O SANE NEVROSI) SONO COSTITUENTI DELL’ACCRESCIMENTO E
MIGLIORAMENTO INTELLETTIVO
“E’ vero che nella storia
del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi spesso ai punti di interferenza
tra due diverse linee di pensiero. Queste linee possono avere radici in parti
assolutamente diverse della cutura umana, in tempi diversi e in ambienti
culturali diversi o di diverse tradizioni religiose; perciò se esse veramente
si incontrano, ovvero, se esse vengono a trovarsi in dinamiche di relazione
sufficientemente strette da dare origine a una effettiva interazione, si può
allora sperare che possano seguirne nuovi e interessanti sviluppi. ”
“Quando perdiamo il
diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi.” Charles
Hughes
Un mindset olistico è
costituito e costituente della unione della dicotomia e contrarietà concettuale
tra devianza e normalità.
La realtà è che la
variazione della località culturale prescrive che la medesima realtà sentita
come normalmente deviante in una singolare comunità locale sia sentita come
normalmente normale e non deviante in una diversa singolare comunità locale –
La flessibilità del
giudizio
La mente di ciascuna
persona essendo consapevole di queste due situazioni percettive in relazione di
diversità è in grado di unificare questa dicotomia in un olismo di pensiero –
Sicché i due opposti divengono un connubio che permette a queste persone di
vagliare con giudizio critico di paragone la realtà che osserva.
Primo caso: Normalità
dislocale => Devianza locale = Possibilità di mindset di normalità locale
In particolare nella
possibilità in cui tale persona si trovi localmente in un contesto in cui la
località culturale prescrive che una realtà sia comunitariamente sentita come
normalmente deviante, lei potrà avere influenze di normalizzazione della realtà
creduta deviante dalla comunità, confutandone i principi o smussandone la
radicalità comunitaria di giudizio sul tema stimato deviante mediante
decontestualizzazione – L’argomento della sua tesi si fonda sul “Vedere oltre”,
lei sosterrà: Io ho visto e conosciuto luoghi in cui questa realtà è giudicata
normale, e seguirà a descriverne le cause attitudinali e ad argomentarne la
validità.
Secondo caso: Devianza
dislocale => Normalità locale = Possibilità di mindset di normalità locale
In particolare nella possibilità
in cui tale persona si trovi localmente in un contesto in cui la località
culturale prescrive che una realtà sia comunitariamente sentita come
normalmente normale, lei potrà avere influenze di devializzazione della realtà
creduta normale dalla comunità, confutandone i principi di normalità o
smussandone la radicalità comunitaria di giudizio sul tema stimato normale
mediante decontestualizzazione – L’argomento della sua tesi si fonda sul
“Vedere oltre”, lei sosterrà: Io ho visto e conosciuto luoghi in cui questa
realtà è giudicata deviante, e seguirà a descriverne le cause attitudinali e le
implicazioni.
LE UNICITA’ DI MINDSET E
ATTITUDINALI IDIOSINCRASI SONO SINTOMI DELLA SANA DEVIANZA O SANA NEVROSI
Riflettiamo insieme sulla
possibilità che un psichiatra o uno psicologo nel momento in cui cura un/una
suo/a paziente riconosce IDIOSINCRASI attitudinali o di mindset analoghe tra la
persona malata ed una o più persone comunitariamente stimate sane che egli ha
incontrato e conosciuto nella sua vita.
“I sani sono malati che
non sanno di esserlo.
Salute è una parola che
non vi sarebbe alcun inconveniente a cancellare dal nostro vocabolario. Per
parte mia io conosco soltanto persone più o meno colpite da malattie più o meno
numerose, a evoluzione più o meno rapida.
La salute è uno stato
provvisorio che non lascia presagire nulla di buono.”
Jules Romains
Credo che sarei il
peggiore psichiatra immaginabile, perché capirei tutti i miei malati e darei
loro ragione.» (Emil Cioran - “Quaderni”)
“E quando in certe anime
particolarmente intelligenti e delicatamente organizzate balena l’intuizione
della loro molteplicità, quando, come fa ogni genio, esse infrangono
l’illusione dell’unità personale e sentono di essere pluriformi, di essere un
fascio di molti ii, basta che lo dicano e tosto la maggioranza le imprigiona,
ricorre all’aiuto della scienza, fa costatare la loro schizofrenia e protegge
l’umanità perché non debba ascoltare dalle labbra di questi infelici un
richiamo alla verità.”
Hermann Hesse Il lupo
della steppa
“Ero matta in mezzo ai
matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate
lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che
sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono
uscita.“
Alda Merini
Solo chi è sano di mente
può impazzire. Stanislaw J. Lec
Vedi Tesi “La teoria
della marginalità”
Ai matti perché nel loro
dolorifero geniale delirio non apprenderanno mai la pena di tanta insensata
normalità.
Davide Avolio
Come la pazzia, in un
certo senso elevato, è l’inizio di ogni sapienza, così la schizofrenia è
l’inizio di tutte le arti, di ogni fantasia.
Hermann Hesse
LA IDIOSINCRASI DI
DEVIANZA INTERPRETATIVA E LE DINAMICHE DI FALSIFICAZIONE DIALOGICO – PERCETTIVA
Lo sguardo che mira
sempre verso il prossimo e mai verso se stessi.
Se il dialogo è una
sequenza di parole, durante un dialogo ciascuna delle due persone partecipanti
attribuiscono a ciascuna frase e tonalità di espressione del dialogo
associazioni contestuali relative e arbitrarie - ciascuna parola o insieme di
parole risulta connesso ad un pensiero associativo e interpretativo che
risponde alla domanda individuale e soggettiva perpetuata nel tempo di
relazionalità dialogica:”Che cosa capisco?”
Auto inducendosi una
risposta di pregiudizio che è in relazione con le personali categorie di idee
contestuali risultanti dalla propria esperienza e inclinazione caratteriale
custodite nel personale ‘cassetto’ di mindset costitutivo delle personali ontologiche
realtà nevrotiche devianti sane - nel percorso conoscitivo, dalla pronuncia di
una frase di una persona esterna, o attitudine o semplice movimento del corpo,
alla percezione, al sentire vi è la mediazione del pensiero di coloro che
percepiscono che è in sé un valore aggiunto falsificante dell’atto puro della
persona che essenzialmente attua l’azione o pronuncia la frase –
la presunzione di
comprensione è una abitudine deviante la veridicità essenziale dell’atto e
della parola - la presunzione di comprendere pone il punto al percorso
conoscitivo fermandolo alla superficialità di dialogo, mentre la domanda e
curiosità approfondisce la quantità e qualità di singolarità contestuali
virando ogni falsificazione percettiva dalla arbitrarietà di percezione alla
coincidenza tra le arbitrarietà di pensiero di colei che attua l’azione e colei
che percepisce razione.
Per eludere il
fraintendimento è necessario tempo - non dedichiamo sufficiente valore al
secondo - dialoghiamo alla velocità della luce tanto da rendere caotico ed
incomprensibile il Senso olistico risultante dalla relazionalità.
E delle miriadi di parole
che pronunciamo, attribuiamo arbitrariamente e talvolta istintivamente il
valore di giudizio e le relazioni contestuali al buio della persona con cui ci
relazioniamo. Il buio crea disorientamento, e il disorientamento è strumento
vincolante il dialogo utilizzato da coloro che il dialogo lo vogliono
veicolare, la presunzione di superiorità dialogica è una devianza che danneggia
la reciprocità di valore umano fondante l’equilibrio reciproco di analogia
valoriale relazionale ed essenziale.
È proprio quando prima
del giusto tempo pensiamo - Ho capito - (e sovente non capiamo) che rendiamo
reale il pregiudizio e realizziamo la nostra falsificazione del prossimo che il
prossimo deve gestire e assimilare - il danno è quando fondiamo nuove realtà
dialogiche e relazionali sulla base della nostra falsificazione - facciamo un
passo verso la via della falsità e vi percorriamo altre miriadi di passi,
allora crediamo di vedere sempre più giusto e lontano mentre diventiamo ciechi
e realizziamo l’errore, basterebbe fare un passo indietro all’inizio, potrebbe
non bastare un passo indietro in seguito a molti errori interpretativi, ma il
percorso è individuale dello spettatore (e della persona che mediante il suo
essere comprova la non veridicità del pensiero del giudicante, non si tratta di
chiedere pietà al giudicante e non si tratta di Ottenere una gentile
concessione di seconda opportunità di chiarimento relazionale da parte del
giudicante, si tratta qui di argomentare la limitatezza come erroneità di
pensiero di coloro che scelgono di mettersi dalla parte del giudice
prescrivendo il falso ovvero che la loro soggettiva percezione sia la Verità
essenziale della persona da essi vincolata), La frase più pericolosa e dannosa
che possiamo pronunciare è “so chi sei,” E ciascuno di noi la pensa e la
pronuncia quotidianamente semplicemente aggettivando il prossimo. Ma la
aggettivazione che sia un gesto, un pensiero o una parola non è che la
dimostrazione della veridicità essenziale di coloro che agiscono l’attitudine
giudicante. (sovente maledicenti o mal pensanti). Allora non è detto che le
persone benedicenti siano benedette, ma sono benedicenti, non sono maledicenti
poiché sono maledette. Questo discorso non é solamente dialogico, bensì anche
attitudinale. E non è detto che le persone maledicenti siano essenzialmente
maledicenti, l’atto singolare non è la essenzialità della persona, il pensiero
che il singolare atto di una persona sia la persona stessa significherebbe
assumere “se conosco una stella conosco l’universo” se si vede una stella non si sa niente
dell’universo che è infinitamente più vasto della stella stessa.
II principio di
arbitrarietà e relatività decisionale, la singolarità attitudinale implicano
che sia vuota di senso e quindi priva di fondamento ogni assunzione di
superiorità personale fattuale e essenziale di una persona sul prossimo. In più
attribuisco alla autopercezione di superiorità e la relativa imposizione di
volontà di una persona sul suo prossimo la caratterizzazione di Nevrosi
relativamente a una forma di minoranza intellettiva in relazione a una
deficienza di umiltà e assenza di umanità in quanto annichilimento nel non
ascolto e considerazione della essenza e volontà del prossimo. Relativamente al
giudizio:
Un uomo un giorno
accorgendosi dei danni delle quotidiane maldicenze si impose di imparare la
sospensione del giudizio. Se non si dice non si può maledire disse un uomo.
L’istinto di negazione la
cui traduzione attitudinale è la pronuncia del no categorico e inesorabile non
è che l’implicazione immediata di una Nevrosi la cui caratterizzazione si
struttura su una base di Autostima di Superiorità provocata da una arbitrarietà
di giudizio (come abbiamo già visto) e pertanto moralmente infondata e tuttavia
avente implicazioni dannose come rilevanza fattuale di annichilimento attivo o
di attitudine passiva.
Una seconda radice
nevrotica che causa l’iniziativa di negazione può essere l’istinto di vendetta,
ovvero, l’influenza di un vento di odio che influenza una persona che ha
vissuto il rifiuto e che reitera l’attitudine del rifiuto nei confronti di
nuove persone adoperando a loro discredito un aggravio di colpa, ovvero in
risposta di alcuna attitudine negativa o in presenza di una attitudine negativa
non grave, la persona che vi risponde attua nei suoi confronti una attitudine
di qualità di gravità n volte superiore.
L’inversione dei valori,
molte delle nostre attitudini quotidiane sono il frutto della inversione dei
valori che è cosa umana.
La domanda “perché agire
cosi adesso” è fondamentale Perché sto pensando cosi? Ciascun pensiero è
fondante una attitudine. Riflettiamo sulla arbitrarietà e relatività di
pensiero capiremo che ciascun movimento di ogni singolo è il risultato della
sua singolarità e unicità.
Assumere che ciascuno
debba essere chiamato al dialogo è solo una faccia della medaglia delle
reciprocità che vuole valorizzare l’iniziativa come valore fondante il
movimento della relazione, ovvero la sua esistenza e vitalità stessa, la
seconda faccia della medaglia vuole dunque assumere che si chiami attivamente
al dialogo come automatismo secondo cui la relazionalità sia un sistema più
naturale e più abituale della iniziativa di solitudine e di silenzio.
Un secondo tema
importante è la libertà relazionale, tuttavia se l’equilibrio del dono di
libertà è sbilanciato la situazione relazionale degenera in uno sbilanciamento
di responsabilità relazionale - una
persona delega all’altra ogni libertà e
responsabilità assumendo dipende tutto da te - ed assumendo questo non si attua
che la realtà dell’abbandono è l’annichilimento della proprietà utile e buona
che chiamiamo collaborazione o
complicità.
Non lasciamoci soli, e
soprattutto cogliamo le situazioni di incontro non per procrastinare al futuro
(nulla) la relazionalità lasciandoci soli definendo ad esempio categorici
limiti di tempo per noi. Diamoci tempo ma non abbiamo troppa pazienza. La
pazienza radicale degenera in procrastinazione passiva la cui voce è l’inerzia.
LA IDIODINCRASI MNEMONICA
COME DEVIANZA ATTITUDINALE
Per chiarire questo
argomento basti pensare che quando dialoghiamo con le persone ricordiamo, il
nostro passato, miliardi di sentimenti, miriadi di esperienze connubiano in ogni
adesso la cui attitudine che vi agiamo è sincronicamente influenzata e deviata
da relazionalità assenti ma che sono state – Chiariamo questa dinamica
sincronica con la definizione: “CIO’ CHE E’ STATO E’” Questa frase ha valenza
filosofica e realtà lessicale – La realtà della esistenza della parola “E’”
connubia, appartiene, è abbracciata nella complessità reale della frase:”CIO’
CHE E’ STATO”.
Il sistema memoria come
sistema fondante la resurrezione essenziale di una assenza.
La rilevanza fattuale
globale di una essenza vitale è plasmabile finché la persona vive – assunto
questo, le attitudini percepite dalle persone che hanno avuto relazione con una
persona defunta assumono nuova realtà presente nel momento in cui tali persone
le ricordano e le ripresentano.
LA NORMALITA’ DELLA
FOLLIA COME EMISFERO STRUTTURALE DEL MINDSET OLISTICO DUALE UMANO –
(RAZIONALITA’) – (IRRAZIONALITA’ ISTINTIVITA’ EMOTIVITA’ SUBCONSCIO) – LE
DEVIANZE NEVROTICHE SONO CARATTERIZZANTI L’UNICUM DELLA ESSENZA.
La follia può essere
l’abilità intelligente di potere eludere o mistificare la realtà, possibilità
tale dall’essere garante dell’oltrepassare ogni impasse che la sola razionalità
non ti permetterebbe di sopravvivere e assimilare come nuova saggezza,
strumento attitudinale, capacità e consapevolezza.
Niente è un caso, la
complessità di ogni secondo ha senso, impegnarsi ad essere talmente perspicaci
e intelligenti da assimilare ogni relazione per raggiungere la consapevolezza
della complessità è importante, calcolare tutte le possibilità e stimare la
probabilità più elevata per raggiungere le possibilltà più esatte,
Relativamente alla varietà e alla variabilità delle possibilità, Perché non
pensiamo diversamente? Perché non agiamo diversamente? Forse saremmo stati più
sani e meno folle, Ma la distinzione tra sanità e follia è labile, sanità e
follia sono un connubio applicate alla relatività contestuale.
La scelta è unica tra la
varietà della possibilità - (tanto è che una delle Nevrosi più evidenti è la
astinenza decisionale, la procrastinazione) ed il fatto che scegli è
manifestazione della tua unica sfumatura di pensiero, la medesima vastità di
possibilità di pensiero di cui si è dotati è caratterizzante la nostra
flessibilità psicologica ed è relativa alla nostra unica storia e unicità
essenziale, i bambini possiedono più flessibilità di pensiero degli adulti, se
avessi scelto diversamente avresti avuto il medesimo mindset di coloro che
scelsero diversamente, e nel caso in cui essi siano la minoranza non c’è nessun
fondamento che pronuncia la veridicità del pensiero (il mindset della minoranza
è follia mentre il mindset della maggioranza è Intelligenza) riconosci che si
tratta di relatività di pensiero, pertanto ciascun pensiero e scelta attitudinale è simultaneamente sintomo
di sanità e di devianza. Non è possibile non pensare.
Il mindset è
caratterizzante la unicità essenziale di ciacuna persona ed è fondante il suo
olismo attitudinale – L’olismo del mindset individuale è il connubio nelle
variabili di spazio, tempo, qualità subconscie, abilità mnemoniche, percezioni
sensoriali, percezioni emotive, istintività, realtà immaginative oniriche,
percezioni della qualità dell’ambiente reale, ragionamento – Tali e altre
variabili sono costitutive delle sottocategorie sistemiche che nominiamo
devianze nevrotiche psicologiche sane costitutive della unicità di mindset
individuale che trovano rivelazione nella unica qualità di attitudine
individuale. La analogia strutturale essenziale sistemica del mindset individuale
decade di senso ogni presunzione di superiorità intellettiva di una persona su
una seconda persona. Si evince semplicemente l’incremento di potenzialità
abilitativa in una facoltà piuttosto che in una altra – ma tale variabilità non
è fondamento e criterio umano essenziale di superiorità essenziale –
Ad esempio – non ha senso
privilegiare l’intelletto all’intuito – Vi sono personalità che hanno elevato
le loro abilità intellettive razionali, (L’emisfero razionale)pensiamo agli
illustri scienziati o letterati – Vi sono personalità che hanno elevato le loro
abilità intuitive (L’emisfero emozionale intuitivo) – pensiamo agli illustri
saggi mistici – Ma arriviamo al punto – non ha alcun fondamento ontologico la
stima di misura valoriale essenziale degli uni rispetto agli altri – ma
estendiamo questa dinamica di ragionamento – annettiamo la categoria di coloro
che non hanno adottato alcuna attitudine al fine di elevare le loro
potenzialità intellettive – parliamo delle personalità di miseriae intellettiva
– allora perché non pronunciamo essi stessi personalità illustri?
I contadini non involvono
forse nell’atto del coltivare la resilienza intellettiva tale da ottimizzare il
rendimento della coltura? Sono essi
medesimi intelligenti – essi hanno ad esempio una resilienza alla tensione
lavorativa la cui qualità valoriale potrebbe non appartenere agli studiosi –
pertanto comprendiamo che la variabile contestuale di intraprendenza fattuale
premia analogamente chiunque istituendo una non gerarchia valoriale essenziale
e attitudinale. La vita è in sé valore essenziale pertanto decade di senso il
giudizio di minorazione valoriale nei confronti di coloro che realizzano della
inazione il loro valore esistenziale. Il valore personale essenziale è
intrinseco alla vita stessa di ogni persona, il valore essenziale non è
riducibile allo spirito di intraprendenza carrieristico, il valore essenziale è
indipendente dall’incremento del numero e della qualità di obiettivi da
raggiungere - la stima valoriale di ogni persona non è misurabile sulla base
dell’ottenimento di riconoscimenti sociali conseguenti ad attitudini
socialmente riconosciute buone e benefiche come il conseguimento degli studi,
ed il passo di ogni scalino varcato al superamento di ogni esame, come l’impegno
quotidiano lavorativo carrieristico.
Come l’arricchimento,
tutti questi ingredienti compendiano la situazione di vita di ciascuna persona,
non la sua essenza - la essenza si esplica nel termine - IO SONO, ed è relativa
al valore intrinseco di ciascuna vita, indifferentemente dalle aggettivazione
relative a questa essenza. Poniamo danno attribuendo misura valoriale
all’aggettivazione fraintendendola con l’essenza poiché in tal modo diamo
realtà a ciò che non è valore, al disvalore apparente, che percepiamo come
disvalore essenziale - allora finiamo a discriminare e a e arginare, istituiamo
la esclusività relazionale - assumiamo per esempio che la vita essenziale di
chi non studia vale essenzialmente di meno, che la vita dei poveri vale di
meno, che la persona avente differenza di pensiero è essenzialmente
disistimabile. Mi seguite?
La aggettivazione e la
attribuzione di una condizione di vita implica il giudizio valoriale in
relazione alla essenza personale ma non dovrebbe implicarlo poiché stiamo
giudicando la percezione soggettiva attitudinale non la essenza - in più la
aggettivazione implica due importanti gravi fenomeni - la delimitazione della
assenza: Sostenere - “ Lui/lei è _______ è” minorativo rispetto al
riconoscimento della essenza “ Lui/lei è.” poiché la aggettivazione determina
il riconoscimento di un solo lato del poliedro essenziale trascurando e
annichilendola gli altri. Una seconda grave implicazione della aggettivazione
percettiva è la falsificazione reale che il giudicante realizza semplicemente
osservando e costituendo della sua percezione (la percezione è una
falsificazione risultante da un giudizio in quanto a percorso conoscitivo
avente rilevanza fattuale creativa o distruttiva della essenza giudicata.
La aggettivazione come
percezione
La aggettivazione come
percezione adduce alla pura essenza dell’osservato il mindset (cultura, tempra
caratteriale, volontà egoistica, deresponsabilizzazione, delega, intento di
superiorità...) dell’osservatore che appunto falsifica mediante osservazione e
attitudine attiva la pura essenza dell’osservato.
In più a livello
dialogico si instaurano le dinamiche falsificanti della soggettiva attribuzione
contestuale - di ciascuna parola pronunciata l’ascoltatore attribuisce qualità
e rilevanza e misura valoriale arbitraria contestuale delle parole che ascolta
in più attribuendo ad esse valore di giudizio ‘essenziale’ di cui l’oratore
deve farsi carico e responsabilità, non delle parole che egli/lei pronuncia
bensì della percezione arbitraria e della variabilità di giudizio contestuale
dei suoi ascoltatori. Per concludere. La qualità valoriale della mia esistenza
è già data poiché semplicemente vivo, non in misura e in qualità della mia
intraprendenza o del raggiungimento o meno di obiettivi.
Rischieremmo di creare
ansie inutili - che oggi imperversano ovunque - adducendo che le persone
valgono per gli obiettivi che superano - non è così, immagino tutti coloro che
hanno tentato e non sono riusciti - essi probabilmente si sono sentiti falliti
perché la società ha innestato nelle menti il mindset dell’ambizione e della
competitività - tuttavia essi dovrebbero restare sereni e integri nella loro
essenza poiché il valore della loro essenza è di essi che nemmeno provano a
intraprendere le dinamiche sociali relazionali carrieristiche è immanente,
ILLIBATA e intrinseca al semplice battito del loro cuore e alle pulsioni
elettriche del loro cervello, ciascun cervello è intelligente e saggio in
quanto artefice di unicità attitudinali.
Nessuno è più
‘intelligente’, ciascuno è intelligente, semplicemente ciascuno vive secondo le
peculiarità conoscitive che gli appartengono ma in quanto al risultato
attitudinale non è vero che la qualità e la quantità di strumenti conoscitivi
di ciascuno implichino un valore personale maggiore.
Le persone la cui stima è
di povertà e miserevolezza mnemonico-conoscitiva possono essere ad esempio
moralmente più ricche e più disponibili alla gratuità dimostrando più valore
personale di ciò che li è attribuito, il risultato? Ad esempio lo stolto sul
livello mnemonico-intellettivo potrebbe essere estremamente intelligente sul
piano emotivo-sensibile-morale, ed essendo povero di una singolarità
(l’intelligenza mnemonica) realizza relativamente alla singolarità della
gratuità dimostrando inoltre buone qualità nella singolarità della
moralità. Perché l’inazione può essere
stimata valorialmente buona e benefica? Ad esempio in quelle dinamiche in cui
si agisce l’inazione e non la iniziativa di violenza interpersonale.
Ora si considera il
principio di autorevolezza decisionale sul prossimo, ciascuna complessità di
pensiero che in ogni istante esiste nella mente di ciascuna persona o a la
sequenza di attitudini che non possono che implicare un effetto decisionale sul
prossimo sono effetto di mindset di devianze nevrotiche sane, tutti giudicano
perché il giudizio è in sé una attitudine decisionale attiva, ma pochi sono
giudici giusti. La complessità di pensiero è un connubio di coscienza,
razionalità e subconscio la cui complessa combinazione rende un assurdo il
valore di autorevolezza decisionale e l’attività decisionale In quanto a
diritto di potere decisionale di un mindset su un secondo mindset.
In più il subconscio
aggiunge il principio di arbitrarietà caotica ad ogni attitudine decisionale.
Pertanto abbiamo compreso la delicatezza del tema del diritto di decisione
sulla vita presente altrui, ciascuno oggi si fa re del principio di
autorevolezza decisionale, si delibera sul prossimo con leggerezza
quotidianamente inesorabilmente, ciascuno dovrebbe riconoscere che non è un
caso che i giudici debbano essere persone con una solidità, flessibilità e
maturità di pensiero solo raggiungibile mediante anni di studio e di
esperienza, la superiorità eccelsa conoscitivo-mnemonico-morale non è uno
strumento di tutti non fingiamo che Io sia perché gli stolti che si fanno
giudici creano danni.
Una intelligenza è una
follia se annichilisce la esistenza di nuove mentalità, ciò che chiamiamo
intelligenza è una omologazione e standardizzazione conformista di una
maggioranza diveniente assolutista in quanto impositrice delle mentalità
alternative più fragili - ciò che nominiamo le Mentalità non sono che devianze
risultanti dall’annichilimento delle mentalità devianti più fragili, la fragilità
di pensiero in traduzione dell’inclinazione al credo di ciascuna maggioranza è
causata dalla non integrità di pensiero ovvero il mancato autoriconoscimento
della resilienza della personale autonomia di pensiero come sana singolarità di
pensiero e attitudinale indipendentemente.
Da cosa? Dalla gentile
concessione del mindset comunitario che prescrive il dovere di pensare una
realtà e non una sua possibile alternativa.
L’etica del pregiudizio
applicata alla passività attitudinale e alla delega di responsabilità
relazionale.
Il silenzio (due persone
sconosciute si siedono vicine su un prato. Ciascuna di loro delega la
relazionalità, nessuno parla, mentre ciascuno pensa “che antipatico/a lui/lei
che non mi rivolge la parola e i l saluto” Mentre colui/colei che sta pensando questo è lei/lui stesso
essenzialmente antipatico/a poiché restando in silenzio attua la medesima
negatività che critica nel prossimo. La delega di responsabilità è lo specchio
di una devianza caratteriale di aggressività passiva, di egoismo e mentalità di
superiorità.
La relatività di pensiero
o unicità inosincrotica di mindset
costitutiva della sana
devianza o sana nevrosi
La procrastinazione è una
scelta folle. Disse una persona. Ma un uomo compromise gravemente la sua vita
per un comportamento impetuoso, una seconda persona disse: Saresti stato più
sano se avessi pazientato e procrastinato”
“Niente è un Caso, la
complessità di ogni secondo ha senso, impegnarsi ad essere talmente perspicaci
e intelligenti da assimilare ogni relazione per raggiungere la consapevolezza
della complessità è importante, calcolare tutte le possibilità e stimare la
probabilità più elevata per raggiungere le possibilità più esatte.” Ad esempio
se pronunciate questo pensiero ad un laureato/a in filosofia o in matematica -
lei non vi attribuirebbe il giudizio di persona folle ma giudicherebbe il
vostro pensiero interessante e ne parlerebbe con voi valorizzandovi
approfondendo la relazione. Provate a parlare così ad un pescatore, egli vi
riterrà folle e vi allontanerà. Cosi voi siete sani e intelligenti per un
matematico o filosofo e folli per un pescatore. E non è esatto giudicare il
pescatore folle e il matematico sano.
Applicate la mentalità di
relatività di pensiero e di singolarità di sana devianza ad ogni pluralità
contestuale e raggiungerete una delle
consapevolezze più elevate possibili della nostra realtà. Parliamo della
marginalità di pensiero o limite di mentalità locale, chi ha viaggiato in più
continenti o chi legge comprende bene -
la marginalità limite di
mentalità locale, esso è un limite o devianza di inflessibilità e inesorabilità
che implica la auto imposizione di non ammissibilità di un mindset che non
coincide con il proprio o che dimostra orizzonti più vasti del mindset
personale riconosciuti come virus psicologici da eliminare, inoltre si può
riconoscere impermeabilità di pensiero (non contaminazione) nella
inflessibilità una indisposizione alla possibilità di cambiamento e nella
inesorabilità della limitatezza mentale ad imporre i propri vincoli di
pensiero nelle mentalità più aperte.
Tuttavia relativamente alla singolarità di sana devianza e relatività
contestuale possiamo attribuire lo status di follia e di sanità sia alla
Marginalità di pensiero, sia alla
illimitatezza di mentalità.
LA CRITICA DEL SISTEMA
MINDSET PURISTA
È palese che questo sistema è radicale e dispotico,
antidemocratico e nichilista in quanto annienta ed elimina spietatamente ogni
possibilità di voce alternativa e creativa rispetto alla pretesa ‘perfezione’
già data, questo sistema assume che una volta che si giunge all’ottenimento di
un dato livello di bontà o di perfezione, ciascuna realtà dissimile e avversa a
questa debba essere allontanata e eliminata; altresì nel mentre del processo di
realizzazione di realtà coerenti al sistema esso si dimostra dispotico poiché
esige che ciascun artefice della realtà desiderata compia esattamente la sua
parte utile al raggiungimento della meta perfetta; il sistema dunque non
ammette nessuna devianza di pensiero, nessuno spirito di originalità
individuale.
In tal modo imperversa la
stasi eterna, un’immobilità più forte di noi stessi che abitua al sacrificio
della diversità alternativa al modello di perfezione, del modello di movimento
e di cambiamento esteriore strutturante il pensiero, la stasi che purtroppo
talvolta assume il nome di inesorabilità.
La parola ‘inesorabilità’
assume senso logico in gemellanza con la parola ‘fine’, non dimentichiamo che
la vera fine della vita altresì relazionale e interpersonale non può che
esistere una sola volta.
La mentalità purista può
degenerare in una forma di psicosi di non contaminazione del pensiero, del
sentimento, dell’affettività questa struttura mentale ha come strumenti la
severa selettività, l’atto del diniego a priori, ovvero in assenza di rilevanti
cause, talvolta accompagnati dal mood caratteriale di ‘essere sulla difensiva ‘
e la ‘nonviolenza a priori’ con inclinazioni di egocentrismo e
autocommiserazione a priori e paura ingiustificate, maligne poiché sconvolgono
e travolgono l’equilibrio di reciprocità relazionale ponendo come polo positivo
estremo sé stessi e come estremo polo negativo il prossimo, talvolta in
mancanza di provate e consistenti premesse, la mentalità di ‘nonviolenza’ implica assenza di creatività relazionale, di
curiosità e di iniziativa verso il prossimo, queste attitudini si rifrangono in
coloro in cui è ancora vivido lo spirito creativo di apertura interpersonale a
poco a poco affievolendolo.
La mentalità purista può
implicare precarietà culturale e interpersonale in quanto inflessibilità,
staticità, indisponibilità di arricchire se stessi in grazia della relazione
con realtà devianti rispetto alla mentalità personale: La presunzione di
unicità di pensiero e di coincidenza del proprio pensiero con la verità (Che
talvolta può ritenersi coincidente con la verità ‘perfetta’ proposta o imposta
dal sistema purista) è inesorabile, è cieca di sé stessa, e dispotica nella
misura in cui soffoca prospettive più umili, essa inoltre è sterile, non può
che fermarsi a sé stessa poiché non ha confronto, non ha relazione.
Ne possiamo riconoscere
due chiavi di volta e di lettura nello spirito di originalità individuale e nel
confronto interpersonale.
“È probabilmente vero in
linea di massima che nella storia del pensiero umano gli sviluppi più fruttuosi
si verificano spesso ai punti di interferenza tra due diverse linee di
pensiero. Queste linee possono avere le loro radici in parti assolutamente
diverse della cultura umana, in tempi diversi e in ambienti culturali diversi o
di diverse tradizioni religiose; perciò, se esse veramente si incontrano, cioè
se vengono a trovarsi in rapporti sufficientemente stretti da dare origine a
un’effettiva interazione, si può allora sperare che possano seguirne nuovi e
interessanti sviluppi.”
Werner Heisenberg
I nostri limiti sono la
nostra opportunità di vivere in questi limiti e di rivalutare noi stessi per
cambiarli in meglio o per abbracciarli. Perché abbracciare i nostri limiti o
differenze (anche di pensiero) è l’opportunità di abbracciarci e soprattutto di
elevarci reciprocamente attraverso diverse conoscenze e realtà. L’imperfezione
di una realtà può velare la sua perfezione e compiutezza, così come la devianza
può velare la normalità.
“Se la devianza è il
prodotto della tensione tra autonomia dell’individuo e la costruzione sociale,
ne consegue che per Durkheim.
Non ci sarà mai una
società senza devianza. Anche laddove la costrizione è più forte, ci sarà
sempre qualcuno che si comporterà in modo difforme rispetto alle regole
socialmente condivise, proprio perché non potranno mai essere cancellate le
duplicità della coscienza (individuale - collettiva. Intima e esteriore.
Autoreferenziale e relazionale. Attiva, libera e passiva, autoritariamente
subita). Inoltre, la devianza, oltre ad essere un fenomeno ineliminabile e
quindi normale, può essere utile alla società.
Senza devianza infatti,
non ci sarebbe cambiamento sociale. Se tutti si comportassero sempre in modo
conforme, le rappresentazioni collettive non subirebbero alcun cambiamento. Ma
perché ciò non avvenga, occorre che l’originalità individuale abbia la
possibilità di emergere.”
Alla fine la premessa è
quella di avere la pazienza di conoscere la verità della realtà con cui siamo
in relazione, questa non è un’aspettativa passiva ma deve essere un’iniziativa
attiva di incontro, di domanda e curiosità; mai definire le realtà che
incontriamo, non pensiamo mai “è così” e “non può cambiare”, o “Non può essere
diverso rispetto al mio modo di vedere”, non crediamo ciecamente ai nostri
occhi, la verità è ancora lontana; un passo in più verso di lei ci avvicinerà.
Il cuore d’oro, nella
piramide di marmo, nel cubo di legno.
Disveliamo forme non
comuni della realtà.
L’umiltà di non sapere è
lo spirito della curiosità, la curiosità è altruistica in quanto volontà attiva
di incontro di realtà altre rispetto a noi stessi. Riflettiamo sulle
possibilità presenti e future di cambiamento, sii come uno scultore che
guardando un cubo in legno non pensa: “È un cubo, è solo un povero cubo di
legno, mi è indifferente, dunque non esiste, non cambierò mai idea su di esso”.
Uno scultore che guarda
un cubo farà tutto il possibile per creare una statua - Immagina, il processo
di scultura è lento: All’inizio i materiali saranno ispidi, lentamente lo
scultore scoprirà il marmo che nasconde il legno, quindi il marmo attraverso
l’iniziativa creativa dello scultore mostrerà le sue forme raffinate: alla fine
egli potrà vedere del fu cubo di legno una piramide di marmo in verità soltanto
per la sua accogliente e plasmante volontà. Della piramide di marmo lo scultore
volle farne una sfera e nel mentre dello scolpire scorse le venature marmoree
celare una dorata luminescenza.
In grazia d’uno spirito
di curiosità egli perseverò nell’atto dello scolpire, egli vide un prezioso
lingotto d’oro che foggiò nella forma di un cuore.
Vivere significa altresì
non sopportare o negare la contraddizione tra noi e la diversità, poiché
ciascuna realtà che nella nostra vita è in relazione con noi non può che essere
diversità e somiglianza, mai analogia essenziale, rispetto all’unità dell’io
che vede, che ascolta, che tocca, che sente le variopinte, cangianti e
esteriori contingenze della realtà. Abbracciamo le differenze: Non sono realtà
da curare e da conformare, ma le differenze hanno lo stesso valore delle realtà
che caratterizziamo normali. La realtà è una.
Non pronunciamo mai a
priori NO alle realtà che incontriamo, non pensiamo mai che la nostra
prospettiva sia la compiuta verità della realtà, non fermiamo noi stessi mai
alla nostra prima percezione, potremmo morire precocemente, dunque non
rinunciamo né alla nostra seconda idea, né alla terza, in questo modo nel
frattempo raggiungeremo la verità della realtà che stiamo cercando, la realtà
sarà più chiara, meno confusa, meno caotica poiché la avremo messa a
fuoco.
Se la prospettiva che si
vede si percepisce come flebile e sfocata non significa che non esista! La
ferma credenza della labilità altrui e la seguente certezza della propria
unicità e correttezza di pensiero è la prima ignoranza.
Siamo umani, siamo
animali, non macchine; quando ci incontriamo, nessuno di noi risponde
automaticamente a un comando: diamo il tempo di lasciare che le nostre
mentalità si abbraccino attraverso la curiosità e l’ascolto.
Nel frattempo guardiamo
il presente della realtà che sta cambiando con noi, mentre ascoltiamo, questa
realtà ci sta parlando, non può che essere così poiché il tempo della vita è il
tempo della relazione: il fiore sboccia anche in silenzio, anche se non ne
siamo a conoscenza, l’incontro è un istante solo, tuttavia può essere la
possibilità dell’irenico ritorno, la possibilità di avvicinarsi all’eterno,
poiché il due è più vicino dell’uno all’infinito.
Il dono della natura
risiede altresì nella parola possibilità di realizzare noi stessi ciò che è pensabile
e ciò che non può essere pensato, le realtà oniriche. Permettendo che la vita
non può che essere onnipresente relazionalità, L’atto del dare è
l’imprescindibile premessa del vivere di ciascuno, la vita non può che essere
dono: questa idea non può che condurci a riconoscere un velato significato
della metafora del fiore che sboccia anche in silenzio: Ad esempio l’apparenza
di una attitudine di inesorabilità può celare un dono di libertà. Siamo curiosi
di ciò che non è e saremo ricchi della conoscenza di ciò che può essere – Le
realtà velate oniriche ed ireniche sono in potenza reali, e divengono realtà
nella misura in cui crediamo nella loro esistenza: La speranza è la lente che
rende le realtà invisibili, visibili e le realtà definite, finite, inesorabili;
cangianti, risorte, vive. La fede, la fiducia sono dunque le premesse, non le
conseguenze dell’avverarsi dei nostri sogni.
C’è una reciprocità non
equilibrata, io vi tutelo e veglio su di voi - pensate miei cari tutti, per me
sono care sia le persone conoscenti, sia gli sconosciuti – Ora secondo
reciprocità mi attendo lo stesso da voi.
Pensiamo alla percezione
soggettiva della sofferenza in relazione alla relatività di percezione
attitudinale.
La dissonanza percettiva
in relazione a percezione di qualità valoriale dissimile rispetto alla qualità
valoriale di atto puro subito.
La percezione soggettiva
di una iniziativa subita che si percepisce come negativa, ad esempio una
persona può subire e vivere un trauma e burnout tanto grave da compromettere la
sua intera esistenza per una iniziativa subita che il colpevole può stimare una
sciocchezza.
Allora associamo la
negatività attitudinale all’immagine del vulcano che erutta, e si colpevolizza
sempre l’attitudine dell’eruttare del vulcano, mai i cataclismi delle
profondità del pianeta. (I cataclismi delle profondità del pianeta sarebbero in
relazione a questo contesto le miriadi di negatività che una persona ha vissuto
e che la sua essenza non è riuscita ad assimilare e perdonare)
Ebbene ciascuno di noi è
simultaneamente entrambe le immagini, ciascuno di noi può essere sia il vulcano
che erutta sia un cataclisma che ha implicato prima la implosività poi la
esplosività di essenze altre. E siamo soliti annoiarci delle fiammelle di un
vulcano che erutta, ma per fortuna che il vulcano è vivo, poiché poniamo
attenzione – i medesimi miriadi di cataclismi esplosivi sulla essenza di una
persona possono implicare altresì il suo annientamento, annichilimento – Qui
non si tratta delle implicazioni reali e vendicative della percezione di danno
subito – Bensì si argomenta che non è la misura della reazione, rivelazione
vendicativa del danno subito che è immagine speculare della crisi e sofferenza
e quindi della ingenza di danno che una persona vive – Il vulcano può essere
quiescente, ma ciò non implica e non legittima la lava di cui il vulcano stesso
deve farsi carico – NELLE DINAMICHE RELAZIONALI SI PARLA SEMPRE DI PERCEZIONI.
Vi sono persone che
tutelano e vi sono persone che rivendicano, ma la misura della tutela e della
rivendicazione sono un surplus caratteriale fortemente dipendente dalla qualità
essenziale della persona che subisce danno – mi spiego – talune persone
applicano vendetta di n volte più grave rispetto alla gravità di danno subito.
Talune altre tutelano e
perdonano agendo una buona falsificazione di gravità minorativa sulle spalle di
coloro che hanno agito nei loro confronti un grave danno (Percepito dalla parte
offesa e sofferente.) Ora.
Riflettiamo più
vastamente sulla bontà attitudinale nella dinamiche di reciprocità offensive e
di rivendicazione.
La bontà attitudinale e
la utilità relazionale si fondano entrambi sulla proprietà della creatività e
non della distruttività – Riflettiamo che coloro che pongono danno al prossimo
in verità pongono danno a loro stessi in realtà della perdita relazionale ed
essenziale della persona offesa. Diversamente la tutela e il perdono sono
agenti relazionali creativi e costruttivi implicando le dinamiche di guadagno
relazionale.
Argomentiamo ora della
dinamica dell’anonimato in relazione alla creatività positiva o negativa di
coloro che in anonimato, sulla base della codardia di non disvelare il nome,
operano opere buone o cattive alle spalle del prossimo.
Ora vagliamo le
attitudini in anonimato di opere buone – Di queste dinamiche non ho nulla da
dire se non il sentimento personale di premiare questi benefattori in quanto
artefici buoni di creatività valoriale di un loro prossimo senza che essi siano
riconosciuti come benefattori – essi sono coloro che maggiormente hanno
riconosciuto il concetto e la realtà del dono, ovvero puro valore aggiunto in
assenza di risarcimento proprio perché puro valore aggiunto.
In seconda analisi
argomentiamo delle opere in malafede e dannose operate in anonimato –
Qui assumono rilevanza i concetti di codardia, di
annichilimento di iniziativa attitudinale della parte offesa – La persona
offesa non può difendersi contro i fantasmi – tanto che vi possono essere due
dinamiche relative alle iniziative velate di danno a terzi –
La dinamica della
gradualità.
La dinamica della
gradualità annette l’insieme delle attitudini negative ‘deboli’, ovvero di
rilevanza fattuale non grave, ma persistente nel tempo – spontaneamente
pensiamo all’esempio della possibilità della maldicenza quotidiana a danno di
una persona offesa che dopo anni di silenziose maldicenze, risultanti da
percezioni utilitariste e falsificazioni fantasiose o di aggravio di attitudine
riconosciuta o di qualità essenziale della persona offesa, si ritrova ad essere
emarginata, esclusa poiché le quotidianità dialogiche delle altre persone hanno
intaccato la sua rispettabilità sociale.
LA DINAMICA DIALOGICA
DELLA MALDICENZA – LA ALIENAZIONE RELAZIONALE
Oggi persiste l’abitudine
di alienare il prossimo • alienare? Ma secondo qua e senso - distogliere •
alienare una persona da una seconda • perché per guadagnare tempo - o meglio
per annichilire il tempo del prossimo –
La banalità della
competizione prescrive il sacrificio dell’avversario. Chi è l’avversario?
Chiunque di cui si parla con la persona con cui si parla per tutelare il tempo
di relazione con lei stessa. La FIDUCIA di conoscenza è attribuita a coloro che
pregiudicano una terza persona nel dialogo tra due persone, raramente alla
terza persona stessa. E qui accompagniamo la codardia come valore principe, è
ora di fare decadere la codardia dal trono. É più semplice affrontare la
percezione apparente di chi non è che affrontare chi è? Risposta ovvia.
Si, Risposta benefica?
NO. Oggi sta succedendo che per conoscere una persona non incontriamo e non
parliamo con lei bensì parliamo di lei Con le altre persone. Ora. È una follia
la concezione secondo cui altre persone ci fanno aprire gli occhi su una
persona pregiudicata. Assumo categoricamente che ciascun singolo gesto,
ciascuna parola di persona giudicante una terza, sia artefice di falsificazione
di identità. La consuetudine mi consiglia che rare parole di bontà sono
pronunciate verso terzi. E questo non è che sintomo evidente di una immaturità
che vuole eludere qualsiasi personale responsabilità di danno morale a terzi
come vantaggiosa denigrazione della dignità e reputazione sociale.
Per tutelare chi non può
ascoltare chi viene aggettivato con malizia alle spalle, ho imparato a
ascoltare il vento da decenni, tutti ascoltano il vento e per nostra purezza e
umanità sogno il momento in cui il vento taccia.
Tuttavia da queste
dinamiche dovremmo riconoscere la palese maleducazione di coloro che agiscono
danno i quali rivelano la loro comunitaria povertà morale, così tutti gli
accusatori di un capro espiatorio si rivelano tanto più giustamente accusabili
del capro espiatorio stesso.
La dinamica della
gradualità implica sempre un gravità di rivelazione – Le attitudini negative
‘deboli’ velate si risolvono sempre in un risultato negativo ‘grave’ che la
persona offesa deve sostenere – Questa dinamica è assimilabile alla realtà
delle nubi che prima adombrano e annebbiano l’albero e poi del fulmine che
tronca l’albero: La dinamica elettrica insita nella creatività nuvolosa implica
una rivelazione esplosiva dannosa. Che nel caso osservato è la solitudine della
persona velatamente tradita - ma in casi
più gravi lo spirito rivendicativo graduale velato nei confronti della parte
offesa può implicare rivelazioni tuonanti ben più gravi.
Solitamente l’anonimato
si pone in relazione ad un furto di identità essenziale –
L’anonimo si fa nome
della parte offesa – tanto che diviene in potere parte decisionale della
persona offesa – Ma questa libertà non implica la superiorità essenziale
dell’agente danno bensì la sua bassezza morale giustamente perseguibile e
rivendicabile.
Dobbiamo avere il
coraggio di rivelare il nostro nome, di mostrare il nostro volto e dobbiamo
avere la saggezza di non farci nome di una persona che non è il nostro nome.
Perché la dinamica del
ghosting anonimato è dannosa – perché pone la parte offesa in uno status
ambientale buio, in cui non può avere potere di iniziativa attitudinale in
quanto incosciente di ciò che succede.
Maybe
The images of void are
sharpened by maybe, the main dissonance between mind and reality and the main
rescission between time and place, between what may be and what it is, what
will be, what it is the dream to be, and the possible or impossibile return of
what had been.
Non sapere che cosa sta
succedendo è una grave dissonanza cognitiva indotta in quanto induzione di
cecità relazionale. Questa situazione di nonsense ha importanti relazioni con
il concetto di ‘Sincronismo’. Riflettiamo. Come è possibile disvelare
l’anonimato in un ambiente percepito di corruzione essenziale della parte
offesa? La generalizzazione – Se non si sa chi, potrebbe essere chiunque – e
l’anonimato si risolve nella responsabilizzazione comunitaria del fatto
medesimo di avere indossato la maschera di anonimo. È giusto generalizzare ? La
giustizia della generalizzazione è garantita dalla veridicità della probabilità
della maggior quantità di persone agenti ghosting.
Contestualizziamo come
veleno nevrotico lo spirito di anonimata iniziativa e|o rivendicazione.
Tanto che la codardia di
ferire alle spalle una persona è una abitudine che si impara da adulti, i
bambini sono migliori, possono essere cattivi è vero, tuttavia sono innocui,
all’estremo lanciano la palla sul viso di un compagno, nulla di più - nulla a
che fare con i complessi meccanismi di annichilimento essenziale personale che
quotidianamente il mondo degli adulti si autoinduce. E poi dove si va? A
sorridere con altri uguali della presunta illibatezza attitudinale quando
sincronicamente si medita e si ricorda di tutti i tradimenti che si ha agito
nei confronti di più fragili e di meno fragili – coloro che provano a velare le
condotte negative e tuttavia proprio la impassibilità è la chiave per
riconoscere l’inverso della positività, ovvero le negatività.
Le misura e la qualità
della percezione di sofferenza subita conseguente ad una offesa è relativa e
soggettiva, non è omologabile e non è oggettivabile, vi sono persone più
resilienti e meno, persone che sanno
andare oltre e coloro che sono più fragili, pertanto la medesima azione
può avere conseguenze diverse su persone diverse, una azione che implica in una
persona uno stato di malessere e sofferenza transitorio se attuata su una
seconda persona più fragile può implicare realtà ben più gravi come traumi e
burnout psicologici. Inoltre la percezione di sofferenza è contestuale, una
persona può essere resiliente al 99% dei contesti e sensibile allo 0,1% dei
contesti, dunque se la qualità attitudinale della offesa coincide con il
contesto relativamente alla quale la persona è più sensibile lei viene ferita
gravemente.
Non è attribuibile a
nessuna persona la garanzia della
impermeabilità e resilienza relative ad una attitudine pertanto se la
sensazione risultante da una data attitudine si riconosce come fonte di
sofferenza dalla persona che la vive, indifferentemente dalla qualità della
attitudine, che ad esempio può essere stimata una leggerezza da coloro che attuano
l’attitudine, questa attitudine acquisisce la qualità di offesa e la persona
attuatrice di tale attitudine si ritiene essere dunque offensiva.
La accezione negativa
della inazione relazionale in relazione alla dinamica di abbandono in aperta
contrapposizione con l’idea di compartecipazione e di complicità relazionale:
La semplice inazione può
essere caratterizzata come fonte di aggressività passiva. Perché la inazione è
dedica di indifferenza – caratterizziamo indifferenza come attribuzione di
giudizio di – non – differenza – ovvero di una essenza che non induce rilevanza
fattuale nell’ambiente relazionale. Ovvero induzione di attribuzione di
annichilimento, annientamento essenziale.
Tuttavia non sempre è
cosi, l’inazione oltre al riflesso dell’indifferenza, può essere il risultato
di una mentalità più profonda che vede il dono di libertà come causa
dell’inazione, tuttavia se all’inazione si accompagna l’inesorabilità ovvero la
persistente e definitiva indisposizione al dialogo la inazione viene caratterizzata
come abbandono di cui raramente si parla e che tuttavia è una negatività che
può essere fonte di sofferenza.
Solitamente I’
aggressività passiva, ( se la persona che la subisce non è resiliente e se non
possiede la consapevolezza tale da comprendere, assimilare e perdonare, qualità
che ritengo io stesso di dimostrare di possedere,) può implicare aggressività
attiva pertanto dovremmo tutti riporre la nostra attenzione nella latente
nostra passività relazionale come soluzione della negativa causa prima di ogni
incomprensione.
L’emarginazione.
La relazione con la
fragilità, implica l’acquisizione della proprietà della flessibilità alla
nostra essenza - che cosa è stimata la fragilità in un sistema sociale fondato
sulla iperresilienza individuale? Una devianza, La fragilità non è resilienza,
il “non è” rispetto alla “normalità” della resilienza è caratterizzata come
devianza.
Un limite è che temiamo:
La devianza ed ogni sua realtà che riteniamo contestualmente deviante, non la
sfruttiamo come opportunità di arricchimento. Annichilendo la “devianza” della
fragilità rendiamo abitudinaria la finzione “lo sto sempre bene” creando una
grave dissonanza cognitiva indotta nei momenti legittimi e nelle situazioni
legittime di malattia, isolamento, ed in generale di fragilità, povertà
emarginazione.
L’outsider possiede una
prospettiva olistica del sistema sociale da cui è emarginato, poiché si trova
al suo esterno – La qualità di critica dell’ambiente sociale da cui l’outsider
è emarginato è una opportunità di cambiamento, di autocritica e di
miglioramento del sistema sociale grazie all’outsider. Queste premesse non
consistono in una accezione positiva dell’atto di emarginazione di un sistema
ambientale verso un emarginato – bensì argomenta il valore del mindset
dell’emarginato e come essenza valoriale il fondamento secondo cui una essenza
di valore non merita di essere emarginata . In atto di discussione la
possibilità di rivelazione futura di valore essenziale come fondamento del
merito valoriale presente.
Le catene della libertà esprimono una
eventualità di vita, favorevolmente accolta o subita (o accolta in seguito ad
essere stata subita) in cui il singolo è vincolato in una stasi di creatività
relazionale, il fatto stesso che i legami relazionali si scindano può al meglio
implicare in lui due meravigliose potenzialità reattive
(non consideriamo in
questo breve scritto le reazioni negative conseguenti allo stato di
emarginazione): la consapevolezza olistica e la creatività originale e
anticonvenzionale. Definiamo consapevolezza olistica la capacità di scorgere il
senso riassuntivo della realtà, la consapevolezza olistica è una capacità donata
a coloro il cui sguardo è lontano dalla realtà che si osserva, ( colui che da
un faro osserva all’orizzonte le onde della realtà) così da averne una visione
d’insieme consapevole di tutte le relazioni che la compongono, il contrario di
consapevolezza olistica è la consapevolezza imminente.
In questo caso
l’osservatore è egli/ lei stesso/a una delle miriadi di relazioni che
compongono quel microcosmo di realtà, (colui che vive le onde dell’oceano del
reale) secondo questa premessa non è possibile la comprensione di senso
generale necessaria all’agire consapevole. Poiché gli outsider sono carenti di
relazionalità, essi non sono dipendenti da esse, ne consegue che la loro
qualità di creatività non sia conforme ai rigidi principi dei sistemi
relazionali di cui non sono parte, la loro prospettiva, se viene riconosciuta
ed accolta, si può dunque ritenere il simbolo della fonte di possibilità del
cambiamento, in più è probabile che questo cambiamento sia in nome dei valori
della relazionalità, uguaglianza, (poiché sono state conosciute le conseguenze
della disuguaglianza) magnanimità (in grazia della consapevolezza olistica si
riconosce la propria umile limitatezza) altruismo:
È naturale che la persona
emarginata senta la necessità di divenire una utilità sociale al fine di
emendare i legami che furono scissi, a modo loro coloro che ebbero esperienza
di questa realtà vi riuscirono: gli outsider, i più memorabili scrittori,
matematici, artisti ebbero consapevolezza del significato della parola
emarginazione. Inoltre nella dialettica del reale l’emarginato emargina, questa
è una tra le cause dell’ impasse
dell’istaurarsi di nuove relazionalità tra l’emarginato e la realtà
emarginante.
Outsider
Chi opera in campo
letterario, artistico e sim. Al di fuori di ogni scuola o movimento.
Emarginato
Chi, per condizioni
sociali, economiche, fisiche, o per costume di vita, è o si sente messo al
margine dalla società, o escluso da una comunità, da un gruppo, dal suo
prossimo.
LA INTEGRAZIONE SOCIALE
E’ COSTITUTIVA DELLA IDENTIFICAZIONE E IMMEDESIMAIONE NEL PROSSIMO COMUNITARIO
– La relazionalità è costitutiva della strutturazione in divenire della essenza
persona.
WHEREVER YOU STAND, BE
THE SOUL OF THAT PLACE
Individuo => Persona.
“We crave the
satisfaction of having a position in society because we’re afraid of being
nobody.”
Jiddu Krishnamurti
Questo concetto è
radicale – ed irreale – in quanto la non appartenenza ad un sistema sociale non
implica l’annichilimento essenziale seppur è vero che la relazionalità
compendia la complessità del sé.
La stima valoriale della
Diversità (come considerazione della unicità individuale nella dinamica di
relazione interpersonale rispetto all’appiattimento di conformismo) rispetto
alla concezione di uguaglianza omologatrice.
Critica alla concezione:
“People of quality don’t fear equality.”
L’uguaglianza implica un
ridimensionamento innaturale della propria variopinta essenza sulla base dei
colori che percepiamo del prossimo – Uguaglianza presuppone –
Le devianze idiosincrasi
del prossimo devono essere le mie devianze idiosincrasi – Tuttavia questo
sistema, è un sistema fondato sula percezione – in quanto ad atto di
osservazione di una essenza che implica una falsificazione attiva della essenza
del prossimo che si presupporrebbe come metro di ridimensionamento del proprio
sé, pertanto vi è inconciliazione e labilità strutturale nel fondamento di
modifica di una essenza sulla base di una percezione superficiale. In più il
ridimensionamento implica una minorazione e una delimitazione o una estensione
delle facoltà individuali – o comunque la presenza di un termine di paragone
minorativo o estensivo delle facoltà individuali –
La variabile è la qualità
dell’ambiente e della persona con cui istituiamo l’omologazione – se ambiente e
persone possiedono idiosincrasi moralmente, attitudinalmente negative e
caratterizzate da povertà, inesorabilità, inflessibilità di pensiero, ambiente
e persone saranno impoverenti la individualità essenziale della persona
compartecipante alla omologazione, diversamente se ambiente e persone
possiedono idiosincrasi moralmente, attitudinalmente positive e caratterizzate
da ricchezza, apertura alla possibilità conoscitiva, plasticità di pensiero,
ambiente e persone saranno accrescenti la individualità essenziale della persona
compartecipante alla omologazione. Tuttavia la dinamica di omologazoine
presuppone sempre una minorazione di libertà. L’essere olisticamente noi stessi
nell’analogia tra il sé solitario ed il sé relazionale costituisce integrità
personale e focalizzazione e riconoscibilità del proprio sé costitutivi della
possibilità di riconoscimento della propria unicità in una molteplicità
relazionale – La molteplicità non considera coloro la cui essenza è nebulosa,
non immediatamente riconoscibile, non focalizzabile, e tale essenza si confonda
nella molteplicità omologandosi se non è in grado di esteriorizzare con tempra
caratteriale la sua diversità idiosincronica.
La focalizzazione del sé
implica la non omologazione del sé al sistema di molteplicità personali – In
tale dinamica la attività modificatrice del singolo sulla molteplicità ambiente
ha misura e qualità maggiori rispetto alla attività modificatrice che la
molteplicità ha sul singolo.
“Noi abbiamo diritto
della uguaglianza ogni volta che la nostra differenza ci pone in una situazione
di inferiorità e di disuguaglianza come noi abbiamo sempre diritto alla
differenza ogni volta che l’uguaglianza tende a spogliarci delle nostre
caratteristiche. ”
Abdallah Pretceille M.
(1996) Vers une pedagogie intercurulelle. Anthropos Paris
“La democrazia secondo
omologazione arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più
grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto
dell’Uguaglianza, che dispensa l’ignorante meno che d’istruirsi d’avere
prematuramente rilevanza fattuale di diritto decisionale sul prossimo.
Il diritto pubblico
fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché
non riconosce la sua Disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè
la fatica individuale: Culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento.
L’adorazione delle differenze si paga.”
Henri Frederic Amiel
Frammenti di un diario intimo 1871
“In the referendus, two forces are at work:
Numbers and knowledges. In the present model. The less educated form the
majority. This gives them an electoral benefit. The better educated, however,
receive more informative signals. This increases the value of their votes. If
pBn > p L (1- n), knowledge triumphs
numbers. Thus, the outcome of a referendum might benefit the minority at the
expense of the majority.
The extended Contorcet
model casts doubts on the idea of one (Wo)man, one vote. It shows that the
value of a vote of an educated citizen counts more than a vote of a less
educated citizen. Pb>p L ”
Regola giuridica:
Regola prescrittiva
eteronoma che impone una condotta specifica. Il comportamento è influenzato
dalla regola.
Le nuove regole
scientifiche falsificano quelle precedenti.
A differenza delle regole
scientifiche: Il fatto che una regola giuridica venga violata non falsifica la
regola giuridica stessa. La violazione della regola implica infatti
l’applicazione di provvedimenti civili o penali.
Regola morale
Regola che il soggetto
pone per se stesso in autonomia.
La relatività della
giustizia:
Le regole morali possono
essere in contrasto con le norme giuridiche.
La violazione della
regola può creare associazionismo ovvero essere un fattore di coesione sociale.
L’idea di giustizia delle
minoranze: Le minoranze hanno il diritto di essere ascoltate. Coloro vengono
ritenuti più deboli hanno il diritto di venire ascoltati. Non devono essere
dimenticati a priori poiché tali.
Non giustifico
l’anticonformismo distruttivo e violento. E’ una richiesta presentata in modo
sbagliato e con conseguenze pericolose. Tuttavia è pur sempre una richiesta,
una richiesta di ascolto inascoltata. In ogni caso il fine non giustifica i
mezzi. Non tutto ciò che si può fare deve essere fatto.
LE DEVIANZE ATTITUDINALI
DANNOSE – ALCOOL E DROGHE
Approfondimento tratto
dalla fonte bibliografica
Centro B.R.A.I.N per le
Neuroscienze, Università degli Studi di Trieste
http://www.lucaticini.com/wp-content/uploads/Neuroscienze_per_iniziare.pdf
LE DROGHE
Le normali funzioni del
cervello possono essere facilmente modificate da sostanze provenienti dall’esterno
del nostro corpo, somministrate a scopi terapeutici (gli psicofarmaci) oppure
per gli effetti “piacevoli” che provocano (almeno all’inizio della loro
assunzione): le droghe.
A seconda degli effetti
che procurano, le droghe si suddividono (arbitrariamente) in tre categorie:
• Sedativi (hanno effetto
calmante e depressivo): oppiacei, ansiolitici, analgesici, sonniferi, alcool…
• Stimolanti (con effetto
eccitante sul sistema nervoso centrale), come la cocaina, le amfetamine ed
anche la caffeina
• Psichedeliche-allucinogene
(modificano l’attività cerebrale e l’interpretazione delle percezioni): si
tratta di alcuni funghi allucinogeni come il “peyote”, la mescalina, l’LS o la
cosiddetta “ecstasy”.
Certe sostanze possono
procurare contemporaneamente più di uno di questi effetti, ma lo vedremo più
avanti. Tutti abbiamo sentito parlare di “tossicodipendenza ”; in realtà, l’uso
delle droghe comporta almeno quattro gravi effetti collaterali:
• la tolleranza
• la dipendenza psichica
• la dipendenza fisica
• la sindrome da
privazione.
Cosa significa
“tolleranza”? Assumendo la sostanza, l’organismo si abitua, per cui serve una
quantità progressivamente sempre più grande di droga per ottenere l’effetto. La
dipendenza può essere di due tipi:
psichica, allorché si
instaura un bisogno incoercibile (o desiderio incontrollabile) di assumere la
sostanza; oppure fisica, per cui l’organismo ne necessita per continuare a
funzionare normalmente. Alcune droghe, infatti, si sostituiscono alle sostanze
normalmente prodotte, rendendo indispensabile la loro continua assunzione. La
dipendenza fisica è data soprattutto dagli oppioidi, dall’alcool etilico e da
alcuni psicofarmaci usati come sedativi: benzodiazepine e barbiturici.
La sindrome da
privazione, anche detta da astinenza, è l’insieme dei disturbi psichici e
somatici che si verificano alla sospensione brusca della sostanza. Ad esempio,
nel caso della cocaina, l’astinenza comporta un quadro caratterizzato da ansia,
insonnia, senso di fatica, iperfagia (appetito smodato).
Oppio
Una delle droghe più antiche
e più note è l’oppio. Esso viene estratto da un tipo di papavero il cui nome
scientifico è Papaverum sonniferum, di cui l’oppio è il lattice condensato
della capsula dei semi. Dall’oppio derivano gli oppiacei (morfina, codeina,
etc.), che sono pertanto sostanze naturali, distinte dagli oppioidi
(fenilpiperidine,
pentazocina, naloxone, etc.), che invece sono molecole di sintesi o
semisintesi.
Si è inoltre scoperto che
anche il nostro organismo produce delle sostanze affini, dette oppiopeptine:
sono le famose endorfine, responsabili della mediazione degli stimoli
piacevoli.
I recettori centrali e
spinali più importanti per l’azione degli oppiacei sono i mu, che sono al
contempo mediatori delle sensazioni dolorifiche e responsabili della
dipendenza.
(Purtroppo le due azioni
sono inscindibili).
I percettori mediano:
Analgesia sovraspinale e spinale, euforia, depressione respiratoria, dipendenza
psichica.
I percettori mediano: Disforia, allucinazioni,
stimolazione cardiaca.
I percettori k mediano:
Analgesia a livello spinale, effetti psicoto-mimetici a livello centrale.
Come agiscono gli
oppiacei? Gli oppiacei agiscono interagendo direttamente con recettori propri,
classificati con lettere
dell’alfabeto. I recettori, a loro volta, sono diversamente distribuiti (come
densità) nel sistema nervoso centrale ed ognuno di essi media effetti diversi.
Morfina
La morfina ha attività
potente sui sui recettori di molti sistemi, fra i quali anche il sistema
nervoso centrale. Su di esso, la morfina induce:
• analgesia
• sonnolenza
• variazioni dell’umore
• annebbiamento mentale
il tutto senza perdita di
coscienza! (si definisce invece “anestesia” l’analgesia con perdita di
coscienza) Per quanto
riguarda l’analgesia, la morfina è il farmaco principe in molte situazioni in cui
si
deve sconfiggere il
dolore insostenibile, come per esempio nel cancro o durante un infarto.
Sul dolore la morfina ha
un effetto molto interessante, perché duplice: essa riduce il dolore di tipo
nocicettivo, cioè quello originato dalla eccitazione dei recettori sensitivi,
mentre ha azione nulla sul dolore neuropatico, come quello che si ha per
lesione di un tronco nervoso. Su quest’ultimo, tuttavia, la morfina è in grado
di togliere il contenuto psicologico negativo del dolore, senza toglierne la percezione,
alleviando così la componente più difficile da tollerare, la “sofferenza”. In
sostanza, il paziente sa che il dolore c’è, ma è come se non fosse suo.
Droghe sintetiche
Le amfetamine sono
sostanze simpaticomimetiche indirette (ciò vuol dire che stimolano il sistema
simpatico) ed hanno anche effetti allucinogeni.
Il loro prototipo e la
più attiva come stimolante sul sistema nervoso centrale è la Damfetamina.
La met-amfetamina,
invece, ha una durata d’azione più lunga, può cioè dare euforia
per quattro - sei ore.
Una delle droghe sintetiche più in uso oggi è la MDMA o
metilendeossiamfetamina, meglio nota come Ecstasy.
Il meccanismo d’azione di
tutte, comunque, è quello di favorire la liberazione dei neurotrasmettitori
eccitatori noradrenalina e
RECETTORI COSA MEDIANO:
- analgesia sovraspinale e spinale, euforia,
depressione respiratoria, dipendenza psichica
disforia, allucinazioni, stimolazione cardiaca
k analgesia a livello
spinale, effetti psicoto-mimetici a livello centrale
Come agiscono gli
oppiacei?
Gli oppiacei agiscono
interagendo direttamente con recettori propri, classificati con lettere
dell’alfabeto. I recettori, a loro volta, sono diversamente distribuiti (come
densità) nel sistema nervoso centrale ed ognuno di essi media effetti diversi.
dopamina. A livello del
midollo spinale, ciò comporta la stimolazione della muscolatura striata, con
aumento dell’energia muscolare e ritardato senso della fatica. Su alcuni
neuroni centrali, lo stesso meccanismo è responsabile dello stato di veglia.
Infine, agendo su degli enzimi detti MAO (monoaminoossidasi), la amfetamine
hanno anche una debole azione antidepressiva.
Fra i molti effetti
collaterali da uso cronico (diminuzione dell’appetito, alterazioni
comportamentali, risposta emozionale amplificata) è importante ricordare la
psicosi tardiva da amfetamine ad alte dosi, che si verifica per formazione di
metaboliti tossici.
Si tratta di una psicosi
paranoide che è simile alla schizofrenia.
Testimonianza clinica
(dalla “Drug Dependency Unit” di Padova)
“Un ragazzo di 24 anni è
stato inviato al nostro Centro per il trattamento delle tossicodipendenze dopo
aver violentemente assalito la madre. Da quattro anni assumeva MDMA, sempre
sotto forma di compresse e facendo passare da 1 a14 giorni in media fra
un’assunzione e l’altra. Ha riferito l’assunzione occasionale di altre sostanze
(alcool, benzodiazepine, cannabis, cocaina). Prima di iniziare ad usare questa
droga non aveva mai lamentato disturbi psicologici, mentre–come confermato dai
suoi parenti- negli ultimi tre anni si è convinto che la gente lo fissi e lo
prenda in giro in sua assenza.
Ora soffre di
allucinazioni di inversione del ritmo sonno-veglia (i sintomi sono cominciati
quattro anni fa); la perdita di appetito si è accompagnata ad un forte calo
ponderale; inoltre il soggetto ha riferito una marcata diminuzione della
propria attività sessuale per circa un anno. Negli ultimi tre anni ha sofferto
di frequenti cambiamenti di umore, anche se mai sufficientemente importanti dal
punto di vista clinico da giustificare una diagnosi di disturbo affettivo.
In passato aveva causato
due incidenti automobilistici, di cui uno grave, correlati ad episodi acuti di
ingestione di MDMA. Nel corso dei quattro anni precedenti si erano registrati
vari episodi di aggressività.
L’esame del suo stato
mentale mostrava deliri paranoidei, alti livelli di ansia e deliri relativi a
modifiche corporee (il suo cervello era stato rubato, gli occhi non erano i
suoi); inoltre era convinto di avere l’AIDS.
Gli esami di routine, la
tomografia computerizzata del cervello ed i test sul siero per la ricerca di
sifilide ed HIV sono risultati normali. Al momento dell’invio, i test delle
urine risultavano positivi soltanto per la cannabis.
Il paziente è stato ricoverato per un breve
periodo di tempo in un’unità psichiatrica, in cui è stato sottoposto a terapia.
Il trattamento farmacologico, però, ha avuto effetti benefici soltanto sulla
sua aggressività e non sulla componente delirante. Nel corso dei tre mesi
successivi, il ragazzo ha continuato ad assumere una terapia neurolettica,
senza trarne grossi benefici. È a tutt’oggi sotto osservazione […] ”
Allucinogeni
Il prototipo degli
allucinogeni è l’LSD, cioè la dietilamide dell’acido lisergico, il quale è
contenuto negli alcaloidi della segale cornuta, una pianta molto diffusa allo
stato selvatico.
L’LSD è un composto molto
attivo (agisce in microgrammi), che altera qualitativamente lo stato psichico
del soggetto, dando una sintomatologia soggettiva molto simile alla psicosi. Il
pericolo con questa droga è pertanto quello di una erronea interpretazione
della realtà e di alterazioni dei processi dell’ideazione, che possono condurre
ad atti dannosi per sé e per gli altri.
Il meccanismo d’azione
dell’LSD, come per gli altri allucinogeni, è duplice: interagisce con i
recettori della serotonina, nonché stimola la liberazione del
neurotrasmettitore dopamina a livello dell’ippocampo e della corteccia
cerebrale.
Se l’LSD viene assunto in
dosi maggiori di 50-100 microgrammi, subentra uno stato di intossicazione, che
in una fase iniziale si caratterizza per vaghi fenomeni soggettivi come
stanchezza, senso di freddo o caldo, sapore metallico, gonfiore della lingua,
bruciore degli occhi. In seguito compaiono disturbi neurologici come tremori e
parestesie, fenomeni neurovegetativi come la piloerezione, effetti
psicosensoriali, visivi ed uditivi, (il viso umano diventa una maschera),
errori nel valutare le dimensioni e le distanze, senso del tempo modificato,
oltre ai consueti effetti psicologici di labilità dell’umore (il soggetto può
andare dall’euforia al panico).
Anche dopo mesi dalla
sospensione dell’LSD possono ricomparire alcuni dei sintomi (“fenomeno del
flash-back”).
Infatti questa sostanza,
essendo liposolubile, rimane a lungo nei depositi di grasso dell’organismo.
L’unico trattamento possibile per le allucinazioni da LSD è la somministrazione
di un antipsicotico.
Alcool
L’alcool etilico è
prodotto dalla fermentazione alcoolica del glucosio ad opera di alcuni enzimi
che sono contenuti nelle cellule del fungo Saccaromyces.
È un liquido incolore e
aromatico, estratto dalla fermentazione dell’uva e di altri vegetali, dopo
distillazione.
Fa bene o fa male?
L’alcool, come ogni
sostanza psicoattiva, modifica il funzionamento del cervello e quindi la
percezione della realtà. Pertanto, se usato con frequenza, porta ad una
dipendenza fisica e psichica molto forte.
A questo proposito,
l’alcoolismo cronico è definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come
“una sindrome caratterizzata dalla necessità di bere una quantità di alcool
superiore a quella assimilabile dall’individuo, che si accompagna ad una
diminuzione della tolleranza, provocando nel soggetto disturbi psichici, che si
riflettono anche nel campo sociale.”
L’alcool è usato fin
dall’antichità come medicamento, come stimolante del SNC, ma può avere anche
l’effetto contrario, come antisettico e, talora, per la conservazione di pezzi
anatomici.
Il suo abuso è tossico.
L’assorbimento per via orale è rapido ed avviene attraverso lo stomaco e
l’intestino tenue; circa
il 90% dell’alcool assorbito viene metabolizzato, mentre il rimanente è
eliminato attraverso le urine, il respiro ed il sudore.
Spesso si ingerisce
dell’alcool per calmare l’eccitazione o per superare una depressione, per
rimuovere l’ansia e le tensioni, o ancora per facilitare il sonno, senza
menzionare le numerose valenze sociali che le bevande alcooliche possiedono
(perdita delle inibizioni, etc…). Per questo l’alcool è la droga che più
inconsciamente noi assumiamo a mo’ di “farmaco del comportamento” ed il suo
abuso investe non solo gli aspetti tossicologici, che vedremo in seguito, ma
anche l’accettazione sociale che lo circonda.
Le azioni più importanti
dell’alcool si esplicano a livello del SNC, nel quale esso determina spesso
depressione.
Attenzione! Quando si
osserva una certa iperattività, essa è dovuta alla rimozione degli effetti
inibitori, poiché l’alcool, di per sé, non è stimolante!
Le prime funzioni ad
essere perdute sono i gradi più elevati di giudizio, riflessione, osservazione
ed attenzione. Ma se l’abuso costituisce un problema, ciò non significa
escludere a priori l’uso di bevande alcooliche! È ormai dimostrato, infatti,
che una moderata quantità di alcool è benefica per l’organismo, soprattutto sul
sistema cardiocircolatorio.
L’effetto depressivo
dell’alcool sul sistema nervoso centrale si spiega alla luce dell’inibizione
dei recettori per i neurotrasmettitori eccitatori ed il contemporaneo
potenziamento di quelli dei neurotrasmettitori inibitori. Per esempio, l’alcool
aumenta l’attività dei neuroni che utilizzano l’acido Gamma-aminobutirrico
(GABA) come neurotrasmettitore, attraverso l’azione sui canali ionici.
Dal punto di vista
clinico, l’intossicazione acuta da alcool è caratterizzata da:
• difficoltà del
linguaggio
• diminuita performance psicomotoria
• deficit di memoria ed
attenzione
• labilità emotiva
Tanto per fare un esempio
tristemente noto, si sa che guidare ubriachi è pericoloso, ma forse non tutti
sanno che la relazione fra la probabilità di avere un incidente stradale e
l’assunzione di alcool non è lineare. Un tasso alcoolico di 80 mg/100ml di
sangue - il limite oggi in vigore in Italia, al di sopra del quale scattano le
sanzioni - fa aumentare il rischio di incidente. Ma con un tasso pari a 160
mg/100 ml il rischio non raddoppia, bensì si moltiplica di un fattore 15 !!
Altri aspetti poco
conosciuti riguardano le interazioni fra alcool e droghe (con potenziamento
dell’effetto depressore sul sistema nervoso centrale) e fra alcool e farmaci
(ad esempio, inibizione
metabolica di anticoagulanti, benzodiazepine , antiepilettici e
litio).
Sempre dal punto di vista
clinico, l’intossicazione cronica da alcool comporta:
• deficits nutrizionali,
specie di tipo vitaminico
• neuropatie periferiche
• cardiomiopatia
• cirrosi epatica
• atrofia cerebrale.
A livello del SNC,
l’abuso di alcool determina modificazioni adattative a carico del “sistema
gratificatore” cerebrale, che si occupa di elaborare i rinforzi naturali; la
conseguenza è l’instaurarsi di un comportamento di ricerca della sostanza e,
quindi, di dipendenza.
La dipendenza, così come
si manifesta a livello comportamentale con il desiderio irresistibile di
assumere alcool, conduce alla sindrome da astinenza nel caso si interrompa
l’assunzione. Quest’ultima è nota perché può assumere connotati drammatici, con
sintomi quali allucinazioni, disorientamento nel tempo e nello spazio, comparsa
di comportamenti irrazionali, nel qual caso è definita delirium tremens.
La conoscenza dei
meccanismi molecolari che stanno alla base dell’azione dell’alcool, peraltro
ancora oggetto di intensi studi, ha portato, recentemente, alla proposta di
sostanze in grado di alleviare i sintomi dell’astinenza e di aiutare gli
alcoolisti a smettere di bere. Una di queste è il disulfiram, che ha la
capacità di scatenare una vera e propria sindrome da privazione non appena
l’alcoolista ingerisce anche piccole quantità di alcool.
In questo modo si tenta
di indurre un condizionamento negativo verso il desiderio di assumere la
sostanza.
CURIOSITA’
Quanto ne bevo?
D’accordo, dosi moderate
di alcool fanno bene alla salute. Ma quanto bere? Gli esperti concordano nel
fissare il limite a 40 grammi di alcool al giorno, che equivalgono a mezzo
litro di vino, oppure a due “drinks” superalcoolici, oppure ad un litro di
birra. Questo vale per gli uomini. Per le donne la dose va leggermente ridotta,
in quanto nell’organismo femminile (come del resto anche nella razza asiatica
ed in altre popolazioni) vi è una minor quantità di alcool- deidrogenasi,
l’enzima preposto alla metabolizzazione dell’alcool.
Segnali di fumo
Proviamo ad intervistare
un qualunque fumatore e a chiedergli cosa prova nel momento in cui aspira la
prima boccata di sigaretta: lo sguardo del soggetto si illuminerà di entusiasmo
e la risposta sarà, pressappoco, che la sigaretta allenta la tensione, rilassa,
rende più sicuri di sé, ha un buon “gusto” e via dicendo. Dopo poco, tuttavia,
il fumatore assicurerà che ha provato molte volte ad abbandonare questo “brutto
vizio”, che sa che “fa male” e in futuro si ripromette di smettere. In effetti,
le statistiche dicono che il 90% dei fumatori vorrebbe smettere, ma ben pochi
ci riescono (meno del 10% ogni anno, ma probabilmente molti di questi sono
destinati a riprendere dopo qualche tempo).
Eppure tutti sono
consapevoli degli effetti nocivi che i costituenti del fumo hanno sulla salute,
in particolar modo il catrame e il monossido di carbonio, tanto per citare i
più comuni. Questa è forse la miglior dimostrazione sperimentale che il fumo di
sigaretta contiene una sostanza altamente “additiva” (“addicting”), verso la
quale si sviluppa dipendenza.
In maniera non dissimile
da qualunque altra droga.
Il componente incriminato
in questo caso è la nicotina.
Lasciando da parte i
molteplici danni di carattere respiratorio (tumore polmonare, enfisema, dispnea
respiratoria) e cardiovascolare (aterosclerosi dei vasi sanguigni, infarto del
miocardio) degli altri componenti del fumo, sono gli effetti della nicotina ad
interessarci, per quanto concerne la chimica del cervello.
90% : i fumatori che
vorrebbero smettere
10% : quelli che ci
riescono
8 – 9 : mg di nicotina
contenuti in media in una sigaretta
1 – 2 :mg di nicotina per
sigaretta che un fumatore abituale assume
24 h /die: tempo che la
nicotina resta in circolo in chi la assume regolarmente
10 : secondi che la
nicotina impiega a raggiungere il cervello dal polmone, una volta penetrata
nell’organismo attraverso il respiro
400.000: le persone che
muoiono ogni anno, negli Stati Uniti, a causa degli effetti del fumo
Le prime descrizioni di
dipendenza dal tabacco sono contenute in un manoscritto del Nuovo Mondo, in cui
soldati spagnoli dicevano di non riuscire a smettere di fumare. Quando la
nicotina fu isolata dalle foglie del tabacco nel 1828, gli scienziati cominciarono
a studiarne i potenti effetti sull’organismo, scoprendo alterazioni della
respirazione e della pressione sanguigna, costrizione delle arterie ed aumento
della vigilanza. Molti di questi effetti sono prodotti attraverso l’azione sul
sistema nervoso centrale e su quello periferico.
Si sa oggi che la
nicotina ha una struttura chimica simile a quella di un diffusissimo
neurotrasmettitore: l’acetilcolina, per cui essa attiva i medesimi recettori
sui neuroni, detti appunto “colinergici”. Questi sono presenti anche nei
muscoli, nelle ghiandole surrenali e nel cuore e sono coinvolti in attività
quali la respirazione, il mantenimento della frequenza cardiaca, la memoria, lo
stato di vigilanza.
Oltre ad altri effetti,
la nicotina favorisce la liberazione del neurotrasmettitore a livello di un
particolare
struttura cerebrale: il
nucleo accumbens, coinvolto nei meccanismi del piacere e della gratificazione.
L’assunzione regolare di nicotina provoca
alterazioni sia del numero di questi recettori sia della loro sensibilità
all’acetilcolina e alla nicotina stessa, che esitano nello sviluppo di
tolleranza.
Una volta che la
tolleranza è instaurata, il consumatore di nicotina deve rifornire regolarmente
il cervello della sostanza, altrimenti, se i suoi livelli cadono, insorgono
spiacevoli sintomi di astinenza.
Recentemente, i
ricercatori hanno visto che la nicotina causa anche un aumento del rilascio di
dopamina dal nucleo accumbens, processo che è alla base delle sensazioni
piacevoli sperimentate dal fumatore. Altre ricerche provano che il ruolo
esercitato dalla nicotina è ancora più complesso.
Il recettore colinergico
è costituito da diverse sub-unità; una di queste, sembra mediare gli effetti piacevoli della
nicotina. Creando in laboratorio, con tecniche di ingegneria genetica, dei topi
senza il gene per la sub- unità (detti topi “knock-out”), si è scoperto che
questi non si auto- somministravano la nicotina, a differenza dei topi con
l’intero recettore.
Infine, si è scoperto che
i fumatori presentano riduzione di enzimi noti come monoaminoossidasi (MAO),
rispetto ai nonfumatori e agli ex-fumatori. Si suppone che la nicotina inibisca
le MAO, una condizione che si
associa anche
all’aumentata attività della dopamina. Questo potrebbe essere uno dei
meccanismi che spiega la minor incidenza del morbo di Parkinson fra i fumatori
di sigarette.
Ma ancor più
intuitivamente, l’inibizione delle MAO da parte della nicotina renderebbe conto
di alcune caratteristiche epidemiologiche dell’abitudine al fumo, che è più
frequente in gruppi di individui depressi o comunque dipendenti anche da altre
sostanze (alcool, droghe, etc.).
Altri effetti sul
cervello, seppure di genere diverso, vanno menzionati per la loro potenziale
letalità: il fumo di sigaretta è correlato ad un aumento del rischio di
sviluppare grandi aneurismi cerebrali in pazienti predisposti (gli aneurismi
sono delle malformazioni vascolari, per lo più congenite, che causano gravi
emorragie in caso di rottura; più grande è l’aneurisma, maggiore è la sua
probabilità di rompersi).
Non dimentichiamoci,
però, che i fumatori mostrano migliori prestazioni intellettuali (aumento
dell’attenzione selettiva e capacità di sostenerla più a lungo, aumento della
concentrazione e della memoria) quando assumono la nicotina rispetto a quando
non la assumono; ciò nonostante, nulla prova che la nicotina migliori
l’apprendimento a lungo termine.
• Psicofarmaci
“Jerry è un bambino
vivace, un vero vulcano. Non riesce a stare fermo, seduto al banco, nessuna
lettura lo interessa, corre, salta sulle sedie, rompe tutto! E così disturba i
suoi compagni e me, che cerco di insegnare qualcosa ai bambini…”. La maestra è
preoccupata.
Suggerisce ai genitori di
parlare con un esperto e così…anche a Jerry viene diagnosticata l’ADHD,
talmente conosciuta che ormai nessuno dice più il nome per intero (in italiano
disturbo dell’attenzione e iperattività ). La cura prescritta è sempre quella,
un farmaco che ha un nome da personaggio dei cartoni animati e
che agirà sul sistema
nervoso di Jerry aiutandolo a stare più attento e calmo. Episodi del tutto
simili a questo, inventato, sono ormai frequentissimi negli Stati Uniti. Nel
resto del mondo il fenomeno è molto più
ridotto, qualcuno dice
per inadeguatezza nella diagnosi, qualcun altro perché c’è una maggiore
prudenza nel trattare i caratteri vivaci come psicopatologie e nel
somministrare psicofarmaci
ai bambini… È uno
scenario che ci fa un po’ paura e del resto, da quando gli effetti psicoattivi
di alcuni
farmaci sono stati
scoperti (talvolta per caso, come è avvenuto negli anni ’50 per i più
tradizionali antidepressivi), polemiche e prese di posizione duramente critiche
hanno sempre accompagnato l’uso degli psicofarmaci nelle terapie psicologiche e
psichiatriche.
Ci sono dei seri problemi
etici, innanzi tutto, nella decisione di somministrare ad un paziente
un farmaco che può andare
ad agire profondamente sul più intimo patrimonio
dell’individuo, il
carattere, il modo di pensare e di reagire, i sentimenti… Negli anni ’70 quello
della psichiatria che si
affidava in modo indiscriminato alle terapie farmacologiche era
diventato un vero
spettro, un’allarmante minaccia alla libertà dell’uomo e in particolare del
malato.
In effetti alcuni
psicofarmaci somministrati ai pazienti con disordini mentali causano molti
effetti collaterali, alcuni dei quali gravi e impressionanti (come certe
contrazioni incontrollate dei muscoli facciali che fanno
assumere espressioni ben
poco rassicuranti al paziente…) e possono anche indurre una grave dipendenza.
Gli psichiatri più spregiudicati nel curare farmacologicamente i disturbi
psichici vengono accusati di abbandonare il paziente ai soli effetti violenti
delle sostanze chimiche, evitando la responsabilità di una psicoterapia meno
invasiva e personalizzata e magari… compiacendo qualche colosso farmaceutico.
Non si può negare,
d’altra parte, che l’uso di farmaci per curare le patologie della psiche abbia
significato in molti casi la salvezza rispetto a condizioni di vita terribili.
Comprendere l’interazione fra la chimica del cervello e il nostro stato d’animo
è una delle mete più esaltanti della ricerca scientifica, proprio perché
apre la porta alla
possibilità di ridurre la sofferenza di chi ha disturbi mentali. Anche in
questo caso sembra che la soluzione (comunque difficile) stia nell’evitare i
fanatismi e le posizioni estreme. Informazione corretta ed estrema prudenza,
poi, vanno aggiunte se si tratta di curare dei malati. Così come va tenuta
sempre presente la considerazione che gli psicofarmaci, almeno per ora,
arrivano al più a curare dei sintomi ma non arrivano a toccare le cause prime
del malessere.
La chimica del cervello,
e in particolare quella dei sentimenti e delle emozioni, è complessa e
ancora in gran parte
incompresa. La vera difficoltà è riuscire ad isolare i diversi problemi e
mettere in chiara relazione una disfunzione (magari localizzata) dell’organo
cerebrale con il corrispondente disordine psicologico, e viceversa.
Anche per quanto riguarda
emozioni e stati d’animo sembra ormai accertato che la nostra storia passata,
presente e futura stia scritta nel nostro codice genetico in ampia misura.
Alcuni scienziati quantificano: i geni possono spiegare fino al 40-50% delle
diverse attitudini psicologiche. Tutti sono d’accordo, comunque, che c’è ancora
spazio per controllare e magari correggere gli stati emotivi più sgradevoli e
debilitanti… Il punto è: come? Vediamo, brevemente e sicuramente in modo
incompleto, qual è la base scientifica delle cure farmacologiche tradizionali
per i problemi della psiche.
Esistono quatto categorie
principali di psicofarmaci che si distinguono in base al loro effetto
terapeutico: gli ansiolitici, gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli
stabilizzatori dell’umore (essenzialmente il litio). Tutti gli
psicofarmaci agiscono, in
modo reversibile, sui meccanismi di comunicazione fra i neuroni, al livello
della disponibilità di neurotrasmettitori specifici o della sensibilità
neuronale a quei neurotrasmettitori. Fra ansiolitici vi sono i barbiturici,
ormai usati quasi solo per scopi anestetici, e le benzodiazepine, che li hanno
sostituiti dagli anni ’60 in poi. Questo tipo di farmaci in generale deprime
l’attività del sistema nervoso centrale provocando una riduzione degli stati
ansiosi e dell’insonnia. Il loro maggior difetto è che possono indurre una
forma di dipendenza fisica e soprattutto psicologica.
Nessun abuso da
tossicomania è legato, invece, agli antidepressivi , in quanto non provocano
effetti piacevoli sui soggetti normali, di solito. Sulle persone soggette alla
depressione
(che è spesso connessa ad
una iperattività del sistema di risposta allo stress) gli antidepressivi
producono miglioramenti dell’umore e un generale effetto disinibitorio.
L’effetto dei primi
antipsicotici , o neurolettici, è stato scoperto per caso quando si vide che
alle proprietà sedative di certe molecole erano associati effetti di
disinteresse totale per gli stimoli esterni. Proprio questa è l’azione
principale di questi psicofarmaci sulle persone sane; per alcune situazioni
patologiche, invece, essi agiscono riducendo gli stati di delirio, di
allucinazione e di generale confusione mentale.
Il litio e gli altri
stabilizzatori dell’umore sono usati soprattutto per curare i disturbi
bipolari, in cui l’umore oscilla patologicamente fra la depressione e
l’eccitazione maniacale. Una curiosità: i nomi di personaggi famosi abbondano
fra i bipolari maniaco-depressivi della storia: da Lincoln a Beethoven,
Tolstoy, Virginia Wolf, fino a Newton, tutti dei caratteri piuttosto
particolari!
Se le basi molecolari di
depressione, ansia o paura sono state e sono tuttora molto studiate, meno si sa
della…chimica della felicità. Solo da poco diversi gruppi di ricerca hanno
iniziato a indagare su cosa avviene nel nostro cervello quando ridiamo o
assaporiamo un momento di benessere. Magari sarà questa la svolta per le future
terapie. C’è da augurarselo!
LE INFLUENZE
Le influenze nella
accezione di contaminazione reciproca tra idiosincrasi implicano una riduzione
della flessibilità di mindset ed una integrità e tempra di pensiero che si
avversa alla immediata acquisizione e accoglimento di idiosincrasi diverse
rispetto alla propria - Il sistema di conoscenza nei bambini è
costituito da immediatezza di accoglimento di informazioni, il sistema
conoscitivo degli adulti è mediato dall’atto del criticismo e predilige la
confutazione, il diniego conoscitivo rispetto all’accoglimento conoscitivo di
idiosincrasi esteriori devianti rispetto alla propria.
“ ‘Se c’è qualcosa nel
bambino che desideriamo cambiare, dovremmo prima esaminarlo bene e vedere se
non è qualcosa che faremmo bene a cambiare in noi.’ Diceva Carl Jung. Infatti,
dopo la nascita, fino ai 4-5 anni di età, conosciamo il massimo splendore a
livello di plasticità della mente e capacità di apprendimento; si stima inoltre
che si imparino più cose nei primi tre anni che in tutto il resto della vita.
Purtroppo, arrivati a 7 anni utilizziamo non più del 10% del nostro potenziale.
Questo accade a causa del progressivo stratificarsi di schemi e regole che
limitano la libertà della mente di esercitare la sua naturale plasticità nel
produrre nuove reti neuronali.”
Dove risiede allora il
90% delle nostre facoltà e potenzialità intellettive? LATENTI IN NOI STESSI. Ma
la domanda più interessante che dovremmo porre a noi stessi sarebbe: Quale è la
chiave per esternare e rivelare le nostre latenti potenzialità? Attuando la
realizzazione tra ideazione di potenza in atto – Tuttavia, cosa ostacola questo
passaggio? Le medesime realtà dell’ambiente che vincolano e veicolano la onesta
rivelazione della nostra essenza –
La follia nella accezione
di idiosincrasi differente rispetto alle idiosincasi ambientali sociali e
personali è la chiave per andare oltre alla schematicità predefinita che il
sistema adduce alla nostra rete neuronale sin da i primi anni di vita –
Pertanto gli ostacoli alla realizzazione del sé nell’ambiente sono due – Il
primo riguarda l’inner mindset – Ovvero che il mindset del singolo non permetta
che venga a coincidere il mindset sistemico ambientale con il suo mindset –
secondo tale possibilità il 90% di potenzialità di mindset creativo cesserebbe
di esistere in quanto ad analogia tra mindset sistemico e mindset individuale
che non può applicare alcun surplus modificante il mindset ambientale
sistemico. Il secondo ostacolo è in qualità in misura di iniziativa e di
coraggio attitudinale - Ovvero, un
singolo possiede una forte tempra di pensiero sovversivo – rivoluzionario in
quanto a esistenza di latente percentuale del 90% di iidiosincrasi alternativa
rispetto alla idiosincrasi comunitaria, tuttavia attua attitudini consonanti
con il sistema non rivelando le qualità del suo pensiero dissonante – La
realizzazione del sé è pertanto nella misura della non omologazione
dell’idiosincrasi diversa individuale
con l’idiosincrasi del sistema ambientale esteriore e dell’innesto delle personali
unicità di pensiero nella località sistemica e di istituirsi come compendiante
la complessità del sistema mediante confutazione delle idee del sistema o come
comprovazione delle idee del sistema – La rilevanza del sé può essere di
contributo costitutivo delle idee del sistema nella possibilità in cui le
idiosincrasi latenti del singolo siano concilianti e non avverse a quelle del
sistema – allora il singolo di differenzierà e realizzerà la sua essenza come
consolidante i valori del sistema .
Come potere ottenere
idiosincrasi dissimili rispetto alla località di pensiero? La possibilità della
decontestualilzzzazione.
Viaggiando, leggendo.
“Se c’è un errore che la
natura ha commesso è quello di aver dato solo a pochissimi esseri umani la
capacità di avere una identità troppo flessibile, mentre tutti gli altri sono
asserviti dalla staticità, dall’idea che si sono costruiti di sé e che la
società gli ha aggettivato. ”
“We’re told “no”, we’re
told unimportant, we’told peripheral. Get a degree, Get a job, get a this, get
a that. And then you’re a player, but you don’t want to even play in this game. You want to reclaim your mind
and get it out of the hands of the cultural engineers who want to turn you into
a half-baked moron consuming all this trash
that’s being manufactured out of the bones of a dying world. ”
ESEMPI DI PERSONALITA’
CON IDIOSINCRASI DEVIANTI SOVVERSIVI DEL MINDSET DEL SISTEMA COMUNITARIO.
Esempio primo. La
scrittrice Alda Merini
la pazza della porta
accanto
intervista ad Alda Merini
regista: Antonietta de
Lillo
Lei vuole conoscermi? Sì,
io la vorrei conoscere. Mah, diciamo che i poeti sono inconoscibili.
No, no, no non mi parli
di masochismo del poeta, che non c’è. Il poeta è gaudente di base guardi. Non
vuole soffrire, gliel’ ho detto prima.
Mi sarebbe piaciuto
curare le anime.
Io sono una donna molto
semplice, molto normale, hanno fatto una
costruzione enorme, ma sono in fondo una persona di tutti i giorni. Sono
proprio la pazza della porta accanto. Ho avuto delle storie molto belle perché
sono una persona normale, neanche matta poi tanto. Ero così anche da
bambina, ero molto isolata. Sono fatta così, sono ombrosa. Ogni tanto voglio isolarmi. Mi
faccio male da sola perché quando sono sola chiaramente ho bisogno d’altri. Di
solito escono delle belle cose quando voglio stare sola. In quanto al fatto di
essere una bambina. Io sono stata una bambina felice ma anche una bambina
infelice. Ero una bambina che aveva già la sua posizione molto giusta, una
bambina ben determinata.
Per poter crescere
bisogna avere un minimo di segreto nella vita, qualche cosa di segreto. Se lei
è innamorata non lo viene a dire a me,
se lo tiene da conto questo sentimento.
Non capire il bambino è
già un grave reato, non cercare di
capirlo. Soprattutto si può anche non capirlo,
però bisogna lasciarlo vivere. Una delle cose che noi tutti dobbiamo
fare è lasciar vivere gli altri. Vivere e lasciar vivere.
Io oggi sopravvivo grazie
ai giovani. Devo dire che quelli che mi hanno aiutato non sono stati i vecchi,
ma i giovani.
Bisogna tener presente
che il figlio è un estraneo, dovrebbe
essere un estraneo per ogni padre e per ogni madre per poterlo vedere
bene. Perché sennò è come se fosse nel
nostro grembo in eterno. Insomma deve nascere.
L’anarchia è la negazione
di qualsiasi regola in nome di una terza regola che è continuare a dire di no.
Insomma si va sempre a finire in una regola,
perché? Perché purtroppo l’uomo è una persona finita, che non riesce a
vedere l’infinito. Non ne ha di infinito davanti, l’uomo da che nasce dovrà
morire purtroppo e lo sa. Lo sa anche se non ne tiene conto. Non è così? Se lei
mi dice: “Non ha paura della morte?”
Ho paura della
morte, so che è lì, in agguato, dietro
la porta, però spero che mi condoni ancora un giorno. La speranza. La morte è
lì, no?. Non bisogna morire d’amore, non bisogna ingigantire l’amore, non
bisogna sminuire l’amore, bisogna stare nel giusto mezzo, per vivere la vita.
Bisogna continuare ad essere bambini, anche quando si è adulti, per quel lato,
non per tutto. Ma per vivere il presente, sì. Io ora vivo momento per momento.
Piacere per piacere, cercando di scansare il dolore quanto più mi è possibile.
Se qualcuno cercasse di
capire il tuo sguardo, poeta, difenditi con ferocia. Ecco la curiosità umana.
Il tuo sguardo sono cento sguardi che, ahimè, ti hanno guardato, tremando.
Perché già il poeta è un baratro.
Pare che l’occhio rimandi
sulla persona la visione di quello che ha visto.
Non voler ascoltare
l’anima è la sordità peggiore.
Sentimento e ricordo
fanno l’ispirazione. E naturalmente il momento, il momento topico dell’artista,
in cui praticamente l’artista cade. E allora è un po’ l’iter della poesia, è un
po’ la via crucis. Tante sono state le cadute,
tante sono state le poesie. Io penso.
Nella notte si è un po’
tendenziosi, si vorrebbe quello che nella vita non si ha avuto, no? E quindi si
sogna o l’innamorato o il nemico, o delle cose che magari sono in un momento
fragile, terrificante, terribile della vita, di cui non si conosce la soluzione.
Il sogno la dona, seppur in forma simbolica dà la soluzione del problema.
La poesia veramente fa
una cernita. L’intelletto poetico. L’intelletto amoroso del poeta sceglie.
Sceglie ciò che vale la pena d’esser cantato e ciò che no.
Facciamo conto che ci
siano delle piccole cose sparpagliate sul tavolo, dei piccoli pezzetti di
carta.
L’ispirazione è come un
soffio d’arte, questo zampillo porta per aria queste parole, è un gioco, però stranamente dà un senso logico.
Naturalmente che cosa
succede, che la ragione diventa irrazionale da questo impatto stilistico che
proviene dall’intimo.
Il vizio è fatto
d’acredine, di malformazione mentale. Il vizio rimane lì, è monotono il vizio.
Tutti i peccati si pagano
perché sono delle eccedenze.
Di amore se ne parla
troppo, se ne sta facendo uno spreco.
L’amore come idea. È
l’idea dell’amore che mi riempie. Ed ecco, è il motore del mondo, che io canto.
Io non sono il poeta dell’infelicità, ma
del sospiro dell’amore, della grande
pausa dell’uomo che è l’amore.
Ci sono delle forme di
molestia sessuale e spirituale molto gravi. E ci sono degli amori che sono più
molestie che amori.
La donna non è solo
amore, è anche intelletto. È mente, soprattutto mente. L’amore parte dalla
mente, quindi non possiamo dire che la donna sia il simbolo dell’amore.
L’ispiratrice dell’amore ma non il simbolo amoroso. La donna è simbolo di
creazione.
L’altra faccia dell’amore
è la distruzione.
Ma è terribile perché la
gente si è fermata a Freud dicendo: “Odio Amore - Amore Odio”. Amore un bel
niente, quando lei uccide una persona, la uccide e perdio!
Non capisco i movimenti
femministi di affrancamento dall’uomo. Ma che cosa vuole insomma? La donna che
vuole rompere tutti i canoni, diventare uomo a tutti i costi a me sovverte
tutta la vita, tutta la cultura. È giusto che la donna sia se stessa ma è
giusto che anche l’uomo sia se stesso.
C’è un grande rapporto
tra ciò che è il manicomio e ciò che è la nascita di un bambino. È un momento
trasgressivo nella vita di un uomo. Lei quando nasce ha un trauma tremendo,
viene alla luce, abbandona l’alveo materno, si trova nel mondo. Lei non ricorda
niente della nascita, è così quando noi incontriamo un grosso dolore che
potrebbe rovinarci per sempre. Diventa incubo perché non è avvenuto, perché
qualcosa è morto. In quel momento non muore la poesia, muore il destino.
È diverso. Quando cade il
destino, lei va avanti malgrado il
destino. E a un certo punto lei sta facendo un percorso nella morte, secondo
me, ma anche un percorso nella poesia, credo.
Io potrei dire un verso
di una poesia:
“Laggiù dove morivano i
dannati nell’inferno decadente e folle del manicomio infinito quando le membra
intorpidite si avvoltolavano nei lini come in un sudario semita, facile era
toccare il paradiso. “
Fisicamente si era già
morti, sopravviveva l’anima. Purtroppo l’anima, che è quella che poi scrive e
che sopravvive all’interno di quella che è stata la mia esperienza nel
manicomio, è la parte che vola sulla materia ed è quella più attenta e
dolorosa. Guardando lo sfacelo del corpo l’anima si conduole e si smarrisce.
La donna ha un
privilegio, la donna ha un potere in più. La donna riesce ad autodisciplinarsi.
Io per esempio sono stata all’interno dell’ospedale psichiatrico con tanto di
autodisciplina personale. Per cui ho ubbidito, Ritenendo giusto ubbidire, era
inutile ribellarsi. Ci si salva non ribellandosi certe volte. Ma ci si danna
continuamente ribellandosi. Continuando a ribellarsi a certi giudizi, a certe
imposizioni. È inutile andare verso la guerra con un’altra guerra. Non dico di
fare la vittima, ma cerchiamo di capire perché è stata fatta la guerra. Quali
erano i presupposti, le ragioni etiche?
No, il manicomio no,
senz’altro no. Mi hanno fatto morire, non mi hanno fatto vivere. Credo proprio
di no.
Diciamo che è atroce, è
atroce perché, se fosse stata una morte
naturale, una morte di tutti i giorni,
una morte che tutti incontrano lungo la giornata. Questa sospensione dei
loro affetti, questa sospensione delle loro attese, allora noi potremmo capire
che la vita ha un senso. Quando la morte è una cosa psichiatrica è un nonsense,
ossia l’incubo. Questo è l’incubo del manicomio. Questo è veramente l’incubo.
Fuori si soffre, in manicomio no. Non c’è proprietà nel manicomio, non c’è
l’occasione del lavoro. Perché le fanno un elettroshock? Perché lei desidera. .
. Le tolgono dalla mente il desiderio.
Fanno presto!
Il dolore del manicomio è
il dolore senza nome, il dolore non motivato. Il dolore che non ha
lacrime, perché non è umano, è un dolore
esterrefatto. Capisce? In manicomio non si piange. Ci si abbandona veramente al
delirio, all’incomprensibile.
Lei non piaceva e la
ricoveravano, inventavano alcune falsità e lei era morta.
Io quando ero felice ero
così felice che non avevo niente da dire. Insomma, si recrimina, si parla, si
discute delle cose infelici. Lei ha mai sentito qualcuno che ha trovato un
tesoro e lo racconta a tutti? Non lo dice a nessuno per paura che glielo
portino via, lo tiene per sé.
“Ho un letto voluttuoso
io,
come quello di Messalina,
dotato di ben quattro
materassi
ereditati dalla sorte.
Tutti concupiscono il mio
povero letto
che è grande e
disordinato ma estremamente tranquillo.
Però in quel letto
l’amore non si fa,
perché inevitabilmente i
materassi si dividono
e l’amante di turno cade
nel mezzo
senza più riuscire a
liberarsi
dal lenzuolo che viene ad
avvolgerlo come in un sudario.
I più audaci hanno
provato a prendermi
e si è sentito un tonfo
pesante.
Gli inquilini protestano
e chiedono:
ma chissà che cosa farà
di notte?
Niente. Trasporto
materassi che cadono
dopo che l’aspirante
amante se ne è andato
sbattendo la porta.”
Pensi a quanti drammi
scaturiscono dal riso.
L’amore è una debolezza,
ci si lamenta dell’amore perché ci si lamenta della propria debolezza.
Il corpo è pensiero. Non
capisco perché la gente lavori e non pensi. La gente vede solo con gli occhi e
non sente. Non ha la veggenza proprio fisica di quello che tocca, di quello che
sente, di quello che percepisce. Soltanto gli occhi vedono e non è sufficiente.
“Somigliare a Cristo
significa superare questa dimensione umana, miserabile, terrena che però è
anche innegabilmente amore.”
Si parlò di blocco
sessuale, e così ne parlano nella
psichiatria. Io parlo invece di un blocco d’amore, che non trovando più la sua rispondenza non
vuole più amare la vita.
Se perdo il rapporto con
la religione, perdo il rapporto con l’arte, è chiaro. La religione ha un forte
peso, la religione credo che sia la dracma più pesante, la moneta più valida
nella vita di un uomo. Perché sennò non riuscirebbe a capire. È la chiave di volta. È proprio ciò che li
apre certi sancta sanctorum dell’io. Credo che la religione sia necessaria, non
riuscirebbe né a creare né a demolire se stesso senza la religione. Persino
Caino deve negare Dio. Ci dev’essere però un’etica divina.
diario scritto dieci anni
dopo l’esperienza del manicomio
Il diario del periodo
infelicissimo e tragico, sopportato con grande rassegnazione. È stata proprio
la rassegnazione che mi ha dato modo di uscire, perché se mi fossi ribellata
non sarei uscita più.
Mi avrebbero
ulteriormente punito. Invece, la non ribellione ha tacitato questi spiriti
violenti. E ha fatto in modo che io uscissi.
“È inutile colpevolizzare
il male o qualsiasi persona. Il destino è l’unico artefice. In seguito il mio
medico mi disse che una sola medicina può guarire ed è la vita. Ma la vita per
me non vuole diventare un buon medico e quando non entra in quest’ottica,
riesce soltanto ad ucciderti. Tutti noi al centro siamo dei malati di vita, dei
nostalgici di vita. La mancanza di amore, di denaro, di sesso. “
Io direi anche che la mia
vita è più bella di quella che ho scritto.
È stata più bella. Io ho avuto dei grandi uomini, dei grandi amori.
Uno di essi quando lo ho
incontrato mi disse queste parole:
“Io ho dato a tutti, e mi
hanno ripagato con l’abbandono.”
Era naturale, perché
l’uomo è fatto così: Prende, ma non dà.
Ecco un grande amico che
non mi ha mai chiesto niente, mi ha chiesto di sopravvivere e non mi ha mai
tolto niente.
Questi sono i poeti: se
ne vogliono andare da questa società, non hanno più niente da dire.
“Già, lui era imperfetto e questo mi faceva
piacere. Mi faceva piacere constatare
che soprattutto avevo sposato un essere umano. Mi hanno diviso in modo ignobile
dal mio amore.
Noi ci amavamo molto.
Eravamo due poeti liberi, liberi in ogni tempo, in ogni stagione. Ci amavamo al
di fuori dei sensi e oltre i sensi. Malgrado il nostro amore avesse tutti i
caratteri della passione. “
Perchè la casa in
disordine? Perché forse nessuno l’ha amata veramente. Bisogna amarle le case.
Perché forse non ci sono figli. Sa che cosa vuol dire una tavola nuda? Dove uno
vive solo?. Perché un conto è un uomo che
vive solo, ma un conto è un uomo che ha i figli e non li rivede più, e
quest’uomo li cercherà dovunque. Capisce? Ed allora non sente la necessità di
pulire i piatti, di riordinare; perché non c’è un commensale. Questo è il
significato del disordine: non avere più alcun commensale a tavola.
In molti mi dicono ma
perché lei vive in questa casa povera? Ma io sto bene, io non ho creditori, le
dice niente? Se avessi una bella casa che è tutta indebitata. E invece così è
una casa dove nessuno bussa alla porta. Lei lo vede. E questa è già una ricchezza,
non avere creditori.
Io ho sorpreso un ladro.
Ed è entrato in questa casa ed ha rubato. Da quel giorno io non l’ho amata più,
perché è entrato un uomo che io non volevo, la cui presenza mi ha offeso. E da
allora è diventata proprietà del ladro. Basta che entri una presenza malevola,
ma anche nella sua anima e lei non vuole più amarsi.
Ci si sente cacciati via
ogni volta che si sente chiudere la porta a chiave. Perché qui si muore
tranquillamente senza che nessuno si accorga. E questo è stato uno degli
ingredienti del delirio.
Questa solitudine non
solamente dovuta come dicono gli altri: Dove sono i suoi figli?
Ma dov’è la società?
L’altro dov’è?
Vogliono denaro, vogliono
l’equivalente di quello che ti danno. E non hanno mai pensato, che per esempio, danno una cosa, e ricevono in cambio amore? Questo non
interessa.
Magari gente di basso
rango che mi avvicinava, che mi domandavo se ero disponibile, sono state
proprio delle pugnalate. Perché il naviglio non distingue il genio da chi è
stato in manicomio. Ci vanno in manicomio anche i geni perché sono geni, è diverso,
il manicomio non è uguale per tutti.
Dice molto bene Madre
Teresa di Calcutta: L’indifferenza è peggiore della colpevolezza. È più
giustificabile l’assassino di colui che fa finta di non vedere, di non capire e
lascia morire in un disagio d’amore, in un disagio d’ambiente, una persona che vorrebbe fare qualcosa di
bello nella vita.
Ma poi la confusione
generale ha finito per trascinare via anche me. Cioè ho visto che la gente è
molto confusa, non sa quello che vuole. Di conseguenza, anche quelli che erano
i miei valori io li ho perduti lungo la strada.
È un trauma
irreversibile, lo spavento iniziale è ciò che determina le atroci cadute dopo.
Il poeta è più
perseverante degli altri, non digerisce molto bene certe cose. Ci sono persone
che sono state votate al sapere, alla poesia per tutta una vita sacrificando
dei piaceri effimeri, e però ci sono dei deliri di lettura che veramente
portano a cose in alto e per questo valgono.
Alda Merini
“Il motivo per cui il
trauma non termina mai per il cervello è che esso lascia un residuo di un
affetto non elaborato, dissociato, che il cervello non è in grado di regolare.”
L’ombra dello tsunami. Philip Bromberg
Esempio secondo:
I PAZZI DI GREGOIRE, libro di Valerio Petrarca
Gregoire Ahongbonon
è un
africano che si prende cura degli africani in
povertà assoluta come quegli uomini, donne e bambini che mangiano gli
avanzi gettati a terra. Lui cerca queste creature, le lava, le veste e le porta
nei suoi centri d’accoglienza per i bisognosi e per i malati di mente. I centri
di Gregoire sono al centro e al nord della Costa d’Avorio
(esattamente a Bouakè
e a Korhogo).
Dal 19 settembre
2002 si combatte una guerra
interna: al sud prevale l’esercito governativo, invece, al nord quello dei
ribelli. Il libro narra di come l’autore ha affrontato il viaggio verso la
Costa d’Avorio, gli ostacoli e le disavventure che ha dovuto affrontare, e di
come aiutava la comunità (bambini, giovani, bambini soldati...) di un
villaggio. Per esempio nelle scuole del villaggio le lezioni duravano quanto
quelle universitarie e alla fine c’era spazio di riflessione sulle notizie
riguardanti la Costa d’Avorio.
Il
manicomio di Gregoire
Il manicomio di Gregoire sembrava un carcere e
l’elemento particolare era che i pazienti potevano fare quello che volevano.
Dentro al manicomio di Gregoire era rinchiuso Aboubacar chesi era trovato nel
corso di una retata fatta dal K5 (nome in codice dei capi) perché l’hanno
scambiato per un militare del K1 che era in vacanza e l’hanno infilato nudo
dentro un container e l’hanno tenuto per giorni fino all’arrivo dei francesi.
Aboucabarha un padre che si chiama Lamine che Aboucabar tirò fuori di prigione.
Lassina (un altro del
manicomio) credeva nella credenza che l’iniziazione al poro lo rendesse
invisibile ai nemici e lui convinto di esserlo si addormentò in macchina (in
Costa d’Avorio avere la macchina significava far parte di una fazione) e nei
dintorni passava una pattuglia di un’altra fazione che lo scambiò per un nemico
credendo che fosse un ladro e
quindi lo portano dal loro
capo e
calandogli giù i pantaloni gli sparano alla coscia. Gli sparano alla
coscia e non lo uccidono perché aveva un nome abbastanza conosciuto, infatti
nel manicomio è un paziente abbastanza conosciuto.
L’INTERVENTO
RIVOLUZIONARIO DI GREGOIRE
Prima dell’arrivo di
Gregoire i pazzi venivano trattati in un modo violento (legati con le corde e
mandati al letto con i psicofarmaci), ma con l’arrivo di Gregoire essi sono
stati slegati e lui cominciò a trattarli in un modo più pacifico cosicché loro
stavano così bene con lui che si dimenticarono dei loro problemi e del loro
essere pazzi. Quando il 19 settembre 2002 scoppiò la guerra e quasi tutti
fuggirono dal villaggio di conseguenza Gregoire si preoccupò di come far
sopravvivere i pazzi alleandosi con i francesi e con i capi ribelli per non far
scarseggiare il cibo. La guerra è tra il governo avoriano e i capi ribelli,
entrambi tolgono il cibo alla popolazione:
•Il governo: spera che la
popolazione si ribelli contro i capi ribelli per la scarsità di cibo,
L’INTEGRAZIONE TRA DUE
RELIGIONI
•I Capi ribelli: sperano
nell’arruolamento (motivo per cui tolgono il cibo) Gregoire invece di dare il
cibo solo ai pazzi lo dà anche al resto della popolazione affamata. Lui decide
di non allearsi più con nessuno perché c’era il rischio di essere ammazzati se
si cambia sempre fazione. Visto che Gregoire adorava tutti organizzò una festa
di carnevale dove invitò tutti compreso i musulmani e alla festa si poté notare
l’integrazione tra le due religioni. Gregoire era un nullatenente che faceva il
gommista poi nel 1971 va in Costa d’Avorio dove fa un sacco di soldi ma poi li
perde tutti quanti e così abbraccia Gesù e la chiesa. Dopo va in un ospedale
dove stringe un buon rapporto con un proprietario di un bar dell’ospedale e
riesce a trasformare il bar in una cappella per pregare. Il ministro della
sanità scoprendo questo fatto ne fa visita e, rimasto contento dell’idea di
Gregoire, gli offre uno spazio più grande dove lui crea uno spazio per i malati
mentali. Salie era la ragazza che piaceva a Gregoire però non la poteva sposare
perché il padre di lei voleva che lui si convertisse all’Islam. Gregoire non si
converte e quindi il padre la dà in
sposa ad un
altro. Così Gregoire
cerca un’altra donna
per distrarsi dal pensiero di lei e si sposa con Leontine.
All’inizio Gregoire diventa un imprenditore facendo il tassista finché non
viene sommerso da debiti che non riesce a pagare. Un giorno guidando un taxi
taglia la strada ad un motociclista e litigando con lui finisce per fare a
botte e alla fine il motociclista gli fa causa sbattendo in galera Gregoire e
lì pensa al suicidio.
Gregoire stava quasi
sempre in galera
perciò non riusciva
a mandare avanti la
sua impresa e
quindi l’impresa stava
sull’orlo del fallimento. All’inizio Gregoire non voleva
andare in Terra Santa però dopo ha incontrato Joseph Pasquier che
lo convince ad andare nel
1982.
Gregoire,
appena arrivato in
Costa d’Avorio viene sfruttato da due delinquenti, Michel e Winsou, però
riesce a scappare a Bouakè e lì lo aiuta Ousmane. Dopo che Ousmane lo aiuta si
avvicina ai malati e così fonda una associazione. Lui in Terra Santa si rese
conto che ha commesso degli errori nella vita e decide di compensarli.
Bibliografia
Centro B.R.A.I.N per le
Neuroscienze, Università degli Studi di Trieste
http://www.lucaticini.com/wp-content/uploads/Neuroscienze_per_iniziare.pdf
“ESSERE SANI IN LUOGHI
FOLLI” BY DAVID ROSENHAN
Sitografia
http://www.provinz.bz.it/sanita/download/Turoldo-L-AUTONOMIA-NELLA-SALUTE-E-NELLA-MALATTIA.pdf
accademiadellacrusca.it/it/consulenza/unidea-di-unicit%C3%A0-lidiosincrasia/1717
Videografia
La pazza della porta
accanto, intervista ad Alda Merini. Regista: Antonietta de Lillo
UN SENSO DELLA LETTURA
“Ho letto moltissimi
libri, ma ho dimenticato la maggior parte di essi. Ma allora qual è lo scopo
della lettura?”
Fu questa la domanda che
un allievo una volta fece al suo Maestro.
II Maestro in quel
momento non rispose. Dopo qualche giorno, però, mentre lui e il giovane allievo
se ne stavano seduti vicino ad un fiume, egli disse di avere sete e chiese al
ragazzo di prendergli dell’acqua usando un vecchio setaccio tutto sporco che
era lì in terra.
L’allievo trasalì, poiché
sapeva che era una richiesta senza alcuna logica.
Tuttavia, non poteva
contraddire il proprio Maestro e, preso il setaccio, iniziò a compiere questo
assurdo compito. Ogni volta che immergeva il setaccio nel fiume per tirarne su
dell’acqua da portare al suo Maestro, non riusciva a fare nemmeno un passo
verso di lui che già nel setaccio non ne rimaneva neanche una goccia.
Provò e riprovò decine di
volte ma, per quanto cercasse di correre più veloce dalla riva fino al proprio
Maestro, l’acqua continuava a passare in mezzo a tutti i fori del setaccio e si
perdeva lungo il tragitto.
Stremato, si sedette
accanto al Maestro e disse: “Non riesco a prendere l’acqua con quel setaccio.
Perdonatemi Maestro, è impossibile e io ho fallito nel mio compito”
“No — rispose il vecchio
sorridendo — tu non hai fallito. Guarda il setaccio, adesso è come nuovo.
L’acqua, filtrando dai suoi buchi lo ha ripulito”
“Quando leggi dei libri —
continuò il vecchio Maestro — tu sei come il setaccio ed essi sono come l’acqua
del fiume” “Non importa se non riesci a trattenere nella tua memoria tutta
l’acqua che essi fanno scorrere in te, poiché i libri comunque, con le loro
idee, le emozioni, i sentimenti, la conoscenza, la verità che vi troverai tra
le pagine, puliranno la tua mente e il tuo spirito, e ti renderanno una persona
migliore e rinnovata. Questo è Io scopo della lettura”.
ISTANTI PRIORITARI,
ISTANTI CONCORRENTI E L’UNIVERSO DEL SECONDO
Potremmo inventare una
teoria, chiamiamola la teoria ‘degli istanti prioritari’ secondo cui tra i
miliardi di istanti della vita di ciascuno alcuni di essi sono fondamentali
poiché devianti radicalmente il percorso di vita di ciascuno. Contesti di
rilevanza dei secondi prioritari sono relativi - ad esempio sia la variabile
della solitudine, sia la variabile della relazione possono essere contesti
utili alla esistenza degli istanti prioritari. Pensiamo ad uno studioso che
reinventa una scienza in solitudine • e parallelamente pensiamo al cantante che
realizza un concerto in relazione a milioni di persone. Il principio
attitudinale potrebbe prevedere che per essere preparati ad affrontare giustamente
gli istanti prioritari della sua vita debba credere che ciascun istante della
sua vita sia prioritario - ad esempio gli istanti di preparazione ad un esame
sono prioritari poiché concorrono alla buona riuscita dell’esame i cui istanti
sono prioritari.
Esistono istanti di vita
prioritari? Sarebbero quei secondi che impieghi una vita per agirvi giustamente
e che rimpiangeresti la vita se non riuscissi a gestire quei secondi
adeguatamente. È vero che quei secondi definiscono inesorabilmente una
direzione? È vero che il battito d’ali di una farfalla implica un tornado
lontano?
Amo credere che la
direzione sia reversibile, c’è una possibilità alternativa all’inesorabilità.
Tuttavia occhi più umani
perdonerebbero l’incertezza del trovarvisi li impreparati e si riconoscerebbe
in verità che ciascun istante della vita possa cambiare un destino inesorabile
che sembra un muro e che è in verità un ponte. Ciascun istante può essere un
istante prioritario.
C’è chi ha voluto nuotare
l’oceano dell’improbabilità ed ivi vi ha trovato la sua nave di possibilità:
Un gruppo consuetudinario
di giovani si incontrò per anni, un appartenente al gruppo si separò da loro
per molto tempo, tuttavia il suo allontanamento non fu definitivo, egli ritornò
non fu rifiutato e fu accolto come prima. Si riconoscono gli istanti prioritari
nell’esempio del perdono, in verità quando nell’occasione del primo incontro
insieme seduti intorno al tavolo, un amico tra i presenti si assentò per alcuni
secondi dalla stanza, egli voleva comunicare a colui che era ritornato. “Vedi?
Come me, ci siamo lasciati per un attimo, (furono anni di lontananza
relazionale) e adesso siamo nuovamente insieme, va tutto bene.”
Allora distinguiamo tra
istanti concorrenti e istanti prioritari. Gli istanti concorrenti sono il tempo
che concorrono alla buona riuscita del compimento degli istanti prioritari. La
buona riuscita degli istanti prioritari può dipendere dalla resilienza,
perseveranza e quotidianità delle attitudini buone realizzate nel tempo degli
istanti concorrenti. La seconda chiave utile al buon conseguimento degli
istanti prioritari è la coerenza - ovvero il conciliare il continuum degli
istanti concorrenti con la qualità degli istanti prioritari. Solitamente il
tempo degli istanti prioritari è caratterizzato da contesti di ipersensibilità
relazionale e severità - ln quei momenti non si deve e non si può sbagliare -
altrimenti? Altrimenti la direzione della nostra vita devia verso contesti
ambientali imprevisti, o avversi o inconciliabili con il nostro mindset. Vi è
una seconda teoria relativa al butterfly EFFECT (attrattore di Lorenz) che
possiamo applicare alla dialettica di relazione - il battito d’ali di una
farfalla implica lontano un uragano - pertanto è bene stare accorti quando
attribuiamo scontatezza alle realtà della nostra vita poiché possono essere
proprio quelle banali realtà a implicare una variazione grave del nostro
destino o del destino del prossimo - la premura relazionale prescriverebbe di
intendere il prossimo gracile come una foglia - estremizzando si intende che
una attitudine di negatività lieve può implicare nel prossimo gravi status di
sofferenza. Non sempre è così ma può succedere.
Relazione tra status di
ansia e periodo di percezione di istanti prioritari
La percezione di
responsabilità sulla base del “Come agire giustamente” nel momento in cui si
vivono momenti di vita fondamentali per la propria vita implica un incremento
della concentrazione e parallelamente un incremento della tensione emotiva e
pertanto un aumento dello status ansioso.
Come riconoscere allora
gli istanti prioritari relazionali? Quando per esempio si percepiscono
fisiologicamente, psicologicamente o istintivamente status di ansia o di
aumento di concentrazione – l’aumento della concentrazione non è che il sintomo
dell’incremento della attenzione volontaria o subconscia in relazione pertanto
al focus con cui ci relazioniamo – ovvero la percezione di rilevanza fattuale
maggiore di un contesto e situazione rispetto ad altri ed insieme una
attribuzione di importanza ed interesse a cui dedichiamo la nostra attenzione
attiva o passiva.
Argomento del libro
“Tesi” L’universo del secondo
Sia gli istanti
prioritari, sia gli istanti concorrenti, ovvero ciascuno degli istanti di vita
personali sono caratterizzati dalla gravosità della generalità e della
universalizzazione – In relazione ai concetti di “sincronismo” e di
“frattalismo”, di decontestualizzazione argomentati nel libro “Tesi”. Il nostro
pensiero possiede la abilità della esteriorizzazione contestuale, pertanto
ciascuno di noi non vive esclusivamente i contesti relazionali adiacenti, bensì
altresì i contesti relazionali lontani e svariati nel tempo e nello spazio.
ubiquita
ubiquità s. f. [dal lat.
mediev. ubiquitas -atis (der. del lat. ubīque «in ogni luogo»), sull’esempio
del fr. ubiquité e dell’ingl. ubiquity]. – 1. a. L’essere contemporaneamente in
ogni luogo, detto di Dio e di alcuni santi che ebbero da Dio questa facoltà
(sinon. di onnipresenza): l’u. di Dio; sant’Antonio ebbe il dono dell’ubiquità.
b. estens. La facoltà di essere fisicamente presenti nello stesso momento in
due o più luoghi; per lo più in frasi iperb. o negative: quell’uomo è presente
dappertutto, come se avesse il dono dell’u.; fam., non ho il dono dell’u.!, non
posso essere in più luoghi al tempo stesso.
LA TEORIA DELLA
MARGINALITA’
La bontà del negativo
risiede nella vastità del margine di possibilità di essere positivizzato e dunque
della elevata probabilità di rilevanza fattuale di cambiamento positivo.
Il margine positivizzante
esiste in premessa dell’ambiente negativo, qualunque esso sia, ciascun ambiente
negativo è garanzia e premessa della esistenza di una iniziativa positiva in
quanto a percezione di differenza contestuale tra i contesti dell’olismo
ambientale.
Se segniamo un punto con
inchiostro bianco su un foglio bianco – la rilevanza fattuale di cambiamento
olistico non si percepisce come rilevante, differentemente se segniamo un punto
con inchiostro bianco su un foglio nero – la rilevanza fattuale di cambiamento
olistico si percepisce come rilevante.
LA FATTIBILITA’ DI
CONVERSIONE
Una realtà interamente
nera, universalmente nera ha come proprietà ambientale una fattibilità di
conversione in realtà bianca del 100%: Sul foglio nero sono segnabili miliardi
di punti bianchi ed il foglio diverrebbe bianco. In quale luogo ambientale possiamo
iniziate a segnare un puto bianco? La libertà di iniziare dovunque sul foglio
nero – poiché dovunque nel foglio nero il nostro segno ha rilevanza fattuale.
Questa riflessione adduce
che i climi ambientali di severità ontologica di dispotismo di una realtà
rispetto alle realtà minori sono i più suscettibili al cambiamento.
Il punto sul foglio
bianco
Utilita marginale
Vediamo degli esempi
LA CONVERSIONE MARGINALE
La reiteratività di una
singolarità in un olismo caratterizzato da unicità
Segnando un punto nero su
un foglio nero reiteriamo, diamo ennesima prova delle proprie qualità,
riaffermiamo la qualità nera del foglio nero, il foglio in grazia del nostro
punto nero è più nero. Se lasciamo il foglio nero e non adduciamo né un punto
nero, né un punto bianco, né un punto colorato, non via agiamo alcun valore
aggiunto? No, la inazione è valore aggiunto neutrale che reitera in grazia di
noi la sua essenza di essere nero. Il foglio in grazia del nostro punto nero è
nero. Se segniamo un punto bianco sul foglio bianco – in grazia della nostra
iniziativa il foglio è già divenuto bianco e nero.
La neutralità ambientale
e l’origine della pura creatività.
La pura creatività si
realizza nel ritorno all’origine ambientale, nella ininfluenzabilità
dell’ambiente esteriore sulla essenza interiore di mindset creativo.
In origine il foglio è
trasparente –
Il puro valore aggiunto
La pura creatività e
rivelazione della nostra essenza si avrebbe nella buona conversione
dell’ambiente in grazia della iniziativa nostra la cui qualità è pura il quanto
conciliata con la nostra pura essenza e ininfluenzabile dalle qualità
ambientali – Potremmo allora vedere un foglio interamente nero come
trasparente, il foglio non è vergine poiché è già stato segnato, ma noi lo
crediamo vergine e trasparente per agirvi creativamente puramente in esso,
poiché in tal modo non siamo influenzati dalla qualità ambientale, e ad esempio
saremmo in grado di essere oltre il timore del dispotismo ambientale del foglio
nero, e saremmo sì coraggiosi da segnare il primo punto bianco.
IL TIMORE DI CAMBIARE UN
AMBIENTE DI OLISMO DISPOTICO.
Abbiamo timore di segnare
il primo punto bianco sul foglio interamente nero perché?
Perché il fatto del segno
del nostro punto bianco significherebbe la dimostrazione della nostra
differenza ontologica essenziale e di mindset testimoniata dalla nostra
attitudine di avere segnato il punto di colore bianco, rispetto alle miriadi di
persone che hanno segnato i punti neri.
LA CONVERSIONE MARGINALE
E LA ILLIBATEZZA E RESILIENA ESSENZIALE ALLA RELAZIONE CON MINDSET CONTRARI
Se adduciamo un punto
bianco sul foglio nero metaforicamente non sostituiamo un punto nero con un
punto bianco ma poniamo “al di sopra” del punto nero il punto bianco.
Questo sta a significare
che la differenza di mindset e confutazione attitudinale di una idea non
implica annichilimento essenziale di della persona che la pensa diversamente da
noi.
LA TEORIA DEL SUPERFLUO
MARGINALE
Quando la aggiunta
d’acqua in una caraffa satura implica lo sgorgare d’acqua dalla caraffa.
O il segno colorato del
medesimo colore del foglio su cui si segna.
Quando una iniziativa è
ininfluente, quando una azione si percepisce come inazione – Avete mai percepito
un fiume come se in movimento reiterasse la sua essenza in ogni istante uguale?
Il flutto d’acqua di una
semplice fontana sembra solidamente immobile e marmoreo.
Il vaso saturo non può
essere riempito, il vaso vuoto può essere riempito.
In verità il vaso saturo
può essere riempito, ma questa aggiunta in un ambiente saturo implica un
sacrificio delle realtà che la vastità contestuale ambientale non può ammettere
– L’avere luogo implica la sottrazione di spazio ambientale come
implementazione qualitativa del medesimo spazio ambientale.
Quando l’avere luogo è un
impoverimento del luogo? Quando una esistenza inficia, corrode, avvelena,
compromette la vita e la vitalità stessa di quel luogo, pensiamo alla
pallottola nel cuore.
Ma il vaso saturo può essere
svuotato: Il miglioramento come sacrificio
IL MARGINE DI
POSSIBILITA’ DI INIZIATIVA CREATIVA RELAZIONALE E’ MAGGIORE IN UNO STATUS
RECIPROCO RELAZIONALE DI DECADENZA RELAZIONALE –
Immaginiamo l’esempio
metaforico con la fattibilità di restauro di un immobile, così è per ciascuna
nostra relazione. La fattibilità creativa di restauro di un immobile in rovina
è maggiore rispetto alla fattibilità creativa di modificazione essenziale di un
immobile in status ottimale.
Altresì per le relazioni
con le quali abbiamo raggiunto lo zero di vitalità relazionale c’è possibilità
di variazione, anzi, c’è più spazio di miglioramento (Come abbiamo già
argomentato) rispetto alle relazioni il cui status di vitalità è al 100%, ciò
che è migliore non può essere migliorato, è ciò che non è perfettamente
migliore e ottimale che può essere migliorato.
Il margine di possibilità
di conoscenza tra due sconosciuti è diametralmente superiore rispetto al
margine di possibilità di conoscenza tra due persone che giudicano di conoscersi.
In uno status relazionale
di antipatia c’è maggior possibilità di iniziativa di instaurare simpatia.
Quale è il valore insito
nella stoltezza? La possibilità della non ignoranza – Poiché il margine di
miglioramento culturale è vastissimo in un mindset caratterizzato da povertà
culturale.
Il frutto immaturo può
maturare, il frutto maturo matura meno del frutto immaturo.
Ed il valore aggiunto di
un opposto di simpatia in un clima di antipatia relazionale assume maggiore
rilevanza fattuale i
IL CONTRASTO MARGINALE ED
IL VALORE AGGIUNTO DISSONANTE
La percezione di un
valore aggiunto dissonante è discreta rispetto all’andamento continuum
dell’opposto gemello.
Ed il valore aggiunto di
un opposto dissonante rispetto alla qualità che imperversa universalmente
nell’ambiente olistico assume maggiore rilevanza fattuale in quanto compimento
di un opposto caratterizzato da minoranza quantitativa rispetto all’opposto
maggiormente esistente nell’olismo di questi opposti, il flebile lume di una
candela nel buio è una luce che attira l’attenzione poiché crea un forte
contrasto con l’ambiente buio.
L’ALEATORIETÀ DEL MAYBE
Uno scrittore creativo
grazie alla sua fervida immaginazione volle immaginare una simulazione di
distruttività, egli non escluse a priori che nella distruttività potesse
risiedere un valore, quale? .
Lo scrittore immaginò di
bruciare interamente il libro che ebbe scritto di vastità di centinaia di
pagine e di struttura letteraria romanzesca. Distinguendo due casi, se questo
libro fosse stato l’unica sua copia, cosa avrebbe implicato il fatto del rogo
dell’unico libro per il suo stato d’animo altresì in relazione al fatto che la
sua opera certamente non avrebbe avuto nuovi lettori. Il secondo caso, ovvero
la possibilità che il libro bruciato fosse una delle copie autografe. Egli da
questa esperienza di associazione immaginativa imparò :
“Ho dovuto paragonarti ad
una assenza affinché mi mancassi, affinché potessi comprendere il valore
profondo dell’avere luogo di ciascuno di noi, basterebbe mostrare a qualunque
osservatore il vuoto che sostituisce il luogo di una precedente presenza per
fare comprendere all’osservatore la grave dissonanza cognitiva che compendia la
relazione presenza-assenza.” Questa dinamica di pensiero vale per la relazione
persona-oggetto (scrittore e libro autografo in questo caso) ma altresì nel
caso relazionale persona-persona.
Con i libri, siamo
fortunati, vedete, si possono replicare, in essenza virtuale, o in numerose
stampe cartacee, se si rovina una copia la possiamo sostituire con una sua
copia appunto. Ma noi persone non siamo intercambiabili. Ciascuno di noi è una
unica copia autografa, e nel caso si andasse a perdere una unica copia di un
libro autografo, nessuno scrittore/scrittrice in questo mondo avrebbe una
memoria così mirabile da ritrascrivere perfettamente le medesime parole di una
opera autografa di miriadi di pagine, il presupposto è che ciascuno di noi non
è ritrascrivibile dal prossimo, la nostra manifestazione autentica è la
rivelazione della nostra presenza-essenza, non lo spettro del ricordo che un
prossimo può cogliere dei noi che fummo, poiché una assenza relazionale
coincide con una presenza che è dissimile dallo spettro del ricordo altrove nel
tempo e nello spazio.
Sappiamo che il libro di
ciascuno di noi possiede miriadi di pagine metaforiche . L’analogia metaforica
sarebbe questa: La variazione di quantità ha il medesimo valore
qualitativo: Qualcuno della sua essenza
ha realizzato un museo, altri una biblioteca, qualcuno un segno, altri una
parola; ed un segno o una parola sarebbero analogamente valevoli rispetto al
museo o alla biblioteca.
E se l’autore perdesse la sua unica opera si
dispiacerebbe di tre qualità essenziali.
1 Si dispiacerebbe della
corporeità del libro, del profumo delle sue antiche pagine, delle fini
ondulature della carta e sbavature d’inchiostro che le lacrime cadendo hanno
implicato su alcune pagine,
dell’ingiallimento che il sole ha implicato sulle sue candide pagine,
delle pieghe sui lembi delle pagine che il lettore-scrittore ebbe realizzato
per incontrare più rapidamente le pagine più importanti, si dispiacerebbe della
superficialità della copertina.
2 Si dispiacerebbe del
profondo significato generale olistico del suo romanzo.
3 Si dispiacerebbe di
avere realizzato un luogo relazionale che empisse un vuoto che tuttavia ha ora
prevalso.
Così è se dovesse
accaderti una o più lontananza relazionale - fingiamo che non gravi sul nostro
cosentimento la dissonanza cognitiva presenza-assenza descritta dal concetto -
Non è più qui - ma ci accontentiamo dello spettro del ricordo qualora non ci impegnassimo
a colmare il vuoto di assenze che potremmo colmare semplicemente cercandoci,
qualcuno dei due inizierà per primo a cercare. Allora ritorniamo all’esempio
del libro.
Come lo scrittore si
sarebbe dispiaciuto della corporeità del libro, noi persone ci rattristeremmo
della assenza concreta del corpo della persona e delle sue caratteristiche,
qualunque esse siano, annettiamo ogni devianza superficiale corporea poiché
sintomo ontologico della nostra non sostituibile unicità essenziale. Ci
rattristeremmo della conoscenza olistica che acquisimmo nel tempo di relazione
con lei in quanto a percezione presente di senso generico del ricordo di una
presenza che fu e che è ricordo. Ci dispiaceremmo infine di avere realizzato un
luogo relazionale che empisse un vuoto che tuttavia ha ora prevalso.
Ed è proprio questo vuoto
la negatività che in paradosso e contraddizione si rivela essere il malinconico
ambiente florido di riconoscimento della causa prima motivo della nostra
iniziativa relazionale di incontro. Poiché lo scrittore che perse per sempre la
sua unica opera autografa la piange, come piangiamo i nostri defunti - ma lo
scrittore che perde il suo unico libro lo può ritrovare solo se lo cerca. E nel
mentre del suo cercare sarebbe preoccupato della situazione ambientale del suo
libro - se le piogge vanno scemando i suoi inchiostri o se il sole incanutisce
le pagine rendendo inintelligibili i suoi significati.
L’aleatorietà del maybe
imperversa l’urgenza di sapere se siamo e come stiamo.
Ma non siamo solamente come
libri che l’autore bene conosce, siamo altresì libri nuovi di cui il lettore è
curioso – allora esiste altresì la malinconia causata da una mancanza
superficiale futura, piangiamo i sogni non avverati – allora comprendiamo che
anche gli sconosciuti possono mancarsi, ma che cosa mancherebbe tra di loro se
non si avverasse? La potenzialità relazionale – il lettore piangerebbe il non
potere arricchirsi della lettura di un nuovo libro di cui vede solo la
copertina.
L’ELASTICO DEL RISPETTO
Secondo te il rispetto è
importante?.
Sì il rispetto è
importante. Perché? Ora. Ci sono due possibilità. Il fatto di rispettare ha due
implicazioni che possono accadere simultaneamente: in sé il rispetto è una
variabile che determina la misura di relazionalità reciproca. Premettiamo che
il dono di rispetto e la pretesa di ricevere rispetto determina dal punto di
vista della relazione la giusta distanza dialogico-relazionale – in direzione
di un limite che reciprocamente si istituisce da non superare in contesti di
amistà parliamo delle qualità di fedeltà – il rispetto esula il tradimento – e
di tutela alla intimità della persona da rispettare – in una relazionalità
rispettosa si esulano le attitudini oltraggiose che ad esempio oltrepassano la
privacy, o che non tutelano la persona stessa come nel caso di attitudini
irrispettose che dialogicamente o attitudinalmente compromettono o infangano la
essenza di una persona – tuttavia estremizzando la bontà delle attitudini
Riguardose e rispettose rischiamo che la presa delle distanze di una persona
non sia della giusta misura ma ecceda in attitudini di aggressività passiva di
apatia, di indifferenza relazionale – asetticismo – la gravità della
radicalizzazione rispettosa degenera ad esempio nel caso della differenza di
genere nella disaffettività e nella distanza concreta dei corpi, un mindset
velenoso che ha come sintomo più grave il divieto del contatto emotivo, intimo,
e fisico, il sintomo più grave ed evidente è il non sfiorarsi delle persone –
pertanto questa dinamica degenerata è deviante di cui il germoglio del rispetto
è origine è da ricusare in quanto fonte di stasi relazionale, immaturità
reciproca, in direzionalità della fine inesorabile relazionale in casi sia di
principio di incontro sia in casi di profonda conoscenza reciproca. Pertanto la
iniziativa di rispetto può essere intesa in analogia al significato che
associamo al pudore –
come ostacolanti la
profondità relazionale. Ora – in situazioni di amistà superare la linea del rispetto
può sia temprare la amistà, sia decaderla ad esempio in situazioni in cui
l’eccesso di libertà decisionale del prossimo su una persona si ripercuote e
non tutela la libertà, la carriera, la reputazione sociale, la essenza e la
vitalità della persona che vede un amico/a realizzare una attitudine gravemente
negativa e inconciliabile con lui/lei – in questi casi la superficiality
relazionale è più benevola perché più Riguardosa. In relazioni tra diversità di
genere il rispetto può implicare decadenza dialogica – in sintesi non si sa di
che parlare proprio al fine di non oltrepassare il limite rispettoso – tuttavia
se vogliamo profondità relazionale e affettività e sessualità il primo e più
radicale livello di rispetto che prescrive la radicale superficiality
contattivo – dialogica deve essere superato – per evitare ciò che nominiamo
imbarazzo e aridità di approccio. Kant sosteneva che il limite non è solo ciò
che delimita una realtà bensì il limite è altresì ciò che è garante della
esistenza delle realtà che il limite circoscrive – pertanto la misura del
nostro estendere il nostro ‘elastico’ di rispetto reciproco implicherà la
nostra qualità di profondità relazionale. Ora. Questo discorso è personale non
nella accezione del riguardare i miei affetti bensì nella accezione dell’essere
relativa all’olismo relazionale equilibrato persona – persona che va oltre ogni
delega di responsabilità relazionale o disequilibrio di responsabilità come
discriminazione di genere vicendevole sia nel verso donna=> uomo, sia nel
verso uomo => donna. Non è intimabile al solo sesso maschile o al solo sesso
femminile la responsabilità di superficializzare o di intimizzare una relazione
– semplificando, la imposizione di apposizione di un limite di crescita e
approfondimento relazionale è una responsabilità sia dell’uomo, sia della donna
– in cosa risiede la responsabilità?
Risiede nella
procrastinazione relazionale nella disadattabilità e non intraprendenza
reciproca di non sapere sfruttare appieno le potenzialità e le possibilità
insite in ogni relazione che instauriamo – non vorrei che la dialettica del
rispetto fosse o diventasse garante del rifiuto e annichilimento personale –
perché ci tratteremo come libri in vetrina di un museo che nessuno legge e che
nessuno può toccare – ebbene questo eccesso di rispetto dell’oggetto libro non
segnerebbe che la sua morte ontologica e creativa. Comunitariamente possediamo
un mindset libertario – approfondiamo in un contesto ambientale dialogico
questa accezione libertaria in ottemperanza della regola del non varcare il
limite di rispettabilità del prossimo/a. Un contesto di aridità di approccio
può risolversi nella domanda: “Come stai? “ che in origine può essere veramente
sentita e interessata o un cliché della quotidianità ormai privo di valore. Ma
poniamo la nostra attenzione sulla risposta – allora ci possono essere tre casi
– la non risposta – la percezione di un cliché può essere interpretato come
indifferenza sullo status di salute o sulla situazione di vita di una persona,
la persona percepisce la mancanza di rispetto e manca di rispetto non
rispondendo. Un secondo caso si ha in qualità della risposta cliché “Bene” alla
domanda “Come stai” ed anche qui distinguiamo tre casi – il primo caso è che la
risposta “bene” sia vera, in questo caso potremmo confermare la veridicità di
questo fatto osservando come è la persona di fronte a noi, se fisicamente sta
bene, se sorride… solitamente questa
dinamica di dialogo è fiorente ovvero di solito si è in situazioni relazionali
amicali in cui si prosegue il percorso di dialogo approfondendo la relazione,
in questa situazione la dinamica del rispetto è equilibrata. Un secondo caso è
che la risposta “bene” sia falsa – qui distinguiamo due casi, il primo è la
difensifità, la persona che risponderebbe fingendo la risposta si mette sulla
difensiva.
Che cosa implica questa
dinamica in una relazione dialogica? indifferenza che causa fine dialogica,
noia, decadenza relazionale – prescriviamo che l’intraprendenza relazionale è
una buona cosa non è negativa, poiché il meccanismo di difensività di una
persona non relazionabile - che ad esempio non risponderà se la medesima
persona che ha domandato “Come stai? “ proverà a intraprendere un dialogo –
implica nel mindset della persona relazionale sconcerto, senso di colpa,
autoinduzione di un mindset di autodisistima provocato dal silenzio della
persona non relazionabile ( qui è la persona non relazionabile ad essere
antipatica, a mancare di rispetto alla persona relazionale – simpatica).
Che cosa sta comunicando
con il suo silenzio la persona non relazionabile alla persona empatica?
Restando in silenzio lei innalza il muro del suo livello di rispettabilità –
pertanto la persona empatica si trova al di là di questo muro solitamente
elevatissimo – allora secondo questa metafora, più la persona empatica cercherà
il dialogo con la persona non relazionabile più quest’ultima innalzerà il suo
muro di rispettabilità – Ripresentiamo la giustezza morale dell’incontro
relazionale, del dialogo per comprendersi – qualora non si dialogasse
rischieremmo di non potere avere prova della veridicità, corretta
contestualità, misura, e giusto valore delle nostre percezioni, supposizioni e
pregiudizi sulla pura essenza del prossimo/a relazionale, creando fallimenti di
senso che possono appunto mancare di rispetto al prossimo/a.
– (un eccesso di
difensività rispettosa autoindotta e severamente pretesa può implicare ad un
primo livello incomunicabilità ed incomprensioni in un clima di passività, e ad
un secondo livello aggressività attiva in misura e in qualità della percezione
della persona non relazionabile del varco del limite del rispetto che lei ha
determinato per il/la prossimo/a.
Pertanto caratterizzano le estremità passive attitudinali della
difensività come dirimenti a priori. Perché a priori? Perché in tali dinamiche
relazionali sussiste questa probabile realtà – la percezione di memoria o di
previsione falsificante della persona non relazionabile sulla persona che
dimostra invece intraprendenza relazionale ed empatia. La persona non
relazionabile tace o intima violenza dialogica verso la persona empatica non
per come è ora lei (empatica) , bensì in nome di una astrazione temporale
rispetto al presente – la persona non relazionabile addurrebe più rilevanza
fattuale alla sua percezione della sua essenza passata o futura rispetto alla
relativa attitudine presente. La persona non relazionabile pensa dunque –
Conosco come sei stato-a e pertanto non ti parlo o ti intimo violenza dialogica
– o ancor più gravemente – conosco come sarai (questa percezione è un nonsense
assurdo) e pertanto non ti parlo o ti intimo violenza dialogica. Ora, la
radicale tutela della personale rispettabilità implica attitudini di
difensività che mancano di rispettabilità verso il prossimo, non è la persona
empatica a mancare di rispetto, meglio la sua è una forma lieve di mancanza di
rispetto in quanto ciò che semplicemente adduce al suo comportamento è la
intraprendenza relazionale.
Mentre la persona non
relazionabile adduce più e diversi livelli gravi di irrispettabilità – la fine
inesorabile relazionale, la falsificazione identitaria sulla base delle sue
percezioni non comprovate, il senso di colpa (sfiduciato-a) , passività come
chiusura interpersonale che ha altresì una incidenza comunitaria in quanto a
reputazione interpersonale sociale – tanto che i meccanismi del silenzio
dialogico sono il germoglio di ciò che nominiamo emarginazione in quanto a
simulazione di analogia attitudinale di una molteplicità che replica il mindset
di disistima e di sfiducia di una persona che subisce diffidenza relazionale –
riflessione sul tema della ‘etichettatura’ come falsificazione identitaria , la
non relazionalità e le possibili attitudini di severità e violenza dialogica
attiva.
Sì evince una criticità
in misura ed in qualità in cui usiamo come metodo e monito di
superficializzazione relazionale il limite del rispetto. Conosco floride e
profonde relazioni di amistà costituite fin dalle origini da relazioni
dialogiche floride, gradualmente scemate nella aridità di saluti non
corrisposti o del cliché della iconica domanda e risposta “come stai? “ “bene”
e punto.
Ma ritorniamo alla
qualità ontologica della risposta “bene” alla domanda “come stai?” – se questa
risposta è falsa può essere sintomo di un motivo di benevolenza tutelate una
persona amica – ebbene la persona che risponde “bene” pone un velo sulla
propria sofferenza verso il prossimo affinché non si preoccupi per lui/lei è
affinché la sua sofferenza non sia gravante sulla persona che si sta
relazionando con lui/lei. Adduciamo comunque che le relazioni amicali profonde
sono altresì costituite dall’onestà e cosentimento nella reciproca
consapevolezza delle proprie debolezze, non solo delle proprie resilienze –
perché nella misura delle nostre facoltà innate o acquisibili desidereremmo
servire, nella accezione di essere utili, di aiutare, di compartecipare alla
soluzione delle flebilità relazionali.
Ma abbiamo compreso che
la amistà e la reciproca conoscenza non devono essere le cause della creatività
relazionale ma i suoi effetti – perché se non percepiamo amistà a priori non la
creiamo, analogamente per la dinamica della conoscenza, tanto è vero che il non
conoscersi in essere sta divenendo
motivo del non conoscersi in divenire. Una summa di creatività relazionale prescrivere
be la flessibilità dell’elastico della rispettabilità così da potere dedicare
possibilità oneste e chiarificanti dialogico-attitudinali al prossimo che si
relaziona sì da potere acquisire ciò che nominiamo la saggezza relazionale in
qualità della consapevolezza e reale compimento delle latenti potenzialità che
ciascuna nostra relazione possiede.
IL CONTRIBUTO
Tutte le superfici velano
il profondo:
Chi vide il profondo,
Vide già ogni superficie.
All the surfaces veil the
deep:
Who saw the abysmal
profound
already knows all
Surfaces.
Parole di introduzione
AUTOGRAFIA
L’ARTISTA ALL’INGRESSO
DELLA BIBLIOTECA E LA SCRITTRICE ALL’INGRESSO DEL MUSEO
La persona a cui fu detto
“Il tuo segno non vale nulla, è solo un foglio bianco.” Realizzò un museo dei
suoi disegni. La persona a cui fu detto “Questa lettera non mi dice niente, ho
letto solo le prime parole.” Realizzò una biblioteca dei libri di cui fu
scrittrice. Quando questa biblioteca e questo museo divennero famosi le persone
che in passato ebbero annichilito il segno dell’autorevole artista e la lettera
della rinomata persona scrittrice andarono per visitare questi ambienti.
TUTTAVIA l’artista all’ingresso della biblioteca proibì l’accesso alla persona
che diniegò la lettera della autrice dei numerosi libri esposti in biblioteca
sostenendo: “Non leggesti la lettera per intero, perdesti le parole che non
volesti leggere. ” E la scrittrice all’ingresso del museo proibì l’accesso alla
persona che diniegò il segno del disegnatore dei numerosi dipinti e disegni
esposti in biblioteca sostenendo: “Come vedesti del suo segno un foglio bianco,
hai già visto questo museo, per te questo museo sono soltanto pareti bianche,
non occorre che entri qui.”
LA UMILTA’ E’ IL LIMITE
CHE CIRCOSCRIVE E CHE E’ GARANTE DELLA POTENZIALITA’
Foreword
We all dedicate different
and changeable values and meanings about the reality we live in.
Do not misinterpret my
words, my silences, my story of life, my feelings, my thoughts through yours,
through the common mood of now, trough others preconceived knowledges and
interpretations cause they’re 99 % in fault. Just serenely and lightly talk with
me to achieve the awareness of my veiled truth, it may hug the 1 % or the 99 %,
the oversight in caring in the false % may be unfavorable for the entire our
relationship because of the ghost of the prejudice and the chain of
certainties.
THE CONTRIBUTION: THE
FUNDAMENTAL SENSE OF SHARING
Are you a born writer?
Where you put on Earth to be a painter, a scientist. An apostle of peace? In
the end the question can only be answered by action. Do it or don’t do it. It
may help to think of this way. If you were meant to cure cancer or write a
symphony or crack cold fusion and you don’t do it, you not only hurt yourself,
even destroy yourself. You hurt your children. You hurt me. You hurt the
planet. You shame the angels who watch over you and you spite the Almighty, who
created you and only you with your creative idiosyncrasy unique gifts, for the sole purpose of nudging the human race
one millimeter farther along its path back to God. Creative work is not a
selfish act or a bid for attention on the part of the actor. It’s a gift to the
world and every being in it. Don’t cheat us of your contribution, Give us what
you’ve got.
UNA ACCEZIONE ALTERNATIVA
DEL CONCETTO DI UMILTA’
Una critica alla dinamica
dell’umiliazione. Parliamo a esempio del tema dell’umiltà. Associamo
solitamente la mentalità della umiltà alla magnanimità ed alla sprezzatura -
definiamo magnanimità:
Grandezza di animo,
generosità - umiltà come gratitudine e spirito di dono del valore aggiunto.
Sprezzatura - realizzare miracoli attitudinali come se fossero attitudini
semplici, quotidiane, normali caratterizzate dal non vanto e dalla non maestosa
esternazione delle personali potenzialità.
Tuttavia etimologicamente
il concetto di umiltà è altresì:
Umiltà dal lat. humilĭtas
-atis].
(Da rilevare la
consonanza e assonanza etimologica con il temine di attitudine attiva
umiliazióne s. f. [dal lat. tardo humiliatio -onis].)
- L’essere di condizione
sociale, origine e sim., non elevata: u. di natali. In relazione alla
concezione limitativa ontologica di una persona: Sentimento e conseguente
comportamento improntato alla consapevolezza dei proprî limiti e al distacco da
ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé. Sentimento e atteggiamento
umilmente riverente e sottomesso.
Ma solitamente nessuno pensa
ad una prospettiva negativa dell’umiltà indotta, ovvero la concezione secondo
cui l’umiltà sia uno strumento deviante l’essenza del prossimo nella accezione
di impoverimento e non equilibrato riconoscimento delle reali facoltà del
prossimo?
TO DEFINE IT IS TO LIMIT.
TO BE ESTIMATED MORE TO
BE ESTIMATED DIFFERENTLY TO BE ESTIMATED BETTER: DON’T JUDGE, DON’T DEFINE.
DON’T CUT THE FLOWER
BEFORE HIS NATURAL GROWTH ONLY TO SAY: THE FLOWER, IT IS SO AND NOTHING MORE.
BE PATIENT AND GIVE THE FLOWER THE WATER, THE TIME AND THE SPACE TO BECOME, AND
IF YOU BELIEVE IT, THE FLOWER WILL DONATE YOU SOONER OR LATER HIS BEST SHAPES
AND HIS BEST SHADES.
Approfondiamo - l’umiltà
implica nella relazione un substrato strutturale di misura di proprietà, di
abilità, di essenze – Imposizione di umiltà si può intendere come attitudine
giudicante MINORATIVA instaurando un sistema relazionale sbilanciato non
egualitario di diritti essenziali e di non rispetto - realizzando non una
relazione valoriale di simili ma di un/a superiore che sottopone un inferiore
adducendogli la necessità essenziale della bassezza rispetto alla altezza.
State molto attenti a chi vi impone il messaggio - devi essere umile,
riflettete sulla possibilità che questa persona vi stia mancando di rispetto,
questa vi starebbe semplicemente intimando – Stai al di sotto di me - nella
direzione di una sequenza attitudinale volta alla vostra manipolazione
caratteriale, essenziale, attitudinale. Siate voi gli artefici della vostra
direzione, ma non fatevi deviare. NON PERMETTERE A NESSUNO Dl LIMITARTI O DI
VEICOLARE IL TUO MINDSET. Essi direbbero - pensa cosi – o non hai la autorità
di pensare alcuni pensieri piuttosto che altri –
LA MINORAZIONE E LA
LIMITAZIONE DELL’OSSERVAZIONE
The image-forming,
defensive mechanism.
“Relationship between
human beings is based on the image-forming, defensive mechanism. In all our
relationships each one ofus builds an image about the other and these two
images have relationship, not the hunzan beings themselves.”
KRISHNAMURTI
Has someone ever Heard
about the summation: “You don’t know me?” well, that’s probably true. So be
patient in judging, do dedicate with prudence provision to your near. Be available
in changing your mind in the true direction that is suggested by your near
attitudes and words: The movement is more opened to possibility than stasis.
The mindset of self
defensive mechanism may traduce itself responding to a specular contrary attitude
into nichilist attitudes.
Siamo poveri osservatori
nella misura in cui crediamo di sapere l’universo, al nostro osservare la
polvere volitare a terra. Ma la nostra povertà è soprattutto nel credere di
avere visto, e che non vi sia altro da vedere; la prima nostra povertà è il non
credere, la sfiducia del pregiudicare, di dichiarare ed agire in causa ed onore
di una consapevolezza precaria che sospendiamo sin dalle prime origini del
nostro percorso conoscitivo: ovvero compiamo un passo, vediamo la polvere,
pensiamo di avere l’universo ed agiamo in base alla miseria di cui aneliamo
affinché sia intercambiabile con nuova polvere: così scegliemmo la polvere e
sacrificammo gli universi del poter essere e del potere divenire.
Quante volte la vita ci
dedicò nuovi dadi, e li gettammo al nulla? E a Noi è il dono e la
responsabilità di dedicare al nostro prossimo nuovi dadi, e di custodirli
quando il nostro prossimo li dona a noi.
Crediamo che le persone
cambino, forse. Dubito del finto, non vedo maschere, piuttosto quando guardo ad
ogni persona vedo un prisma con miriadi di geometrie variopinte, alcune
traslucenti, alcune opache, alcune riflettenti, alcune curvilinee, altre più
ispide, ed in verità siamo prismi velati, e secondo natura, indole, necessità,
istintività, casualità, riveliamo e disveliamo alcune delle nostre variopinte
singolarità mantenendo quiescenti altre nostre sfumature, per il momento.
Pertanto chiariamo che la osservazione di un osservante non è che una
percezione limitata e limitante dell’olismo ontologico di una essenza.
Pertanto può non essere
raro il nostro non riconoscerci, il sorprenderci di vedere ciò che non è visto
del prossimo; tuttavia il valore della variabile del disvelamento delle nostre
singolarità risiede nella facoltà della sorpresa in divenire, una iridescenza,
un riconoscimento sempre vivido che in nome del nostro rinnovato potere essere
inaugura la fine d’ogni termine inesorabile: alla nostra partita terminata
dichiareremmo: lo conosco te poiché ti ho visto, pertanto prendo i miei
provvedimenti nei tuoi confronti sulla base di ciò che ho visto di te. Sì
limitiamo noi stessi e ci concediamo come appunto “gentile” concessione
inesorabili vincoli di crescita relazionale pronunciando troppo spesso le
parole: “È così. Non è e non sarà diversamente. Punto.
IL SISTEMA DELLA
DELIMITAZIONE ONTOLOGICA
Quando ti dicono No.
Quando ti dicono è impossibile. Sii grato di incontrare queste ed altre
indifferenze, poiché esse non sono che i tacenti confini della immaginazione di
coloro che già a te si sono voltati e che tuttavia ti dedicano quel lontano
ascolto, la tipica sommaria provvisorietà del giudizio da due soldi, non
approfondito, di superficie. Poiché incontrando queste Inesorabilità avrai
incontrato il grezzo marmo da cui poter scolpire la tua statua, il luogo del
vasto silenzio la possibilità del tuo momento creativo. Non può esserci
creatività per gli accondiscendenti poiché coloro che credono in coloro che non
credono in loro si fermano. Ricredere significa aver cura che il loro confine
visionario non divenga il tuo.
Non temere, te che sei
creativo/a quando secondo reciprocità la cecità del prossimo implicherà la tua,
quando il silenzio del prossimo necessariamente ti tacerà. Il dono di
possibilità è interpersonalmente intelligente, umano, ricreativo, il dono di
inesorabilità è attitudinalmente ignorante, deplorevole poiché dirimente.
Come è possibile tuttavia
ricredere coloro che non voltandosi, più non vedranno? Così in questo gioco tra
volontarie cecità si assumerà la dignità d’essere seguiti e di non necessitare
di seguire. Sì il tuo sogno diverrà il sogno di coloro che più non sanno
sognare.
Il sogno è possibilità
previsionale di cambiamento creativo e di incremento accrescitivo di una
essenza – Chi non sogna non oltrepassa il muro della impossibilità tuttavia in
atto e in causa della sua mentalità strutturale che realizza la non
realizzabilità di ogni possibilità che appunto è per loro impossibile.
LA CONVERSIONE BUONA
In the measure you’re
able to shield your pains in your heart you’ll purify the whole world,
annihilating into your mind your failures and others offences you’re changing
the world in better, you’re realizing a mystical creativity, to you is given
dust and you make of this powder golden sand.
Come l’atto dello scrivere
realizza la dignità della persona come scrittrice, l’atto del pensiero realizza
la dignità della persona come pensatrice ed in sé il diritto valoriale della
sua essenza e del suo pensiero – Un povero mendicante emarginato vagabondo non
autorevole avrebbe avuto un pensiero così importante da migliorare l’intero
pianeta, ma non è stato ascoltato, così per l’umiliazione del povero il pianeta
non è migliorato.
WRITING RULE #131
Writing is writing. It
isn’t craft or “wordsmithing”. You don’t “pen” it. What you write – whatever
you write – is writing – and you’re a writer.
Riflettiamo, quando
accoglieremo il mindset di umiliazione da indotta umiltà sarà per giovamento di
questi invidiosi che circoscrivono la nostra volontà creativa non a noi
stesso/a.
ASCOLTIAMO NOI STESSI
DUBITA Dl QUALSIASI
INDOTTRINAMENTO E SISTEMA Dl GIUDIZIO DALL’ALTO. Il significato più profondo è
l’annichilimento essenziale ( non sai pensare, sei piccolo/a, il messaggio
sarebbe – sei più piccolo di me - hai
bisogno di essere guidato/a, qui si insinua il veleno della coartazione )
Dubita anche del mio
mindset - di ogni suo aspetto o di alcune parti se questa riflessione
costituisce confutazione del le tue idee.
Allora affiancatevi a
coloro che credono in voi e che vi incoraggiano, ed affiancatevi a coloro che
non credono in voi e che non vi incoraggiano, non negate a voi stessi la
possibilità di imparare anche da questi, i maestri dei quali insegnarono loro
che le chiavi dei portali del cambiamento non sono accessibili nella realtà
esterna bensì sono custodite negli scrigni del nostro cuore, della nostra mente
e della nostra anima; dunque essi, riconoscendo in voi ciò che non avevano
visto in origine, la vostra tenacia, il vostro spirito creativo cambieranno
idea, ora essi crederanno in voi e vi sosterranno.
OLTRE IL LIMITE DELLA
FINE DEL TEMPO
Una lettera per chi non
la leggerà
#blockingitiskilling
Je suis le temps que je
te consacre.
Io sono il tempo che ti
dedico
We choose in every now
our length of time, maybe to be infinite... I dreamed a watch with no hands
where the end can’t exists, time isn’t an abstract concept or a virtual
reality. we’re the time; in the lenght we dedicate our presence we’re the hands
of the watch, really I’ve never believed in who a priori told me “It is the
end”, or “there’s no more time”, or, “it is too late”, these preconceived ideas
annihilate the evident existence of miriads of instants of the time of the
future that are beneficial to change the present circumstance, similarly I don’t
believe in who tells me, “I hadn’t time”, now you have the time you need, to
arrange by default and to change it. Consider
what had been to know the quality of the black and follow his specular white.
And living with the methodical mindsets “you’ve to deserve my time”, or “you
don’t deserve my time” or “It is what it is”, is unfavorable, these are
sacrificed sands of time that gather in hearts through our consciousness, our
innate integrity and our memory, simply we’ll be sorry for the choice of nihil.
But Life is so generous; life give us miriads of instants to change. Every
instant of our life, it is the opportunity to change, to hug the new.
Death: It is the only one
inexorability, the only one end.
“No length of time or
relational remoteness is enough to erase friendships.”
Giacomo Leopardi
Je suis le temps que je
te consacre.
Io sono il tempo che ti
dedico
In ciascun adesso della
vita ci è donata l’opportunità di ridefinire il nostro periodo di tempo,
potrebbe sfiorare l’infinito, se solo non scegliessimo l’essere il nostro tempo
infinitesimo...
Ho sognato un orologio
senza lancette dove la fine non può esistere, il tempo non è un concetto
astratto o una realtà virtuale. Noi siamo il tempo; nella misura in cui
dedichiamo la nostra presenza e la nostra iniziativa di dono di opportunità,
attitudine che non può che evolvere dallo spirito materno e naturale che si
dimostra evidente nelle attitudini dei bambini. Siamo le lancette
dell’orologio, davvero non ho mai creduto in chi mi dicesse a priori “È la
fine”, o “non c’è più tempo”, oppure “è troppo tardi “, Queste idee preconcette
annullano l’evidente esistenza di miriadi di istanti del tempo del futuro che
sono utili per cambiare la situazione , al limite eternamente presente a causa
di ciò si definisce vicendevole delega di iniziativa e di responsabilità, allo
stesso modo non credo in chi mi dice” Non avevo tempo “, ora hai il tempo
necessario, per premeditare ed organizzare a tavolino il cambiamento, che non
può che divenire compimento della premessa della volontà. Consideriamo insieme
cosa è stato conoscere la qualità del nero e seguiamo il suo bianco speculare.
Vivere con le mentalità metodiche “devi meritare il mio tempo”, o “non meriti
il mio tempo” o “È quello che è”, è sfavorevole, queste sono sabbie del tempo
sacrificate che si accumulano nei cuori attraverso la nostra coscienza, la
nostra innata integrità e la nostra memoria, semplicemente ci dispiacerà per la
scelta del nihil. Ma la vita è talmente generosa; la vita ci dà miriadi di
istanti per cambiare.
In ogni istante della
nostra vita, è l’opportunità di abbracciare una novità più adeguata rispetto alle
novità immutate del passato. Tuttavia la vita generosa non sarà, se in
principio noi stessi generosi non saremo.
La morte: è l’unica
inesorabilità, l’unica fine.
“Nessuno spazio di tempo
è sufficiente per cancellare le amicizie.”
Giacomo Leopardi
VIRTUALE
Che è in potenza e non in
atto: le sue qualità sono più v. che reali; talvolta con allusione
all’imminenza e inevitabilità di una situazione della quale sono già in atto
tutte le premesse.
IL PENSIERO PURO
No need anyone
legitimation for being an intellectual thinkeable essence and no need anyone
evaluation of my thoughts - for my mindset to be a creative origin and typical
instance for arousing your curiosity.
A lot of “freedom of” are
“freedom from”
Non c’è bisogno della
legittimazione di nessuno affinché io sia riconosciuto essere un’essenza
pensabile intellettuale e non c’è bisogno di alcuna valutazione e
valorizzazione dei miei pensieri che siano per loro stessa ontologica natura
degni di esistenza e di riconoscimento - perché la mia mentalità pura sia
un’origine creativa e un tipico esempio per suscitare la tua curiosità.
Molte “libertà di” sono
“libertà da”.
The idiosyncrasical
mindset has essential and ontological value itself - this is the prove that the
unique characterization and the legitimal existence of the mindset, they are a
priori irrefutable - the everyone mindset does not need anyone external
legitimacy, because it has an inner validity - there are not scientifical structures
that prove the legitimation of an idiosyncrasy to overcome or to legitimate or
to confute another idiosyncrasy - because of the fundamental complex holistic
nature that both (all) the idiosyncrasys have.
L’equilibrio ontologico
valoriale delle idiosincrasie :
La mentalità
idiosincrasica ha essa stessa valore essenziale e ontologico - questa è la
prova che la caratterizzazione unica e l’esistenza legittima della mentalità,
sono a priori inconfutabili - la mentalità di ognuno non ha bisogno di
legittimità esterna di nessuno, perché ha una validità interna - non esistono
strutture scientifiche che provano il diritto decisionale di legittimazione
della ontologica superiorità di un’idiosincrasia che allora non possa
legittimare o confutare un’altra idiosincrasia - a causa della analoga
complessa natura olistica fondamentale che entrambe le idiosincrasie hanno.
So no matter how
intelligent you are, you have not got the priviledge of being an overcoming
decisional essence for other mindsets, and simultaneously the mindset has the
priviledge of the auto-legitimation and of the inner possibility of being an
intellectual increments for other mindsets. So the relational between
idiosyncrasys mindset it is about increments not about confutation. The person
itself it is a relational thinkeable essence.
Quindi, non importa
quanto tu sia intelligente, non hai il privilegio di essere un’essenza
decisionale dispoticamente alienante, annichilente, umiliante e superante
rispetto ad altre mentalità, e contemporaneamente la mentalità ha il privilegio
dell’auto-legittimazione, dell’auto - denominazione e dell’auto oggettivazione
e della possibilità interiore di essere un incremento intellettuale per altre
mentalità. In ottemperanza della teoria della marginalità altresì la devianza
della fragilità povertà può essere fondante un miglioramento in quanto a
riconoscimento del mindset dell’ imperfezionismo che ammette le devianze dalle
‘normalità’ (ricchezza) come strutturanti di un sistema più accogliente e meno
severo verso le diversità.
Quindi la mentalità
relazionale tra idiosincrasie riguarda gli incrementi non la confutazione. La
persona stessa è un’essenza pensabile relazionale.
Another fact it is that
the external behavioural read of an attitude that we call perception it is not
the idiosyncrasy. So when someone think he/she is confuting a thought or a
mindset, in truth he/she is not touching the essential idiosyncrasical mindset,
but he/she is confuting his/her mindset into the morfology of his her
perception and interpretation of the aptitudinal explanation of the inner
mindset of the other person. So we understand that the inner mindset essence it
is untouchable and flawless.
Un altro fatto è che la
lettura comportamentale esterna di un atteggiamento che chiamiamo percezione
esteriore di un osservatore non è il pensiero puro del pensante, non è
l’idiosincrasia del pensante la realtà letta dallo spettatore giudice, bensì la
sua stessa percezione e pertanto l’osservatore è giudice del suo stesso
pensiero, della sua percezione e interpretazione del risultato attitudine le
conseguente al mindset del pensante. Quindi quando qualcuno pensa di confutare
un pensiero o una mentalità altrui, in verità non sta toccando la mentalità
idiosincrasica pura essenziale altrui, ma sta confutando la sua stessa
mentalità nella morfologia della sua percezione e interpretazione
dell’attitudine immagine della mentalità interiore dell’altra persona. Quindi
capiamo che l’essenza della mentalità pura interiore è intoccabile e illibata.
NON VEDIAMO LE COSE COME
SONO, MA VEDIAMO LE COSE COME SIAMO. Jung
“È una cosa strana quando
ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da
fuori. Non ci sei mai stato dentro. È il tuo posto ma tu non ci sei mai.”
Baricco
“Vedere è già di per sé
un atto creativo”
Matisse
“Ciò che si vede dipende
da come si guarda, poiché l’osservare non è solo un ricevere, uno svelare, ma
al tempo stesso un atto creativo. “
Kierkegaard
La osservazione è
falsificazione della pura essenza osservata come integrazione della essenza
osservata insieme alla percezione dell’osservante. Pertanto la superficie della
pura essenza osservata risulta relazionalmente integrata dalla percezione
dell’osservante, e di questa integrazione non è responsabile l’osservato ma
l’osservante -
tuttavia si adduce che
nelle dinamiche di giudizio sia attribuita all’Osservato la responsabilità
della qualità percettiva del giudice osservante come se la qualità percettiva
coincidesse con la essenza dell’osservato e come se di questo connubio
l’osservato dovesse esserne responsabile - NON dovrebbe essere così - in quanto
la pura essenza dell’osservato è impermeabile alla percettività del giudice
osservatore che è semplicemente un surplus falsificante. (La falsificazione è
intrinseca alla osservazione in quanto a mediazione delle qualità di mindset
della essenza giudicante.)
“L’osservatore non può
essere separato da ciò che osserva, nessun osservatore, nessuna realtà da
osservare.” Heisenberg.
La responsabilità della
esistenza ontologico-universale di Dio è dello sguardo credente di ciascuna
persona.
Anche Dio muore se non lo
si vuol più vedere.
“Kannst du nicht gefallen
durch deine That und dein Kunstwerk. Mach es wenigen recht. Vielen gefallen ist
Schlimm” Non puoi piacere a tutti attraverso la tua azione e la tua arte. Fa’
in modo di piacere a pochi. È male piacere a tutti.
Schiller a klimt
There’s a reciprocal
influence about mindsets - There’s a liaison between inner mindset and
behavioural manifestation - and superficially creating behavioural
relationships between people they consciously and unconsciously change
improving their mindsets. The mindset always improves - even into the cases of
behavioural inequality the people who are aptitudinally and essentially
overcomed are maybe silenced but their mindset continues growing and
increasing, notwithstanding other people aptitudinally do not permit them to
manifest their increasing inner intelligence. Tuttavia esiste un’influenza
reciproca sulle mentalità -
C’è un legame tra la
mentalità interiore e la manifestazione comportamentale - è creando
superficialmente relazioni comportamentali tra le persone che cambiano
consciamente e inconsciamente i mindset, migliorando le loro mentalità. La
mentalità migliora sempre - anche nei casi di disuguaglianza comportamentale i
corpi delle persone che sono attitudinalmente ed essenzialmente sottovalutate e
intellettualmente avvilite possono essere messi a tacere, (Il dispotismo
annichilente ha qualità modificanti di tipo comportamentale, non si può tacere
il pensiero ma si può ostacolare il corpo pensante, un semplice esempio è
l’indifferenza.
La dinamica di
intimazione di indifferenza ha evidenti relazioni con l’annientamento di
pensiero e con l’annichilimento ontologico - non ascolto il tuo corpo parlare,
non mi comunichi niente, non sento niente, le tue parole non sono, il tuo
pensiero non esiste, non sei una essenza pensante. - da evincere qui la decadenza
morale della sordità e l’immortalità ontologica della persona annichilente che
volendo sminuire il prossimo dimostra la propria inferiorità valoriale-morale.
Tuttavia il flusso di
pensiero delle persone ostacolare incede, la loro mentalità continua a crescere
e aumentare, nonostante le altre persone attitudinalmente non permettano loro
di manifestare la loro crescente intelligenza interiore.
But we must say something
important - the aptitudinally manifest of the mindset has fundamental
importance, it has the same priority as the idiosincrasycal mindset -
So we are talking about
active or passive violence - we must conceive that the quality of the mindset
has second importance in the cases of damaging behaviours - So only the
negativity of the behaviour has the legitimal property of saying that that this
mindset it is a venom that needs to be purified , (we remember that relations
between mindsets it is always about reciprocal increasing)
(Anyway the aptitude
don’t ontologically confute the mindset)
so no matter the quality
of the mindset, it is considered negative. I end this reflection through the
thought : The realization of the purpose do not legitimates every aptitudinal
method. In Italian - la causa non legittima il mezzo.
Ma dobbiamo dire una cosa
importante - la manifestazione attitudinale della mentalità ha un’importanza
fondamentale, ha la stessa priorità e urgenza valoriale della mentalità
idiosincrasica - Quindi staremmo parlando del caso limite negativo della violenza
attiva o passiva - dobbiamo concepire che la qualità della mentalità ha una
seconda importanza nei casi di comportamenti dannosi - in quanto a gravosa
rilevanza fattuale dell’atto - Quindi solo la negatività del comportamento ha
la proprietà legittima di dire che quella mentalità è un veleno che ha bisogno
di essere purificato,
(ricordiamo che le relazioni tra le mentalità
sono sempre sull’aumento reciproco)
(comunque la negatività
comportamentale non annienta e non confuta ontologicamente la idiosincrasi del
mindset)
Quindi, indipendentemente
dalla qualità della mentalità, essa è considerata nella qualità decadente di
negativa in quanto causa dell’effetto di attitudine negativa. Concludo questa
riflessione con il pensiero: La realizzazione dello scopo non legittima ogni
metodo attitudinale. In italiano - la meta non legittima i mezzi.
La Frattalità
Il macrocosmo è il
microcosmo,
L’infinito è
nell’infinitesimo,
l’oceano in una goccia,
l’albeo in ungermoglio
un fulmine in un filo
d’elettricità
Il subconscio nel sogno.
E’ la potenzialità.
L’essere in potenza,
il divenire resiliente
nell’essere gracie.
E’ la mentalità in un
pensiero,
la fede in una preghiera,
l’affetto in un
abbraccio.
Così ogni slancio vitale
nasce dall’imprevisto,
dall’assenza del
consuetudinario,
dalla percezione di una
assenza affinché possiamo colmarla.
E’ l’eterno nel secondo,
il temppo è un flusso
costante,
noi siamo universi.
Così come il vasto vuoto
d’un bianco è l’ubiquità della luce.
Nel nulla è l’energia del
tutto,
è dal nulla ogni creativa
novità.
La novità dona vita a ciò
che non esisteva.
E’ allora dal nulla la
mia ispirazione creativa e la mia vitalità.
Ogni realtà che nasce nel
luogo del nulla acquisisce valore
empiendo il vuoto del
nulla rinominandolo
e ricaratterizzandolo,
in questo luogo una piuma
non volita leggera
ma piomba gravemente, ed
una pietra grezza ha il valore di un diamante.
L’ORDINE CAOTICO
PEDAGOGIA RELAZIONALE E
SPERSONALIZZAZIONE
La questione fondamentale
è che voi riflettete e argomentate per avere ragione o per arricchirvi o per un
riconoscimento culturale, io rifletto e argomento per comprovare la dignità
ontologica di tutte le persone, altresì delle più povere, diverse e fragili,
tutti coloro a cui il diritto di dignità e valore umani non viene legittimato o
viene annichilito o viene immiserito del suo originale valore. Il principio
secondo cui il diritto di dignità e valore umani sono autonomi non eteronomi
non sono legittimabili esteriormente – il diritto di dignità e valore umani non
ha realtà ontologica per gentile concessione di una persona esterna da noi
stessi. Il diritto di dignità e valore umani è illibato, è innato e immanente e
intimamente correlato alla vita – la esistenza vitale ontologica è garante
aprioristicamente rispetto ___ e indipendentemente da ___ della dignità di
avere luogo come valore aggiunto per l’ambiente in cui si ha luogo.
Argomentiamo qui la tesi
secondo cui _ Ciascuno è meritevole e rispettabile _
Ad utrumque paratus _
Proviamo a esistere nel “qui” e nel “lì”, solamente la consapevolezza olistica
onnisciente può condurre alla giustizia, alla verità, alla dignità ontologica
universale, poiché solamente la prospettiva universale risolve nella consonanza
di valore ontologico le dissonanze ontologiche tra egemoni e subalterni. Seppur
la consonanza a livello fonico realizzi la risonanza ovvero un implemento
reiterativo del volume del suono altresì le note dissonanti sono costitutive
dell’ordine caotico del sistema ambientale in relazione al diritto ontologico
di dignità delle note dissonanti come puro valore aggiunto al sistema
ambientale musicale.
Che il pubblico di un
concerto lirico applauda all’orchestra lirica che avvicendi alla soavità lirica
il caos delle metriche iconiche della musica “metal”. Colei che suona l’arpa,
ora suonerebbe la chitarra elettrica.
Il sistema
pluricontestuale istituendo la relatività contestuale-ontologica reallizzerebbe
infatti la realtà secondo cui gli egemoni dei subalterni sono ontologicamente
subalterni ai medesimi subalterni che sono egemoni agli egemoni, e la realtà
parallela secondo cui i subalterni degli egemoni sono ontologicamente egemoni
ai medesimi egemoni che sono subalterni ai subalterni.
IL PRINCIPIO DI SINERGIA
RELAZIONALE
1+1=3
Persona + Persona =
Persona + Persona + Noi interpersonale
ASSERTIVITÀ RELAZIONALE
COME ASSERTIVITA’
DIALOGICA
Applicare alla
relazionalità i principi e gli assiomi della assertività dialogica: Lettura di
“Tesi”
LA DEVIANZA E LA
DIVERSITA’ ONTOLOGICA E’
FONDANTE LA
PERSONALIZZAZIONE
Assumere che ciascuno è
meritevole e che a ciascuno debba essere riconosciuta dignità valoriale
ontologica non premette che siamo tutti uguali, nonché la nostra intima unicità
è fondante la nostra più profonda caratterizzazione e possibilità di
riconoscimento e valorizzazione come agenti puri discriminanti - la possibilità
di discernimento si ha per l’essenza di un punto di dissimile colore rispetto
al colore del foglio.
Tuttavia premettiamo che
l’essenza del segno sia ontologicamente dissimile dall’assenza dell’ambiente
foglio colorato, pertanto il riconoscimento si può ottenere altresì in analogia
delle tinte del segno e dell’ambiente foglio.
IL FALLIMENTO, L’ERRORE
E’ LA IMPRONTA DIVERSIFICANTE COSTITUTIVA DELLA PERSONALIZZAZIONE
Il valore dell’errore,
del fallimento è che diversifica. Poiché la giustezza, la correttezza e la
perfezione sono adattative omologanti, mentre la fragilità è l’errore sono
manifestazioni intime della unicità individuali.
Modi diversi di
raggiungere il corretto risultato.
In una classe in cui si
consegna lo stesso compito, gli studenti consegnano i compiti tutti esatti - la
giustezza è omologante. Se alcuni studenti consegnano il compito inesatto essi manifestano
una variazione di difformità rispetto alla omologazione della giustezza.
La presenza dell’errore
istituisce il valore di difformità nel sistema che cortocircuita il sistema di
dispotismo di perfezionismo - si verrebbe a creare un dualismo nell’olismo in
cui ciascuna delle due parti reclama il suo diritto valoriale e di dignità
ontologica.
Solitamente istituiamo
come meritevoli di dignità ontologica coloro che consegnano il compito esatto -
ed è nella dicotomia tra essere e non essere che focalizziamo la decadenza del
sistema competitivo-gerarchico-unicontestuale - ovvero che la presenza dei
meritevoli è accompagnata dalla presenza dei non meritevoli o dei meno
meritevoli - pertanto il sistema perde i più fragili nel contesto del
rendimento -
Secondo allora la
prospettiva della valorizzazione ontologica umana universale i meno meritevoli
che nel sistema del compito consegnano un compito errato sarebbero i più
meritevoli in quanto il loro mindset non istituisce un criterio valoriale per
denigrare coloro che consegnano il compito esatto - coloro che consegnano un
compito errato sono costituenti del messaggio - esistiamo anche noi come parte
ontologica contribuente del sistema classe. In ottemperanza allora della
mentalità pluricontestuale - coloro che consegnano il compito inesatto
avrebbero conseguito e imparato le strutture mentali che solo chi ha vissuto il
fallimento può avere - sì la parte fallimentare insegnerebbe l’umiltà, la
resilienza, la solidarietà (i più deboli si sostengono vicendevolmente) alla
parte dei meritevoli - pertanto concludiamo che nel sistema pluricontestuale
classe sono tutti meritevoli. Ed i non meritevoli che non consegnano il compito
esatto sono analogamente meritevoli per altre facoltà che li appartengono, e
meritevoli inoltre per avere istituito un sistema nella classe ad ottimale
rendimento in quanto unico sistema che non perde essenzialità ontologiche.
Lettura coerente: Lettera
a una professoresa. Don Milani
Incremento della idea
della negatività del fallimento
Il sistema unicontestuale
o la persona che attribuisce la etichetta del fallimento in relazione al
diniego di una persona sono pertanto ontologicamente fallimentari in quanto a
perdenti della essenza della realtà giudicata non valevole.
L’atto di attribuzione di
etichette negative come oggettivazione di una essenza - Lettura di “Tesi” e di
“Tesi ll”: la oggettivazione non è la essenza della realtà giudicata ma
falsificazione percettiva del giudicante
Non è un atto
universalmente utile - Si dice per dir bene.
La attribuzione della
etichetta di fallimento ontologico è sorto da una idea del giudicante di
fallimento specifico contestuale - Il giudicante suol dire - non sai far
questo, non sai far niente - dimostrando la cecità del giudicante in atto di
non sapere vedere le potenzialità latenti dell’osservato, la mentalità del
giudicante è all’insegna del demerito e pertanto una mentalità non proattiva ma
decadente moralmente e relazionalmente.
Quando il fallimento è
Catartico.
Premesso che la nostra
ontologia del rendimento è assimilabile ad un plasma mutevole nel tempo e
avente miriadi di prospettività si comprende che sia impossibile fallire omnicontestualmente
- se falliamo in un contesto reale restiamo proattivi e resilienti in altre
miriadi di contesti, in più il luogo del fallimento è un luogo suscettibile di
serendipità - la possibilità in cui si
crede di non potere acquisirvi ciò che è nella nostra attenzione, ed in
alternativa si incontrano altre realtà disattese, forse più importanti di tali
che si cercavano.
LA RI_CONOSCENZA E IL
RICONOSCIMENTO COME MATRICE COEVOLUTIVA FONDANTE LA PERSONALIZZAZIONE
Il valore della parola
“ANCORA”
Matrice adattativa
ontologica Relazionale: la coevoluzione. L’amore è amarsi infinite
(Personalizzazione)volte come l’odio è l’odiarsi infinite volte
(Spersonalizzazione). La costanza periodica delle semplici attitudini buone
costituiscono la complessità della tempra relazionale.
Gli olismi (macrocosmi)
relazionali sono le reiterazioni dei microcosmi delle iniziative concilianti o
inconcilianti. Il “non riconoscimento” implica spersonalizzazione.
Significato di
coevoluzione
TRATTO DA “TESI”
Esistono sistemi complessi
adattativi (CAS – Complex Adaptive
Systems), cioè sistemi complessi in grado di adattarsi e cambiare in seguito
all’esperienza. Il sistema umano è considerato un “sistema complesso
adattativo” (CAS) ed è definito “sistema Io-soggetto”. Di centrale importanza
in questo contesto è il concetto di linearità, che non va confuso con l’omonimo
concetto colloquiale, ma va inteso nel senso della teoria dei sistemi. In
generale un problema è lineare se lo si può scomporre in un insieme di
sotto-problemi indipendenti tra loro. Quando, invece, i vari componenti/aspetti
di un problema interagiscono gli uni con gli altri così da renderne impossibile
la separazione per risolvere il problema passo-passo e “a blocchi”, allora si
parla di non-linearità. “Il biologo americano Kauffman (2001) sostiene che i
sistemi complessi adattativi si muovono
in paesaggi adattabili, o elastici, (fitness landscape), in continua
deformazione per l’azione congiunta dei sistemi stessi, di altri sistemi, e di
elementi esogeni.
(“Prede o ragni. Uomini e
organizzazioni nella ragnatela della complessità”, De Toni e Comello (2005))
Lo spazio delle
possibilità è la situazione in cui sistemi complessi adattativi possono
scegliere tra più comportamenti e configurazioni alternative. È in questo
particolare stato, infatti, che questi sistemi agiscono in maniera più
creativa, operando eventuali evoluzioni sfruttando le proprie peculiari
capacità di apprendimento e adattamento.
“Un CAS può essere
descritto come un instabile aggregato di agenti e connessioni, auto-organizzati
per garantirsi l’adattamento. Secondo Holland (1995), un CAS è un sistema che
emerge nel tempo in forma coerente, e si adatta ed organizza senza una qualche entità
singolare atta a gestirlo o controllarlo deliberatamente. Il fenomeno della co
– evoluzione.” (“Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della
complessità”, De Toni e Comello (2005))
Il fenomeno della co –
evoluzione
“L’adattamento è raggiunto
mediante la costante ridefinizione del rapporto tra il sistema e il suo
ambiente.”
Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella
ragnatela della complessità”, De Toni e Comello (2005)
“Le rocce, i campi, i
boschi, i corsi d’acqua, le case, i beni, la carne, il sangue, le ossa, i nervi
– queste sono realtà da interpretare, con caratteri essenziali che permangono a
tutti i cambiamenti, ma il mio Ego non perdura; è fabbricato di nuovo ad ogni
cambiamento di queste. E innanzitutto, contro l’accettata formula del
Materialismo moderno, “Gli uomini sono ciò che le condizioni producono”, io
stabilisco un’affermazione opposta, “Le condizioni sono ciò che gli uomini
producono”.
In altre parole, la mia
concezione della mente, o del carattere, non è che sia un inefficace riflesso
di una momentanea condizione di materia e forma, ma un agente modificatore
attivo, che reagisce sul suo ambiente e trasforma le condizioni qualche volta
lievemente, qualche volta molto, qualche volta, sebbene non spesso,
totalmente.”
L’idea dominante,
Voltarine de Cleyre
La co – evoluzione
sociale: il pensiero adorniano
Si differenzia sia dal
pensiero Heideggeriano che da quello Lévinassiana in quanto la definizione
dell’identità non coincide con un processo finalizzato all’espressione
dell’autenticità dell’io, né tantomeno con uno sbilanciamento etico in favore
di un appello che mi viene rivolto dall’esterno. Priorità: Permettere la
ridefinizione del concetto.
Premessa: Rigenerabilità
delle definizioni concettuali.
L’uomo come ordinatore
La razionalità risiede
nella capacità di identificare e ordinare i concetti coinvolti nella
riflessione. La definizione di concetti risponde alla necessità umana di
mettere ordine nel molteplice mondo degli enti e degli eventi naturali e
sociali. Chi mette ordine è colui che stabilisce le differenze, in ultima
istanza, colui che, disponendo, crea.
È hybris (sinonimo di
ideale:http://www.treccani.it/vocabolario/hybris/) che ci sia identità, che la
cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma il suo ideale non sarebbe
semplicemente da gettare via: nel rimprovero che a cosa non è identica al
concetto vive anche la brama che lo possa diventare, in tal senso la coscienza
dell’identità contiene identità. Sostenere che l’identità non c’è ancora, non
equivale a dire che è impossibile definirla concettualmente nella sua
concretezza storica, ma che la cifra essenziale dell’ identità risiede nella
sua processualità storica. L’identificazione
formale e concettuale, nel momento in cui circoscrive e delimita un
oggetto deve anche creare le condizioni per cui diventi altro rispetto a ciò
che è. Si potrebbe sostenere che la teoria Adorniana dell’identificazione sia
tutt’uno con una teoria del Nuovo, ovvero con una teoria delle condizioni di
possibilità dell’insorgere del Nuovo e del Non Ancora.
Nei processi costitutivi
dell’individualità, l’istanza di ridefinizione si traduce nella negazione di
tutte quelle pratiche di identificazione che, nello stabilire ciò che il
soggetto è in un dato momento, pongono vincoli e limiti a ciò ce il soggetto
potrà diventare. Il Nuovo, ovvero il semplice mutamento di una situazione
attuale è necessario ma non sufficiente:
Cosa altrettanto fondamentale è che la Novità diventi trasformazione,
sia cioè anche argomentabile. Il Nuovo, per esser veramente tale deve poter
essere valutato e considerato più giusto rispetto a ciò che lo ha preceduto.
L’atto di identificazione
non risponde mai esclusivamente a una logica di definizione o di determinazione
di una identità, infatti se lo stesso pensiero identificante vuole continuare a
sussistere, vuole perciò progredire nella sua opera di ordine e creazione, deve
continuare a tener viva e aperta la possibilità che, le identità da lui poste,
possano trasformarsi in qualcosa d’altro rispetto al modo con cui vengono
espresse. Se una determinata individualità soggettiva viene definita mediante
un apparato categoriale che la racchiude, avvolgendola completamente, non solo
verrà spogliata di tutte le contraddizioni interne e esterne alle implicazioni
storico- sociali dell’individuo, ma lo stesso pensiero identificante,
privandosi della possibilità che l’identico soggettivo possa trasformarsi e
assumere nuove conformazioni storiche, priverà anche sé stesso della propria
azione ri-definitrice.
La necessità di
identificare è dunque tutt’uno con la necessità di trasformare. Tutelare e
salvaguardare la possibilità di ridefinire i concetti è un’azione possibile
solo in un contesto discorsivamente e intersoggettivamente allargato, che si
apra all’argomentazione di tutti, non solo sulla correttezza espressiva dei
significati, ma anche sulla comparabilità ed equivalenza tra il significato
attribuito alla realtà da un singolo ed il significato conseguente allo scambio
intersoggettivo di conoscenze della medesima realtà tra persone tenendo dunque
aperta la ridefinibilità ti tali significati.
La mancanza (spesso
utilitaristica) di obiettività può divenire causa di pregiudizi, la mancanza
(spesso utilitaristica) di criticità può divenire causa di consenso al
pregiudizio. Tali mancanze costituiscono un limite alla definizione
intersoggettiva di una identità; tale limite si può risolvere nella misura in
cui le persone coinvolte nel reciproco scambio di idee sono aperte alla
ri-definizione di tale identità. Trasponendo le precedenti osservazioni sul
piano della teoria sociale , è necessario leggerle alla luce di quella
trasformazione che ha portato a considerare l’individuo, persona. L’individuo è
persona nel senso che non è più una forma astratta e indipendente della
singolarità rispetto alla totalità sociale ma il soggetto di pratiche
reciproche ed intersoggettive di identificazione.
Secondo il modello di
teoria sociale di Adorno il pensiero dell’identità deve essere ricondotto a una
teoria dell’uso dialettico e intersoggettivo delle categorie identificanti che
tenga conto sia della relativa oggettivabilità dell’individuo, sia della
possibilità di trasformazione e ridefinizione di esso. L’antropologia sociale
adorniana guarda a una soggettività inevitabilmente sospesa tra un non più e un non ancora.
Ciò che conta non è tanto
la permanenza e la continuità di un proprium antropologico soggettivo, ma la
costitutiva sospensione antropologica tra una dimensione identitaria dell’io,
che chiede di essere espressa e una tensione alla riconfigurazione e alla
trasformazione soggettiva che deve essere messa nelle condizioni di
svilupparsi.
In quest’orizzonte la
concezione di identità personale non può intendersi ponendo attenzione al
permanere costante dell’individuo nel continuum storico, quanto al momento
storico presente in cui il soggetto si rivela sempre costitutivamente premessa
e promessa.
“Ascolta, caro, ascolta
bene! Il peccatore non è in cammino per diventare un giorno una persona
migliore. E ora vedi: Questo “un giorno” è illusione, è mero simbolo! Il
peccatore non è coinvolto in un processo evolutivo, sebbene il nostro pensiero
non sappia rappresentarsi le cose diversamente. No, nel peccatore è, già ora,
oggi stesso, il futuro santo, il suo avvenire è già tutto presente, tu devi
venerare in lui, in te, in ognuno il santo potenziale, il santo in divenire, il
santo nascosto. Il mondo, caro, non è imperfetto, o impegnato in una lunga via
verso la perfezione: no, è perfetto in ogni istante. La meditazione profonda
consente la possibilità di abolire il tempo, di vedere in contemporaneità tutto
ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà.”
La sociologia
contemporanea ha fatto propria l’esigenza di leggere e interpretare l’identità
dando notevole rilievo all’inoggettivabilità della storia biografica del
soggetto. In quest’ottica il soggetto è identificabile in base a processi di
riconoscimento intersoggettivi.
L’approccio sistemico –
costruttivista e la co – evoluzione:
L’approccio sistemico –
costruttivista si riferisce alla metodologia generale della Sistemica, cioè ai
concetti, ai principi, alle applicazioni e ai metodi basati sul concetto di
sistema, alle proprietà sistemiche, all’interazione riferiti alla scienza della
complessità, fondata negli anni Sessanta del XX secolo da un gruppo di studiosi
tra i quali Prigogine, Gell-Mann, Shannon, Weaver, Wiener, Ashby, von Foerster,
Atlan, von Neumann, Bateson, von Glasersfeld, Maturana, Varela, Morin, per cui
considerando un fenomeno e usando l’approccio sistemico è valutata l’efficacia
di modellare, identificando il livello di descrizione più adeguato, come: i
componenti, le interazioni, il ruolo costruttivista dell’osservatore che
inventa variabili, in seguito alle quali fa e verifica esperimenti e gli
esperimenti si profilano come domande alla natura, che risponde facendoli
accadere, dunque, risponde alle domande poste.
Se non si pongono domande
non si hanno risposte
“La dialettica si attua
come domandare e rispondere, o meglio come passaggio di ogni sapere attraverso
il domandare.”
Gadamer
Tuttavia è con il modello
cognitivo – costruttivista che il soggetto viene inteso non solo come colui che
è re – attivo, ma attivo nel sistema in cui si trova. Ciò vale anche per l’uomo
considerato da Morin un cosmo ricco di personalità e definisce l’identità
umana. L’unitas multiplex, ovvero l’unità molteplice composta di molte
dimensioni: biologica, antropologica, sociologica, psicologica ed essendo
un’unità molteplice questa è intrisa e tessuta, presa e compresa nella realtà
anch’essa complessa e multidimensionale, difficile da penetrare e comprendere.
Conoscere i problemi
“Nel regno del Kitsch
totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia
domanda. Ne deriva che il vero antagonista del Kitsch totalitario è l’uomo che
pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di
fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde
dietro. Davanti c’è la menzogna comprensibile e dietro, intravista,
l’incomprensibile verità. Quello che c’è sotto la superficie è un mondo
estraneo.”
L‘ insostenibile
leggerezza dell’essere, Milan Kundera
L’ANONIMIZZAZIONE
COSTITUISCE
SPERSONALIZZAZIONE
Il mancato riconoscimento
interpersonale è la tendenza verso l’anonimizzazione.
Abbiamo un nome e
tuttavia valorizziamo l’anonimato nelle forme di analogia e omologia
ontologica.
Omologazione e
standardizzazione implicano depersonalizzazione.
LA SPERSONALIZZAZIONE IN
AMBITO RELAZIONALE
I TRE GIOCHI RELAZIONALI
DIRIMENTI
1 Il gioco del silenzio.
Il nostro gioco del
silenzio consisterebbe nel ridurre al minimo il dialogo, il confronto verso le
problematicità relazionali, nei casi più gravi di silenzio sistematico e
lontananza relazionale in cui si istaura la realtà della aleatorietà del maybe.
Le tendenza verso l’assottigliamento del filo relazionale in direzione di un
conto alla rovescia che nominiamo “Infinite counting back to nihil”.
2 Il gioco del
nascondino.
Il gioco del nascondino è
un secondo gioco a cui ci piace giocare, e la cui manifestazione non implica
che il ghosting.
3 Il gioco dello
specchio.
Il terzo gioco è il gioco
degli specchi la cui regola è in nome di uno spirito vendicativo reciproco.
“I am your mirror; no
more, no less, you deserve
No relational added
value. I have never acted towards you anything identical that you had not acted
towards me before. By showing your attitude, take responsibility for it, then
I’ll take mine.”
Ci accorgiamo che questi
tre giochi relazionali dirimenti non sono salutari per la nostra relazione e
per noi.
LA INDIVIDUALITA’ E’
SPERSONALIZZAZIONE RELAZIONALE
Rapporto individuo _
persona
La spersonalizzazione
implica la svalorizzazione della caratteristica relazionale appartenente al
concetto di persona ammettendo la egemonia dell’individualismo che è un sistema
carente di relazionalità.
Spersonalizzazione
relazionale come vanificazione del tempo relazionale.
La delega di
responsabilità relazionale alla astrazione temporale è una causa di
spersonalizzazione in quanto a sacrificio di tempo relazionale che sarebbe
catartico per la persona a cui viene procrastinata la relazione.
Perché procrastinare alle
età adulte, alla anzianità, al mai inesorabile che è ontologicamente il fin di
vita relazionale e talvolta ontologico, le realtà della gioventù?
Procrastinazione e
inesorabilità relazionale. Ciò che è ora è sempre – non ci diamo motivi per
credere che non sia diversamente.
Il tempo in sé
procrastina non risolve relazionalmente niente. Il tempo dialogico non deve
essere fine a se stesso.
Ciascuna persona è
meritevole di tempo dialogico indipendentemente. La vendicatività è la
risonanza della negatività. Applichiamo questa idea alla dinamica del tempo
relazionale e della vicinanza_lontananza _ inesorabilità relazionale.
Esempio immaginativo di
radicale dimenticanza e inesorabilità relazionale.
“Una persona morì in casa
dopo essere stata abbandonata per anni; per dieci anni nessuno si accorse del
corpo, né trovarono solo le ossa quando per sbaglio qualcuno di sconosciuto
ebbe accesso alla abitazione.”
Avverrebbe che la persona
che percepisce l’atto della persona dinanzi a lei del semplice voltarsi e del
muovere lei stessa di un passo lontano dalla persona percepiente – induce nella
persona percepiente l’idea: “Te ti
allontani di un passo da me, Io mi allontano di anni luce da te”.
Non è una realtà
impensabile, alcune persone sanno essere così severe.
Ricercare la positività nella
negatività.
Un esempio.
La purificazione
attitudinale della vendicatività
Il valore pedagogico
della vendicatività come metodologia speculare di comprensione di negatività di
una attitudine. – farsi specchio delle negatività altrui per mostrare loro i
loro limiti – facilitare il primo passo del miglioramento ontologico personale
è il riconoscimento del l’attitudine negativa.
“Ti rivelo come ti stai
comportando con me.”
In adduzione ad una
rivelazione delle implicazioni negative in relazione alla dimostranza della
qualità di sentimenti intimi che la attitudine negativa induce – si adduce la
caratteristica di negatività alla neutralità di una attitudine.
“ Poiché agisci questo io
mi sento così – io agisco verso te la medesima attitudine ed induco in te il
medesimo sentimento”
“Ti rivelo come ci si
sente in causa del tuo comportamento.”
Il terzo punto è la
confutazione:
“Poiché senti che il tuo
comportamento implica un sentimento negativo, impari che il comportamento che
hai agito verso il prossimo non è da agire.”
Solo chi dispone il
prossimo in un luogo di avversità allena il prossimo e lo dispone dinanzi alla
‘negativa’ realtà affinché acquisisca la tempra per essere esso/a stesso/a a
sanare la negatività ambientale.
Affinché una persona sia
abituata al perdono deve essere posta in una situazione ambientale-relazionale
in cui vi sia ‘qualcosa da perdonare’.
LA CATENA DELLA
VENDICATIVITA’
TUTTAVIA
La vendicatività si
dimostra essere un metodo relazionale non catartico perché istituendo la
reciprocità delle negatività decade la relazione verso la dirimenza definitiva
_
La dinamica della
vendicatività reitera la risonanza delle negatività attitudinali innestando un
sistema relazionale di tipo – Negativo _ Negativo _ Negativo.
La immagine delle calamite
relazionali risulterebbe questa:
(+-) <--> (-+)
Come si può riconoscere
la vendicatività implica dirimenza inesorabile.
LA SPERSONALIZZAZIONE E’
ONTOLOGICAMENTE UNA AUTO_SPERSONALIZZAZIONE
La catena speculare del
sistema di vendicatività
L’arma del forte verso il
debole si ripercuote su lui/lei stessa:
Lo specchio è la persona
depersonalizzata che depersonalizza colui/colei che depersonalizza.
La svalorizzazione è una
autosvalorizzazione. La depersonalizzazione è una autodepersonalizzazione
Chi sottostima viene
sottostimato a causa dell’atto stesso della adduzione di sottostima. Chi
misconosce viene
misconosciuto/a
Adduciamo che il sistema
di giudizio interpersonale valoriale discendente è avvilente un sistema
universale relazionale mentre un sistema di giudizio interpersonale valoriale
ascendente è ricreativo del sistema universale relazionale.
La purificazione
attitudinale del perdono. Sì insegna ad agire benevolmente a coloro che
agiscono malevolmente.
L’azione malevola non è
causa della privazione di dignità ontologica, educando il maleducato gli/le si
attribuisce valore in quanto a riconoscimento delle potenzialità latenti in
lui/lei .
Il valore pedagogico del
perdono come metodologia speculare di comprensione di negatività di una
attitudine.
Insegnamento come esempio
della conversione da attitudine negativa subita percepita a attitudine dedicata
benevolente verso la persona offensiva.
L’insegnamento è “L’atto
negativo non ha valore e rilevanza fattuale” la negatività attitudinale merita
annichilimento della attitudine negativa, non dell’agente.
La severità più radicale
è la definitività o inesorabilità.
Un caso radicale di
inesorabile fine relazionale.
La severità relazionale e
la vendicatività relazionale sono forme di delega di responsabilità.
Vediamo una situazione
radicale di severità e di vendicatività relazionale.
Nella dinamica padre –
figlio/a supponiamo un padre che mette al mondo un figlio in età adulta – nel
corso degli anni accadono due realtà – il padre si separa dal matrimonio con la
madre e si ammala di una malattia terminale la cui scadenza è reiteratamente
annuale. Il padre per suo carattere non prende l’iniziativa di incontrare il
figlio/a.
I figli non incontrano il
padre per 30 anni, quando lo incontreranno di loro iniziativa? In ospedale, sul
letto di morte, quando è incosciente, e si presentano al funerale.
I figli si giustificano
attribuendo al padre la responsabilità di non essersi mai fatto sentire.
Tuttavia risulta evidente
che i figli sono analogamente colpevoli della medesima attitudine del padre
verso il padre –
Si dimostra la evidenza
della difficoltà e indisposizione di perdonare.
Ma i figli che
colpevolizzano il padre inducono il loro mindset come verità del mindset del
padre – in atto la reiterazione dell’idea che il padre si isoli perché non
voglia incontrare i figli.
Tuttavia questa dinamica
di pensiero non è comprovabile, nella situazione qui descritta – la prova del
giusto pensiero del figlio/a si avrebbe nel caso in cui fossero i figli ad
intraprendere la iniziativa di incontro relazionale verso il padre e se il
padre si rifiutasse di incontrarli.
Qui si dimostrerebbe la
avversità relazionale del padre.
Il problema della
dirimenza relazionale si acuirebbe nella misura in cui istaurassimo il sistema
della vendicatività come catena di causa-effetto relazionale e non il perdono.
Il perdono è atto puro
valore aggiunto indipendente dalla percezione di attitudine esteriore’ la
vendicatività non è atto puro, è atto spurio in quanto il risultato
attitudinale è influenzato dalla qualità di attitudine del prossimo con noi.
Non dedicare scherno alle
fragilità umane e nemmeno alle persone che le stanno vivendo, la vita di
ciascuno è caratterizzata da una elevata suscettibilità alla aleatorietà e alla
pluricontestualità situazionale.
Pertanto perché
valorizzare i più fragili? Perché loro sono gli unici hanno vissuto il luogo
ambientale psicologico della fragilità _ Pertanto possono insegnare e
consegnare a coloro che non sono ancora ontologicamente e psicologicamente
stati nei luoghi esistenziali situazionali della fragilità, debolezza,
perdimento… le strutture di mindset utili alla sopravvivenza e i metodi
attitudinali o psicologici affinché la persona possa convertire a suo
arricchimento un ambiente esteriore o psicologico avverso o nocivo.
Perché è utile
sensibilizzazione comunitaria nei confronti delle labilità psicologiche? Poiché
altresì i più resilienti sono suscettibili alle fragilità. Così impariamo che
altresì i deboli sono arricchenti per i resilienti, ma è vero altresì il
contrario, ovvero che i resilienti possono essere catartici per i più fragili:
Ha una influenza curativa
il trattare un/una depresso/a come se non lo fosse – in quanto a
positivizzazione di un mindset di negatività.
Infatti la reiterazione
dialogica dell’argomento ‘depressione’ o argomenti sinonimici ad essa con la
persona che vive la depressione vincolano e veicolano il mindset psicologico
della persona depressa alla sua depressione.
Che i fragili si
sostengano a vicenda è una realtà, tuttavia la verità più profonda è che i
simili si sostengono a vicenda, poiché si instaura tra loro la reciprocità del
cosentimento e di vicinanza esistenziale _ la diversità esistenziale si
percepisce come lontananza esistenziale poiché intellettivamente si auto induce
una dissonanza di luoghi psicologici tra il luogo della persona soggetto ed il
“lì” mentale della persona che dimostra attitudini comportamentali_dialogiche a
cui la persona soggetto non è abituata.
Si riconosce che la
somiglianza non è un criterio sempre catartico – ad esempio difficilmente
può instaurarsi positivizzazione di
stato d’animo nel dialogo tra due persone depresse.
LA SPERSONALIZZAZIONE IN
AMBITO DIALOGICO
Spersonalizzazione
dialogica e annichilimento comunicativo
SIAMO IPERSENSIBILI
“Quali sono le due
emozioni più preoccupanti, tali che preoccupano più me : Il senso di colpa e la
paura.
Di queste non vi posso
parlare, ma vi posso parlare, ma vi posso dire quali sono le emozioni
antagoniste :
Al senso di colpa, il
grande antagonista è il diritto all’errore :
Se noi ci mettiamo in
questa consapevolezza che dobbiamo far crescere i nostri figli nel diritto
all’errore, nell’errore come processo di modifica e di miglioramento continuo
(il principio della co - evoluzione), cambia il livello di consapevolezza.
Abbiamo detto ‘sussurri e voci’ : Se noi pronunciamo la parola: “bravo” con
tonalità di voce diverse noi diamo informazioni completamente differenti perché
è l’emozione che facciamo transitare attraverso l’indicatore che stiamo
utilizzando che influenza quel grande decisore che dice “proteggiti” o “sii
senza timore” .
Che cosa è celato dietro
alle parole che dici, quale pensiero è nascosto dietro alla tua tonalità
vocale.
Emotional short-circuits,
the intelligence behind mistakes, Daniela Lucangeli
Ipersensibilità
percettiva.
La differenza tra una
risposta affermativa o negativa è nella tonalità vocale.
Ho esperito nella
esperienza di volantinaggio – che reiterando la medesima frase di presentazione
del proprio biglietto da visita, la qualità della tonalità della ultima parola
se alta e ascendente implicava che il biglietto venisse accettato e consegnato,
Se cupa e discendente
implicava che il biglietto venisse rifiutato.
Quando parlare è come
‘dir niente’. L’ascolto annichilente è una arma di spersonalizzazione.
La spersonalizzazione
parallela come reazione di coloro che non sono ascoltati è insita nella sordità
di coloro che non ascoltano (caratterizzante la mediocrità morale di coloro che
sono indifferenti alle parole o agli atti altrui).
L’indifferenza è spersonalizzazione
_ In quanto a vanificazione attitudinale dell’atto e della persona che coglie
l’iniziativa di agire.
Chi è indifferente
comunica alla persona a cui attribuisce indifferenza _ Te non hai luogo qui con
me _ Poiché ciascun avere luogo implica la modificazione creativa del luogo.
!
La sordità intenzionale
dialogica può essere un atto puricativo relazionale – nella situazione in cui
il relatore comunichi parole maleducate o significati dannosi per la relazione
e per la essenza ontologica dell’ascoltatore –
La negatività
attitudinale merita annichilimento della attitudine negativa, non dell’agente.
L’annichilimento della attitudine negativa ha implicazioni purificative la
relazionalità.
Spersonalizzazione nella
forma di superficializzazione relazionale conoscitiva.
Il non voler conoscersi.
L’indisponibilità a
oltrepassare la soglia dell’essere sconosciuti nonostante la vastità di tempo
dialogico e di possibilità di conoscenza – Il parlare del blu del cielo per
anni non implica alcuna incidenza sul valore della conoscenza e sulla fiducia
interpersonali – la delega di responsabilità dialogica alle astrazioni implica
il nostro restare sconosciuti.
“Non parlare con gli
sconosciuti. Non accettare nulla dagli sconosciuti. “ A livello di profondità e
intimità ontologica conoscitiva universale è probabilisticamente maggiore la
nostra non conoscibilità della nostra conoscibilità. In ottemperanza della
teoria della marginalità il non conoscere ha valenza proattiva in quanto si
realizza che sia nella realtà della nostra non conoscenza che è vasto il luogo
del nostro potere conoscerci.
LA SPERSONALIZZAZIONE IN
AMBITO VIRTUALE, IL BLOCKING
Il blocking è atto
dannoso che annichilisce ontologicamente la parte lesa che subisce il
blocking, blocca le iniziative
relazionali dialogico_affettive, implica fine di vita relazionale definitiva e
inesorabile, è pertanto causa di spersonalizzazione.
LA SPERSONALIZZAZIONE IN
AMBITO ECONOMICO
Il denaro _ esteriorità a
cui non si riesce a rinunciare _ l’incremento di esso è guida attitudinale -
non è l’uomo facoltoso di sé stesso ma è l’oggetto denaro e la astrazione del
suo incremento a guidare le azioni umane – è il denaro a vincolare le scelte
dell’uomo/donna fino al sacrificio dei suoi simili. Il sacrificio del prossimo
e del suo potenziale umano per l’incremento di denaro _ si istituisce un
sistema carente e decadente in quanto sistema che perde potenziale umano per la
acquisizione della astrazione oggettuale danarosa.
LA VOLONTA’ E’ VOCE DELLA
PERSONALITA’ INDIVIDUALE
Trascurare la volontà del
prossimo è una spersonalizzazione del prossimo
Insegnano ai bambini a
non volere.
“L’erba voglio non cresce
nemmeno nel giardino del re”
LA SPERSONALIZZAZIONE DEI
MIGLIORI _ LA SVALORIZZAZIONE DEL MERITO
Spersonalizzazione come
annichilimento della creatività personale – la vanità dell’impegno e
dell’investimento economico_culturale.
La creazione di una
realtà che viene percepita esteriormente come non esistente, implica
vanificazione ontologica del creatore.
Esempio: Come annientare
uno scrittore? Non leggendo il suo libro.
Come annientare un
laureato? Non riconoscendo il suo titolo di studio come fondante l’opportunità
lavorativa e una adeguata retribuzione economica.
Perché istituire la
dissonanza cognitiva del non riconoscimento – Vedo il non essere, dinanzi
all’essere come valore discriminativo relazionale e ontologico_umano?
Se una realtà esiste, è
ed ha valore esistenziale modificativo l’ambiente in cui possiede luogo e
diritto di dignità funzionale per quel luogo.
Coloro che constatano:
“Se una realtà esiste, non è.” Sono pertanto da ritenere ciechi o peggio
annichilenti della realtà che vedono essere e che pronunciano non esistente.
LA SPERSONALIZZAZIONE DEI
PEGGIORI
Confutazione del
principio di selettività fondato sul criterio selettivo del perfezionismo.
Si accoglie solo la
realtà perfetta implicando una strage di dinieghi ed una ingente perdita di
potenziale umano di rendimento e relazionale.
Per l’ottenere il
perfetto diniego le molteplicità degli imperfetti.
!
LA DISTINZIONE
MIGLIORE_PEGGIORE E’ UNA MENTALITA’ CHE NON MI APPARTIENE, UNA MENTALITA’ CHE
CON QUESTO SCRITTO HO PROVATO A INCREMENTARE_ Uso qui questa distinzione che
appartiene alla mentalità comune come valore esplicativo e non come
caratterizzazione ontologica umana.
LA SPERSONALIZZAZIONE IN
AMBITO MNEMONICO INTELLETTIVO
Chi la pensa diversamente
varrebbe meno in ottemperanza della valorizzazione della mentalità che si
dichiara avversa nei confronti delle devianze di pensiero – Semplificando
secondo questa mentalità la esistenza di una mentalità dovrebbe assumere la
confutazione di una mentalità deviante, non la conciliazione delle mentalità e
la intima modificazione coevolutiva delle due mentalità affinché queste possano
convivere essendo vicendevolmente una mentalità l’ incremento per l’altra. In
relazione al “Cogito ergo sum” il pensiero è inscindibile dalla persona
pensante – tuttavia l’annichilimento ideale non dovrebbe consistere come metodo
mediativo per l’annichilimento e spersonalizzazione ontologica della persona _
Ecco perché è di primaria e fondamentale importanza la conciliazione delle idee
altresì dissonanti e non la confutazione delle idee.
LE IMPLICAZIONI
FISIOLOGICHE DELLA SPERSONALIZZAZIONE
Spersonalizzazione e
anoressia (altre forme di debilitazione fisica, Autolesionismo, assunzione di
alcool e droghe)
Il corpo è immagine
ontologica della interiorità.
La auto induzione di
danno fisiologico, la mano che muove il bicchiere d’alcool è il risultato della
volontà della persona che vuol bere, degli effetti inibenti e di dipendenza che
l’alcool induce nella ontologia della essenza dipendente, della astrazione della
sommatoria olistica delle negatività / sofferenze indotte che gravano sulla
persona ed a cui la persona non riesce autonomamente a ricondurre senso utile
alla assimilazione e positiva accettazione come proprietà sana e salvifica _
come se vi fosse una mano eterea invisibile che muove energicamente la mano
della persona che sta per assumere alcool –
La mano invisibile
sarebbe costituita altresì dalla sommatoria delle deleghe di responsabilità
relazionali gravanti sulla persona _ Coloro che pongono danno
ontologico_relazionale solitamente svaniscono nel nulla in sentimento di falsa
innocenza.
La disaffettività è una
prospettiva di depersonalizzazione – gli atti affettivi di carezza, abbraccio e
bacio sono attitudini di valorizzazione ontologica personale – la inettitudine,
il privare una altra persona di questi implicano svalorizzazione della sua
esistenza corporea e pertanto annichilimento.
La reciproca complicità
di intimità è una vicendevole valorizzazione ontologica delle esistenze
personali. La dignità esistenziale ontologica è implicata dalla
autovalorizzazione e dalla valorizzazione esteriore.
Se viene a mancare la
valorizzazione ontologica della persona da parte delle altre persone esiste uno
sbilanciamento – la disistima esteriore ( il non valere niente per l’altro-
l’iconico NON SEI NESSUNO ) manda in
cortocircuito il bilanciamento tra autostima e stima esteriore – se manca la
stima esteriore resta soltanto la autostima.
È se la integrità della
persona è fragile – la attività inibente di annichilimento di stima negativa
(disistima) inficia la resilienza di autoinduzione di stima e valore personale
– autostima – implicando la decadenza altresì della autostima – sono rare le
persone che restano resilienti a sé stessi in assenza o in aridità di
riconoscimento esteriore ed in assenza di possibilità di buona identificazione
ed immedesimazione – Alcuni possono.
Altri no. Che cosa accade
fisiologicamente a questi? Virano il vuoto dell’annichilimento personale verso
la analogia traduttiva mente corpo – l’impoverimento valoriale della mente
implica l’impoverimento del corpo, ovvero la magrezza.
Di contro l’assunzione
smodata di cibo è la traduzione fattuale della necessità di ricolmare un vuoto
esistenziale indotto o autoindotto con la realtà dell’eccesso
dell’alimentazione.
La noia del non
allenamento fisico è una terza implicazione della spersonalizzazione
relazionale.
Cosa implica il giudizio
indotto “non valere niente” comunicato dialogicamente o attitudinalmente nella
persona giudicata e nella persona giudicante.
LA SPERSONALIZZAZIONE IN
AMBITO AFFETTIVO_SESSUALE
Ciascuna persona esprime
la propria identità nelle esistenzialità della superficiality relazionale ma
anche della intimità relazionale. Pertanto si dichiarano annichilenti e spersonalizzanti
le attitudini di diniego aprioristico e di annichilimento di volontà affettive
- la istituzione della negazione del consenso affettivo-sessuale “NO” (che sia
nel verso uomo=>donna, o nel verso donna=>uomo) ha ingenti negative
implicazioni nel luogo della integrità personale del carattere del self esteem
della persona rifiutata - in particolare l’atto di negazione
relazionale-affettiva ha implicazioni plasmanti il carattere della persona
rifiutata i cui sintomi caratteriali si rivelano essere odio, introversione,
apatia, disaffettività, antipatia - l’atto di negazione sessuale ha importanti
implicazioni psicologiche poiché istituisce la asessualità e non la normalità
sessuale come matrice identitaria della persona – Vi sono importanti ricerche
che argomentano le negative implicazioni relazionali-ontologiche – fisiologiche
della astinenza affettivo-sessuale. La negazione della sessualità è
annichilimento da evirazione (Ingenti implicazioni negative nei contesti
fisico-fisiologico e psicologico-attitudinale) in quanto a negazione ontologica
della essenza corporea e di dignità decisionale uomo/donna.
Il diniego è atto
svilente e prostrante la parte lesa ma purtroppo è atto rinvigorente e
temprante la parte offensiva in quanto ad essenza autorevolmente decisionale
sulla persona rifiutata - nella dinamica del diniego o negazione del consenso -
si istituisce uno sbilanciamento di autorevolezza decisionale che implica la
perdita ontologica della persona rifiutata in relazione a gravi implicazioni
caratteriali-relazionali di questa persona in relazione ad altre persone.
La negazione del consenso
deve comunque essere ascoltata e accettata come rispetto della volontà del
prossimo e non deve sussistere alcuna dinamica di coartazione. Tuttavia nella
realtà del diniego deve sussistere il sistema della coevoluzione, in atto la
disponibilità e la flessibilità relazionale-dialogica affinché non esista
definitività decisionale in quanto a equilibrio di reciproco rispetto delle
identità e ambivalenza e analogia valoriale dei bisogni, volontà e esigenze
delle due persone.
Critica e incremento
della filosofia del demerito
IL DEMERITO E’ IL METRO
DISCRIMINATORIO DEL SISTEMA COMPETITIVO
Il merito è un valore di
gerarchizzazione
Tra tre dignità
ontologiche:
Coloro che scelgono – chi
sceglie ha dignità decisionale ed è il più meritevole
Coloro che sono prescelti
– coloro i quali sono prescelti hanno minore dignità ontologica rispetto a
coloro che li hanno scelti
Coloro che sono diniegati
– coloro i quali sono diniegati hanno minore dignità ontologica dei giudici che
scelgono e dei prescelti.
Solitamente il sistema
decisionale non è specificatamente contestuale, bensì acontestuale universale
ed ontologico – accade che il rifiuto attitudinale che si applica in un
contesto di rendimento attitudinale implica il sacrificio ontologico essenziale
della persona e pertanto di ciascuna sua potenzialità e qualità attitudinale
diverse rispetto alla singolarità attitudinale presa in esame.
Ma perché il sistema di
merito-competitivo non è ottimale? Un
sistema ottimale è esente dalla perdita.
Perché presuppone sempre
e comunque una perdita – la perdita di coloro che sono diniegati. In essere in questo sistema vi è un altro
grave limite – la inflessibilità di variazione gerarchica.
Il sistema del merito
istituisce IL DEMERITO COME METRO DI GIUDIZIO –
Ciascun sistema
funzionale alla persona non è ammissibile che perda la persona e che agisca in
direzione della perdita della persona
SI ISTITUISCE IL “NON
ESSERE” COME PRIMARIAMENTE VALEVOLE RISPETTO ALL’”ESSERE” .
SI ISTITUISCE IL
“NEGATIVISMO” COME PRIMARIAMENTE VALEVOLE RISPETTO AL’”POSITIVISMO” .
UN SISTEMA OTTIMALE
ACCOGLIE NON SCEGLIE. Poiché la scelta presuppone la perdita della essenza
rifiutata.
IL SISTEMA DI MERITO
OLISTICO
OTTIMIZZAZIONE DEL
RENDIMENTO
IL SISTEMA DI MERITO
OLISTICO PRESUPPONE COME FONDAMENTO LA VALORIZZAZIONE ONTOLOGICA OLISTICA DI
UNA PERSONA –
IL SISTEMA DI MERITO
OLISTICO ASSUME COME
REGOLA PRIMARIA CHE
“LA DIGNITÀ ONTOLOGICA DI
CIASCUNA PERSONA HA VALORE PRIMARIO” – LA REGOLA PARALLELA ASSUMA CHE
“QUALUNQUE PERSONA SIA DEGNA E MERITEVOLE.”
Il caso esemplificativo
in cui
Colui che fu rescisso e
licenziato da un ambiente lavorativo sartoriale perché “Non cuciva bene
all’amo” fu accolto in assenza di dimostrazione di aprioristiche competenze
universitarie in una seconda azienda sartoriale, fu messo a cucire all’amo,
agli occhi di tutti non era in grado di cucire all’amo, ma il capo che era sul
limite di licenziarlo, lo sentì parlare di economia di gestione aziendale con
un collega sarto, il capo allora lo incontrò di sua iniziativa e lo ebbe
condotto a dialogare con lui – il suo contributo negli alti livelli aziendali
incrementò i guadagni di questa seconda azienda ingentemente.
Ma come può accadere
questo?
La possibilità di
realizzazione del sistema di merito olistico si fonda sul poliedro del
rendimento della essenza di ciascuna persona.
Ovvero.
Il sistema del rifiuto
adduce questo:
Che la povertà di
rendimento di una faccia del poliedro sia in analogia con la povertà di
rendimento della totale universalità ontologica del poliedro.
Ora il poliedro del
rendimento di ciascuna persona non è perfettamente geometrico e cristallizzato
– è un plasma mutevole nel tempo- un secondo limite del sistema di giudizio dell’ambiente
è di stimare una limitatezza attitudinale definitivamente tale – non
suscettibile a immediato miglioramento. Si argomenta della severità e
plasticità del sistema unicontestuale nella indisponibilità di dare opportunità
e nuove possibilità.
(la statica conservativa
implica il deficit di innovazione e cambiamento puro e buono.)
Allora abbiamo incontrato
un primo motivo di valorizzazione interpersonale e di merito – ovvero la
flessibilità di adattamento della persona immeritevole
Una persona che non è
adatta in un contesto di rendimento, in un altro contesto può dimostrare la sua
validità essendo utile al sistema pluricontestuale.
IL SISTEMA DI MERITO
OLISTICO adduce una responsabilizzazione del sistema pluricontestuale – in atto
di qualità ontologica del sistema stesso di essere un plasma mutevole del
rendimento – l’idea che si instaura è che una qualità di rendimento del sistema
è la sua flessibilità nella tolleranza in quanto a modificazione dei suoi
criteri di investimento interpersonale nello spirito di adattamento del
macrocosmo sistemico verso il microcosmo della essenza individuale umana.
Perché? Al fine della
ottimizzazione delle risorse – ovvero ciò che il sistema pluricontestuale deve
evitare è la perdita della persona che vuol partecipare al sistema.
Un sistema che diniega è
allora un sistema intollerante non meritevole.
La dignità ontologica
plurale è dipendente dal non sacrificio di dignità ontologica del singolo.
In verità ciascun
singolare inner mindset è un macrocosmo del tutto analogo alla complessità di
un sistema ambientale – pertanto è altresì in facoltà di ciascuna persona di
relazionarsi con il suo prossimo secondo il metodo di
demerito-competitivo-rivendicativo o secondo il metodo di tolleranza-perdono e
merito olistico –
L’ATTO PURO
LA SPERSONALIZZAZIONE DEL
PROSSIMO RELAZIONALE E’ IMPLICATA DALLA DELEGA DI RESPONSABILITA’ E DALLA
DERESPONSABILIZZAZIONE DI SE’ STESSI.
CONTRARIAMENTE LA
RECIPROCA PERSONALIZZAZIONE RELAZIONALE E’ GARANTITA DALLA RECIPROCA
AUTO_RESPONSABILIZZAZIONE IN RELAZIONE ONTOLOGICA CON IL PERDONO PURIFICATIVO
DELLE ATTITUDINI NEGATIVE SUBITE DAL PROSSIMO.
Come poter riconoscere le
conseguenze del “che cosa ho fatto”.
Un atto non è mai
astratto, assume sempre qualità ontologiche relazionali nel luogo della
complessità della dicotomia relazionale.
Pertanto per rispondere
alla domanda “che cosa ho fatto?” non possiamo che domandare alla persona verso
cui abbiamo agito le implicazioni che questo atto neutro ha avuto nella
complessità relativa e unica della persona _ istituendo la percezione altrui
come metro di giudizio valoriale della qualità dell’atto neutrale da noi agito.
Vi sono realtà percettive oggettive ed oggettivabili il cui riconoscimento da
parte dell’agente in seguito ad una stima probabilistica ed evidentistica sono
più semplicemente conseguibili e vi sono percezioni reattive soggettive, la cui
complessità del prossimo instaura nella realtà fattuale la qualità di
possibilità aleatoria del come è veramente percepibile e percepito un atto subito.
Resta presente la
considerazione secondo cui la realtà delle conseguenze ha una complessità
difficilmente prevedibile in quanto suscettibile di aleatorietà, la caoticità
deducibile dal butterfly effect implica che sia arduamente gestibile dal
creatore dell’imput l’effetto conseguente alla causa della sua attitudine, la
consapevolezza, la coscienza di ciò che si realizza è secondo probabilità
difficilmente accessibile.
Tuttavia la difficoltà
previsionale non deve essere una delega di responsabilità attitudinale – il
constatare che “Le realtà che accadono siano più grandi e complesse di me” non
deve essere motivo di rifiuto di volontà di consapevolezza delle conseguenze
delle proprie attitudini e della deresponsabilizzazione.
La responsabilità
dell’atto indotto e la deresponsabilizzazione della parte lesa.
“Amato, stimato, abbandonato/a, male _
detto/a, sottostimato/a, tradito/a, schernito/a, illuso/a, allontanato/a,
emarginato/a, asessualizzato/a, ostacolato/a, sacrificato/a, procrastinato/a,
annichilito/a, disorientato/a, defideizzato/a, depauperato/a, diniegato/a,
delegato/a, sfruttato/a, deromanticizzato/a, escluso/a, mentito/a, nascosto/a,
taciuto/a, accecato/a, pregiudicato/a, desensibilizzato/a, disamorato/a,
odiato/a, coartato/a,discriminato/a, indebolito/a,
costernato/a,disaffezionato/a, sconosciuto/a, dimenticato/a, … “
Sono termini che
premettono un “Da chi”, Si adducono due possibilità di responsabilizzazione.
La responsabilità è del
subente l’iniziativa attitudinale. Ad esempio “l’amato si ama, lo stimato si
autostima…”
La responsabilità non è
del subente l’iniziativa attitudinale ma di altre persone agenti la iniziativa
attitudinale verso il/la subente. “, il male _ detto è male _ detto a causa dei
maledicenti secondo la concezione e percezione dei male_dicenti di attitudine
pura del male_detto suscettibile di male_dicenza. Adduciamo intanto che le
oggettivazioni negative implicano incattivimento indotto_ Ovvero il male_detto
se rinominato tale perpetuerà le attitudini iconiche che hanno implicato il suo
essere denominato ed aggettivato male_detto.
In secondo luogo sussiste
la relatività gnoseologica secondo cui – (Non considerando le attitudini
universalmente riconosciute negative, la cui principale è l’omicidio _ )
Sussistono giudizi comportamentali diversi in culture dislocali. Un giudizio
comportamentale consentito in un luogo culturale può essere giudicato non
consentito e disistimato e criticato in un dissimile luogo culturale. E
viceversa.)
L’abbandonato è in
qualità di abbandono secondo la causa degli abbandonanti che abbandonano
l’abbandonato, pertanto la responsabilità dell’abbandono deve essere altresì
dovuta agli emarginanti …
Pertanto
SIAMO DAVVERO CERTI CHE
SUSSISTA ANALOGIA ONTOLOGICA TRA LA PERCEZIONE ED OGGETTIVAZIONE ESTERIORE ED
IL DEMERITO DELLA PERSONA CHE SUBISCE LA OGGETTIVAZIONE?
SOLITAMENTE AL PROCESSO
DI OGGETTIVAZIONE E’ ACCOMPAGNATA LA RADICALE DELEGA DI RESPONSABILITA’ – UN
OSSERVATORE OGGETTIVA DENIGRANDO UNA PERSONA SOSTENENDO CHE L’OSSERVAZIONE NON
SIA RESPONSABILE DELLA QUALITA’ NEGATIVA ATTRIBUITA _ SI EVINCE SECONDO STUDI
GNOSEOLOGICI CHE L’ATTO OSSERVATIVO E’ PERCETTIVO E NON E’ IN CORREAZIONE CON
LA REALTA’ ONTOLOGICA DELL’OSSERVATO _ TUTTALPIU’ SI RICONOSCE CHE SIA
IMPOSSIBILE CHE LA QUALITA’ ATTITUDINALE DI UNA ESSENZA ONTOLOGICA MICROCOSMICA
NON SIA INDIFFERENTE ALLA QUALITA’ ONTOLOGICA DELL’AMBIENTE MACROCOSMICO CHE
CONTIENE LA REALTA’ MICROCOSMICA –Più semplicemente è ontologicamente
impossibile che la qualità attitudinale del singolo sia ininfluenzabile
dall’ambiente relazionale e pertanto confutiamo la credibilità secondo cui la
responsabilità ontologica di un singolo sia al 100% del singolo e dello 0%
delle persone che sono in relazione ambientale con il singolo.
Pertanto la
responsabilità della qualità ontologica che sussiste in un singolo deve essere
correttamente riequilibrabile tra gli artefici che hanno indotto una iniziativa
relazionale negativa e tra colui/colei che la vive e la attua.
APPLICHIAMO QUESTO
MINDSET DELL’EQUILIBRIO DI RESPONSABILIZZAZIONE A CIASCUNA DELLE AGGETTIVAZIONI
SOPRA ELENCATE.
IL SISTEMA DI GIUDIZIO
DELL’ATTO SPURIO
Pertanto associamo alla
equilibrata responsabilizzazione relazionale biunivoca tra ambiente macrocosmico
e singolarità attitudinale microcosmica un SISTEMA DI GIUDIZIO DELL’ATTO SPURIO
Per comprendere e
qualificare l’atto spurio argomentiamo che cosa sia l’atto puro.
LA REGOLA DELLA
NECESSITA’ RELAZIONALE UNIVERSALE
Denominiamo atto puro _
L’atto di una persona come se fosse causa prima indipendente da alcuna causa _
Ovvero che la attitudine di una persona non sia effetto di alcuna causa _
Comprenderemo ovviamente che non possa essere così in quanto ciascuna esistenza
ontologica non può essere non relazionale ed in vicendevole influenza con
l’ambiente delle persone con cui esiste – Altresì l’eremitismo non è esente
dalla regola della necessità relazionale universale _ In quanto ad esistenza
ontologica plurale d’aver avuto relazione precedentemente all’eremitismo.
Allora solo nella
impossibilità della iniziativa attitudinale di una persona come causa prima
sarebbe corretto attribuire il 100% della responsabilità della attitudine della
causa prima solamente a questa persona e lo zero % all’ambiente relazionale.
Comprendiamo allora con
chiarezza il significato di “atto spurio”
Denominiamo atto spurio _
L’atto di una persona come effetto dipendente da una o più cause aventi radici
ontologiche nella relazionalità con le persone dell’ambiente in cui vive la
persona che attua l’attitudine _ Ovvero che la attitudine di una persona sia
effetto di cause relazionali – Ed una corretta stima di equilibrio di
responsabilizzazione deve prevedere che sia responsabilizzata la persona che
coglie l’iniziativa attitudinale ed altresì responsabilizzate le persone
essenti ontologicamente causa attitudinale dell’atto agito.
Proviamo ad argomentare
di rendimento _
Solitamente si adduce il
100% di responsabilità della fragilità di rendimento alla persona che non
ottempera al livello di resilienza richiesta dall’ambiente _ Ma siamo davvero
certi che ad esempio la fragilità del rendimento non sia ad esempio implicata
dal’eccesso di pretesa di rendimento dell’ambiente verso la persona che ad
esempio per sua struttura fisiologico – psicologica giunge a vivere uno status
di burnout indotto?
Per risolvere il
disquilibrio di delega di responsabilità dell’ambiente verso il singolo: E’
allora nella induzione che riconduciamo la giustezza del criterio di
responsabilizzazione ambientale eteronoma equilibrante la qualità e la quantità
ontologiche della responsabilizzazione autonoma.
Le deleghe di
responsabilità alle astrazioni
Allora se ad esempio
fosse attribuita ad una persona ed al suo olismo attitudinale la responsabilità
d’essere stata causa di una attitudine di una altra persona – questa persona
direbbe “Sono tutti come me”, sostenendo questo attuerebbe la delega di
responsabilità verso la astrazione della generalità ambientale.
Oppure sosterrebbe _ “E’
andata così” sostenendo questo attuerebbe la delega di responsabilità verso la
astrazione della aleatorietà.
Quando si comunica “Che
Dio sia con te” La persona che pronuncia questa frase vela il messaggio _ Io
per te non ci sarò _
Il dialogo fondato sul
tempo futuro è una delega di responsabilità della negazione di iniziativa
presente reiterata nel tempo futuro, la cui traduzione attitudinale è che la
attitudine non attuata nell’adesso non avverrà mai o probabilmente non avverrà.
Per il possibile futuro
si perde il presente.
Il mindset di atto puro
positivo è ricreativo la decadenza relazionale.
Abbiamo chiarito che non
può esistere la realtà attitudinale di atto puro _ Tuttavia la realtà eterea di
atto puro può avere due valenze immaginativa.
1.
In “Tesi II” si argomenta
come in una catena relazionale di vicendevoli negatività il fatto di
riassettare la dinamica relazionale con una nuova attitudine positiva
indipendentemente dalle passate negatività è funzionale per la resurrezione e
ricreazione relazionale.
Oltre le deleghe di
responsabilità
La responsabilità che
grava sulla parte offensiva non è indifferente dalle cause comportamentali che
avrebbero innestato le attitudini negative della parte offensiva, solitamente
la parte offensiva è parte offesa.
2.Vedere l’ambiente
indifferentemente dall’osservatore: Vedere la molteplicità del voi dalla
prospettiva dell’outsider.
Auto annichilimento
immaginativo, provare a sparire (metaforicamente) per vedere l’atto puro del
prossimo e la sua reale essenza.
LA SPERSONALIZZAZIONE
NELL’AMBITO DELLE FACOLTA’ UMANE
LA CALLIGRAFIA, IL SEGNO
E’ MATRICE IDENTIFICATIVA DISCRIMINANTE E LA PERSONALIZZAZIONE
La calligrafia è
indicativa della caratterialità. Dalla calligrafia si deducono tratti
caratteriali della persona scrittrice.
La scrittura al computer
è omologante.
Esempio della scrittura
di una lettera la cui lettura da parte di una lettrice implica il
riconoscimento della calligrafia della persona in associazione ontologica della
persona.
La omologazione toglie
dignità ontologica alla persona. La svalutazione del segno e la secondarietà
dell’arte.
Calligrafia è dignità
ontologica personale
N paragrafi aventi le
stesse parole trascritti in scrittura calligrafiCa autografa indicano la
diversità di N persone come fonte identitaria della diversa singolarità di
ciascuna di loro.
N paragrafi trascritti al
computer con lo stesso font omologano le scritture e omologano le persone che
hanno digitato questi scritti, esse risultano tutte uguali.
Pertanto assumiamo la
calligrafia come importante discriminante fonte di dignità ontologica come
essenza di diversità e diverse peculiarità personali.
Le scuole di scrittura
omologavano la scrittura
Anche la scrittura del
passato era standardizzata – Nelle scuole di scrittura insegnavano la analogia
di morfologia calligrafica, gli scritti artigianali dovevano avere il medesimo
font.
LA SPERSONALIZZAZIONE
IMPLICATA DALLE MACCHINE CHE SOSTITUISCONO LE FACOLTA’ UMANE
Calcolo _ calcolatrice
Memoria è ancora una
discriminante importante. (Internet è un mondo culturale mnemonico accessibile
immediatamente)
Traduzione _ Traduttore
LA SPERSONALIZZAZIONE
DIALOGICA E GLI
SMARTPHONE
L’interlocutore reale
viene svalorizzato in relazione alla esistenza contemporanea dei contatti
virtuali onnipresenti.
Più valore alla
molteplicità virtuale che alla unicità reale relazionale.
La comunicazione virtuale
onnipresente come soluzione alla preoccupazione:
La possibilità di
chiedere “come stai?”
TUTTAVIA. Non è detto che
cogliamo l’opportunità della onnipresenza virtuale relazionale – vi sono ad
esempio persone che nel vasto periodo annuale non ricevono né alcuna chiamata
né alcun messaggio nonostante sia reale la loro suscettibilità alla fragilità
fisiologico-ontologica.
Le lingue greco latine
stanno scomparendo. La lingua greca ha una variability contestuale maggiore.
Un vocabolo greco ha più
traduzioni e maggiori sfumature contestuali di un vocabolo italiano. =>
Incremento di flessibilità e di spazio dialogico _ contestuale ma incremento di
aleatorietà di percezione contestuale – maggiore suscettibilità alle
incomprensioni di senso.
La profondità del mindset
matematico e del mindset filologico:
La profondità
intellettiva_ Non è detto che la profondità intellettiva sia intelligenza,
ovvero che nella superficiality intellettiva non ci sia intelligenza
La profondità
intellettiva metafora dello scendere in una grotta buia, non è detto che sia
una attitudine migliore di coloro che restano sulla superficie.
LA RELAZIONALITÀ
COEVOLUTIVA
Premessa_l’argomento è
personale, non nella accezione del termine che riguarda la vita delle relazioni
dello scrittore, ma è relativo alla dinamica di relazione persona-persona,
quindi è oltre la distinzione di genere femminile-maschile, sussiste dunque un
equilibrio di responsabilità nelle cause di resilienza/dirimenza relazionale,
(Tuttavia ontologicamente/caratterialmente le donne sono suscettibili a
realizzare inesorabilità e severità di fine relazionali secondo intensità,
molteplicità e modalità attitudinali diverse rispetto agli uomini). Le donne
analogamente agli uomini sono responsabili della salute COEVOLUTIVA relazionale
o della malattia o fine di vitalità e vita relazionale.
La sofferenza adiacente
al non aver nulla è l’aver tutto per poi dover subirne la perdita.
Premessa: Nelle dinamiche
relazionali macrocosmo ambiente/microcosmo persona
Sussiste il principio di
equilibrio di ambivalenza delle responsabilità - le responsabilità del “ciò che
è” relazionale e le sue qualità positive o negative non sono attribuibili
solamente alla persona che vive l’ambiente e nemmeno si può assumere che l’ambiente
sia totalmente responsabile della qualità relazionale/attitudinale/caratteriale
della persona che lo vive. In quanto sussiste reciprocità di influenza tra
l’ambiente (pluralità ontologico/attitudinale/caratteriale/relazionale di
persone) e la persona.
Cerchiamo di non
realizzare nel nostro arco di vita relazionale nel lungo periodo radicali
dissonanze caratteriali/attitudinali/relazionali - esemplificando:
In analogia della
attitudine dell’osservatore tra il macroperiodo primo e secondo si argomenta la
modificazione ambientale relazionale.
IL MACROPERIODO PRIMO
POSITIVOTIVO E IL
MACROPERIODO SECONDO
NEGATIVO
IL MACROPERIODO PRIMO
Macroperiodo primo -
smodata gioia relazionale, contentezza, complicità, familiarità, gratuità,
sostegno interpersonale, predisposizione alla promessa, costante periodicità
dell’incontro relazionale, disponibilità di investimento di tempo oltremodo,
iniziativa relazionale e progettualità relazionale nel breve-lungo termine,
valorizzazione del tempo relazionale trascorso insieme, self responsibility
relazionale del prossimo, profondità dialogica e interesse personale, lo
sguardo delle persone che si relazionano è introversivo, non estroversivo -
critico - diffamatorio. Non sussistono dinamiche attitudinali “Sulla difensiva”,
onestà. Ove vi siano fragilità attitudinali si instaura la dinamica di perdono
relazionale e non di vendicatività relazionale. Esistenza di affettività
relazionale. Volontà di approfondimento dialogico culturale affettivo.
IL MACROPERIODO SECONDO
Graduale o drastica
inversione di tendenza dell’ambiente relazionale indotto:
La intima gioia
relazionale diviene il cliché del sorridere disinteressato, la complicità viene
sostituita dalla dirimenza ontologico/relazionale. La familiarità viene
sostituita dalla atomizzazione che implica reciproco non riconoscimento, la
gratuità viene sostituita dalla responsabilizzazione di merito attitudinale
necessario alla acquisizione delle realtà che venivano precedentemente donate.
Il sostegno viene a mancare. Le promesse delegate alle astrazioni del futuro e
del mai. Assenza di incontro relazionale annuale o nei casi più gravi decennale
o per sempre. Silenzio dialogico reciproco.
Procrastinazione di
investimento di tempo relazionale, la persona avente in origine diritto di
priorità relazionale si vede decadere questo diritto, nel presente gli/le si
dedica la priorità relazionale di secondo/ultimo ordine. Svalutazione del tempo
relazionale presente ove vi sia sussiste superficializzazione relazionale.
Sussiste la carenza di iniziativa reciproco-relazionale, ove vi siano fragilità
attitudinali si instaura la dinamica di vendicatività relazionale e non di
perdono relazionale. Assenza di progettualità relazionale. Delega di
responsabilità relazionale dell’ambiente delle persone che precedentemente
dedicavano self responsibility relazionale. Dialogical Superficiality e non
profondità dialogica. Disinteresse relazionale. lo sguardo delle persone che si
relazionano estroversivo - critico - diffamatorio, non introversivo, sussiste
l’abitudine a giudicare e non all’autorevisionalità coscienziosa. Sussistono
dinamiche relazionali “Sulla difensiva” fondanti le quali il mindset di
possibile stima di veemente ostilità. Disonestà comunicativa, complotto e
tradimento relazionali. Non Volontà di approfondimento dialogico culturale
affettivo. Assenza di affettività relazionale. Non riconoscimento e non volontà
di ri-conoscersi, riconoscenza, ci si allontanerebbe talmente nello spazio
relazionale e nel tempo da cambiare il carattere, sicché quando ci si incontra
nei fuori luogo relazionali non esiste alcun riferimento mnemonico di
somiglianza, e di immedesimazione, cosentimento, viene a crearsi la dissonanza
cognitiva di irriconoscibilità dei conoscenti, non dovremmo permettere che
questa realtà avvenga.
Per evitare che ciò
avvenga instauriamo più frequenti fuori luogo relazionali, inizialmente
percepiremmo questi incontri forzature relazionali prive di senso e fuori luogo
appunto, ma gradualmente ci riabitueremo e l’abitudinarietà cancellerà la
qualità percettiva di “fuori luogo” degli incontri.
Ci allontaniamo
relazionalmente per insegnarci la malinconia, il mancarsi è lo spirito della
volontà di incontrarsi di nuovo.
Possibilità della
esistenza della negatività dello zero relazionale, la solitudine. Le perdite
relazionali.
Il senso dell’incontro
fuori luogo è la resurrezione relazionale
In situazioni di radicale
inesorabilità relazionale ciascun flebile barlume di iniziativa relazionale è
fondamentale come spirito di resurrezione relazionale.
Il fuori luogo
dell’incontro relazionale può essere catartico per la relazione in quanto a
chiarimento perdono, pacificazione, tempra delle positività relazionali
passate.
Il giudizio di buona fede
e di mala fede appartiene all’Osservatore della medesima attitudine
dell’osservato di congedarsi.
Dicotomia valoriale relazionale tra dono di
libertà e abbandono - il chiarimento è attuabile solo mediante il dialogo tra
osservatore e osservato nella possibilità dell’incontro relazionale fuori
luogo.
Si instaura lo spettro
del “Fuori luogo relazionale”. È esemplificativo il caso del “Vedere le foto
famigliari d’infanzia.” che implica una radicale asincrona esperienziale che
disorienta nei casi meno severi e che deprime nei casi più severi.
Perché viene a
realizzarsi la depressione dello stato d’animo?
Perché a livello di stato
d’animo si realizza la negativizzazione esperienziale ovvero la dinamica
discendente del peggioramento universale di vita relazionale.
Nel periodo primo
l’ambiente relazionale rischia di instaurare la idea indotta di illusorietà del
per sempre probabilisticamente irrealizzabile poiché in età adulta le relazioni
sono suscettibili a fragilità.
A livello di mindset il
periodo secondo è suscettibile a far vivere alla persona che ha vissuto
l’ambiente relazionale descritto nel periodo primo reiterati burnout
psicologico/relazionali provocati da svariate dissonanze cognitive indotte
strutturate sulle dinamiche esperienziali del passato che non è presente e che
non sarà futuro.
Pertanto è primariamente
importante per la resilienza universale, che se nel peggior dei casi debba
verificarsi la qualità del periodo secondo, ci auguriamo che almeno questo
passaggio sia graduale nei modi, nei luoghi e nei tempi. Ottimale sarebbe la
coincidenza delle qualità del periodo primo nel periodo secondo in quanto a
positività relazionale in ciascuno dei tempi generazionali, infanzia,
giovinezza, età adulta, anzianità.
Tale questione
relazionale può verificarsi altresì nel breve periodo relazionale, (microperiodo)
certo è che in questo caso la questione relazionale sarebbe custodita nel primo
o nel secondo macroperiodo.
Nel microperiodo le
realtà relazionali fragili sono più suscettibili a risolversi, ovvero che ad un
secondo microperiodo negativo possa sussistere un terzo microperiodo
relazionalmente migliore.
LA IMPROBABILE
REALIZZABILITA’ DEL POSITIVO MACROPERIODO TERZO IN SEGUITO AD UN PRIMO O
SECONDO MACROPERIODO NEGATIVO
Attribuendo questa
possibilità di miglioramento relazionale nel caso dei macroperiodi, solitamente
è difficile che si realizzi un terzo macroperiodo relazionalmente
reciprocamente migliore, poiché nel secondo macroperiodo si sono innestate le
dirimenze relazionali della severità, della inesorabilità, della non
coevoluzione e flessibilità al cambiamento relazionale.
IL MACROPERIODO PRIMO
NEGATIVO E IL MACROPERIODO SECONDO POSITIVO
Nella intima
intenzionalità di non valorizzare le “tristi infanzie” premettendo e ripetendo
che una giusta vita è degna di vivere in tutte le sue vite relazionali le
qualità relazionali descritte precedentemente nel macroperiodo primo. Provo ora
ad argomentare quanto il meccanismo di dissonanza cognitiva indotta possa
invece essere neutrale o catartico per il benessere relazionale/psicologico
della persona adulta che in età infantile/giovanile visse un ambiente
relazionale decadente. Si realizzerebbe una positivizzazione presente della
memoria passata.
Il “come è ora” migliore
del “Come è stato” Implica serenità presente e sentimento di ottimistica previsionalità
per il futuro.
A livello di stato
d’animo si realizza la positivizzazione esperienziale ovvero la dinamica
ascendente del miglioramento universale di vita relazionale.
LA RELAZIONALITA’
COEVOLUTIVA NEI TRE MACROPERIODI GENERAZIONALI
La relazionalità
coevolutiva:
Una terza ed ultima
possibilità è che a livello globalmente relazionale dei macrocosmi delle
generazioni di vita non vi sussistano le radicalizzazioni della positività
relazionale e della negatività relazionale, ma si avvererebbe la realtà
relazionale secondo cui ciascun macrocosmo è costituito da pluralità
relazionali/caratteriali/attitudinali di qualità neutrale - ovvero
caratterizzate da un ordinato ed equilibrio olistico di lievi negatività e di
lievi positività che costantemente nei brevi microperiodi relazionali
avvicendano loro stesse.
In questo caso non si
avvisano gravi dissonanze cognitive indotte perché la realtà globalmente
relazionale è priva di eccessi relazionali di tipo positivo o di tipo negativo
- qui le peculiarità sopra descritte si equilibrano in questo modo.
La gioia relazionale
esiste ma è dilatata nel tempo ed è sospesa da rari periodi di sospensione di
malcontento relazionale disponibile a risolversi. Esiste complicità nella
qualità intenzionale di essere resilienti ai periodi di sospensione relazionale
( il caso in cui non ci si incontra anche per alcuni mesi e si riconosce vicendevolmente la amistà
precedente non intaccata dal tempo di separazione.) esiste un lieve sentimento
di familiarità nella forma della ri-conoscenza e riconoscimento non ostentati
ma esistenti. La gratuità è il sostegno relazionale sono alternati in un clima
di rispetto e impegno relazionale reciproco. Non esiste predisposizione alla
promessa, piuttosto dimostrazione periodica di atti attitudinali/dialogici di
iniziativa periodica nella massima scissione relazionale mensile. Non esiste
periodicità di incontro relazionale in periodi quotidiani. Disponibilità di
investimento di tempo non oltremodo, si esclude la vanità del tempo relazionale
dilatato superfluo caratterizzato da superficializzazione
dialogico/attitudinale/relazionale e di cliché dialogici non funzionali al
conoscersi o alla tempra relazionale. Esiste quindi valorizzazione del tempo
relazionale. Sussistono saltuarie discussioni, anche di gravità
dialogico-espressiva ma non definitive ed inesorabili, suscettibili a
risolversi. Esiste raramente
progettualità, il flow relazionale consegue in grazia della catena relazionale
che esiste coevolutivamente, in itinere. Esistono sia self responsibility sia
deleghe di responsabilità. La costante di profondità dialogica e di interesse
interpersonale è sospesa da episodi di disinteresse e di libertà dalla
relazione. Lo sguardo delle persone che si relazionano è sia introversivo, sia
estroversivo - critico - diffamatorio. Possono sussistere dinamiche
attitudinali “Sulla difensiva” ma mai di tipo definitivo/inesorabili. Esiste
onestà relazionale e esistono casi di disonestà comunicativa, non di complotto
e tradimento relazionali implicanti dirimenza definitiva.
Ove vi siano fragilità
attitudinali si instaurano sia la dinamica di perdono relazionale sia la
dinamica di vendicatività relazionale, ma quest’ultima non implica dirimenza
definitiva. Esistenza di affettività relazionale dilazionato. Volontà di
approfondimento dialogico culturale affettivo non ferrea e serrata. Chi
abbandona la relazione oltre la lontananza temporale mensile o in seguito a
gravi dissonanze comprtamentali/caratteriali che consiglierebbe la fine
relazionale definitiva viene perdonato e cercato in una vicendevole alternanza
di iniziative di incontro pur sempre rispettando il diritto di libertà
individuale.
La interpersonalità non
deve essere omnicomprensiva e monopolizzante la individualità.
E la individualità non
deve essere alienante la interpersonalità.
Impossibilità della
esistenza della negatività dello zero relazionale, la solitudine. Le perdite
relazionali. Impossibilità della esistenza della positività del 100%
relazionale e di costanza di incontro quotidiano.
Tale terza dinamica
macrocosmica relazionale è avversa agli estremismi ma soprattutto è costituita
dalla mentalità relazionale CAS dei sistemi complessi adattivi che costituisce
come suo baluardo il principio del /cambiamento/miglioramento traslando
l’egemonia dell’essere relazionale verso la flessibilità del divenire migliore
relazionale - Il movimento è indicatore della essenza relazionale, pertanto
tale facoltà del sistema relazionale adattivo salva la relazione dalle
definibilità e dalle inesorabilità che la realtà di fine relazionale
costituirebbe, tra cui ad esempio il lasciarsi relazionalmente tormentati
incompresi per sempre o semplicemente serenamente liberi, dipende da come siamo
e da quale prospettiva guardiamo. La sorpresa è la curiosità relazionale sono
tra i valori costitutivi della relazionalità COEVOLUTIVA.
La valorizzazione delle opportunità
relazionali.
La valorizzazione delle
differenze come realtà che costituiscono curiosità.
La valorizzazione della
novità relazionale e della sua innovazione.
La stima dell’essere
secondo gradiente di probabilità sconosciuti è di monito a incontrarsi e a
conoscersi.
La valorizzazione del
fallimento relazionale come motivo di ridefinizione delle profonde strutture
dialogico/comportamentali/relazionali.
Non il perfezionismo relazionale, che è suscettibile al rimprovero e al
diniego delle realtà imperfette, ma i perfezionismo relazionale che compendia
accoglie e abbraccia le imperfezioni.
Il valore dello spirito
di previsionalità latente – ciò che è “esteriormente negativo” è suscettibile
alla rivelazione esteriorizzante dell’ “interiormente positivo”, la fiducia nel
miglioramento.
La relazionalità
COEVOLUTIVA Predilige gli incontri vis a vis alle relazionalità di gruppo
(lettura di “sistema di gruppo.)
Volere osservare dalla
prospettiva della benevolenza implica il realizzare il bene relazionale.
La legge
dell’osservazione come valore attivo e creativo plasmante le dinamiche
relazionali.
Il valore del ritorno
relazionale.
Lettura: La teoria
relazionale della marginalità.
La fiammella elevandosi
gioconda, brucia, illumina, riscalda, colora, scioglie, rinsalda.
Se la fiammella ha
sciolto, questa verità non implica che la fiammella non possa rinsaldare.
E la più importante
verità è che una attitudine passata non annienta la facoltà del realizzarsi di
una attitudine diversa.
In ultima istanza per
argomentare della velata resilienza relazionale esemplifichiamo la realtà della
velata resilienza ontologico-esistenziale.
Pertanto riconosciamo che
nella apparente debolezza della persona che fisiologicamente, psicologicamente
ed esteriormente dimostra fragilità e debolezza, insomma un danno ingente che
intercorre parallelamente ad una apparente non resilienza, in relazione alla
possibile esistenza di disorientamento provocato dalla percezione
dell’aleatorietà del maybe futuro, ebbene in sé ed in relazione a ciò che
questa persona sta supportando lei stessa sarebbe universalmente tra le più
resilienti nonostante non dimostri resilienza.
Il concetto è presto
compreso spiegando che se l’ancora del connubio delle sofferenze di questa
persona fosse gravato su una altra persona, questa seconda non riuscirebbe a
dimostrare il livello della esteriore resilienza che dimostra la prima, bensì
la seconda sarebbe suscettibile a manifestazioni fisiologiche più fragili,
decadenti, e psicologicamente più nevrotiche.
Allora nominiamo il
concetto di resilienza intima latente – la resilienza intima latente è garante
della personalizzazione ed è fondata dalla esperienzialità abitudinaria della
persona.
Allora in ottemperanza
del concetto di sinergia relazionale 1+1=3
Persona+persona=
Persona+persona+noi
Esiste la resilienza
intima latente del noi – che appartiene e riguarda solamente il dualismo persona-persona,
non dipendente dalle altre persone estranee alla relazione, istituendo allora
la intimità di resilienza ausiliaria utile all’autoriconoscimento delle
potenzialità latenti della relazione che realizza la possibilità di
rivoluzionare la fragilità di esteriorità relazionale. Si dimostra così che la
dinamica di resilienza intima latente individuale può essere altresì
applicabile alla realtà relazionale.
a
“a“ Does exists and has
place into the environment of this paper –
Because of the fact “a”
changes the ontological quality of the white paper, the essence of “a” has the
innate esistential dignity of reality that implicate the change of the quality
of the white paper.
The creator of the
essence “a”, because of the creation of a worthy essence has himself the innate
esistential dignity reality that implicate the change of the quality of the
white paper, of the place he lives in, of the relational environment, of the culture
he innovates and integrates through the fact of signing the essence “a”.
The intelligibility of
“a” that hugs the value of the writer mindset it is into the inner quality of
the essence “a” –
So the essence “a” and
the essence of her creator, the writer “Michele Vitti” are not responsible of
the incapability of the correct reading of the readers, simply the readers
aren’t able to understand the inner value of “a” and the readers are usual to
say ““a” does not exists or “a” has not value or gignity of existance, so
readers delete “a” ontologically deleting “a” with a eraser or not reading “a”-
So the writer will have
to write “a” again and has to show the same readers they deleted “a” telling
them to learn the language of “a” to understand “a”. Or the writer will show
“a” to other readers.
“a” esiste e ha luogo
nell’ambiente di questo foglio. _
Per il fatto che la
essenza “a” modifica e incrementa la realtà ontologica del foglio bianco, la
essenza di “a” ha la innata essenziale dignità ontologica di realtà che implica
una modificazione ambientale del foglio bianco. La sua dignità esistenziale –
ontologica è intima, autonoma, indipendente, non eteronoma-dipendente da una
lettura esteriore – poiché la modificazione è una realtà realmente nata ed
esistente – nella realtà ambientale reale e nella realtà ambientale psicologico
mnemonica del suo creatore e dei suoi lettori.
Il creatore della essenza
“a”, in grazia della creazione della valevole essenza possiede lui stesso la
innata legittimazione di creatore degno della modificazione non solo del foglio
bianco, bensì anche del luogo in cui ha segnato “a” dell’ambiente relazionale,
in quanto a dono di possibilità alle persone di potere essere lettori di “a”,
ed altresì della cultura che lo scrittore innova integrandola del valore
aggiunto della essenza “a”. La intelligibilità di “a” che abbraccia il valore
del mindset dello scrittore è innata nella intima qualità della degna
esistenzialità di “a” non nella qualità di lettura del prossimo.
“a” è ontologicamente una
realtà valevolmente comunicativa indipendente.
Pertanto la essenza
valoriale di “a” e la essenza valoriale del suo creatore, lo scrittore “Michele
Vitti”, non sono responsabili della percettività di inintelligibilità o
percettività di intelligibilità, della svogliatezza di corretta lettura, della
ignoranza di indifferenza dei lettori di “a”.
Il valore ontologico del
creatore di “a” si desume dal fatto che la corretta lettura di “a” sia
raggiungibile sia leggendo e decodificando la astrazione “a”, sia dialogando a
riguardo di “a” con il suo scrittore – “a” e il suo creatore sono inscindibili ed
una realtà ontologica compendia l’altra – è come osservare la medesima realtà
da due prospettive diverse. Il creatore è il conoscente migliore della sua
creatura, lo scrittore conosce la lingua della sua scrittura – La degna
identità della sua scrittura e la sua ontologica dignità sussistono in quanto
ai principi di originalità e di autografia – Pertanto ogni semplificazione o
adattamento conformista della scrittura culturale dello scrittore è una volontà
di falsificazione del sé, è una copiatura delle strutture dialogico-culturali
dei suoi prossimi, un mentire a sé stesso ed agli altri della onestà
intellettuale dello scrittore.
Semplicemente se i
lettori non leggono o non sono interessati nella lettura della realtà creativa
dello scrittore non è un limite dello scrittore, il loro giudizio attitudinale
non cortocircuita la validità, il valore, la dignità ontologica della creatura
dello scrittore. semplicemente i lettori scelgono di perdere e di non giovare
sé stessi del puro valore aggiunto della creatività intellettiva dello
scrittore.
E i lettori svogliati o
indifferenti sono soliti testimoniare “”a” non esiste o “a” non ha valore
ontologico e dignità di esistenza. Quindi il lettori disinteressati e
indifferenti “annienterebbero” “a” cancellando “a” con un cancellatore o non
leggendo “a”. Tuttavia la rilevanza fattuale di “a” eterna innata è che il
momento della nascita di “a” ha creato una variazione universale che realizza
che l’avverarsi di “a” influenza il presente/passato/futuro universale, la
nascita di “a” induce un macroclisma di curiosità che raggiunge per “sentito dire”altresì le
persone più lontane da “a” e dal suo
scrittore.
Altresì le persone che
cancellano con la gomma “a” saranno nel loro futuro influenzate dall’avere
visto “a” e dall’avere cancellato “a”, ad esempio incontreranno coloro che
valorizza”va”no “a” e che credevano”credono” in “a” e noteranno in essi
avversione e biasimo attitudinale, essi ad esempio domanderanno agli
“annichilenti” – Perché avete annientato “a” ?
“a” non è Dio, (Dio è
Dio), ma nella ipotesi immaginativa in cui “a” fosse Dio gli atei non sarebbero
in diritto ed in autorevolezza e autorità di confutare la essenza ontologica
degna di Dio. Semplicemente loro sarebbero ciechi alla realtà di Dio, è un loro
limite, non della realtà ontologica Dio”
Pertanto se “a” non sarà
letta o se sarà cancellata, il creatore scrittore di “a” dovrà riscrivere
nuovamente “a”, riuscirebbe con fatica a ripristinare e a dare nuova vita alla
complessità di “a”, per ciò che abbiamo già assunto, che il seme germoglio
simbolo di “a” è innato nel mindset dello scrittore. Così lo scrittore
ripresenterà “a” ai medesimi lettori che hanno misconosciuto lui e la sua
creatura culturale-intellettiva “a” – LO SCRITTORE SI DIMOSTRA PERTANTO ESSERE BUONO
DONANDO AI LETTORI UNA NUOVA POSSIBILITA’ PER I LETTORI INDIFFERENTI DI
GIOVARSI DELLA SUA OPERA “a”.
La aggettivazione di
“genio incompreso” dei lettori verso lo scrittore testimonia il limite di non
comprendere o di non volere comprendere dei lettori verso il “genio d’autore
creativo scrittore, non il limite di dignità ontologico essenziale dello
scrittore e delle sue opere.
Se una persona
esteriormente giudica “Non riconosco nulla” di una realtà creativa, questa
persona non testimonia, non prova che il suo limite di cecità.
Se una persona
esteriormente giudica “Non è leggibile, non capisco” di una realtà creativa,
questa persona non testimonia, non prova che il suo limite di “Inabilità di
lettura, e di non comprensione.”.
Se una persona esteriormente
giudica di un dipinto “_” testimonia il suo limite di giudizio osservativo, non
il limite di abilità del dipingere del pittore, né la inconsistenza ontologico
valoriale del dipinto – Tanto è che appena il primo osservatore giudica “_”, un
secondo osservatore giudica “+”. Ma IL VALORE ONTOLOGICO DEL DIPINTO E DEL SUO
CREATORE SONO DISSIMILI E NON SONO L’EQUILIBRIO DELLE DUE PERCEZIONI “+”,”_”.
L’equilibrio olistico “+”
“_” costituisce piuttosto la QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE.
IL GRAVE ERRORE
ONTOLOGICO ESISTENZIALE E’ CHE CONSIDERIAMO
IL VALORE ONTOLOGICO E LA
QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE
LA MEDESIMA ESSENZA.
NON E’ COSI’ – IL VALORE
ONTOLOGICO DI UNA REALTA’ E INNATO INDIPENDENTE ED ONNIPRESENTE
E CONSISTE NELLA DIGNITA’
E VALORIZZAZIONE APRIORISTICA DELLA REALTA’. E’ SUL VALORE ONTOLOGICO CHE
DOBBIAMO FONDARE IL RICONOSCIMENTO NON SULLA ALEATORIETA’ DELLE FALSIFICAZIONI
PERCETTIVE ESTERIORI. LA QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA E’ SOLITAMENTE
UN SURPLUS DI DEVALORIZZAZIONE PERCETTIVA E PERTANTO INSTAURA DIALETTICHE DI
NEGATIVIZZAZIONE DELLA ONTOLOGIA REALE DELLA REALTA’.
SE NOMINIAMO LA REALTA’
ONTOLOGICA DEL DIPINTO “Dipinto” E SE NOMINIAMO LA REALTA’ ONTOLOGICA DEL
PITTORE “Pittore”, SE NOMINIAMO “+”,”_” LE QUALITA’ DI VALORIZZAZIONE
PERCETTIVA ESTERIORE DELL’OSSERVTORE “Osservatore”:
“Dipinto” NON E’
“+”,“Dipinto” NON E’ “_”, “Pittore” NON E’ “Dipinto”, “Osservatore” NON E’
“Dipinto”, “Osservatore” NON E’ “Pittore”.
“Dipinto” E’ “Dipinto” E
PER LA SUA REALE ESISTENZA DI ESSERE “Dipinto” – E’ degno di dignità,
riconoscimento e valorizzazione ontologico apprezzativa, lo stesso sistema
valoriale vale per la realtà “Pittore”.
“_” RACCONTA DI COME E’
“Osservatore” Mentre osserva “Dipinto”. Ma “_” ha autorità
attributivo-esistenziale su “Osservatore”, ma non ha autorità
attributivo-esistenziale su “Dipinto”.
“Osservatore” sostiene
che la sua ontologia è un attitudine osservativo-qualificativa della realtà
esteriore “Dipinto” di qualità “_”.
“Osservatore mediante il
giudizio di valorizzazione percettiva “_” esprime la sua percettibilità nelle
parole “Io vedo e caratterizzo “Dipinto”: § ”, ma “Dipinto” non è §.
Analogamente: Ciò che si
vede, si giudica, di valorizza – devalorizza del prossimo, non è il prossimo,
ma è la qualità ontologico osservativa dell’osservatore.
“+” RACCONTA DI COME E’ “Osservatore” Mentre
osserva “Pittore”. Ma “+” ha autorità attributivo-esistenziale su “Osservatore”,
ma non ha autorità attributivo-esistenziale su “Pittore”.
“Osservatore” sostiene
che la sua ontologia è un attitudine osservativo-qualificativa della realtà
esteriore “Pittore” di qualità “+”.
“Osservatore” mediante il
giudizio di valorizzazione percettiva “+” esprime la sua percettibilità nelle
parole “Io vedo e caratterizzo “Pittore”: Ω”, ma “Pittore” non è Ω.
Le essenzialità
ontologiche hanno autorevolezza attributivo-esistenziale-decisionale solamente
su loro stesse – IL SE’ HA AUTOREVOLEZZA ATTRIBUTIVO-ESISTENZIALE-DECISIONALE
SUL SE’ _ TUTTAVIA LA OSSERVAZIONE PERCETTIVA DEL SE’ NON LEGITTIMA LA
AUTOREVOLEZZA ATTRIBUTIVO-ESISTENZIALE-DECISIONALE SUL NON-SE’ PERCHE’ LA
ATTITUDINE DEL SE’ VERSO IL NON-SE’ HA FONDAMENTO SULLA PERCETTIVITA’ DEL SE’
OVVERO SUL NON ESSERE DEL NON-SE’.
Ora, una realtà è data al
mondo affinché sia di utilità comune – allora si realizza che il creatore doni
agli osservatori la possibilità di elevare loro stessi mediante il confronto
con le sue opere. Questo concetto in particolare relazione con un livello di
complessità lessicale-culturale- intellettiva della opera dello scrittore –
tuttavia generalizzando il dono creativo è sempre e comunque un valore aggiunto
per gli osservatori poiché il creatore dedica una realtà di confronto per gli
spettatori, indipendentemente dalla qualità dell’opera creativa i lettori e
spettatori incrementeranno il loro sé ontologico della relazione con la opera
donata dal creatore. Generalizzando e decontestualizzando dai contesti arte/letteratura,
in ciascuna nostra dinamica relazionale siamo sia creatori, sia spettatori,
pertanto è di valore aggiunto per tutti noi un approfondimento sulla qualità
ontologico-creativa dei creatori.
IL VALORE ONTOLOGICO E LA
POSSIBILITA’ DI VALORIZZAZIONE PERCETTIVA ESTERIORE.
Forse i lettori
resteranno indifferenti e nuovamente non leggeranno restando nella loro povertà
privativa di ”a”, ma secondo probabilità è impossibile che tutti i lettori
indifferenti reiterino la loro indifferenza – Così la resilienza creativa dello
scrittore implica la valorizzazione non ontologica ma percettiva esteriore
della essenza “a” e del suo creatore.
Abbiamo argomentato la
primarietà valoriale gerarchica del VALORE ONTOLOGICO INNATO di “a” e del suo
creatore rispetto alla valorizzazione percettiva esteriore.
I TRE MINDSET
ATTITUDINALI REPLICATIVO-PERCETTIVI
Il mindset replicativo di
tipo = prevede
+ -> +
- -> -
0 - > 0
(i valori +, -, 0 a
sinistra della freccia sono le attitudini del prossimo osservate iniziativa
buona, negatività attitudinale, indifferenza, i valori a destra della freccia
sono le risposte attitudinali dell’osservatore)
Il mindset minorativo
peggiorativo prevede
+ -> -
- -> -
0 - > -
(i valori +, -, 0 a
sinistra della freccia sono le attitudini del prossimo osservate iniziativa
buona, negatività attitudinale, indifferenza, i valori a destra della freccia
sono le risposte attitudinali dell’osservatore)
Pertanto le attitudini
sono consonanti con la osservazione attitudinale del prossimo (considerazione
oltre la distinzione di genere).
Ma è bene provare a
migliorarsi, ovvero sostituire il mindset replicativo o il mindset minorativo
con un mindset integrativo
Che prevede di integrare
con un valore aggiunto positivo e positivizzante la attitudine del prossimo
osservata -
Il mindset integrativo
prevede:
- - > +
0 - > +
+ - > +
LE CALAMITE RELAZIONALI
Il mindset minorativo di
tipo relazionale -
Il mindset minorativo è
relazionalmente peggiorativo e implica dirimenza relazionale.
I simboli delle calamite
relazionali sono
(+ -) (- +) oppure (- +) (+ -)
, pertanto è da dedurre che la reiterazione del mindset attitudinale
minorativo implichi l’allontanarsi definitivo inesorabile delle calamite
relazionali – ciascuna calamita può essere metaforicamente assimilata alla
persona che agendo attitudini dirimenti si allontana dal suo prossimo, ed il
prossimo ugualmente, sincronicamente.
Il mindset replicativo di
tipo relazionale =
Il mindset replicativo =
può essere relazionalmente peggiorativo, proattivo migliorativo o inattivo.
Può pertanto implicare
dirimenza relazionale, avvicinamento relazionale, o procrastinazione di
analogia di status relazionale.
Da cosa dipende la
qualità della implicazione del mindset replicativo?
Dipende dalla qualità
attitudinale del prossimo rispetto all’osservatore –
Il mindset replicativo e
il mindset minorativo-peggiorativo instaurano come sistema proattivo di
analogia attitudinale o di reattività peggiorativa la percettività osservativa
della attitudine del prossimo in relazione al sistema psicologico autotutelante
dell’osservatore/osservatrice, il “image-forming self defensive mechanism”:
“
The desire to do harm, to
hurt another, whether by a word, by a gesture, or more deeply, is strong in
most of us; it is common and frighteningly pleasant. The very desire not to be
hurt makes for the hurting of others; to harm others is a way of defending
oneself. This self-defence takes peculiar forms, depending on circumstances and
tendencies. How easy it is to hurt another, and what gentleness is needed not
to hurt! We hurt others because we ourselves are hurt, we are so bruised by our
own conflicts and sorrows. The more we are inwardly tortured, the greater the
urge to be outwardly violent. Inward turmoil drives us to seek outward
protection; and the more one defends oneself, the greater the attack on others.
What is it that we defend,
that we so carefully guard? Surely, it is the idea of ourselves, at whatever
level. If we did not guard the idea, the centre of accumulation, there would be
no “me” and “mine.” We would then be utterly sensitive, vulnerable to the ways
of our own being, the conscious as well as the hidden; but as most of us do not
desire to discover the process of the “me”, we resist any encroachment upon the
idea of ourselves. The idea of ourselves is wholly superficial; but as most of
us live on the surface, we are content with illusions.
The desire to do harm to
another is a deep instinct. We accumulate resentment, which gives a peculiar
vitality, a feeling of action and life; and what is accumulated must be
expended through anger, insult, depreciation, obstinacy, and through their
opposites. It is this accumulation of resentment that necessitates forgiveness
– which becomes unnecessary if there is no storing up of the hurt.
Why do we store up
flattery and insult, hurt and affection. Without this accumulation of
experiences and their responses, we are not; we are nothing if we have no name,
no attachment, no belief. It is the fear of being nothing that compels us to
accumulate; and it is this very fear, whether conscious or unconscious, that,
in spite of our accumulative activities, brings about our disintegration and
destruction. If we can be aware of the truth of this fear, then it is the truth
that liberates us from it, and not our purposeful determination to be free. “
Jiddu Krishnamurti
I simboli delle calamite
relazionali nel caso del mindset attitudinale replicativo o reiterativo possono
variare sulla base della qualità della attitudine osservata. In particolare le
attitudini disinteressate di indifferenza di tipo 0 = 0 implicano ibernazione
relazionale e procrastinazione relazionale, in reazione all’esempio delle
calamite relazionali le calamite si fermano, non ruotano i loro poli, pertanto
le loro posizioni reciproche di avvicinamento o di allontanamento dipendono
dalle posizioni originarie precedenti alla desistenza reciproca di iniziative
relazionali, pertanto alla indifferenza si desume specularmente una
indifferenza.
Tuttavia se una delle due
persone agisce una attitudine, la persona secondo questo mindset implicherà la
attitudine analoga, questo movimento implicherà l’inversione dei poli delle
calamite relazionali.
Pertanto abbiamo chiarito
insieme che l’immagine delle calamite è variabilmente dipendente dall’osservazione
comportamentale esteriore.
(-+) (+-)
(+ -) (- +)
Oppure (+ -) (+ -)
Altresì il mindset
comportamentale proattivo integrativo costituisce come sistema proattivo di
differenza positivizzante attitudinale la percettività osservativa della attitudine
del prossimo in relazione al sistema psicologico autotutelante
dell’osservatore/osservatrice, il “image-forming self defensive mechanism”
Tuttavia in questo caso
non sussiste una analoga replicazione della attitudine osservata, bensì una
positivizzazione attitudinale della attitudine osservata.
Nel caso di attitudine
proattivo relazionalmente integrativa i poli delle calamite relazionali
dispongono i loro poli affinché le calamite si avvicinino in questo modo:
(+ -) (+ -)
ESEMPI DI MINDSET
ATTITUDINALI
Facciamo alcuni esempi
dei tre mindset attitudinali.
Un mindset minorativo
prevede
Che una persona ad una
indifferenza (0) o ad un abbraccio (+) reagisca ad esempio con un atto di
violenza verbale – attitudinale (-)
Un mindset reiterativo
prevede
Che ad una indifferenza
(0) osservata la persona che osserva reagisca con una indifferenza (0)
Che ad un abbraccio (+)
reagisca con una carezza (+)
Che ad un atto di
violenza verbale ( -) reagisca con un atto di violenza attitudinale ( -)
Un mindset integrativo
prevede
Che ad una indifferenza
(0) osservata la persona che osserva reagisca con una carezza o una iniziativa
relazionale di conforto (la fiammella affettiva che scioglie il ghiaccio) (+)
Che ad un abbraccio (+)
reagisca con un bacio (++)
Che ad un atto di
violenza verbale o attitudinale ( -) reagisca con un atto di perdono ( 0)
LA RESPONSABILIZZAZIONE
BIUNIVOCA TRA OSSERVATORE E AMBIENTE
La vicendevole
responsabilità tra osservatore e ambiente.
Premettendo che ciascuno
dei tre mindset attitudinali riconducono il loro spirito proattivo alla
osservazione percettiva riconduciamo alla analogia di gravità di responsabilità
tra persona/e che agiscono una azione (iniziativa ambientale) e osservatore
reattivo.
Tuttavia applichiamo una distinzione
tra mindset replicativo e (mindset peggiorativo e migliorativo). In realtà la
scelta attitudinale della persona che replica la attitudine che osserva è di
non scegliere e di replicare semplicemente come uno specchio la attitudine che
osserva. Pertanto l’identità dell’osservatore è non è rilevabile se non nella
qualità di reiteratività attitudinale, ovvero la attitudine dell’osservatore
non aggiunge e non toglie nulla alla attitudine ambientale che osserva.
Diversamente si riconosce
che nel mindset peggiorativo l’osservatore applica una modificazione di
riflesso nel verso peggiorativo dell’atto puro che osserva – il demerito
attitudinale e ontologico esistenziale è coerente con la sua attitudine
peggiorativa.
Si riconosce inoltre che
nel mindset migliorativo l’osservatore applica una modificazione di riflesso
nel verso migliorativo dell’atto puro che osserva– il merito attitudinale e
ontologico esistenziale è coerente con la sua attitudine migliorativa.
Le attribuzioni
oggettivizzanti nominali
A differenza della
attitudini migliorative, le attitudini reiterative o peggiorativo a livello
dialogico e di riconoscimento adducono la maldicenza come valore di analogia
attitudinale o di peggioramento attitudinale –
Pertanto in una statica
relazionale 0 = 0 di attitudini reiterative di indifferenza – l’osservatore
indifferente criticherebbe della sua medesima colpa di essere
indifferente/menefreghista, l’indifferente che sta osservando.
Nel caso della dinamica
relazionale 0 - > - di attitudini peggiorativo di violenza sorte da
indifferenza – l’osservatore applica una decontestualizzazione temporale
dell’osservato (vedo come sarai) attribuendo ad esempio all’indifferente il
valore comportamentale nominativo peggiorativo di essere ai suoi occhi violento
e pertanto di “meritare”, in ottemperanza del self induce defensive
image-forming mechanism, una risposta attitudinale violenta.
In terzo luogo citiamo
che a livello dialogico in un sistema relazionale creativo integrativo non si
instaura la vendicatività come metro di dinamica di risposta attitudinale,
bensì il perdono, pertanto colui che attua attitudini costruttiviste dirà del
prossimo indifferente, non “sei menefreghista” ma ad esempio “sei sereno e
tranquillo” applicando una variazione di contesto qualitativo percettivo della
prospettiva attitudinale che osserva.
Si conclude che
relazionalmente i mindset attitudinali di reiterazione e di replicazione
attitudinali sono da evitare se implicano una negatività alla negatività
osservata e se implicano lo 0 dell’indifferenza attitudinale allo 0 osservato
(procrastinazione).
Sono da accogliere se
implicano la statica relazionale (+=+)
I mindset attitudinali
peggiorativi sono perentoriamente categoricamente da evitare?
La risposta tende verso
l’affermativo ma con importanti sfumature eccezionali, quali?
Il valore relazionale
catartico chiarificanti o del litigio:
Premettendo che la
violenza attitudinale – verbale è da diniegare – ci riserviamo di tenere in
considerazione la realtà secondo cui l’iperpefezionismo positivo relazionale
esente dall’onestà di condivisione delle problematicità individuali e
interrelazionali può implicare dirimenza reciproca, incomprensioni e aridità
dialogica che si concludono spesso con definitività di fine relazionale.
Giungiamo a considerare
il terzo caso in cui attribuiamo valore positivo e di merito alle attitudini
creative integrative. Che sono da scegliere poiché implicano un avvicinamento
relazionale un riavvicinamento, la resilienza e la resurrezione relazionali.
I mindset attitudinali
migliorativi sono strutturati dalla proattività COEVOLUTIVA dei CAS sistemi
attitudinali adattivi, pertanto avversi alla staticità reciproca delle
attitudini replicative.
TUTTAVIA
Questa riflessione sui
tre mindset attitudinali premette questa verità di dinamica attitudinale:
“Prima vedo, ed in base a
ciò che osservo, agisco. “
ELEVIAMO LA DINAMICA
ATTITUDINALE DALLA ETERONOMIA ATTITUDINALE ALLA AUTONOMIA ATTITUDINALE:
La nuova dinamica
risulterebbe allora:
“Agisco aprioristicamente
al fine di implicare un innesto immediato della mia qualità attitudinale
nell’ambiente. “
LA INIZIATIVA ATTITUDINALE
ANTICIPANTE
Così il precedente
osservatore diviene l’osservato dall’ambiente; e sia l’ambiente, non l’attuale
osservato ad essere ontologicamente attitudinalmente eteronomo a lui/lei.
La risposta
comportamentale diviene iniziativa anticipante attitudinale.
LA REPLICATIVITÀ
INNER->OUTSIDE
L’osservatore spettatore
sulla “ difensiva “ che fondava le sue attitudini sul self defensive image
forming mechanism – ora è ATTORE/ATTRICE della PURA REPLICATIVITÀ
INNER->OUTSIDE.
Questa dinamica non ha
relazione con la replicatività tra osservatore e ambiente di cui argomentavamo
precedentemente. Perché? Perché è una dinamica a senso opposto.
Caso precedente:
l’osservatore vede l’ambiente per agire
Osservatore < -
ambiente
OUTSIDE->INNER
Implicano Osservatore - >
ambiente, INNER->OUTSIDE
Caso di PURA
REPLICATIVITÀ DELLA ONTOLOGIA DELL’ATTORE
INNER->OUTSIDE.
L’attore agisce verso
l’ambiente:
INNER->OUTSIDE
Attore|attrice < - ambiente
IL PURO ATTORE CREATIVO
HA LA RESPONSABILITÀ DELLA INFLUENZABILITÀ UNIVERSALE DELL’AMBIENTE. LA
INNOVAZIONE
È pertanto dell’attore la
responsabilità implementativo-creativa dell’ambiente mediante attitudini
proattive pure (non positivizzanti, la positivizzazione prevede un paragone con
la realtà da positivizzante, bensì implementativo-creative) la creatività
innesta la nascita del nuovo nell’ambiente.
LA PAGINA 15
IL PRESENTISMO
La dissonanza cognitiva
ambizionistica e le dissonanze cognitive dislocali e atemporali
La dissonanza cognitiva
ambizionistica:
Inconcilianza tra essere
presente e non essere mentale (nella qualità di “dover essere” psicologico
astratto)
Divario temporale
presente/futuro mentale programmato non realizzato di un passato progettuale.
La progettualità è una
scommessa caratterizzata da aleatorietà, pertanto la realtà induce la caoticità
nella certezza del raggiungimento di un obiettivo che è da ritenersi
possibilmente non raggiungibile.
La dissonanza cognitiva
dislocale
La obbligatorietà del
raggiungimento di un obiettivo caratterizza sia l’impegno e la dedizione bene
valorizzati nell’itinere progettuale, tuttavia caratterizza analogamente la
severità dell’istaurarsi della realtà dell’aumento di dislivello tra tempo
dedicato nella iniziativa obiettivante e tra tempo da dedicarsi ad altre realtà
(relazionali) instaurando la dissonanza tra essere presente reale ed il “dove
dovrei essere” presente in relazione al concetto di sincronismo approfondito in
“TESI”.
Qualora avvenisse che una
realtà caoticizzante cortocircuitasse il buon andamento del percorso buono al
raggiungimento dell’obiettivo futuro - l’obiettivo futuro non sarebbe raggiunto
e la bontà della dedizione di tempo dedicato al raggiungimento dell’obiettivo
risulterebbe corrotta:
La certezza è contrario
logico dell’aleatorietà.
Non possiamo fondare e
strutturare certezze progettuali-attitudinali sul mindset psicologico di
previsionalità in quanto il fondamento della certezza porrebbe i suoi baluastri
sulla instabilità del futuro irreale, poiché la complessità della vastità del
periodo futuro è denotata di flussi di variabilità pluricontestuali. Per
argomentare questa immagine pensiamo ad una conchiglia madreperlata denotata
sia da resilienza sia da fragilità - la persona vuole condurre la conchiglia da
A a B - l’unico ambiente di percorso tra A e B sono le rapide di un fiume - la
persona non è onnipresente alla conchiglia, la persona può agevolare il
percorso della conchiglia qualora lei si fermasse, ma dovrebbe calarsi dai non
numerosi ponti che scandiscono il percorso fiume.
Comprendiamo che la
conchiglia potrebbe non raggiungere B, le onde o gli scogli potrebbero
frammentarla.
Metaforicamente le onde e
gli scogli sono i contesti aleatori ostacolanti l’obiettivo, ciò che nominiamo
“le cause che non dipendono da noi” e nella vastità del periodo futuro ne
sussistono miriadi.
È proprio la irrealtà del
futuro a caratterizzarne la possibilità di irrealizzabilità futura.
Le dissonanze cognitive
atemporali e la dissonanza realismo/cognitivismo
Dovremmo fondare e
strutturare le certezze progettuali-attitudinali sulla realtà presente
discostandoci dall’attribuire valore decisionale ambientale sulle atemporalità,
ovvero sulle dissonanze cognitive indotte temporali (l’esempio coerente è di
dissonanza tra presente e futuro) e sulla dissonanza realismo
presente/cognitivismo futuro.
Le realtà del tempo
sprecato e del fallimento.
PREMESSA
La realtà della
vicendevole influenza e responsabilizzazione macrocosmo-microcosmo
Il fallimento di una
persona è il fallimento dell’ambiente in cui vive la persona, il fallimento
dell’ambiente in cui vive la persona è il fallimento della persona.
Le cause della
proattività catartica e la resilienza reciproca tra ambiente-persona sono da
individuare nelle singolari fragilità delle due entità multisistemiche- dalle
fragilità indotte dall’ambiente la persona può ottenere autocoscienza, imparare
e migliorarsi ed Imparando e migliorandosi migliora l’ambiente, dalle fragilità
indotte dalla persona l’ambiente può ottenere autocoscienza, imparare e
migliorarsi ed Imparando e migliorandosi migliora la persona.
LA SERENDIPITÀ
La verità della
serendipità confuta la concezione secondo cui il fallimento sia negativo - la
serendipità ricaratterizza il luogo del fallimento attuando una
decontestualizzazione, la serendipità induce nel luogo del fallimento
specificatamente contestuale l’incontro di eccentricità disattese catartiche e
vantaggiose per la persona - questa mentalità assume che qualunque sia il
destino fallimentare, la serendipità è quella qualità che permette la serenità
dell’accoglimento della perdita dell’obiettivo in quanto ad acquisizione
(insieme alla perdita dell’obiettivo) di altre disattese realtà talvolta più
importanti dell’obiettivo stesso non conquistato. Pertanto abbiamo realizzato
che il tempo di vita, comunque sia, non è mai sprecato.
La previsionalità come
salvaguardia del tempo di vita, il sentimento intuitivo di improbabilità del
raggiungimento di un obiettivo induce la saggezza di non dedicare tempo ad
obiettivi che sentiamo essere lontani da noi o inconciliabili con noi.
La coartazione
conformista nelle forme di flow attitudinali invogliano, talvolta obbligano, a
seguire percorsi di vita generazionalmente adiacenti - tuttavia questa
coartazione può implicare come abbiamo visto dissonanze cognitive
ambizionistiche e dissonanze cognitive dislocali specificatamente nelle persone
con una elevata coscienziosità creativa alternativa e non omologabile e
standardizzabile.
IL PRESENTISMO
Perché sacrifichiamo
l’essere presente al dover essere futuro?
La delega di
responsabilità alla astrazione non esistente del futuro
La questione “cosa fare
per il proprio presente “ ha primaria importanza rispetto alla questione “cosa
fare per il proprio futuro” semplicemente perché il futuro è una astrazione
mentale non esistente.
Essere ciò che si diviene
ha primaria importanza di divenire ciò che si è.
Divenire ciò che si è.
È una procrastinazione
possibile e pertanto possibilmente improbabile della realizzazione delle nostre
latenti facoltà.
La proattività può non
essere poiché è una idea di progettualità futura.
ESSERE CIÒ CHE SI DIVIENE
Siamo fisiologicamente-psicologicamente
organismi plurisistemici complessi adattivi.
ESERE DIVENIENTI – Si
instaura la primarietà valoriale del movimento e del cambiamento essenziale,
non della attesa
La proattività è.
È l’attuale, reale
compimento del nostro ontologico flusso diveniente – questa mentalità ha
importanti correlazioni con il concetto di coevoluzione descritto in TESI II
Il dimorfismo reale -
virtuale
La virtualità ha
importanti interrelazioni con i concetti di delega di responsabilità dislocale
e di dissonanza cognitiva dislocale.
In relazione alla
dissonanza (essere reale/ non essere reale=essere virtuale) e (essere
reale/dover essere reale e virtuale)
L’idea del “ciò che ne
sarà “ non deve ostacolare o annichilire la proattività presente.
LA PAGINA 15 DEL 14. 11.
2022 DEL DE BREVITATE VITAE
LA COMPLESSITÀ MISTERIOSA
DEL PRESENTE
Sincronicità, sincronismo
multisistemico adattivo, sincronizzazione e coincidenze.
La realtà in cui uno
scrittore scrive sulla problematicità della instabilità del futuro e la
virtualità di una donna che pubblica la pagina 15 dal libro “De brevitate
vitae” di Seneca
Fine