frammento
di lettura
la
linea d’ombra
Joseph
Conrad
10/02/2018
Questa
storia, che pur nella sua brevità, lo riconosco, è un’opera abbastanza
complessa, non intendeva trattare il soprannaturale. Però più di un critico è
stato propenso a leggerla in questo modo, cogliendovi un tentativo, da parte
mia, di dare il più ampio sfogo all’immaginazione trasportandola oltre i
confini del mondo in cui vive e soffre l’umanità. Ma in realtà la mia
immaginazione non è fatta di stoffa tanto elastica. Credo che se tentassi di
mettervi la tensione del soprannaturale fallirebbe miseramente e mostrerebbe
una sgradevole lacuna. Non avrei mai potuto fare un simile tentativo, perché
tutto il mio essere morale e intellettuale è permeato dall’invincibile
convinzione che tutto ciò che cade sotto
il dominio dei nostri sensi si trova nella natura e, per quanto eccezionale,
non può essere diverso nella sua essenza da tutte le altre manifestazioni del
mondo visibile e tangibile di cui noi siamo parte consapevole. Il mondo dei
vivi contiene già abbastanza meraviglie e misteri così com’è: meraviglie e
misteri che agiscono sulle nostre emozioni e sulla nostra intelligenza in modi
così inesplicabili da giustificare una concezione della vita quasi come uno
stato incantato. No, sono troppo saldo nella consapevolezza del meraviglioso
per essere affascinato dal puro soprannaturale, che (consideratelo come volete)
non è altro che un artificio, l’invenzione di menti insensibili all’intima
delicatezza del nostro rapporto con il reale nelle sue innumerevoli
moltitudini, una profanazione dei nostri ricordi più teneri, un oltraggio alla
nostra dignità.
Quanto all’effetto di sconvolgimento
mentale o morale su una mente comune, questo sì è un argomento legittimo da
studiare e descrivere.
Questo, che è uno degli elementi della
storia, non ha niente di soprannaturale, niente, per così dire, che esca dai
confini di questo mondo, che, in tutta coscienza, contiene già abbastanza
mistero e terrore.
la linea d’ombra:
Prima di tutto, lo scopo di questo scritto
era di presentare certi fatti che sicuramente erano associati al cambiamento
dalla gioventù, spensierata e fervida, al periodo più autoconsapevole e
travagliato dell’età più matura.
Nessuno
può dubitare che dinanzi alla suprema prova di un’intera generazione io non
fossi chiaramente consapevole del
carattere minuto e insignificante della mia oscura esperienza. Non ci
potrebbe essere nessun confronto.
Lungi da me un’idea del genere. Ma c’era
un sentimento di identità, per quanto in scala enormemente diversa, come fra
una singola goccia e l’amara e burrascosa immensità di un oceano. E anche
questo era molto naturale.
Perché
quando cominciamo a meditare sul
significato del nostro passato sembra che esso riempia tutto il mondo della sua
profondità e grandezza.
Questo
libro fu scritto negli ultimi tre mesi dell’anno 1916.
Di tutti gli argomenti di cui uno scrittore
di racconti è più o meno consapevole dentro di sé, questo è l’unico a cui a
quell’epoca trovai possibile accostarmi. La profondità e la natura dello stato d’animo con cui lo
affrontai è meglio espressa forse nella dedica che adesso mi colpisce come una
cosa estremamente sproporzionata, come un altro esempio della grandezza sopraffattoria della nostra stessa
emozione su noi stessi.
Quanto
al luogo, esso appartiene a quella parte dei mari d’Oriente da cui nella mia
vita di scrittore ho tratto il maggior numero di ispirazioni. Dall’affermazione
che per molto tempo avevo pensato a questo racconto col titolo di Primo comando, il lettore può arguire
che riguarda la mia esperienza personale.
E
di fatti si tratta di esperienza
personale vista in prospettiva con l’occhio
della mente e colorata di quell’affetto che non si può fare a meno di sentire
per alcuni eventi della propria vita. E l’affetto
è tanto intenso (faccio appello qui all’esperienza universale) quanto la
vergogna e quasi l’angoscia con cui ci si ricorda di qualche sfortunato
episodio, fino ai semplici errori nel parlare, che si sono commessi nel
passato.
L’effetto della prospettiva nella memoria è
di far apparire le cose più grandi,
perché quelle essenziali spiccano isolate in mezzo alle circostanze degli
insignificanti fatti quotidiani che naturalmente sono svaniti dalla mente.
Ricordo
con piacere quel periodo della mia vita in mare perché, iniziato sotto cattivi
auspici, alla fine si trasformò in un successo da un punto di vista personale,
lasciando una prova tangibile nelle parole di una lettera che gli armatori
della nave mi scrissero due anni dopo, quando diedi le dimissioni dal mio
comando per tornare a casa.
Dimissioni
che segnarono l’inizio di un altro periodo della mia vita in mare, la sua fase
terminale, se così si può dire, che a suo modo ha colorato un’altra parte dei
miei scritti. Allora non sapevo quanto fosse vicina la fine della mia vita in
mare, e perciò non provai alcun dolore, tranne che nel separarmi dalla nave.
Le
parole «Degno del mio imperituro rispetto»
che ho scelto per il motto del frontespizio, sono citate dal testo stesso del
libro; e si riferiscono all’equipaggio di
quella nave: estranei completi per il loro nuovo capitano e che pure gli furono così vicini durante quei venti
giorni che parvero trascorrere sull’orlo di una lenta e agonizzante
distruzione.
E
quello, fra tutti, è il ricordo più
grande!
Di
sicuro è una gran cosa aver comandato un pugno di uomini degni del proprio
imperituro rispetto.
... D’autres fois, calme
plat, grand miroir
e mon désespoir.
LXIX.
La musica.
La musica sovente mi rapisce come un mare!
Verso la mia pallida stella sotto una volta
di nebbia o in un vasto etere, metto a la vela;
col petto in avanti ed i polmoni gonfi come
vele, scavalco il dosso dei flutti accavallati che la notte mi nasconde;
sento vibrare in me tutte le agitazioni
d’un naviglio che soffre il vento in favore, la tempesta e le sue convulsioni
mi cullano su l’immenso abisso.
Altre volte, completa bonaccia, immenso
specchio de la mia disperazione!
Baudelaire
I
Soltanto
i giovani hanno momenti simili. Non sto parlando dei giovanissimi. No. I
giovanissimi, in effetti, non hanno momenti. È il privilegio della prima giovinezza di vivere in anticipo sui propri
giorni, in quella bella continuità di una speranza che non conosce né pause né
introspezione.
Ci
si chiude alle spalle il piccolo cancello della fanciullezza e si entra in un
giardino incantato, dove anche le ombre splendono di promesse e ogni svolta del
sentiero ha una sua seduzione. Non perché sia una terra inesplorata. Si sa bene
che tutta l’umanità è passata per quella stessa strada. È il fascino
dell’esperienza universale da cui ci si aspetta una sensazione non comune o
personale: un pezzetto di se stessi.
Riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, si va avanti, eccitati e divertiti,
accogliendo insieme la buona e la cattiva sorte – le rose e le spine, come si
suol dire – il variegato destino comune che ha in serbo tante possibilità per
chi le merita o, forse, per chi ha fortuna. Già. Si va avanti. E il tempo, anche lui va avanti; finché
dinnanzi si scorge una linea d’ombra che ci avvisa che anche la regione della
prima giovinezza deve essere lasciata indietro.
Questo
è il periodo della vita in cui è probabile che arrivino i momenti di cui ho
parlato. Quali momenti? Momenti di noia,
ecco, di stanchezza, di insoddisfazione. Momenti precipitosi. Parlo di quei
momenti in cui chi è ancora giovane è portato a compiere atti avventati.
Senza
una ragione plausibile per una persona di buon senso, lasciai il mio lavoro –
abbandonai la nave di cui la cosa peggiore che si potesse dire era che era una
nave a vapore e perciò, forse, non meritava quella cieca fedeltà che...
Comunque, non serve cercare di metter delle pezze a quello che io stesso anche
allora sospettai essere poco più di un capriccio.
E
all’improvviso abbandonai tutto. Me ne andai in quel modo, per noi irragionevole, in cui un uccello vola
via da un comodo ramo. Fu come se, a mia insaputa, avessi udito un sussurro o
visto qualcosa. Bah, forse! Il giorno
prima mi andava tutto benissimo e il giorno dopo era sparito tutto: il fascino, il sapore, l’interesse, la
soddisfazione, tutto. Era uno di quei momenti, capite. Mi aggredì la precoce
malattia della tarda giovinezza e mi portò via. Via da quella nave, voglio
dire.
Il
Capitano mi guardò fisso come si domandasse cosa mi tormentava. Ma era un
marinaio, e, anche lui, era stato giovane, un tempo. Osservò che, naturalmente,
se io sentivo di dovermene andare non mi poteva trattenere con la forza. E ci
si accordò che sarei stato liquidato l’indomani mattina. Mentre uscivo dalla
sala nautica, improvvisamente aggiunse, con un tono strano, pensieroso, che mi augurava di trovare quello che ero così
ansioso di andare a cercare. Un’espressione pacata e criptica che sembrava
penetrare più a fondo di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi arnese duro come
il diamante. Credo che avesse proprio capito il mio caso.
Ma
il secondo di macchina mi affrontò diversamente.
Gli
occhi chiari esprimevano un amaro disgusto, come
se la nostra amicizia si fosse mutata in cenere. Disse grevemente: “Ah! Certo!
L’ho sempre pensato che avresti finito per scappare.”
L’assurdità
della sua sortita mi convinse che aveva
deliberatamente voluto essere sgradevole – molto sgradevole – che aveva voluto dire la cosa che riteneva più
offensiva. La mia risata suonò come una scusa.
Anche
il direttore di macchina considerò la mia azione da un punto di vista tutto
suo, ma con spirito più benevolo.
Ormai,
io ero più insoddisfatto, disgustato e
intestardito che mai. Quegli ultimi diciotto mesi, così pieni di esperienze
nuove e variate, mi sembravano uno spreco
desolato e prosaico di tempo. Sentivo –
come posso esprimerlo? – che non potevo trarne alcuna verità.
Quale verità? Avrei fatto molta fatica a
spiegarlo. Probabilmente, se mi avessero costretto, sarei semplicemente
scoppiato a piangere. Ero abbastanza giovane per farlo.
L’impiegato
dietro la scrivania a cui ci avvicinammo mostrò tutti i denti in un sorriso
amichevole che mantenne finché, in risposta alla sua domanda fatta
meccanicamente, «Sbarco e reimbarco?», il mio Capitano rispose: «No! Sbarco e
basta». E allora il suo sorriso svanì lasciando il posto a un’improvvisa
solennità. Non mi guardò più finché non mi porse i miei documenti con
un’espressione addolorata, come si fosse trattato del mio passaporto per l’Ade.
Mentre
li mettevo via fece sottovoce una domanda al Capitano che gli rispose
allegramente:
«No.
Ci lascia per andare a casa».
«Oh!»,
esclamò l’altro, scuotendo con afflizione la testa per la mia triste
condizione.
Non
l’avevo mai visto fuori dall’ufficio, ma si sporse dalla scrivania per
stringermi la mano, con aria compassionevole, come di fronte a un povero
diavolo che sta per essere impiccato. Temo di aver sostenuto senza garbo la mia
parte, con i modi induriti di un impenitente criminale.
Ero ormai un marinaio senza nave, che aveva
rotto per qualche tempo i rapporti con il mare, divenuto, quindi, in potenza,
un semplice passeggero.
Camminavo
al sole, senza badarci, e all’ombra dei grandi alberi senza godermela. Il
calore dell’Oriente tropicale scendeva fra i rami fronzuti, avviluppando il mio
corpo vestito di abiti leggeri, e aderendo alla mia insoddisfazione ribelle,
come per derubarla della sua libertà.
Il
capitano Giles aveva l’aspetto di un uomo da cui ci si aspettano consigli
giudiziosi, pareri morali, con forse un paio di luoghi comuni buttati lì per
l’occasione, non per un desiderio di abbagliare, ma per convinzione sentita.
Sebbene
molto conosciuto e apprezzato nel mondo della marina mercantile, non aveva un
impiego regolare. Era lui che non lo voleva. Occupava un posto speciale, tutto
suo. Era un esperto. Un esperto in – come
definirla? – in navigazione intricata. Si pensava che conoscesse più di
ogni uomo al mondo i posti più remoti e appena segnati sulle carte
dell’Arcipelago. Il suo cervello doveva essere un vero archivio di scogli,
posizioni, rilevamenti, sagome di punte di terra, forme di coste oscure,
profili di innumerevoli isole, deserte e no. Qualsiasi nave avrebbe voluto il
capitano Giles a bordo, in comando temporaneo o «per assistere il comandante».
Il
capitano Giles mi rivolse la parola per primo nel suo modo cordiale. Vedendomi
lì, disse, si immaginava che fossi venuto a terra in licenza per un paio di
giorni.
Era
un uomo che parlava a bassa voce. Io alzai un po’ la mia per dire che no: avevo
definitivamente lasciato la nave.
«Libero cittadino per un po’», fu il suo
commento.
Perché
il capitano Giles godeva di grande prestigio. Gli venivano attribuite
meravigliose avventure e una misteriosa tragedia nella sua vita. E nessuno
aveva niente da dire contro di lui. Proseguì:
«Me
lo ricordo la prima volta che è sbarcato qui, qualche anno fa. Sembra ieri. Era
un bravo ragazzo. Oh! questi bravi ragazzi!
Alcuni di loro qui svigoriscono molto rapidamente».
«Perché ha lasciato il suo posto?».
Mi
venne subito una rabbia tremenda, perché è
facile immaginarsi quanto sia esasperante una domanda simile per uno che non lo
sa. Dissi a me stesso che avrei dovuto mettere a tacere quel moralista e a
lui, ad alta voce, con un tono di sfida cortese:
«Perché...?
Lo disapprova?».
Era
troppo sconcertato per far altro se non mormorare confuso: «Io!... In linea
generale...», e poi mi lasciò perdere. Ma si ritirò in buon ordine.
Il
candore di quell’uomo avrebbe disarmato una suscettibilità ancor più giovanile
della mia. Perciò quando il giorno dopo, a colazione, piegò la testa verso di
me per dirmi che la sera prima aveva incontrato il mio ex capitano, aggiungendo
sottovoce: «Gli dispiace molto che lei se
ne sia andato. Non aveva mai avuto un secondo che gli andasse così bene»,
gli risposi sinceramente, senza affettazione, che in tutti i giorni passati in
mare non mi ero mai trovato così a mio agio su nessun’altra nave o con nessun
altro comandante.
«E
allora?», mormorò.
«Non
le hanno detto, capitano Giles, che voglio andare a casa?».
«Sì»,
disse benevolo. «Una cosa simile l’ho già sentita dire spesso».
«E
con questo?», esclamai, pensando che fosse l’uomo più ottuso e senza
immaginazione che avessi mai incontrato.
Non bisogna mai infierire contro il
prossimo.
Si
udì di nuovo Hamilton intervenire con disprezzo ancora accresciuto.
«Cosa?
Quel giovane coglione che si crede chissà chi perché è stato per tanto tempo il
primo ufficiale di Kent? Ridicolo».
Giles
e io ci guardammo. Dato che Kent era il nome del mio ex comandante, il sussurro
del capitano Giles, «È di lei che parla», mi sembrò puro fiato sprecato.
«Sciocchezze,
buon uomo! Non ci si mette in competizione
con un volgare dilettante come quello. C’è tutto il tempo che si vuole».
«È
un uomo estremamente insolente», osservò (oziosamente pensai io) il capitano
Giles. «Molto insolente. Non è che lei lo abbia offeso in qualche modo, vero?».
«Mai
parlato con lui in vita mia», risposi di cattivo umore. «Non si riesce a capire
cosa intenda con mettersi in competizione. Ha
cercato di avere il mio posto dopo che l’avevo lasciato e non l’ha ottenuto. Ma
questo non si chiama competere».
Il
capitano Giles pensosamente soppesò questa possibilità. «Non l’ha ottenuto»,
ripeté molto lentamente. «No, era anche improbabile, con Kent. A Kent dispiace moltissimo che lei lo abbia
lasciato. La ritiene anche un buon marinaio».
Gettai
via il giornale che avevo ancora in mano. Mi tirai su con la schiena sulla
sedia e sbattei il palmo aperto della mano sul tavolo. Mi sarebbe piaciuto
sapere perché continuava a battere su quel tasto, che era affar mio, assolutamente mio. Era davvero esasperante.
Il capitano Giles mi ridusse al silenzio
con l’assoluta equanimità del suo sguardo. «Non c’è niente per cui si debba arrabbiare», mormorò
tollerante, con l’evidente desiderio di spianare l’infantile irritazione che
aveva sollevato. Ed era un uomo dall’aspetto così inoffensivo che cercai di
spiegarmi quanto più mi era possibile. Gli dissi che non volevo più sentir
parlare di ciò che era morto e sepolto. Era stato molto bello finché era
durato, ma adesso che era finito, preferivo non parlarne e neanche pensarci.
Avevo deciso di tornare a casa.
«Sì,
me l’ha detto che intendeva andare a casa. Qualcosa in vista lì?».
Invece
di rispondergli che non erano affari suoi, dissi risentito:
«Niente,
che io sappia».
In
effetti avevo già considerato quel lato piuttosto oscuro della situazione che
mi ero creato lasciando improvvisamente il mio impiego più che soddisfacente. E
non ne ero tanto entusiasta. Morivo dalla voglia di dire che il buon senso non
aveva niente a che vedere con il mio atto e che perciò non meritava l’interesse
che il capitano Giles sembrava rivolgergli. Ma adesso stava fumando una corta
pipa di legno, e sembrava così innocente, che non valeva la pena di
sconcertarlo con la verità o con il sarcasmo.
Mai in vita mia mi ero sentito più
distaccato dagli accadimenti terreni. Liberato dal mare per un po’, del
marinaio conservavo la mentalità di assoluta indipendenza da tutti gli affari
di terra. In che modo potevano riguardarmi? Osservavo l’animazione del capitano Giles più con derisione
che con curiosità.
Il
capitano Giles cominciò a raccontarmi minuziosamente una storia a proposito di
un soldato indigeno della Capitaneria. Una storia senza capo né coda. Quella
mattina si era visto un soldato indigeno con in mano una lettera.
Il
suo tono si intensificò di mistero. Non appena ricevuto il biglietto, il tizio
(intendeva il cambusiere) si era precipitato fuori di casa. Ma non perché il
biglietto lo chiamasse alla Capitaneria. Non era andato lì, non era rimasto
fuori abbastanza. In pochissimo tempo era tornato, sempre a precipizio, si era
aggirato senza sosta per la sala da pranzo gemendo e colpendosi la fronte.
Tutti questi fatti, queste manifestazioni impressionanti erano state osservate
dal capitano Giles. Sembrava che da allora non avesse fatto che pensarci su.
Con
la sua disarmante semplicità mi fece osservare, quasi fosse un affare rilevante,
com’era strano che lui si fosse trovato a trascorrere la mattinata in casa. Di
solito era fuori prima di colazione, in giro per vari uffici, a incontrare i
suoi amici al porto, eccetera. Alzandosi, non si era sentito tanto bene. Niente
di particolare, ma sufficiente per renderlo pigro.
Tutto
ciò con uno sguardo fisso, sostenuto che, unito alla generale inanità del
discorso, dava l’impressione di una lieve e tediosa follia.
Intendevo
essere molto energico e drastico, ma il capitano Giles continuava a fissarmi
pensieroso. Niente lo poteva fermare. Proseguì per sottolineare che ero coinvolto in prima persona in quella
conversazione. E siccome io cercavo di mantenere un atteggiamento di
disinteresse, divenne decisamente implacabile. Avevo udito cosa aveva detto
quell’uomo? Sì? E allora cosa ne pensavo? Voleva saperlo.
Siccome
l’aspetto del capitano Giles faceva escludere il sospetto di subdola malizia,
arrivai alla conclusione che fosse semplicemente il più idiota sulla terra. Mi
disprezzai quasi per la mia debolezza di cercare di illuminare il suo comune
comprendonio. Iniziai a dire che non pensavo niente di niente.
L’inguaribile
Giles continuò a tirare dalla sua pipa imbronciato.
Tutt’a
un tratto il suo voltò s’illuminò
«Lei
non mi ha capito», disse.
«Davvero?
Sono molto contento di saperlo», risposi.
Con
crescente animazione ribadì che non l’avevo capito. Assolutamente. E con un
tono in cui l’autocompiacimento aumentava, mi disse che c’erano poche cose che
sfuggivano alla sua attenzione, e che era abituato a rifletterci sopra e, di solito, con la sua esperienza della
vita e degli uomini, arrivava alla conclusione giusta.
Questo
piccolo autoelogio calzava naturalmente a pennello con la laboriosa inanità di
tutta la conversazione. Tutto l’insieme rafforzava in me quell’oscura
sensazione che la vita non fosse che uno spreco di giorni, sensazione che,
quasi inconsciamente, mi aveva strappato da una comoda posizione, lontano da
uomini che mi piacevano, per sfuggire
alla minaccia del vuoto... e trovare l’inanità alla prima svolta. Avevo di
fronte un uomo di carattere e di riconosciute realizzazioni che si rivelava un
assurdo, probabilmente, era così dappertutto, da est a ovest, da cima a fondo
della scala sociale.
Fui
preso da un grande scoraggiamento. Un torpore spirituale. La voce di Giles
continuava compiaciuta; la voce stessa della vuota presunzione universale. E
non ero più adirato per questo. Non c’era niente di originale, niente di nuovo,
di sorprendente, di istruttivo, da aspettarsi dal mondo: nessuna opportunità di
scoprire qualcosa su se stessi, nessuna saggezza da acquisire, nessuna gioia da
godere. Era tutto stupido e sopravvalutato, proprio come il capitano Giles. E
così sia.
Il
nome di Hamilton improvvisamente mi giunse all’orecchio e mi risvegliò.
«Pensavo
che avessimo chiuso con lui», dissi, col più grande disgusto possibile.
«Sì,
ma considerando che cosa ci è appena capitato di udire penso che lei dovrebbe
farlo».
«Dovrei
farlo?», mi tirai su sulla sedia sbalordito. «Fare cosa?».
Il
capitano Giles mi guardò sorpresissimo.
«Ma
come! Quello che le ho appena consigliato di tentare. Andare a chiedere al
cambusiere cosa c’era in quella lettera della Capitaneria.
Per
un po’ rimasi senza parole. Ecco qualcosa di inaspettato e abbastanza originale
da essere tutto sommato incomprensibile. Mormorai sopraffatto dallo stupore:
«Ma
pensavo fosse Hamilton che lei...».
«Esattamente.
Non lasci fare a lui. Faccia quello che le dico. Affronti quel cambusiere.
Insistette
il capitano Giles, agitandomi davanti solennemente la pipa che bruciava senza
fiamma. Poi fece tre rapide tirate.
Ma
con la freddezza di chi ha a che fare con l’incomprensibile, gli feci notare
che non vedevo una sola ragione per espormi a subire un’umiliazione da parte di
quel tale.
Sentii
che non dovevo più permettere a quell’uomo di parlarmi. Mi alzai, osservando
seccamente che lui la sapeva troppo lunga per me, che non riuscivo proprio a
capirlo.
Prima
che avessi il tempo di allontanarmi parlò di nuovo con un tono mutato in
ostinazione e tirando nervosamente dalla pipa.
«Beh,
lui – comunque – è un poveraccio che non conta niente. Lei, glielo chieda,
soltanto. Tutto qui».
Quel
nuovo tono mi colpì, o meglio mi fece fermare. Ma la salute mentale riaffermò
il suo potere e lasciai immediatamente la veranda dopo avergli rivolto un
sorriso senza gioia.
Ma
in quel breve lasso di tempo mi vennero vari pensieri.
Giles si era voluto prendere gioco di me,
con lo scopo di divertirsi a spese mie, che io probabilmente sembravo uno
sciocco e un ingenuo, che della vita sapevo molto poco...
Con
mia grande sorpresa la porta che mi stava di fronte sul lato opposto della sala
da pranzo si spalancò. Era la porta contrassegnata dalla scritta «Capo
cambusiere» e proprio lui uscì di corsa.
Per
dirigersi alla porta del giardino.
Ancora oggi non so cosa mi indusse a
gridargli: «Ehi lei! Aspetti un momento!». Forse fu l’occhiata di traverso che mi lanciò, forse ero
ancora sotto l’influenza della misteriosa serietà del capitano Giles. Insomma,
fu un impulso di qualche tipo, un effetto di quella forza che è nascosta nelle
nostre vite e le modella in un modo o nell’altro. Se quelle parole non mi fossero sfuggite dalle labbra (la volontà non
c’entrava per nulla) la mia esistenza sarebbe stata sicuramente ancora quella
di un uomo di mare, ma avrebbe seguito un corso che oggi non so concepire.
No. La mia volontà non c’entrava affatto.
Infatti, non appena ebbi emesso quelle fatali parole me ne pentii subito. Se quell’uomo si fosse fermato e mi avesse
affrontato, avrei dovuto battere in ritirata. Perché non avevo nessuna
intenzione di continuare lo stupido gioco del capitano Giles, né a spese mie,
né a quelle del cambusiere.
Ma
a questo punto si risvegliò l’antico istinto
umano della caccia. Poiché lui aveva fatto finta di esser sordo, io, senza
pensarci un attimo, mi precipitai lungo il lato della tavola dalla mia parte, e
gli tagliai la strada proprio davanti alla porta.
«Perché
non risponde quando le si rivolge la parola?», chiesi aspramente.
Senza
tanti complimenti lo aggredii. «So che
stamane è giunta qui una comunicazione ufficiale da parte della Capitaneria di
porto. Non è forse vero?».
Invece
di rispondere, come avrebbe potuto, che mi facessi gli affari miei, incominciò
a spiegare che non era riuscito a trovarmi da nessuna parte quella mattina. Non
potevo mica pretendere che mi corresse dietro per tutta la città.
«E
chi gliel’ha chiesto?», gridai, ma proprio in
quell’istante aprii gli occhi e capii il recondito significato delle cose e dei
discorsi la cui vacuità mi aveva tanto sconcertato e infastidito.
Dissi
che volevo sapere cosa c’era in quella lettera. La mia durezza nel tono e nel
comportamento era solo a metà simulata. La
curiosità, a volte, può essere un sentimento molto violento.
Gli avevo detto che tornavo a casa. E dato
che tornavo a casa non capiva perché lui avrebbe dovuto...
Era quella la direzione del suo
argomentare, tanto futile da essere quasi un insulto. Un insulto
all’intelligenza, voglio dire.
In quella regione crepuscolare fra la
giovinezza e la maturità, in cui mi trovavo allora, si è particolarmente
sensibili a questo genere di insulti.
Temo di dover confessare che trattai molto rudemente quel cambusiere, che non era in grado di affrontare niente e
nessuno. Colpa, forse, dell’abitudine alle droghe o alle sbronze solitarie.
E quando persi il controllo al punto da insultarlo, crollò.
Distolsi
gli occhi da lui, in giustificabile indignazione, e sul vano della porta della veranda scorsi il capitano Giles che
sopraintendeva quietamente alla scena che, se mi posso esprimere in questo
modo, era opera sua. La nera pipa
fumante risaltava nel suo grosso pugno paterno. Come pure il luccichio della
pesante catena d’oro dell’orologio attraverso il petto sulla sua giubba bianca.
Emanava un’aria di sagacia virtuosa
abbastanza intensa perché qualsiasi anima innocente corresse da lui
fiduciosamente. E io corsi da lui.
«Roba
da non credere», esclamai. «Era l’avviso
che cercano un capitano per una nave. C’è sicuramente un comando vacante e
questo qui si è messo la cosa in tasca».
Il
cambusiere gridò con accento di grande disperazione: «Mi farà morire! Lei sarà
la mia morte».
Qui
si concludeva l’incidente, almeno per me. Il capitano Giles, invece, con gli
occhi fissi sul luogo in cui prima c’era il cambusiere, incominciò a tirare la
sua smagliante catena d’oro finché dal profondo della tasca uscì finalmente
l’orologio, come la solida verità esce da un pozzo. Solennemente lo ripose e
solo allora disse:
«Sono
soltanto le tre. Farà a tempo,
«A
tempo per cosa?», chiesi.
«Santo
Dio! Per la Capitaneria. Bisogna indagare».
A
rigore, aveva ragione. Ma non ho mai
provato gusto a indagare, a smascherare la gente e a tutto il lavorio di quel
genere, senza dubbio eticamente meritorio. E la mia opinione sull’episodio era puramente etica.
«Niente!», ripeté il capitano Giles.
«Kent mi aveva avvertito che lei era un
tipo strano. Fra poco mi dirà che un comando per lei non significa niente, e
dopo tutto il disturbo che mi sono preso!».
«Il
disturbo!», mormorai, senza capire. Quale
disturbo? Tutto quel che ricordavo era di essere stato disorientato e annoiato
dalla sua conversazione per un’ora buona dopo colazione. E lui lo chiamava
prendersi un gran disturbo.
E
all’improvviso, come girando la pagina di un libro si rivela una parola che rende chiaro il senso di
tutto quello che c’era prima, capii che quella faccenda aveva anche un
altro aspetto, oltre a quello etico.
Ma
non mi mossi lo stesso. Il capitano Giles perse un po’ la pazienza. Con uno
sbuffo iroso della sua pipa voltò le spalle alla mia esitazione.
Ma
non appena mi accorsi che questo stantio, infruttuoso mondo del mio scontento
conteneva una cosa come la possibilità di
un comando, riacquistai la capacità di movimento.
C’è
un bel tratto dalla Casa del marinaio alla Capitaneria, ma con la parola magica
«Comando» in testa mi trovai improvvisamente sulla banchina,
come se fossi stato trasportato lì in un batter d’occhi, davanti a un portale
in pietra bianca lavorata, in cima a una fuga bianca di gradini bassi.
Tutto sembrava scorrere rapidamente verso
di me.
Ma
il commissario capo saltò giù dal suo
posto elevato e percorse velocemente le spesse stuoie per venirmi incontro
nell’ampio passaggio centrale.
Mi
chiese confidenzialmente:
«Vuole
vederlo?».
Dato
che tutta la leggerezza di spirito e di corpo mi aveva abbandonato al contatto
con l’ufficialità, guardai lo scriba senza brio e chiesi a mia volta
stancamente:
«Cosa
ne dice? Serve a qualcosa?».
«Caspita!
Lui ha chiesto di lei due volte oggi».
Questo
enfatico Lui era l’autorità suprema, il
Sopraintendente di marina, il Comandante del porto, una persona molto
importante agli occhi di ogni imbrattacarte di quella stanza. Ma questo era
niente in confronto all’opinione che lui aveva della sua grandezza.
Il
capitano Ellis si considerava una specie di (pagana) emanazione divina, il
sostituto di Nettuno per tutti i mari circostanti. Se non erano proprio le onde a essere governate da lui, aspirava a
governare il destino dei mortali le cui vite si giocavano sul mare.
Questa
edificante illusione lo rendeva inquisitore e autoritario. E siccome aveva un
temperamento collerico c’era chi lo temeva veramente. Era temibile, non in virtù del posto che occupava, ma a causa delle sue
presunzioni illegittime. Non avevo mai avuto a che fare con lui prima di
allora.
Dissi:
«Ah! Se ha chiesto di me due volte, forse
è meglio che vada da lui».
«Deve, deve andarci!».
Mi
invitò silenziosamente a entrare con un cenno del capo. Scivolò fuori
immediatamente e chiuse la porta dietro di me con estrema delicatezza.
Tre
ampie finestre davano sul porto. Non si vedeva che l’azzurro intenso del mare
scintillante e l’azzurro più pallido del cielo luminoso. Nelle profondità e
nelle distanze di quelle azzurre tonalità il mio occhio colse la macchia bianca
di un grande bastimento appena arrivato e in procinto di ancorarsi nella rada
esterna. Una nave dalla patria, dopo forse novanta giorni di mare. C’è qualcosa di commovente in una nave che
arriva in porto dal mare e ripiega le sue bianche ali per riposare.
Il
nostro vice di Nettuno in mano teneva una
penna, la penna ufficiale, molto più potente della spada, nel fare o disfare la
fortuna di semplici uomini che si affannano. Con la testa girata sopra la
spalla seguiva il mio procedere.
Quando
gli fui ben a tiro, per tutto saluto mi apostrofò con un «Ma dov’è stato fino
adesso?» da far scuotere i nervi.
Dissi
semplicemente che avevo sentito dire che c’era bisogno di un capitano per una
nave a vela, ed essendo un marinaio di navigazione a vela pensavo di far
domanda...
Mi
interruppe. «Cosa? Al diavolo! Lei è
l’uomo giusto per quel posto, anche se ce ne fossero venti altri a volerlo. Ma
non abbia timore. Hanno tutti paura a prenderlo. Ecco come stanno le cose».
Con
innocenza dissi: «Davvero, signore? Mi domando perché».
«Paura delle vele. Troppo lavoro. Troppo
tempo lontani da qui. La vita comoda è il loro genere. E io seduto qui con
davanti il cablogramma del Console generale, mentre l’unico uomo adatto al
posto non si trova da nessuna parte. Cominciavo
a pensare che anche lei volesse tirarsi indietro...».
«Non
ci ho impiegato molto ad arrivare in ufficio», obiettai con calma.
«Eppure
lei qui ha una buona reputazione»,
grugnì selvaggiamente senza guardarmi.
«Sono
molto contento di sentirlo dire da lei, signore», dissi.
Quel
vostro cambusiere non oserebbe trascurare un messaggio che viene da questo
ufficio. Dove diavolo si è cacciato per quasi tutto il giorno?».
Mi limitai a sorridergli gentilmente, sembrò ricomporsi e mi invitò ad
accomodarmi. Mi spiegò che siccome a Bangkok era morto il capitano di una nave
britannica, il Console generale gli aveva telegrafato di mandargli un marinaio
competente per prenderne il comando.
Sembrava che nella sua mente io fossi
l’uomo giusto fin dal primo momento.
Era
già stato preparato un contratto. Me lo diede da leggere e quando glielo
restituii dicendo che ne accettavo le condizioni, il vice di Nettuno lo firmò,
lo timbrò con la sua augusta mano, lo piegò in quattro (era un foglio azzurro
di carta protocollo), e me lo porse: un dono dal potere straordinario.
«Questa è la sua nomina al comando», disse con una certa gravità. «Una nomina
ufficiale che impegna gli armatori alle condizioni che lei ha accettato.
Dunque, quando è pronto a partire?».
Dissi
che, se era necessario, sarei stato pronto quel giorno stesso. Mi prese in
parola con grande prontezza. Il piroscafo Melita partiva per Bangkok quella
sera verso le sette. Avrebbe chiesto ufficialmente al suo comandante di darmi
un passaggio e di aspettarmi fino alle dieci.
II
Mi
strinse la mano. «Bene, eccola capitano, nominato ufficialmente sotto la mia responsabilità».
La
solidarietà degli uomini di mare ebbe
il sopravvento. Ebbe il sopravvento nella voce del capitano Ellis.
«Addio
e buona fortuna», disse così di cuore che potei solo guardarlo con gratitudine.
Poi mi girai e uscii, per non rivederlo mai più in vita mia. Non avevo fatto
ancora tre passi nell’ufficio vicino che, dietro la mia schiena, udii una voce,
rude, forte e autoritaria: la voce del nostro vice di Nettuno.
Il favore dei grandi proietta un’aureola
intorno al fortunato oggetto della loro scelta. Quell’uomo eccellente chiese se
poteva fare qualcosa per me. Mi conosceva solo di vista e sapeva benissimo che
non mi avrebbe più incontrato.
E lui – l’orario d’ufficio era finito –
voleva sapere se mi poteva essere utile in qualcosa!
Avrei dovuto, propriamente parlando, avrei
dovuto essere commosso fino alle lacrime. Ma non ci pensai nemmeno. Era solo un’altra manifestazione miracolosa in quel giorno di
miracoli.
Proseguii
levitando lontano da lì. Uso questa parola invece di «volare», perché ho la
netta impressione che, sebbene trasportato dal mio entusiasmo giovanile, i miei movimenti fossero abbastanza controllati.
A quella fetta di umanità là fuori, così
eterogenea intenta ai propri affari, mi presentai come un uomo che camminava
piuttosto calmo.
E
sì che niente nel campo dell’astrazione avrebbe potuto eguagliare il mio profondo distacco dalle forme e dai colori
di questo mondo. Era, per così dire, assoluto.
Per quel che riguarda la mia
consapevolezza, i successivi dieci minuti avrebbero potuto durare dieci secondi
o dieci secoli. La gente
avrebbe potuto cadere a terra morta intorno a me, le case crollare, i cannoni
sparare, non me ne sarei accorto. Pensavo: «Per Giove, lo ho avuto». Lo, era il comando.
E mi era giunto in modo assolutamente imprevisto anche dai miei modesti sogni a
occhi aperti.
Mi
accorsi che la mia immaginazione aveva percorso canali convenzionali e che le mie speranze erano sempre state senza
grandezza. Avevo concepito un comando
come il risultato di un lento corso di
promozioni, al servizio di qualche compagnia molto rispettabile. La ricompensa di un servizio fedele.
Beh, il servizio fedele andava bene. Uno
lo presta naturalmente, per amor proprio, per amore della nave, per amore della
vita che si è scelto, non per amore della ricompensa.
C’è
qualcosa di sgradevole nel concetto di ricompensa.
Ed
ecco, ora avevo il mio comando,
l’avevo in tasca, in modo inequivocabile, ma assolutamente inaspettato. Al di
là delle mie fantasie, al di fuori di ogni aspettativa ragionevole, e anche malgrado l’esistenza di una specie di oscuro
intrigo per tenerlo lontano da me. È vero che l’intrigo era di poco conto,
ma contribuiva al senso di meraviglia,
come se fossi stato appositamente destinato a quella nave che non
conoscevo, da qualche potere più alto dei prosaici agenti del mondo
commerciale.
In
me cominciò a farsi strada uno strano senso di esultanza. Se avessi lavorato
dieci anni o più per raggiungere quel comando non avrei provato niente di
simile. Ero un po’ spaventato.
«Restiamo
calmi», mi dissi.
Mi
dispiace ammettere che prima di entrare mi fermai. C’era stata una rivoluzione nella mia natura morale.
«E
lei pensava di potermene tener fuori», dissi con aria maligna.
«Lei
diceva che tornava a casa», guaì miseramente. «Era lei che lo diceva. Lei».
«Mi
chiedo cosa dirà il capitano Ellis di questa scusa», proferii lentamente con un
sottointeso sinistro.
«Lei
mi ha denunciato? Mi ha rovinato?».
Lo
guardai inflessibile.
«Ho
sempre detto che lei sarebbe stata la mia morte».
Il
capitano Giles stava davanti a me sulla soglia in tutta la banale solidità della sua saggezza. Sul petto
gli brillava la catena d’oro. In mano stringeva la pipa accesa.
Gli
tesi la mano con calore ed egli sembrò sorpreso, ma alla fine rispose
abbastanza cordialmente, con un lieve sorriso e quell’aria di chi la sa lunga,
che tagliò di netto i miei ringraziamenti come avrebbe fatto un coltello. Non
credo che sia uscita più di una parola. E anche per quell’unica, a giudicare
dalla temperatura della mia faccia, ero arrossito come per una cattiva azione.
Fingendo un tono distaccato, gli chiesi come diavolo avesse fatto a scoprire
quel giochetto che si era svolto sotterraneamente.
Mormorò
compiaciuto che erano poche le cose che accadevano in città di cui lui non
vedesse il lato nascosto. Quanto a quella Casa, erano circa dieci anni che ci
andava e veniva. Niente di quel che vi si svolgeva poteva sfuggire alla sua
grande esperienza. Non era stato un disturbo. Nessun disturbo.
Poi
nel suo quieto tono smorzato volle sapere
se mi ero lamentato formalmente dell’azione del cambusiere.
Dissi che non l’avevo fatto, anche se, a
dir il vero, non è che mi fosse mancata l’occasione. Il capitano Ellis mi aveva aggredito nella
maniera più ridicola perché non mi si trovava quand’ero necessario.
«Buffo
vecchio», intervenne il capitano Giles. «E lei cosa gli ha risposto?».
«Che
mi ero recato da lui non appena ricevuto il suo messaggio. Nient’altro. Non
volevo far del male al cambusiere. Mi vergognerei a colpire un tale bersaglio.
No. Non ho fatto nessuna rimostranza, ma credo che lui pensi che l’ho fatta e
io glielo lascio credere. Si è preso una paura che non dimenticherà tanto
presto.
«Aspetti
un momento», disse il capitano Giles, lasciandomi all’improvviso. Poiché mi
sentivo molto stanco, soprattutto mentalmente, mi sedetti. Prima che potessi
iniziare un corso di pensieri era di nuovo davanti a me, a mormorare una scusa per
aver dovuto andare a rassicurare quel
poveretto.
Lo
guardai sorpreso. Ma in realtà ero indifferente.
«Non
sarebbe morto di paura», dissi con disprezzo.
«No,
ma avrebbe potuto prendere una dose eccessiva da una di quelle bottigliette che
tiene nella sua stanza», commentò serio il capitano Giles. «Quel dannato
sciocco ha già tentato di avvelenarsi, una volta, un paio di anni fa».
«Davvero?»,
dissi senza scompormi. «In ogni modo non sarebbe una gran perdita».
«Ah,
se è per questo, lo si può dire di molti».
«Non
esageriamo!», protestai, ridendo un po’ irritato. «Mi chiedo cosa farebbe
questa parte del mondo se lei smettesse di occuparsene, capitano Giles. In un
solo pomeriggio ha procurato un comando a me e salvato la vita al cambusiere.
Ma perché lei si sia tanto interessato a noi due non riesco proprio a capirlo».
Il
capitano Giles tacque un istante. Poi gravemente:
«A
dir la verità, non è un cattivo
cambusiere. Perlomeno è capace di trovare un buon cuoco e, cosa che vale ancor
di più, di tenerlo dopo che l’ha trovato.».
Probabilmente
avevo avuto un gesto di impazienza, perché si interruppe per scusarsi di
trattenermi lì con le sue chiacchiere, mentre sicuramente avevo bisogno di
tutto il mio tempo per prepararmi.
Quello di cui avevo davvero bisogno era di essere
lasciato solo per un po’.
Afferrai l’occasione al volo. La mia camera era un tranquillo rifugio in un’ala
apparentemente disabitata dell’edificio. Non avendo assolutamente niente da
fare (dato che non avevo disfatto i bagagli), mi sedetti sul letto e mi
abbandonai alle impressioni del momento.
E
per prima cosa mi meravigliai del mio stato mentale. Perché non ero sorpreso di
più? Perché? Eccomi qua, investito di un
comando in un batter d’occhi, non nel solito corso delle vicende umane, ma
quasi per incanto. Avrei dovuto essere stordito dallo stupore. Ma non lo
ero. Assomigliavo ai personaggi delle
fiabe. Non c’è mai niente che li stupisca. Quando una zucca si trasforma in una
carrozza di gala tutta addobbata per portarla al ballo, Cenerentola non batte
ciglio. Vi entra tranquilla per andare incontro al suo fortunato destino.
Ma
un comando è un’idea astratta, e sembrava una specie di «prodigio minore»
finché non mi balenò l’idea che implicava
l’esistenza concreta di una nave.
Una nave! La mia nave! Era mia, una cosa da possedere e di cui
aver cura, più mia di qualsiasi altra cosa al mondo, un oggetto di responsabilità e dedizione. Era là che mi aspettava, sotto un incantesimo, incapace di muoversi, di
vivere, di andare nel mondo (finché non arrivavo io). Il suo richiamo mi
era arrivato come se venisse dalle nuvole. Non
avevo mai sospettato la sua esistenza. Non sapevo com’era, avevo a mala pena
udito il suo nome, eppure per una certa parte del nostro futuro eravamo
indissolubilmente legati, per nuotare o affondare insieme!
Un
improvviso fremito di impazienza ansiosa mi corse nelle vene e mi diede una
tale sensazione dell’intensità della vita come non avevo mai sentito prima, né
ho sentito dopo. Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per
così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le
navi, un banco di prova di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore.
Fu
un momento straordinario. E anche unico.
Il
capitano Giles, con un’improvvisa risata, commentò: «So chi sta ringraziando il
cielo di averla vista per l’ultima volta».
Immagino
che si riferisse al cambusiere. Fino all’ultimo quel tipo si era comportato con
me in maniera scontrosa e spaventata. Espressi la mia meraviglia che avesse
cercato di giocarmi un brutto tiro senza alcun motivo.
«Non
capisce che lui voleva soltanto liberarsi del nostro amico Hamilton facendolo
passare di soppiatto davanti a lei per quell’incarico? Sarebbe stato l’unico
modo per toglierselo dai piedi, capisce?».
«Buon
Dio!», esclamai sentendomi in qualche modo umiliato. «Possibile?
«Eh
sì, uno stupido come il nostro cambusiere qualche volta può essere pericoloso», dichiarò sentenzioso il capitano Giles. «Proprio perché è uno stupido», aggiunse,
ammannendo un’ulteriore lezione col suo tono pacato e compiaciuto. «Perché»,
continuò come se enunciasse una verità di fede, «nessuna persona di buon senso correrebbe il rischio di essere cacciata
via a calci dall’unico posto che gli impedisce di morir di fame soltanto per
liberarsi di una semplice seccatura, un piccolo fastidio. Non le pare?».
«Ma
quel tipo sembra un po’ matto. Anzi deve esserlo».
«Quanto a questo, credo che al mondo lo
siano un po’ tutti»,
annunciò pacatamente.
«Non fa delle eccezioni?», domandai solo per
sentire la risposta.
Rimase
zitto per un po’, e poi venne al dunque in maniera molto efficace.
«Come si fa! Kent lo dice persino di lei».
«Davvero?»,
replicai, subito profondamente amareggiato nei confronti del mio ex capitano.
«Nell’attestato di servizio scritto da lui, che ho in tasca, non se ne fa
cenno. Le ha dato qualche esempio della
mia follia?».
Il
capitano Giles spiegò in tono conciliante che era stata soltanto
un’osservazione amichevole in riferimento al mio improvviso abbandono della
nave senza un motivo chiaro.
Mormorai
scontroso: «Oh! L’abbandono della sua
nave».
«Ciò
di cui avevo veramente bisogno era di cimentarmi in qualcosa di nuovo. Sentivo
che era arrivato il momento. E questo è davvero così folle?».
Io
mi preparavo a congedarmi dal capitano Giles, che aveva l’aria di chi sta portando a termine la sua missione. Non si
poteva negare che non l’avesse compiuta fino in fondo. E, mentre cercavo una
frase adatta, saltò fuori con:
«Prevedo che non starà con le mani in mano.
Avrà un sacco di faccende da sbrogliare».
Gli chiesi che cosa glielo facesse pensare.
Rispose che era la sua esperienza complessiva del mondo.
«È anche lei, in un certo senso, alle prime
armi», concluse in tono che non ammetteva replica.
«Non
insista», dissi. «Lo so anche troppo bene. Mi
piacerebbe tanto che, prima di partire, potesse trasmettermi una piccola parte
della sua esperienza. Ma siccome non si può fare in dieci minuti, sarà meglio
che non cominci neanche a chiederglielo.
Un’estrema pazienza e un’estrema attenzione mi avrebbero accompagnato fino a dove
avrei finalmente sentito la mia nave correre sulle onde inclinandosi al grande
soffio dei venti regolari, che le avrebbero dato la sensazione di una vita
vasta e più intensa. La strada sarebbe
stata lunga. Tutte le strade che portano dove desidera il cuore sono lunghe.
Ma questa strada, che l’occhio della mia mente vedeva su una carta, in modo
professionale, con tutte le sue complicazioni e difficoltà, era però in un
certo senso abbastanza semplice. Si è uomini di mare o non lo si è. E io non
avevo dubbi di esserlo.
All’ultimo
istante mi diede spontaneamente un avvertimento.
«In
qualsiasi caso si tenga sul lato di levante. Quello di ponente è pericoloso in
questo periodo dell’anno. Non si lasci tentare da niente per cambiarlo. Non
troverebbe che guai da quella parte».
Il moderno spirito della fretta si
manifestò sonoramente negli ordini di «Gettate il cavo» – «Ammainate la scala
laterale» e nel pressante invito rivolto a me: «Su presto, capitano! Ci hanno
fatto ritardare di tre ore per lei... Dovevamo partire alle sette, lo sa!».
Salii a bordo e dissi: «No! Non lo so». Lo
spirito della fretta moderna si era incarnato in un uomo che dichiarò
febbrilmente:
«Non avrei aspettato cinque minuti di più.
Mi sarei fatto impiccare piuttosto – comandante del porto o no».
«Questi sono affari suoi», dissi. «Non le
ho chiesto io di aspettarmi».
«Spero che non pretenda di cenare», sbottò.
«Questa non è una pensione galleggiante. Lei è il primo passeggero che abbia
mai avuto in vita mia e spero proprio che sia anche l’ultimo».
Durante
tutti e quattro i giorni che mi ebbe a bordo non abbandonò quell’atteggiamento
semiostile. Visto che la sua nave aveva subito un ritardo di tre ore a causa
mia, non poteva perdonarmi di non essere una persona più importante. Non che lo
esprimesse apertamente, ma quel sentimento di contrariata meraviglia affiorava
continuamente nei suoi discorsi.
Era
un tipo assurdo.
E
anche un uomo di grande esperienza, che gli piaceva ostentare, ma era
impossibile immaginare un contrasto maggiore col capitano Giles. Mi avrebbe
anche divertito, se avessi avuto voglia di divertirmi. Ma non ne avevo voglia.
Ero come un innamorato che non vede l’ora di arrivare all’appuntamento. E non
mi curavo dell’ostilità degli uomini. Pensavo alla mia nave sconosciuta, e come
divertimento mi bastava, e anche come tormento e occupazione.
Si
era accorto del mio stato d’animo, era dotato di sufficiente acume per
percepirlo, e, sornionamente, si beffava delle mie preoccupazioni, come usano
fare i vecchi malevoli e cinici nei confronti dei sogni e delle illusioni dei
giovani.
Sapevo
solo che non gli piacevo, e che un po’ mi disprezzava. Perché? Evidentemente
perché la sua nave aveva subito un ritardo di tre ore per colpa mia. Chi ero io
perché si facesse una cosa simile per me? E che per lui non era mai stata
fatta. Era una specie di sdegnata gelosia.
La
nave risaliva lenta il fiume portata dalla marea. Senza badare alle novità di
ciò che mi circondava, percorrevo il ponte, perduto nell’ansia di astratte
elucubrazioni, un intersecarsi di fantasticheria romantica e un esame molto
pratico delle mie capacità. Perché per me
si avvicinava il momento di vedere la mia nave e di dimostrare il valore
nella suprema prova della mia professione.
«Ecco!
Quella è la sua nave, capitano», disse.
C’erano
circa una decina di navi ormeggiate lungo la riva, e quella che intendeva lui
restava seminascosta dalla poppa della sua vicina. «Le passiamo davanti tra un
istante», disse.
Com’era
il tono? Canzonatorio? Minaccioso? O semplicemente indifferente? Non riuscii a
decifrarlo. In quella inaspettata manifestazione di interesse sospettai la
malizia.
Se
ne andò, e io mi appoggiai alla battagliola del ponte di comando per guardar
fuori. Non osavo alzare gli occhi. Eppure bisognava farlo, e infatti non potei
farne a meno. Stavo tremando, mi pare.
Ma appena gli occhi si posarono sulla mia
nave, tutta la paura svanì. Scomparve rapida, come un brutto sogno. Con la differenza che un brutto sogno non
si lascia dietro un senso di vergogna, che io invece per un momento provai per
i miei ingiusti sospetti.
Sì,
eccola lì. La vista del suo scafo, dell’attrezzatura, mi riempì di contentezza.
Quella sensazione del vuoto della vita
che mi aveva reso così inquieto negli ultimi mesi, perdeva la sua amara
plausibilità, la sua malefica influenza, per dissolversi in un flusso di
emozione gioiosa.
Vidi,
alla prima occhiata, che era un veliero di gran classe, una creatura armoniosa
nelle linee del suo bel corpo, nell’altezza proporzionata dei suoi alberi.
Qualsiasi fosse la sua età e la sua storia aveva conservato lo stampo della sua
origine. Era una di quelle navi che, in virtù di come sono state progettate e
rifinite, non sarebbe mai invecchiata. In mezzo alle sue compagne ormeggiate
alla riva, tutte più grandi di lei, sembrava una creatura di razza: un puledro
in un branco di cavalli da tiro.
La
mia nave, come certe donne rare, era
una di quelle creature che, per il solo
fatto di esistere, suscitano un piacere non egoista. Si sente che è bello stare
in un mondo in cui ci sono loro.
Da
lei irradiava quell’illusione di vita e di carattere che affascina nelle opere
più belle che escono dalle mani degli uomini.
Mezz’ora
dopo, nel mettere piede per la prima volta sul suo ponte, ebbi la sensazione di
un profondo appagamento. Niente poteva
eguagliare la pienezza di quel momento, la compiutezza ideale di
quell’esperienza emozionante che mi era toccata senza la fatica preliminare e
il disincanto di un’oscura carriera.
Il mio sguardo corse rapido su di lei,
l’avviluppò, appropriandosi della forma che rendeva concreto l’astratto
sentimento del mio comando.
La materia di cui sono fatti i sogni.
In
quell’istante molti dettagli di cui s’accorge un uomo di mare furono evidenti
ai miei occhi. Quanto al resto, la vidi
disancorata dalle condizioni materiali del suo essere. La riva a cui era
ormeggiata era come se non esistesse. Che cos’erano per me tutti i paesi del
globo? In ogni parte del mondo bagnata da acque navigabili la nostra reciproca
relazione sarebbe stata la stessa, e più intima di quanto le parole di una
lingua possano esprimere. Ogni scena,
ogni episodio, al di fuori della nostra relazione, non sarebbe stato che uno
spettacolo passeggero.
III
La
prima cosa che vidi là sotto fu il busto di un uomo che, per così dire,
sporgeva all’indietro da una delle porte ai piedi della scala.
«Sono
il vostro nuovo capitano», dissi con calma.
«Nella
stiva, credo, signore. L’ho visto scendere dal boccaporto di poppa dieci minuti
fa».
«Digli
che sono a bordo».
Il
tavolo di mogano sotto l’osteriggio luccicava.
La
credenza, sormontata da un grande specchio con la cornice dorata, aveva il
ripiano di marmo. Sopra vi erano posate una coppia di lampade argentate e altri
oggetti, evidentemente in mostra per la sosta nel porto. La saletta era
rivestita di pannelli di due tipi di legno, nel semplice, squisito stile
dell’epoca in cui la nave era stata costruita.
Mi
sedetti sulla seggiola imbottita a capotavola, la poltrona del capitano, sopra
la quale era sospesa una piccola bussola di controllo: muto richiamo a una
vigilanza incessante.
Su quella poltrona si erano succeduti molti
uomini. Quel pensiero mi si affacciò improvviso, vivido, come se ognuno di loro
avesse lasciato un po’ di se stesso tra le quattro mura di quelle adorne
paratie; come se una specie di anima composita, l’anima del comando, avesse
improvvisamente sussurrato alla mia dei lunghi giorni in mare e dei momenti
d’ansia.
«Anche tu!», sembrava dire, «anche tu
assaporerai la pace e l’inquietudine in una penetrante intimità con te stesso,
oscuro come eravamo noi, eppure sovrano di fronte ai venti e ai mari, in quella
immensità che non riceve impronta, non conserva memoria e non tiene conto delle
vite umane».
Dal fondo dello specchio con la cornice
dorata annerita, nella calda penombra filtrata dalla tenda del ponte, vidi il
mio volto sorretto fra le mani. E guardavo la mia immagine riflessa con
l’assoluto distacco della distanza, più con curiosità che con altri sentimenti.
Fui colpito che quell’uomo dallo sguardo
quietamente fisso, che io guardavo come se fosse me stesso ma anche un altro,
non fosse del tutto una figura solitaria. Aveva il suo posto in una linea di
uomini che non conosceva, di cui non aveva mai sentito parlare, ma che erano
modellati dalle stesse influenze, le cui anime nei confronti del lavoro della
loro umile vita non avevano segreti per lui.
Improvvisamente
sentii che c’era un altro uomo nella saletta, in piedi un po’ in disparte, che
mi guardava attentamente. Il primo ufficiale.
Da
quanto tempo stava lì a guardarmi, a soppesarmi, cogliendomi in quello stato
indifeso di sogno a occhi aperti? Sarei rimasto più turbato se non avessi
notato che la lancetta lunga dell’orologio posto in cima alla cornice dello specchio,
proprio di fronte a me, non si era quasi mossa.
Non
potevano essere passati più di due minuti da quando ero entrato nella cabina.
Tre al massimo... Perciò, per fortuna, non aveva potuto osservarmi per più di
una frazione di minuto. Ciononostante mi rammaricai per l’accaduto.
Ma
non feci trasparire nulla quando mi alzai senza fretta (bisognava che lo
facessi senza fretta) e lo salutai con assoluta cordialità.
Il
secondo ufficiale.
Mi resi conto di quello che mi ero già
lasciato alle spalle: la mia giovinezza. Magra consolazione! La giovinezza è una gran bella cosa, una
grande forza, fin tanto che non ci si
pensa. Sentii che stavo diventando autoconsapevole. E, quasi involontariamente,
assunsi un tono di pensosa gravità.
Disse che una nave, proprio come un uomo,
aveva bisogno di un’occasione per mostrare il meglio che sapeva fare e che da
quando era a bordo lui, l’occasione non si era mai presentata. Almeno lui non la ricordava. L’ultimo
capitano... Tacque.
Aveva deciso di tagliare i ponti con tutto.
Con la moglie, con i figli e con la propria nave. Ecco come stavano le cose.
Aveva in mente di andar vagando per il mondo fino a quando avrebbe perso la
nave con tutto l’equipaggio.
E
come membro di una dinastia, sentendo un legame quasi mistico con i morti, ero
profondamente scandalizzato del mio immediato predecessore.
Quell’uomo
era stato in tutte le cose essenziali, tranne l’età, un uomo proprio come me.
Eppure la fine della sua vita era stata
un vero atto di tradimento, il tradimento di una tradizione che a me
sembrava altrettanto categorica di qualsiasi altra norma sulla terra. Anche in mare, dunque, un uomo poteva cadere
vittima di spiriti maligni. Sul volto sentii il respiro dei poteri sconosciuti
che forgiano i nostri destini.
E,
com’era abbastanza prevedibile, il futuro
portò un sacco di guai. C’erano dei giorni in cui ripensavo al capitano
Giles con un sentimento non lontano dall’odio. La sua maledetta perspicacia mi
aveva cacciato in quel posto e, con l’avverarsi
della sua profezia che non mi «sarei trovato con le mani in mano», la cosa
aveva l’aria di un brutto tiro giocato a bella posta alla mia giovane
innocenza.
Sì. Mi ritrovai tra le mani una serie di
complicazioni tutte preziosissime come «esperienza». La gente ha una grande
opinione dei vantaggi dell’esperienza che, in questo senso, vuol sempre dire
qualcosa di sgradevole, in opposizione al fascino e all’innocenza delle
illusioni.
Devo
dire che le mie le stavo perdendo rapidamente. Ma su queste istruttive complicazioni non mi soffermerò più di
tanto. Dirò solo che si potevano
riassumere tutte in un’unica parola: ritardo.
Un’umanità che ha inventato il proverbio:
«Il tempo è denaro», capirà il mio tormento. La parola «ritardo» entrò nel
talamo segreto del mio cervello, e lì risuonò come una campana martellante che
spacca i timpani, intaccò tutti i miei sensi, assunse una colorazione nera, un
gusto amaro, un significato funesto.
«Mi dispiace molto di vederla così
preoccupato. Proprio molto...».
Furono le uniche parole umane che sentii in
quei giorni. Quell’uomo era per davvero umano.
Il tempo non era solo denaro, ma anche
vita.
«Le
sue disposizioni mi sembrano molto giudiziose, caro capitano».
È
difficile esprimere quale conforto mi venisse da quella dichiarazione.
Era l’unico essere umano al mondo che
sembrava interessarsi minimamente a me.
«Finché non riuscirò a portare la nave in
mare», gli dissi un giorno, «immagino che l’unica cosa da fare sia di vegliare
su di loro come fa lei, vero?».
Piegò
la testa e, socchiudendo gli occhi sotto i grandi occhiali, mormorò:
«Il mare... indubbiamente».
«lui, dipende dal cuore, ha qualcosa che
non va. Non deve sforzarsi troppo se non vuole rischiare di rimanerci secco».
Ed era l’unico che non era stato toccato
dal clima, forse perché, portandosi in petto un nemico mortale, si era allenato
ad avere un controllo sistematico delle emozioni e dei movimenti. E questo
traspariva dai suoi modi, una volta saputo il suo segreto.
Comunque,
avevo quasi aperto un varco per uscire.
Fuori nel mare. Il mare, che era puro, sicuro e amico. Ancora tre giorni. In
mare, dove tutti i nostri guai, di qualsiasi natura, sarebbero finalmente
finiti.
Quell’uomo
aveva forze sufficienti per sopportare solo di essere mosso, nient’altro. Non
avrebbe retto a un ritorno della febbre. Avevo davanti a me una traversata di
circa sessanta giorni, che iniziava con una navigazione complicata e che con
ogni probabilità sarebbe finita con un tempo orribile. Potevo correre il
rischio di affrontarla da solo, senza primo ufficiale e con un secondo ufficiale
che era quasi un ragazzo?
Avrebbe
potuto aggiungere che ero anche al mio primo comando. Probabilmente l’aveva
pensato, perché si interruppe. E io l’avevo ben presente.
Mi
consigliò in tutta franchezza di telegrafare a Singapore per farmi mandare un
primo ufficiale, anche se dovevo ritardare la partenza di una settimana.
«Neanche
un giorno», replicai. Solo a pensarci mi venivano i brividi. Gli uomini
sembravano tutti abbastanza in forma, ed era ora di portarli via da lì. Una
volta in mare non temevo nulla. In quel momento, il mare rappresentava l’unico
rimedio a tutti i miei guai.
«Senta»,
dissi, «a meno che lei non mi dica ufficialmente che non può essere mosso, darò
disposizioni per farlo portare a bordo domani, e condurrò la nave fuori dal
fiume dopodomani mattina, anche se dovrò ancorarla fuori dalla barra per un
paio di giorni per prepararla per il mare».
«Oh!
Darò io stesso le disposizioni», rispose subito il dottore. «Ho detto quello che ho detto solo come
amico, per il suo bene, ha capito come?».
Si
alzò in tutta la sua dignitosa semplicità
e mi diede una calda stretta di mano,
piuttosto solenne, pensai. Ma era un uomo di parola.
Ora che sapevo che aveva quel cuore
indocile nel petto potevo riconoscere il freno che metteva alla naturale
agilità, da marinaio, dei suoi movimenti. Era come se si portasse addosso
qualcosa di molto fragile o di esplosivo e ne fosse sempre consapevole.
Ebbi
occasione di rivolgermi a lui una o due volte. Mi rispose con la sua piacevole voce tranquilla e con un lieve sorriso leggermente malinconico.
Quell’uomo
dal volto quieto e intelligente, appena
adombrato da un velo di preoccupazione per la segreta malattia che si annidava
nel suo petto.
La tenebra era sorta tutt’intorno alla nave
come una misteriosa emanazione delle acque mute e solitarie. Mi appoggiai al
parapetto e porsi l’orecchio alle ombre della notte. Non un suono. La mia nave
era come un pianeta lanciato vertiginosamente sull’orbita designata in uno
spazio di infinito silenzio. Mi afferrai alla battagliola come se il senso
dell’equilibrio mi stesse completamente abbandonando. Che assurdità
Andai
nella mia cabina per cercare sollievo nel sonno di qualche ora, ma ancor prima
che chiudessi gli occhi il marinaio di guardia scese per segnalarmi una leggera
brezza. Sufficiente per prendere il mare, disse.
E
non era niente di più che appena sufficiente. Disposi gli uomini all’argano a
mano, ordinai di mollare le vele e bordare quelle di gabbia. Ma quando la nave si era girata per prendere
il vento, il vento non c’era quasi più. Ciononostante orientai i pennoni e misi
tutta la velatura fuori. Non avevo intenzione di rinunciare al tentativo.
IV
Con
l’ancora sollevata a prora, e vestita di vele fino ai pomi d’albero, la mia nave stava immota come un modellino
di veliero posato tra i luccichii e le ombre di un marmo levigato. Era
impossibile distinguere la terra dall’acqua nell’enigmatica
stasi delle immense forze del mondo. Un’improvvisa impazienza si impossessò di me.
«Non
risponde al timone per nulla?», chiesi irritato al marinaio le cui forti mani, strette alle caviglie della
ruota, risaltavano chiare nell’oscurità, come un simbolo della pretesa
dell’umanità di dirigere il proprio destino.
Sentii
una leggera stretta al petto prima di far sapere la prima rotta del mio primo
comando alla notte silenziosa, madida di rugiada e scintillante di stelle.
C’era qualcosa di conclusivo in quell’atto che mi impegnava alla vigilanza
incessante del mio compito solitario.
«Mantienila
così», dissi finalmente. «La rotta è per sud».
Dei
soffi leggeri venivano e andavano, e quand’erano abbastanza forti da svegliare
l’acqua nera, il mormorio lungo i fianchi mi attraversava il cuore in un
delicato crescendo di piacere, per poi svanire rapidamente. Ero amaramente stanco.
Anche le stelle sembravano stanche nell’attesa dell’aurora, che finalmente
venne, con un chiarore di madreperla allo zenit, come non avevo mai visto prima
ai tropici, priva di splendore, quasi grigia, che stranamente ricordava più
alte latitudini.
Guardai
avanti e, nella striscia immobile di luce luminosissima, color arancione
pallido, vidi la terra profilarsi piatta, come fosse ritagliata nella carta
nera, e che sembrava galleggiare sull’acqua, leggera come il sughero. Ma il
sole nascente la mutò in semplice vapore scuro, in un’ombra incerta, densa,
tremula nel rovente riverbero.
Stavamo vivendo del pulito respiro del
mare. Se solo quel respiro fosse stato un po’ più forte.
Una
busta quadrata, che apparteneva alla cancelleria di bordo.
Da
come era messa potei subito vedere che non era chiusa e, nel prenderla e nel
voltarla, mi accorsi che era indirizzata proprio a me. Conteneva mezzo foglio
di carta di un blocchetto, che spiegai con la strana sensazione di aver a che
fare con il mistero, ma senza agitarmi, come capita nei sogni di incontrare e
fare cose straordinarie.
«Mio
caro capitano», iniziava, ma corsi a vedere la firma.
Mi
rivolsi al testo, meravigliato.
In
una grande calligrafia, frettolosa ma leggibile, per gentilezza o, com’è più
probabile, per l’irresistibile desiderio di esprimere la sua opinione, con cui
non aveva voluto spegnere le mie speranze prima, mi avvertiva di non confidare troppo nei benefici effetti di un
cambiamento dalla terra al mare. «Non volevo aggiungere alle sue preoccupazioni
anche lo scoraggiamento delle sue speranze», scriveva, «ma temo, che non sia
ancora giunta la fine dei suoi guai».
Quel
pomeriggio presi il mio turno di guardia come una cosa naturale. Una grande calma surriscaldata avviluppava
la nave e sembrava tenerla immobile in un’atmosfera infuocata, composta di due sfumature di azzurro.
Deboli e caldi sbuffi mulinavano senza nerbo dalle vele. Eppure si muoveva.
L’unica cosa che ci potesse essere
veramente d’aiuto era il vento: un bel vento.
Avevo
passato in rivista, professionalmente, tutte le mie possibilità. Ero abbastanza
competente. Almeno, così credevo. In complesso sapevo di essere preparato, come
può saperlo solo un uomo che persegue un mestiere che ama. Quel sentimento mi sembrava la cosa più naturale di questo mondo.
Naturale quanto respirare. Pensavo che non avrei potuto vivere senza quello.
Non
so cosa mi aspettassi. Nient’altro, forse, che quella speciale intensità di vita che è la quintessenza delle aspirazioni
giovanili. Qualsiasi cosa mi aspettassi, di certo non mi aspettavo di essere assalito dai cicloni. La sapevo un
po’ più lunga: nel Golfo del Siam non ci sono cicloni. Ma non mi sarei nemmeno aspettato di trovarmi legato mani e piedi, in
quel modo senza speranza che mi si veniva rivelando man mano che i giorni
passavano.
Non che il diabolico incantesimo ci tenesse
sempre fermi. Delle correnti misteriose ci trascinavano di qua e di là, con una forza furtiva resa manifesta dal
mutar d’aspetto delle isole disseminate lungo la costa orientale del Golfo.
E
c’erano anche dei venti, incostanti e
traditori. Suscitavano speranze, solo
per gettarle nel più amaro disappunto, promesse di avanzata, che finivano in
perdita di terreno, si spegnevano in sospiri, e morivano in una muta immobilità
in cui erano le correnti a determinare la direzione, la loro direzione nemica.
L’isola
di Koh-ring. Pareva impossibile allontanarsene. Giorno dopo giorno la si
continuava a vedere. Più di una volta, allo spirare di una brezza favorevole,
nel rapido declinare del crepuscolo, ne presi il rilevamento pensando che
sarebbe stata l’ultima volta.
Vana
speranza. Una notte di venti incostanti
avrebbe annullato i progressi del favore temporaneo, e il sole nascente
avrebbe fatto riaffiorare il nero rilievo di Koh-ring, che appariva più
spoglia, inospitale e cupa che mai.
Le brezze di terra e di mare si sono come
frantumate. Non ci si può contare per più di cinque minuti di fila.
Il
fatto era che la malattia giocava con noi
in modo altrettanto capriccioso dei venti. Andava da un uomo all’altro con
tocco più o meno pesante, che lasciava
sempre il segno dietro di sé, facendo traballare alcuni, abbattendo altri
per un po’ di tempo, abbandonando l’uno, tornando all’altro, cosicché tutti
ormai avevano un aspetto egro.
Era un combattimento su due fronti. Il
tempo avverso ci attaccava di fronte e la malattia ci premeva alle spalle. Bisogna dire che gli uomini erano molto bravi. Affrontavano di buon grado la fatica
costante di orientare i pennoni. Ma nelle loro membra non c’era agilità.
L’affanno delle avversità cominciava ad
avere un certo effetto su di me e contemporaneamente provavo disprezzo per
quella oscura debolezza del mio animo. Dissi sdegnosamente a me stesso che ci
voleva ben di peggio per intaccare minimamente la mia forza d’animo. Allora non
sapevo quanto presto e da quale inaspettata direzione sarebbe stata attaccata.
Fu
il giorno dopo stesso. Il sole era sorto al di sopra delle spalle meridionali
di Koh-ring, che era ancora aggrappata, come una scorta malefica, al nostro
fianco di sinistra. Era odiosa alla mia vista. Durante la notte avevamo fatto
rotta verso tutti i punti cardinali, orientando continuamente i pennoni per
raccogliere quelli che temo fossero per la maggior parte sbuffi immaginari di
vento. Poi, verso l’alba, per un’ora ci
fu un’inspiegabile, stabile brezza. Non c’era senso in tutto ciò. Non si
conciliava né con la stagione, né con la secolare esperienza dei marinai com’è
conservata nei libri, né con l’aspetto del cielo. Solo una malevolenza mirata
poteva spiegarla. Ci spinse a tutta velocità in una direzione molto lontana
dalla nostra giusta rotta e, se fossimo stati nello spirito adatto a un viaggio
di piacere, sarebbe stata una brezza deliziosa, con lo scintillio del mare
risvegliato, col senso del moto e l’insolita sensazione di fresco. Poi,
all’improvviso, come se fosse stanca di continuare quel misero scherzo, cadde,
per morire del tutto in meno di
cinque minuti. La prua ruotò verso il lato di sbandamento; il mare acquetato assunse, nella bonaccia,
la lucentezza di una lastra di acciaio.
Scesi
sottocoperta, non perché intendessi riposarmi un poco, ma semplicemente perché
in quel momento non sopportavo quella vista.
Ma gli uomini non si potevano accudire come
bambini.
Era,
sicuramente, un uomo ragionevole. Eppure non si poteva dire che gli altri non
lo fossero. Gli ultimi giorni per noi erano stati come l’ordalia del fuoco. Non era possibile prendersela con la loro
normale, imprudente umanità che cercava di trarre il meglio dai momenti di
sollievo, quando la notte portava un’illusione di fresco e la luce delle stelle
ammiccava attraverso l’aria pesante, madida di rugiada.
È proprio vero che la grandezza stessa di
uno sconvolgimento mentale ci aiuta a sopportarlo, producendo una specie di
insensibilità momentanea.
V
Il luccichio del mare mi riempì gli occhi.
Era sgargiante e deserto, monotono e senza speranza sotto la volta vuota del
cielo. Le vele pendevano immote e flosce, anche le pieghe delle loro superfici
allentate non si muovevano più che se fossero scolpite nel granito.
A lungo, molto a lungo, affrontai quel
mondo vuoto, immerso in un infinito di silenzio, attraverso il quale il sole si
riversava e spandeva luce per qualche scopo misterioso.
L’intensa solitudine del mare agiva come un
veleno sul mio cervello. Quando volsi gli occhi alla nave, ne ebbi una macabra
visione come di una bara galleggiante.
Chi non ha sentito raccontare di navi trovate, per caso, che andavano alla
deriva, con tutto l’equipaggio morto? Guardai il marinaio al timone, ebbi
l’impulso di parlargli, e il suo volto assunse un’espressione d’attesa come se
avesse indovinato la mia intenzione. Ma invece scesi sottocoperta, pensando di stare un po’ solo con la grandezza dei miei
guai.
«Ebbene, signore?».
Entrai. «Non c’è niente che vada bene»,
risposi.
«Pensa che io sia pazzo o cosa?».
«No, non credo, », dissi. In quel momento
lo considerai un modello di padronanza di sé. Concepii addirittura a quel
riguardo una specie di ammirazione per quell’uomo che era andato tanto vicino a
essere uno spirito disincarnato quanto possa esserlo un uomo vivo. Era ridotto
in un tal stato che probabilmente sarebbe morto presto. Beato lui! Così vicino
all’estinzione, mentre io dovevo sopportare dentro di me un tumulto di dolorosa
vitalità, di dubbio, confusione, autorimproveri, e una strana riluttanza ad
affrontare l’orrenda logica della situazione. Non potei fare a meno di
mormorare: «Mi sento come se stessi per diventare io, matto».
«Ho sempre pensato che lui ci avrebbe
giocato qualche tiro infernale», disse, con una particolare enfasi sul lui.
Io mi precipitai di nuovo sul ponte per
vedere se si era levato un po’ di vento, un respiro sotto il cielo, un fremito
dell’aria, un segno di speranza. La mortale immobilità mi si parò di nuovo
davanti. Non era cambiato nulla, tranne
che al timone c’era un uomo diverso.
Dall’aspetto molto malato. Si reggeva in
piedi a stento, e sembrava afferrarsi alle caviglie della ruota invece che
tenerle in una presa salda.
«Non sei in condizioni di star qui», dissi.
«Ce la posso fare, signore», rispose
debolmente.
E in realtà, non aveva niente da fare. La
nave non aveva abbrivio sufficiente per governare. Giaceva immobile con la prua
volta a ponente, l’eterna Koh-ring visibile a poppa, mentre alcune isolette,
puntolini neri nel grande bagliore, nuotavano davanti ai miei occhi smarriti. All’infuori di quei pezzetti di terra non c’era macchia nel cielo, non c’era
macchia sul mare, neanche l’ombra di un vapore, non un fil di fumo, una vela,
una barca, un movimento umano, non un segno di vita, niente!
Quando
dichiarai che intendevo far rotta su Singapore, e che la migliore possibilità
per la nave e per gli uomini era nello sforzo che tutti noi, malati e sani,
dovevamo compiere per farla uscire da questi guai, ricevetti l’incoraggiamento di un basso mormorio di assenso e di una voce più forte che esclamò: «Ci sarà certo un modo per uscire».
Questo
è un estratto dagli appunti che scrissi a quell’epoca.
Rimango notte e giorno sul ponte,
naturalmente, e le notti e i giorni si susseguono sopra di noi, se lunghi o
brevi, chi lo sa? Si perde completamente il senso del tempo nella monotonia
dell’attesa, della speranza e del desiderio.
L’effetto è curiosamente meccanico: il sole
sorge e tramonta, le notti scorrono sulle nostre teste come se qualcuno sotto
l’orizzonte stesse girando una manovella. È la cosa più meschina e senza
senso!... e fino in fondo a questa recita miserabile devo andare, vagando e vagando.
Quante miglia ho percorso, un ostinato
peregrinare di assoluta irrequietezza.
Parla poco, perché, in realtà, la
situazione non si presta a osservazioni oziose. Noto la stessa cosa negli
uomini quando li guardo muovere o riposare. Non si parlano.
Ho
pensato che se ci fosse un orecchio invisibile, capace di cogliere i sussurri
considererebbe questo luogo il più
silenzioso che ci sia.
Dorme
pochissimo. Persino la notte, quando scendo a riempirmi la pipa, noto che,
anche se sonnecchia sdraiato sul dorso, ha ancora un’aria molto risoluta.
Dall’occhiata di traverso che mi dà quando è sveglio sembra come seccato di
essere interrotto in qualche arduo calcolo mentale; e quando emergo sul ponte, i miei occhi ritrovano l’ordinata
disposizione delle stelle, senza nuvole, infinitamente monotone.
Eccoli là: stelle, sole, mare, luce,
tenebra, spazio, grandi distese d’acqua; la formidabile Opera dei Sette Giorni,
in cui l’umanità sembra essersi smarrita senza essere stata invitata. Oppure
adescata. Come me che sono stato adescato in questo tremendo comando, inseguito
dalla morte.
Di notte, l’unica fonte di luce sulla nave
era quella delle lampade della bussola, che illuminava le facce degli uomini
che si avvicendavano al timone; per il resto eravamo immersi nella tenebra.
Chiudevo gli occhi, con la sensazione che
sulla terra per me non ci fosse più sonno.
Non
che facesse molta differenza. Di solito era piatta bonaccia, oppure dei deboli
venti così mutevoli e fugaci che per loro non valeva la pena di toccare neanche
un braccio dei pennoni. Se il vento rinforzava un poco, il marinaio al timone
avrebbe sicuramente gridato: «Tutte le
vele a collo, signore!», e mi avrebbe fatto balzare in piedi, come a uno
squillo di tromba. Erano quelle le parole che, pensavo, mi avrebbero fatto
risorgere anche dal sonno eterno. Ma non accadeva.
Da
allora non ho mai incontrato delle albe così
immote.
Le
parole che ci scambiavamo erano poche e puerili in confronto alla situazione.
Dovevo farmi forza per guardarli in faccia. Mi
aspettavo di trovare sguardi di rimprovero, ma non ce n’erano. L’espressione di
sofferenza nei loro occhi era già abbastanza dura da sopportare. Ma quella non
la potevano controllare. A parte ciò, mi chiedo se era la tempra delle loro
anime o l’armonia della loro immaginazione a renderli così straordinari, così
degni del mio imperituro rispetto.
Quanto a me, né il mio animo era così
temprato, né la mia immaginazione propriamente sotto controllo. C’erano dei
momenti in cui sentivo non solo che sarei diventato matto, ma che lo ero già; e
allora non osavo aprir bocca per paura di tradirmi.
Fortunatamente avevo solo ordini da dare, e
un ordine ha un influsso stabilizzante su chi lo deve dare. Inoltre, il
marinaio, l’ufficiale di guardia che era in me, era abbastanza sano di mente.
Quel
che temevo era che mi sfuggisse involontariamente una nota acuta a sconvolgermi
l’equilibrio. Fortunatamente, ancora una volta, non c’era bisogno di alzare la
voce. La minacciosa quiete del mondo
sembrava sensibile al più piccolo suono come una volta acustica. Il tono da
conversazione era sufficiente per portare una parola da un capo all’altro della
nave. La cosa terribile era che l’unica voce che udivo era la mia. Di notte,
soprattutto, riecheggiava solitaria fra le superfici delle vele immobili.
La nave era molto silenziosa.
Tutto è così silenzioso che si direbbe che
son morti tutti, l’unica voce che sento qualche volta è la sua, signore, e non
basta a rallegrarmi. Cos’hanno gli uomini? Non ce n’è uno che possa dar voce?.
«Non
è mica morto qualcuno, signore?».
«No».
«Non deve succedere»
«Non
bisogna lasciarglielo fare. Se ne agguanta uno, li agguanta tutti».
Al
che gridai adirato. Credo di aver addirittura bestemmiato tanto quelle parole
erano conturbanti. Erano un attacco a quel poco di autocontrollo che mi era
rimasto. Nella mia veglia senza sosta
ero stato aggredito da immagini già abbastanza fosche. Avevo avuto visioni di una nave che andava alla deriva nella
bonaccia, cullata dai venti lievi, con tutto l’equipaggio che moriva lentamente
sui ponti. Si sapeva che accadevano queste cose.
«Ascolti», dissi. «La situazione si sta
facendo talmente disperata che per un momento ho pensato, visto che non
riusciamo ad andare a sud, di cercare di dirigermi a ovest. Cosa ne pensa?».
«No, no, no», gridò. «Non lo faccia,
signore. Se lo farà, saremo perduti».
La
sua protesta, era fondamentalmente giusta. Di fatti, la mia idea di fare rotta
verso ovest, non reggeva a un esame più ponderato. Dal lato in cui eravamo noi,
c’era abbastanza vento, almeno di
tanto in tanto, per continuare a lottare
verso sud. Abbastanza, almeno, per tener
viva la speranza. Ma se avessi usato quelle folate capricciose per
veleggiare via verso ovest, in qualche regione in cui non si trovava un soffio
d’aria per giorni e giorni, cosa sarebbe accaduto? Forse la mia terrificante
visione di una nave che si faceva trasportare dalla corrente con una ciurma
morta, che qualche marinaio avrebbe scoperto dopo varie settimane, sarebbe
divenuta realtà.
Le
forze degli uomini erano talmente ridotte che qualsiasi sforzo non necessario
doveva essere evitato.
Era
un pomeriggio terribilmente senza vita. Per
parecchi giorni consecutivi all’orizzonte erano apparse delle nubi basse,
bianche masse con scure spire posate sull’acqua, immote, quasi solide, pur
cambiando sottilmente aspetto in continuazione. Verso sera, di regola,
sparivano. Ma quel giorno attesero il tramonto del sole che, prima di
sprofondare, parve infiammarsi e ardere tetramente in mezzo a loro. Sopra la
cima dei nostri alberi riapparvero puntuali e monotone le stelle, mentre l’aria
rimaneva opprimente.
«Da
quanto tempo sono sul ponte? Sto perdendo la nozione del tempo».
«Quattordici giorni, signore», disse.
«Sono stati quattordici giorni lunedì scorso da quando abbiamo abbandonato la
costa».
Nella
sua voce pacata si avvertiva una certa tristezza. Aspettò un momento, poi
aggiunse: «Per la prima volta pare che
dovremmo avere un po’ di pioggia».
Notai
solo allora la grande ombra che si stendeva sull’orizzonte, nascondendo
completamente le stelle basse, mentre quelle alte, quando guardai in su,
sembravano brillare su di noi attraverso un velo di fumo.
Come
fosse giunta lì, come si fosse arrampicata così in alto, non lo sapevo. Aveva
un aspetto sinistro. L’aria non si muoveva.
Ma
adesso il ricordo è che in quei giorni la
mia vita si sostentasse di invincibile angoscia, come una specie di droga
infernale che eccita e consuma contemporaneamente.
È l’unico periodo della mia vita in cui ho
provato a tenere un diario.
No, non l’unico. Anni dopo, in condizioni
di isolamento morale, misi sulla carta i pensieri e gli avvenimenti di una
ventina di giorni. Ma questa era la prima volta. Non mi ricordo come
incominciò, né come mi capitarono in mano taccuino e matita. È inconcepibile
che li abbia cercati di proposito. Penso che mi abbiano salvato dalla insana
mania di parlare da solo.
In entrambi i casi, abbastanza stranamente,
intrapresi una cosa del genere, in circostanze in cui non speravo, come si usa
dire, «di venirne fuori». Né contavo che il diario durasse oltre la mia morte.
Questo dimostra che era un bisogno puramente personale di sollievo intimo e non
un’esigenza di egotismo.
A questo punto devo darne un altro esempio,
tratto dalla parte scarabocchiata quella sera stessa, qualche riga sparsa, che
ai miei stessi occhi adesso appare irreale.
Sta
succedendo qualcosa nel cielo, come una decomposizione, una corruzione
dell’aria, che pure rimane immota come sempre. Dopo tutto sono semplici nuvole,
che non è detto che portino vento o pioggia. Strano che io ne sia così turbato.
Mi sento come se tutti i miei peccati mi
avessero messo allo scoperto. Ma forse sono turbato perché la nave resta ancora
immobile, senza controllo; forse perché non posso far nulla per impedire alla
mia immaginazione di correre sfrenata fra immagini disastrose del peggio che si
può abbattere su di noi. Che cosa accadrà? Probabilmente nulla. O tutto. Forse imperverserà un furioso turbine di
vento, forse ancora la bonaccia ci incanterà; comunque sia, sarà il colpo di
grazia.
Tutte
le nostre vele potrebbero esserci strappate.
Abbiamo spiegato tutte le vele quindici
giorni... o quindici secoli fa. Mi sembra che tutta la mia vita prima di quel
giorno fatidico sia infinitamente remota, il ricordo evanescente di una
giovinezza spensierata, qualcosa dall’altra parte di un’ombra.
Sì,
le vele possono benissimo venir
strappate. E questo sarebbe come una condanna a morte per gli uomini. Non
abbiamo abbastanza forze a bordo per fissare un altro corredo di vele; è un
pensiero incredibile, ma vero. O potremmo
anche venir disalberati. Ci sono navi che sono state disalberate dalle raffiche
solo perché non sono state manovrate con sufficiente rapidità, e noi non
abbiamo neppure la forza di controbracciare i pennoni. È come essere legati mani e piedi in attesa di farsi tagliare la gola.
E quel che più mi spaventa è che sono riluttante ad andare sul ponte ad
affrontare la situazione. Lo devo alla nave, lo devo agli uomini che sono là
sul ponte – alcuni dei quali pronti, a una mia parola, a impiegare gli ultimi
residui delle loro forze. E io mi ritraggo. Dalla semplice visione. Il mio
primo comando. Adesso capisco quello strano senso di insicurezza nel mio
passato.
Ho sempre sospettato di non essere
all’altezza. E adesso ne ho la prova. Mi tiro indietro. Non valgo niente.
«Com’è
fuori?», gli chiesi.
«Nero,
nerissimo, signore. Si sta preparando qualcosa di sicuro».
«Da
quale parte?».
«Tutt’intorno,
signore».
«Tutt’intorno.
Eh già!», ripetei oziosamente, con i gomiti sul tavolo.
Pensavo che tutti i miei sentimenti si
fossero intorpiditi fino a una completa indifferenza. Ma trovai che stare sul ponte era arduo
come sempre.
La tenebra impenetrabile circondava la nave
così da vicino che a stendere la mano fuori bordo pareva di poter toccare
qualche sostanza non terrena.
Si aveva un’impressione di terrore
inconcepibile e di inesprimibile mistero.
Le poche stelle in cielo spandevano una luce fioca solo sulla nave, senza alcun
luccichio sull’acqua, in raggi staccati che foravano un’atmosfera diventata
caliginosa. Era qualcosa che non avevo mai visto prima, e non c’era segno della
direzione da cui sarebbe sopravvenuto un cambiamento quale che sia. Era
l’accerchiamento di una minaccia che veniva da tutte le parti.
L’immobilità di tutte le cose era assoluta.
Se l’aria era diventata nera, il mare, per quel che ne sapevo io, avrebbe
potuto essere diventato solido.
Non serviva guardare in qualche
direzione, alla ricerca di qualche segno, per capire l’avvicinarsi del momento.
Quando fosse arrivato, la tenebra avrebbe sommerso silenziosamente quel poco di
luce che le stelle irradiavano sulla nave, e la fine di tutto sarebbe venuta
senza un sospiro, movimento, o mormorio di sorta, e tutti i nostri cuori
avrebbero cessato di battere, come orologi senza carica.
Era impossibile scuotersi di dosso quel
senso di fine imminente. La calma che mi invase era già un preannuncio di
annientamento. Mi diede una specie di conforto, come se la mia anima si fosse
all’improvviso riconciliata con un’eternità di cieca quiete.
Solo
l’istinto del marinaio sopravviveva intatto nel mio dissolvimento morale.
«Siete
lì, marinai?», i miei occhi riuscirono a distinguere delle ombre sorgere
intorno a me, molto poche, molto indistinte; e una voce parlò: «Tutti qui,
signore». Un’altra corresse sollecita:
«Tutti
quelli che possono servire a qualcosa, signore».
Le due voci erano molto tranquille e
pacate, senza traccia di eccitazione o scoraggiamento. Voci molto naturali.
«Dobbiamo
cercare di imbrogliare bene la vela di maestra», dissi.
Se
mai una vela fu imbrogliata da pura forza spirituale fu sicuramente quella
vela, perché, a essere precisi, muscoli per quella manovra sulla nave non ce
n’erano più.
Naturalmente,
presi io stesso il comando del lavoro. Gli uomini si trascinavano dietro di me
di cavo in cavo, inciampando e ansimando. Faticavano come Titani. Era da almeno
un’ora che eravamo intenti a quel lavoro e il nero universo non aveva mai dato
un suono.
«Adesso,
marinai, andiamo a poppa a bracciare il pennone di maestra. È tutto quello che
possiamo fare per la nave, per il resto dovrà affidarsi alla sua sorte».
VI
Mi
venne in mente che ci voleva un uomo al timone.
Era impossibile dire da che parte sarebbe
venuto il colpo. Guardare intorno alla nave era come guardare dentro a un
baratro nero e senza fondo. L’occhio si perdeva in inconcepibili abissi.
«Hai
aiutato alla vela di maestra!», esclamai a bassa voce.
«Sì,
signore», rispose la sua voce tranquilla.
«Marinaio!
Ma cosa ti ha preso? Non devi fare queste cose».
Dopo
una pausa assentì. «Immagino di no». Dopo un altro breve silenzio: «Adesso sto
bene», aggiunse in fretta, fra l’ansimare rivelatore.
Coi
suoi grigi occhi limpidi e seri, il suo temperamento sereno, era un uomo
assolutamente impagabile. L’anima salda quanto i suoi muscoli.
Per
un attimo pensai che avrei fatto meglio a chiedere a lui di tenere il timone.
Ma la terribile consapevolezza di quel nemico che si portava in petto mi fece
esitare.
Mi
venne in mente che avrebbe potuto morire all’improvviso, per l’agitazione, nel
momento cruciale.
Fece
due passi indietro e svanì dalla mia vista.
Provai
subito un senso di smarrimento, come se
mi avessero tolto un sostegno. Anch’io
mi mossi in avanti, fuori dal cerchio di luce, dentro la tenebra che si ergeva
davanti a me come un muro. Con un passo la penetrai. Doveva essere così la
tenebra prima della creazione. Si
richiuse dietro di me. Sapevo di essere invisibile all’uomo che era al
timone. E anch’io non vedevo niente. Lui
era solo, io ero solo, tutti gli uomini erano soli là dove si trovavano. E
anche ogni forma era sparita; alberi, vele, attrezzature, battagliole, tutto
cancellato nella terribile uniformità di quella notte assoluta.
Il bagliore di un lampo sarebbe stato un
sollievo, intendo fisicamente. Avrei pregato perché ci fosse, se non mi avesse
trattenuto la paura del tuono. Nella tensione di quel silenzio opprimente mi
sembrava che il primo fragore mi avrebbe ridotto in polvere.
E il tuono, con ogni probabilità, sarebbe
scoppiato presto. Rigido in tutto il corpo e quasi senza respirare, aspettavo
in un’attesa orribilmente spasmodica. Non accadeva niente. C’era da impazzire.
Ma un dolore sordo, crescente, nella parte inferiore del viso, mi fece capire
che, chissà da quanto tempo, stavo digrignando i denti come un forsennato.
È
straordinario che non mi fossi accorto del rumore che facevo; ma non me ne ero
accorto. Con uno sforzo che assorbì tutte le mie facoltà cercai di tener ferma
la mascella. Richiedeva molta attenzione e, mentre ero così impegnato, fui
disturbato dal suono curioso e irregolare di un debole picchiettare sul ponte.
Si udivano colpetti singoli, a coppie, in gruppo. Mentre mi chiedevo cosa fosse
quella misteriosa diavoleria, ricevetti un leggero colpo sotto l’occhio
sinistro e sentii un’enorme lacrima scorrermi giù per la guancia. Gocce di pioggia. Enormi. Foriere di
qualcosa.
Il momento fatale era venuto. Trattenni il
respiro. Il picchiettio era cessato tanto inaspettatamente quant’era
incominciato, e ci fu un momento rinnovato di intollerabile attesa; qualcosa di
simile al giro ulteriore della ruota della tortura. Non penso che avrei mai
gridato, ma ricordo di essere stato convinto che non ci fosse altro da fare se
non gridare.
All’improvviso, come faccio a esprimerlo?
All’improvviso la tenebra si tramutò in acqua. È l’unica immagine che renda
l’idea. Uno scroscio d’acqua, un acquazzone, arriva facendo rumore. Si sente
che si avvicina sul mare, anche nell’aria, direi. Ma questo era diverso. Senza
un sussurro preliminare, senza un fruscio, senza un tonfo, senza neanche il
minimo impatto, fui istantaneamente fradicio fin nelle ossa.
Ma accadde qualcos’altro. Si spensero tutte
e due le lampade della chiesuola.
L’ultimo barlume di luce nell’universo se
n’era andato.
«Non fa niente», dissi. «Non ti serve la
luce. Tutto quello che devi fare è di tenere il vento alle spalle, quando
viene. Hai capito?».
«Sì, sì, signore... Ma preferirei vederci»,
aggiunse.
Intanto la nave era rimasta immobile come
una roccia. Il rumore dell’acqua che si rovesciava a torrenti giù dalle vele e
dai pennoni, che si riversava dal casseretto sulla coperta, era cessato di
botto.
Mi mossi in avanti, febbrilmente. Non avevo
bisogno della vista per percorrere con totale sicurezza il casseretto del mio
primo comando nato sotto cattiva stella. Ogni centimetro quadrato dei suoi
ponti era impresso indelebilmente nella mia mente.
Quando
mi rialzai, spaventato a morte; non come
può essere spaventato un uomo il cui giudizio, la cui ragione cercano ancora di
resistere, ma spaventato completamente, sconfinatamente, e, per così dire, innocentemente,
come un bambino.
Anche
le mie orecchie avevano colto un debole agitarsi di vele bagnate, molto in alto sopra di noi, il tintinnio di
una scotta allentata.
Nella mortale immobilità dell’aria che mi
circondava, questi erano rumori sinistri, spettrali e nella mia
memoria si affollarono tutti gli esempi che avevo udito di alberi di gabbia
divelti quando sul ponte non c’era abbastanza vento per spegnere un fiammifero.
«Tieni fermo il timone. Andrà tutto bene»,
dissi per infondere fiducia.
Quel poveretto si era perso d’animo. Io non
stavo tanto meglio. Era giunto il momento culminante della
tensione e fui alleviato dall’improvvisa sensazione che sotto i miei piedi la
nave andasse avanti, quasi da sola. Udii
chiaramente il gemito del vento nel sartiame, i sordi schiocchi dell’alberatura
superiore messa sotto sforzo, molto prima che potessi sentire il minimo soffio
d’aria sulla mia faccia rivolta a poppa, ansiosa e priva della vista come
quella di un cieco.
La
nave aveva preso quasi subito un forte abbrivio sull’acqua calma. La sentivo
scivolare senza altro rumore che un misterioso fruscio lungo i fianchi. A parte
ciò non aveva alcun movimento, né beccheggio né rollio. Era una fissità
scoraggiante che durava ormai da diciotto giorni; mai, mai per tutto quel tempo,
avevamo avuto vento sufficiente a sollevare la più piccola increspatura sul
mare. La brezza si rinforzò
all’improvviso.
La brezza era caduta così all’improvviso
che l’abbrivio della nave fece sbattere pesantemente le vele bagnate contro gli
alberi. Il maleficio della mortale immobilità ci aveva di nuovo afferrati.
Sembrava non esserci scampo.
Mentre
mi precipitavo io stesso a poppa, fui investito da una violenta raffica di
vento avvicinarsi da lontano e che gonfiava le vele di maestra facendole
sbattere ripetutamente con un rumore soffocato cui si mescolava il sordo
lamento dell’alberatura.
Ma andando a prua l’incontrai con in mano
la lampada di ricambio per la chiesuola. Quell’uomo notava tutto, badava a
tutto, dove compariva spargeva conforto attorno a lui. Passandomi accanto notò
con tono rasserenante che stavano uscendo le stelle. Era vero. La brezza stava
spazzando il cielo fuligginoso, aprendosi un varco nell’indolente silenzio del
mare.
Si era infranta la barriera di terribile
immobilità che ci aveva circondato per così tanti giorni come se fossimo stati
maledetti. Lo sentivo. Mi lasciai cadere sul banco dell’osteriggio. Un tenue
orlo bianco di schiuma, sottile, sottilissimo, s’infrangeva lungo i fianchi
della nave. Il primo da secoli e secoli. Avrei gridato dalla gioia, se non
fosse stato per il senso di colpa che segretamente rimaneva avvinghiato a tutti
i miei pensieri.
Scoprii che ero ancora in grado persino di
aiutare.
La brezza continuava a rinforzare e
soffiava sul serio, proprio sul serio. All’alba, per mezzo di cauti spostamenti
del timone, riuscimmo a far sì che i pennoni di trinchetto si bracciassero in
croce da soli (il mare si manteneva calmo) e poi provvedemmo a tesare i cavi.
I
nostri vari compiti ci tennero occupati a prua per ore e ore: i due uomini
rimasti si muovevano molto lentamente e dovevano riposare spesso. Uno di loro
osservò che «ogni dannata cosa sulla nave sembrava cento volte più pesante del
suo vero peso».
Lavorava con noi, in silenzio anche lui,
con un lieve sorriso congelato sulle labbra.
«Io, e la nave, e tutti a bordo, siamo in
grande debito con te. », dissi con calore.
Fece come se non mi avesse udito, e governò
in silenzio finché fui pronto a dargli il cambio.
Due
frange di schiuma fluivano dai masconi; il
vento cantava in una nota forte che in altre circostanze per me sarebbe stata
l’espressione della gioia di vivere.
«Come farà a portar la nave in porto,
signore, senza uomini per manovrarla?».
Non seppi rispondere.
Eppure, circa quaranta ore dopo ci entrò.
Il maligno spettro era stato scacciato, il
malefico incantesimo rotto, la maledizione tolta di mezzo. Ora eravamo nelle
mani di una Provvidenza benevola e vigorosa che ci spingeva avanti velocemente.
Non
dimenticherò mai l’ultima notte, buia, ventosa e stellata. Io governavo, troppo
stanco per sentir ansia, troppo stanco per pensieri coerenti. Avevo momenti di
tetra esultanza e poi il mio cuore sprofondava nella disperazione al pensiero
di quel castello di prua all’altro capo del ponte scuro, pieno di uomini
brucianti di febbre – alcuni moribondi. Per colpa mia. Ma pazienza. Il rimorso
poteva aspettare. Io dovevo governare.
Nelle
ore piccole il vento si indebolì, poi cadde completamente. Verso le cinque
ritornò, abbastanza teso per permetterci di puntare sulla rada.
Il
sudore della fatica e di puro nervosismo sgorgava copioso mentre ci affannavamo
per mettere le ancore in posizione di lancio. Non osavo guardare egli mentre
lavoravamo fianco a fianco. Scambiavamo brevi parole. Lo sentivo ansimare vicino
a me ed evitavo di volgere gli occhi dalla sua parte per paura di vederlo
cadere e spirare nell’atto di spremere le sue forze – per cosa? In realtà, per
un consapevole ideale.
Il consumato marinaio che era in lui si era
destato. Non aveva bisogno di ordini. Sapeva cosa fare. Ogni sforzo, ogni
movimento era un atto di coerente eroismo. Non spettava a me sorvegliare un
uomo così ispirato.
Regnava
sulla nave una profonda quiete.
E sotto il valore e la prestanza dell’uomo
vidi l’umile realtà delle cose. Per lui la vita – questa precaria e dura vita –
era un dono prezioso che temeva di perdere.
Quell’episodio, anche se non lo sapevo, mi
aveva maturato e temprato il carattere.
Fu terribile. Passarono l’uno dopo l’altro
sotto i miei occhi – ognuno di loro un rimprovero vivente della specie più
amara, tanto che sentii risvegliarsi in me una specie di ribellione.
La nostra storia aveva già fatto il giro
della città e tutti a terra si mostrarono molto comprensivi.
Siccome
nella Casa del marinaio c’era l’equipaggio di una nave che aveva fatto
naufragio non ebbi difficoltà a trovare tutti gli uomini che volevo. Ma quando
chiesi se potevo vedere un momento il capitano
Ellis mi venne detto, con tono compassionevole di fronte alla mia
ignoranza, che il nostro sostituto di Nettuno
era andato in pensione ed era rimpatriato circa tre settimane dopo che avevo
lasciato il porto. Perciò la mia nomina, a parte le pratiche di ordinaria
amministrazione, doveva essere stata l’ultimo atto della sua carriera.
Sbarcando, fui stranamente colpito dal
passo scattante, gli occhi vivaci, la forte vitalità di chiunque incontrassi.
Ne rimasi molto impressionato. E fra quelli che incontrai c’era, naturalmente,
il capitano Giles. Sarebbe
stato davvero straordinario non incontrarlo. Quando era a terra, una prolungata
passeggiata nel quartiere degli affari della città lo teneva regolarmente
impegnato tutte le mattine.
Irradiava benevolenza.
«Cosa
mi tocca sentire?», indagò con un sorriso da "vecchio zio", dopo
avermi stretto la mano. «Ventun giorni da Bangkok?».
«Tutto
qui quello che ha sentito?», dissi. «Deve venire a pranzo con me. Voglio che
lei sappia esattamente in che guaio mi ha messo».
Esitò
quasi un minuto intero.
«Va
bene, verrò», decise infine con condiscendenza.
Entrammo
nell’albergo. Scoprii sorpreso di avere un grande appetito. Poi, sulla tovaglia
sparecchiata, gli snocciolai tutta la storia da quando avevo preso il comando,
in ogni suo aspetto professionale ed emotivo, mentre lui fumava tranquillo il
grosso sigaro che gli avevo offerto.
Quindi
giudiziosamente osservò:
«Deve
sentirsi ben stanco a quest’ora».
«No», dissi. «Non stanco. Le dirò io come
mi sento, capitano Giles. Mi sento vecchio. E devo esserlo.
Aveva
un’aria insopportabilmente esemplare. Dichiarò:
«Passerà.
Ma è vero, sembra davvero più vecchio».
«No!
No! La verità è che nella vita non si
deve dare troppo peso a nulla, né in bene né in male».
«Vivere a mezza velocità», mormorai. «Non
tutti possono farlo».
«Sarà
abbastanza contento adesso se potrà continuare a procedere persino con quel
passo», ribatté con la sua aria di consapevole virtù. «E c’è un’altra cosa: un uomo deve saper affrontare la sua cattiva
sorte, i suoi errori, la sua coscienza e tutto quel genere di cose. Contro
cos’altro si dovrebbe combattere altrimenti?».
Rimasi
zitto. Non so cosa mi lesse sul volto, perché improvvisamente mi chiese:
«Come, non sarà mica scoraggiato?».
«Dio solo lo sa, capitano Giles», fu la mia
risposta sincera.
«Non c’è niente di male», disse con calma.
«Imparerà presto a non scoraggiarsi. Un uomo deve imparare tutto, ed è quello
che tanti di questi giovanotti non vogliono capire».
«Io non sono più un giovanotto».
«No», concesse. «Parte presto?».
«Vado direttamente a bordo», dissi. «Tirerò
su una delle mie ancore e darò mezzo cavo all’altra non appena il mio nuovo
equipaggio verrà a bordo, e partirò domattina all’alba».
«Davvero?», disse il capitano Giles in
segno di approvazione. «Così si fa. Ci riuscirà».
«Che cosa si aspettava? Che mi sarei preso
una settimana di riposo a terra? Non c’è riposo per me finché la nave non sarà
al largo nell’Oceano Indiano, e anche allora ce ne sarà poco».
Tirò una boccata dal sigaro con aria
incupita, come trasfigurato.
«Sì, tirate le somme, è proprio così»,
disse in tono assorto.
«Nella vita c’è ben poco riposo per tutti.
Meglio non pensarci».
Ci alzammo, lasciammo l’albergo, e con una
calda stretta di mano ci separammo per strada, proprio quando, per la prima
volta da quando ci conoscevamo, cominciava a interessarmi.
«Come
ti senti adesso?», chiesi.
«Non
mi sento male adesso, signore», rispose rigido. «Ma ho paura di quel che può
capitare...». Il melanconico sorriso gli tornò sulle labbra per un istante. «Ho
... ho una fifa tremenda per il mio cuore, signore».
Lo ascoltai salire cautamente la scala,
gradino dopo gradino, con la paura mortale di destare improvvisamente l’ira
della nostra comune nemica che era suo duro destino portare consapevolmente nel
suo petto leale.