frammento
di lettura
la
lettera scarlatta
Nathaniel Hawthorne
11/03/2018
Introduzione
a “la lettera scarlatta”
La verità par essere, comunque, che quando l'autore sparpaglia
al vento i suoi fogli, non si rivolge ai
tanti che getteranno il volume da parte, ovvero non lo raccatteranno mai,
bensì ai pochi che potranno capirlo meglio dei suoi stessi compagni di scuola o
di vita. Alcuni scrittori, anzi, si
spingono assai più oltre, e s'abbandonano a certe confidenze di carattere così
intimo, che sarebbe lecito indirizzarle soltanto ed esclusivamente all'unico
cuore e intelletto capaci di perfetta simpatia; quasi che il libro stampato e
gettato in libertà nel vasto mondo, fosse destinato a scoprire il segmento
mancante nella natura dello scrittore e a completare il circolo della sua
esistenza ponendolo in comunione con esso. Non sembra decoroso peraltro dir
tutto, anche quando si parli in astratto.
Qualora il parlatore non si trovi effettivamente in rapporto con
l'uditorio, potrà esser compatibile
immaginare che un amico, un amico buono e sollecito, seppure non il più
stretto, stia ascoltando il nostro discorso; ed allora, un innato riserbo
fondendosi ad opera di questa benefica consapevolezza, ci sarà dato
chiacchierare dei casi della nostra cerchia ed anche di noi stessi, mantenendo
ugualmente il nostro più intimo Io dietro il suo velo. Fino a tal punto, ed
entro questi limiti, stimiamo che uno scrittore possa essere autobiografico
senza violare né i diritti del lettore né i suoi.
Ignoro se
cotesti miei avi si fossero mai risolti a pentirsi e a chieder perdono al cielo
delle proprie crudeltà; ovvero se
stiano adesso gemendo per le lor gravi conseguenze in un altro stato
dell'essere. Io comunque che scrivo, in qualità di loro discendente, raccolgo sul
mio capo l'obbrobrio e prego ch'ogni eventuale maledizione si fossero attirati
possa venir d’ora in poi stornata per sempre.
Nessuna mira da me accarezzata, l'avrebbero
riconosciuta lodevole; nessun successo, qualora la mia vita ne fosse mai stata
rallegrata oltre l'ambito familiare, l'avrebbero ritenuto altrimenti che
meschino, o addirittura infamante.
“Chi è costui? — si
mormorano l'una all'altra le ombre . — Uno
scrittore di storie! che razza di mestiere sarà questo?... che modo di glorificare Iddio o di rendersi utile al prossimo nella sua vita terrena e nella sua
generazione? Via, tanto sarebbe valso
che quel degenerato avesse fatto il violinista ambulante!”
La parte migliore del carattere del mio
simile, caso mai una parte migliore ci sia, è quella che di solito prevale
nella mia stima e compone l'emblema con cui riconosco l'individuo. Poiché
la maggior parte aveva dei lati buoni e il mio atteggiamento verso di loro, per esser paterno e protettore, favoriva lo sboccio di sentimenti
amichevoli, tosto mi ritrovai a voler bene a tutti quanti.
Vista dal
di fuori, la festevolezza dei vecchi ha molto in comune con l'allegria dei
fanciulli; l'intelletto, o quanto meno un senso profondo d'umorismo, ci hanno
poco a che fare, in ambo i casi è un bagliore che giuoca alla superficie e
impartisce un aspetto giulivo e solare al verde ramoscello e al bigio tronco in
disfacimento. Nell'un caso, tuttavia, è vero sole; nell'altro, somiglia più
alla fosforescenza del legno marcescente.
Sembrava che avessero gettato via l'aureo
grano della saggezza pratica nonostante le numerose occasioni di mieterlo, e
riposto le memorie con la massima cura. Parlavano con molto più interesse e
fervore della colazione del mattino o del desinare di ieri, di oggi o di domani,
che non del naufragio di quaranta o cinquant'anni avanti e di tutte le
meraviglie del mondo contemplate dai loro giovani occhi.
Il cuor suo non fu mai capace neppure della
crudeltà sufficiente a soffiar via il polline dall'ala d'una farfalla. Ho ancor da conoscere l'uomo alla cui innata
bontà farei più fiduciosamente appello.
Un tratto dell’eleganza innata, così raro
dopo l’infanzia e l’adolescenza, appariva nell’amore per la vista e la
fragranza dei fiori.
Egli pareva diviso da noi, sebbene lo vedessimo
a pochi passi di distanza; remoto, sebbene gli passassimo accanto alla
sedia; irraggiungibile, sebbene potessimo
allungar la mano a toccarlo. Può
darsi vivesse una vita più reale entro i suoi pensieri.
La
letteratura, le sue manifestazioni ed i suoi fini, erano allora di poco peso ai
miei occhi. Non mi curavo di libri in
quell'epoca, li sentivo estranei. La natura, quando non fosse la natura
umana; la natura che si manifesta sulla terra e nel cielo, mi restava in un
senso nascosta; e tutte le gioie dell'immaginazione che l’avevano
spiritualizzata, m'erano uscite dalla mente. Un dono, un potere, se non proprio
scomparso, era sospeso e inanimato in me. Tutto ciò avrebbe significato
qualcosa di triste, d'indicibilmente sconfortante, s'io non fossi stato conscio
che dipendeva da me richiamare quanto
c'era di prezioso nel passato. Vero è d'altronde, che cotesta vita non
avrei forse potuto viverla impunemente troppo a lungo; altrimenti c'era caso
che facesse di me un altr'uomo per sempre, senza cangiarmi in una forma che mi
valesse la pena d'assumere. Ma non la considerai mai se non come una vita
transitoria. Sempre un istinto profetico,
un tenue sussurro all'orecchio m'avvertirono che entro non molto, e quando un
ulteriore cambiamento fosse divenuto essenziale al mio bene, tale cambiamento
si sarebbe verificato.
Intanto ero là. Un uomo di pensiero, fantasia
e sensibilità. Coloro che mi hanno incontrato non mi
consideravano sotto altra luce, né probabilmente mi conoscevano in altra veste.
Nessuno di loro, immagino, aveva mai
letto una pagina di mia fattura, né avrebbe fatto un po' più caso di me se le
avesse lette dalla prima all'ultima. È una lezione salutare, seppur dura
sovente, per uno che ha sognato di conseguire la fama letteraria. Ignoro se
questa lezione m'occorresse in modo speciale, comunque, l’imparai a menadito :
e mi fa piacere riflettere che quella verità, un volta che m’ebbe toccato sul
vivo, non mi costò una trafitta né richiese di venir discacciata con un
sospiro.
Rare persone solevano parlarmi di libri come
di questioni in cui forse potevo esser versato. Questo era
tutto in fatto di scambi letterari; e lo trovavo più che sufficiente per le mie
necessità.
Ma il
passato non era morto. A lunghi intervalli rivivevano i pensieri ch'erano parsi
tanto vitali ed alacri, ma che pure avevo messo così placidamente a riposo. Una
delle circostanze più importanti in cui si ridestò in me l'abitudine dei tempi
andati, fu quella che m'autorizza ad offrire al pubblico, sotto l'egida della
proprietà letteraria, il bozzetto che sto scrivendo in questo momento.
Era triste
pensare quanti giorni e settimane e mesi e anni di fatica fossero stati
sprecati in coteste carte d’ufficio; ch'erano ora soltanto un impedimento e
giacevan nascoste in quel cantuccio dimenticato della terra dove nessun occhio
umano le avrebbe esaminate mai più. D'altronde, quante risme d'altri
manoscritti, non già colmi del tedio di pratiche d'ufficio, ma del pensiero di
fertili cervelli e delle ricche effusioni di fervidi cuori, eran cadute parimenti in oblio; e per giunta, senza
servire a nessuno scopo ai loro giorni e, considerazione più triste d'ogni
altra, senza procacciare a chi le aveva vergate alcuna agiata esistenza.
Ma
l’oggetto che attrasse maggiormente la mia attenzione fu un ritaglio di fine
panno color rosso, assai logoro e sbiadito. Recava tracce d'un ricamo d'oro che
peraltro appariva parecchio sfilacciato e consunto, talché il lustro n'era
scomparso totalmente o quasi. Era frutto, lo si vedeva facilmente, di
meravigliosa perizia; e quel punto (così mi venne assicurato da signore esperte
in tali misteri) testimonia di un'arte
oggi dimenticata, e impossibile da ripristinare neppure col procedimento di
staccarne i fili. Quel brandello di panno scarlatto, dacché il tempo e il
consumo e una tarma sacrilega l'avevan ridotto poco più d'un brandello, ad
esame accurato assunse la forma d'una lettera: la lettera A maiuscola.
Era stata
destinata, non c'è dubbio, a guarnizione
di un abito; ma in che maniera dovesse venir portata, o qual rango, onore e
dignità avesse simboleggiato nei giorni andati, era un enigma (tanto sono evanescenti le mode del mondo a tal
riguardo) che avevo scarsa speranza di risolvere. Eppure m'interessò
stranamente. I miei occhi si fissarono sulla vecchia lettera scarlatta e non ci
fu verso di volgerne lo sguardo. Essa celava
di sicuro un profondo significato, ben meritevole di venir scoperto, e che,
per così dire, emanava dal mistico emblema, comunicandosi sottilmente alla mia
sensibilità, ma schivando l'analisi della mente.
M’avvenne
di posarmela sul petto. Mi parve allora di provare
una sensazione non completamente fisica, e nondimeno come d'un bruciore; e
quasi la lettera non fosse stata di panno rosso, ma di ferro rovente. Rabbrividii, e la lasciai cadere
involontariamente a terra.
Assorto
nella contemplazione della lettera scarlatta, avevo trascurato d'esaminare sin
lì un rotoletto di carta sbiadita, intorno al quale essa era stata ravvolta.
Subito lo spiegai, ed ebbi la soddisfazione di scoprire, trascritto un
resoconto abbastanza completo di tutta la faccenda.
C’erano
molti fogli di carta da bollo, contenenti copiosi particolari sulla vita d’una
certa Hester. La ricordavano come una donna d’aspetto dignitoso e solenne, si
dedicava alle opere buone più svariate; e assumendosi del pari il compito di dar consigli su tutte le faccende,
specie di quelle di cuore.
Seguitando
a curiosare nel manoscritto, trovai testimonianza d’altre azioni e sofferenze
di quella donna singolare, la maggior parte delle quali il lettore avrà modo di
conoscere nella storia intitolata La lettera
scarlatta.
Ciò che
rivendico, si è l’autenticità del manoscritto. Esso pareva fornire le basi d’un
racconto.
Mi domando
se il racconto de La lettera scarlatta sarebbe
mai stato offerto all’attenzione del pubblico. La mia immaginazione era uno
specchio appannato.
I
personaggi ricusavano di lasciarsi scaldare e render malleabili da qualsiasi
fuoco mi riusciva d'accendere nella fucina dell'intelletto, come pure
d'accogliere l'ardore della passione e la tenerezza del sentimento, ma
serbavano tutta la rigidità d'una salma e mi sbarravan gli occhi in faccia con
un sogghigno fisso e sinistro di sfida sprezzante. “Che cos'hai tu a che vedere
con noi? - pareva dicesse il loro sguardo. - L'esiguo potere che forse
esercitasti un dì sulla tribù delle immagini, è svanito! l'hai barattato con
poche briciole dell'oro pubblico. Va' dunque, e guadagnati la tua paga!”. A
farla corta, le creature della mia stessa fantasia mi tacciavan
d'imbecillaggine, e non a torto.
Mi
possedeva cotesta disgraziata inerzia. Mi seguiva bensì nelle passeggiate sulla
spiaggia e nei vagabondaggi in campagna, le poche volte in cui mi risolvevo a malincuore a cercar l'incanto
benefico della Natura, che soleva darmi tanta freschezza e alacrità di pensiero
tosto che varcavo la soglia del Vecchio Presbiterio. Il medesimo torpore
circa la facoltà di compiere sforzi intellettuali, m'accompagnava a casa. Né mi
lasciava quando a tarda notte sedevo nel
salotto deserto, illuminato soltanto dal luccicar dei tizzoni e dalla luna,
sforzandomi di dipingere a me stesso scene immaginarie, capaci di fluir
l'indomani in descrizioni multicolori sulla pagina fatta più limpida.
Se
l'immaginazione ricusava d'agire in un'ora come quella, il caso doveva esser
disperato davvero. Il chiaro di luna in una stanza familiare, che cade così
bianco sul tappeto e ne mostra così chiaramente le figure, rendendo ogni
oggetto così nitido e insieme diverso da come appare al mattino o a mezzodì, è
il tramite più confacente a un romanziere per far conoscenza coi suoi ospiti immaginari.
La stanza
familiare: Le sedie, ciascuna con la propria individualità a sé stante; la
tavola al centro, che regge il cestino da lavoro, un paio di libri e una
lampada spenta; il canapè; gli scaffali; il quadro alla parete; tutti questi
particolari, visti così compiutamente, son spiritualizzati dall'insolita luce a
tal segno, che paion smarrire la sostanza reale e diventar delle cose
dell'intelletto. Nulla è troppo minuto o banale da non subire questo mutamento
e conseguirne una dignità. La scarpetta d'un bimbo; la bambola seduta nella
carrozzina di giunco, il cavallo a dondolo; in una parola, tutto ciò che
durante il giorno fu strumento di lavoro o di svago, è ora investito d'un
attributo di lontananza e stranezza, benché rimanga vividamente presente quasi
come alla luce del sole. Così dunque il pavimento della stanza consueta è
divenuto un territorio neutro tra il mondo reale e il regno del sogno, ove
possono incontrarsi il Fantastico e il Vero, e imbeversi ognuno della natura
dell'altro. Potrebbero entrare i fantasmi e non farci paura. Sarebbe troppo in
armonia con la scena, se ci avvenisse di mirarci intorno e scoprire una forma
diletta ma dipartita, ora quietamente seduta in un fascio di questo magico
chiaro di luna, con un sembiante che ci fa chiedere a noi stessi se ha fatto
ritorno di lontano, ovvero non s'è mai mossa dal nostro focolare.
Il fuoco un po' smorzato ha un influsso
essenziale nel promuover l'effetto che vorrei descrivere. Sparge la sua tinta discreta per la stanza, con barlumi rossastri sul
soffitto e sui muri e un luccichio riflesso dal lustro delle suppellettili.
Questa luce più calda si mischia alla fredda spiritualità dei raggi lunari e
par infondere un cuore e sensazioni di tenerezza umana alle forme evocate dalla
fantasia. Le muta da immagini di neve in creature. Se diamo un'occhiata
allo specchio, scorgiamo nel profondo del suo circolo magico il rosso più fioco
delle braci semispente, i bianchi raggi lunari sull'impiantito e una
ripetizione degli sprazzi di luce e dell'ombre del quadro, in uno stadio più
lontano dal reale e vicino al fantastico.
La colpa era mia. La pagina di vita che mi
stava spiegata davanti pareva scialba e comune solo perché non n'avevo saggiato
il senso più profondo. Ivi era un libro migliore di quanti potrò
scriverne mai; i cui fogli mi si presentavano l'uno dopo l'altro, tal quali li
aveva vergati la realtà dell'attimo fuggente, e ratti a dileguarsi appena
vergati solo perché al mio cervello mancava l'intuito e alla mia mano la
maestria di copiarli. Un giorno, forse,
ricorderò pochi sparsi frammenti e li porrò in iscritto e scoprirò i caratteri
tramutarsi in oro sulla pagina.
Esaminando me stesso e i miei colleghi dal
punto di vista degli effetti d'un pubblico impiego sul carattere, giunsi a
conclusioni non troppo favorevoli al tenor di vita suddetto. Un effetto che credo si possa osservare più
o meno in ogni individuo ch'abbia occupato quel posto, è poi il seguente:
Gli vien meno la sua propria energia. Costui, innanzitempo impiegato a lottare tra
le lotte del mondo, perde la capacità di sorreggersi da sé solo in misura
proporzionata alla debolezza o alla forza della sua indole. Se possiede una
porzione fuor del comune di volontà innata, o la snervante malìa del luogo non
opera troppo a lungo su di lui, le sue facoltà compromesse potranno venir
riscattate. Ma questo succede raramente. Di
solito egli mantiene il proprio terreno fino al momento preciso di rovinarsi, e
poi ne viene espulso e barcolla pel malagevole sentiero della vita
arrangiandosi come può. Conscio del
malanno, d’aver smarrito la sua tempra d’acciaio, si guarderà ognora intorno
ansiosamente in cerca d'un sostegno al di fuori di sé. La speranza ostinata e continua, un'allucinazione che in cospetto d'ogni scoraggiamento lo assilla
finché è in vita, è che alla fine e tra non molto verrà rimesso al suo posto ad
opera d'una fausta combinazione. Questa fiducia, più d'ogni altra cosa, spoglia
dell'essenziale e dell'utile qualunque attività costui possa sognar
d'intraprendere.
L'oro possiede un potere analogo alla mercede
del Diavolo. Chiunque lo tocca
dovrà star bene attento, che non abbia a trovare il baratto troppo duro e
svantaggioso nei propri riguardi, dacché ci andranno di mezzo, se non proprio
l'anima, molti dei suoi migliori attributi: la forza incrollabile, il coraggio
e la costanza, la schiettezza, la fiducia in se stesso, e tutto ciò che serve
meglio ad accentuare il carattere.
Bella
prospettiva cotesta! Di poter venir rovinato a tal segno, sia dalla permanenza
in carica che dal licenziamento.
Lugubre aspettativa, cotesta, per un uomo ai
cui occhi la più bella definizione della felicità significava vivere da capo a
fondo le facoltà della mente e del sentimento! Comunque, tutte le paure che mi
prendevo erano affatto ingiustificate. La Provvidenza aveva divisato nei miei
confronti cose migliori di quante avrei mai potuto immaginarne io stesso.
Pochi tratti sono più brutti, nella natura
umana, di questa tendenza alla crudeltà che mi fu dato di scoprire allora in
certi uomini, semplicemente perché usufruivano del potere di nuocere. Se la
ghigliottina, in quanto applicata fosse un oggetto concreto invece d'una
metafora tra le più calzanti, credo fermamente che i membri attivi della
fazione vincitrice erano abbastanza eccitati da troncare tutte le nostre teste,
ringraziando il Cielo per l'occasione!
Tutto
sommato, per spiacevole che fosse la mia posizione, nel miglior dei casi scoprivo molti motivi di congratularmi meco per
trovarmi dalla parte perdente e non da quella che trionfava.
Chi può veder nel futuro una spanna al di là
del proprio naso?
Sono
propenso a credere che il momento in cui gli cade la testa, sia di rado se non
mai il più bello nella vita d'un uomo. Nondimeno,
come avviene nella maggior parte delle nostre sventure, perfino un'emergenza
così grave porta seco il proprio rimedio e conforto, purché chi ci va di mezzo
riesca a ricavare il meglio in luogo del peggio dall'accidente toccatogli.
Tenuto conto della mia precedente avversione
per l'ufficio e dei vaghi propositi di dimettermi, la mia situazione somigliava
in certo modo a quella d'un tizio che contempla il suicidio, e quando meno se
l'aspetta gli capita la buona sorte di venir assassinato.
La pace sia sul mondo intero! la mia
benedizione vada agli amici! il mio perdono ai nemici! ché io
sono nel regno della quiete!
Quegli uomini, che sembravano occupare una
posizione così importante nel mondo; breve tempo è bastato a staccarmi da tutti
loro, non soltanto di fatto, ma nel ricordo! A stento richiamo alla
mente l'aspetto ed i nomi di quei pochi. Di qui a non molto, anche la mia
vecchia città natale mi sorgerà vagamente davanti attraverso il velo della
memoria, ammantata di nebbia; quasi non fosse una porzione di questa terra, ma
un villaggio ingrandito nel regno delle nuvole, popolato soltanto d'abitanti
immaginari che vivono nelle sue case di legno e ne percorrono le viuzze comuni
e la strada principale in tutta la sua insipida lunghezza. Da questo momento,
cessa d'essere una realtà della mia vita. Io sono cittadino di un'altra contrada.
Non mi rimpiangeranno troppo: difatti, quantunque una delle mète più
ambite dei miei sforzi letterari sia stata quella di raggiungere una certa
importanza ai loro occhi e di guadagnarmi un grato ricordo in questa dimora e
sepoltura di tanti miei avi, qui non ho mai avvertito la calda atmosfera che
occorre a un letterato per maturare la messe più ricca della sua mente. Farò
meglio tra facce diverse; e queste che mi son familiari, è inutile dirlo,
staranno benissimo anche senza di me.
Eppure chissà... oh, che idea entusiasmante e
superba, chissà se i bisnipoti della generazione presente non penseranno talora
con simpatia allo scribacchino d'un giorno, quando il futuro cultore delle
antichità locali indicherà tra i cimeli della storia cittadina il luogo ove sorgeva
La fontana pubblica!
I
La porta della prigione
La prigione è il nero fior della civiltà.
Presso un lato dell’uscio cresceva un rosaio
selvatico ricoperto in quel mese di giugno di vaghe gemme, le quali parevano
offrire la propria fragranza e fragile bellezza al prigioniero che vi entrava
ed al reo che ne usciva ad affrontare la propria condanna, come prova che il
cuore profondo della Natura era capace di compatirlo e d’usargli benevolenza.
A
scoprirlo così sul limitare del nostro racconto che sta per uscire
dall'infausto portone, non possiamo far altro che coglierne una rosa e presentarla al lettore. Servirà,
speriamo, a simboleggiare un dolce fiore
morale che forse si troverà lungo il suo corso, o a sollevare l'oscura conclusione d'una storia d'umana fragilità e
sofferenza.
II
La piazza del mercato
La bimba
nascose il visetto alla luce violenta del giorno, poiché la sua esistenza non
aveva conosciuto sin lì che il bigio crepuscolo d’una segreta.
Quando la
giovane madre si ritrovò in cospetto alla folla, il suo primo impulso parve
quello di stringersi al petto la sua bimba; non tanto spinta dall'amor materno,
quanto per coprire con tale espediente un certo segno cucito e applicato
sull'abito.
Sul petto
di lei, in bel tessuto scarlatto, bordato di complicati ricami e bizzarri
rabeschi dorati, apparve la lettera A. Tanto artisticamente era confezionata e
con tanta fertilità e dovizia di fantasia, che sembrava davvero un'ultima e
acconcia guarnizione dell'abito; il quale era d'uno splendore in accordo col
gusto dell'epoca.
La giovane
era caratterizzata da certa solenne
dignità piuttosto che dalla grazia delicata, evanescente e indescrivibile,
oggi riconosciuta come suo indizio.
Chi la
conosceva e s'aspettava di vederla confusa e offuscata da una nube funerea,
rimase attonito e persino sgomento a notare come la sua beltà rifulgeva,
cangiando in un alone la sciagura e l'ignominia di cui era ammantata.
L'abbigliamento che la giovane aveva
confezionato in prigione per la circostanza, assecondando la propria fantasia,
pareva esprimere con la sua pittoresca e stravagante singolarità
l'atteggiamento dello spirito, la disperata temerarietà dell'umore di lei. Ma il
particolare che attirò tutti gli occhi, trasfigurando, per così dire, colei che
lo recava sulla persona, talché uomini e donne a cui Hester era ben conosciuta,
ne rimasero colpiti come se la mirassero per la prima volta, fu la lettera scarlatta così bizzarramente
ricamata e splendente sul suo seno. Essa operava come una malia, alienandola dai rapporti consueti col
prossimo e confinandola in una sfera a sé stante.
Non c'è un punto solo di quella lettera
ricamata ch'ella non l'abbia sentito nel cuore.
Si avrebbe potuto scorgere in quella bella
donna così seducente nell'abbigliamento e nel sembiante, e con la piccina sul
seno,
un oggetto fatto per rammentar l'immagine della Divina Maternità, che tanti illustri pittori gareggiarono a raffigurare;
qualcosa che avrebbe, sì, rammentato, ma solo per contrasto, la sacra effigie della madre immacolata, il cui
figlio doveva redimere il mondo. Qui
invece era la macchia del peccato più cupo sull'attributo più sacro della vita
umana, e operava in tal modo, che il mondo diveniva più oscuro proprio per la
bellezza di quella donna, e più reietto proprio pel frutto del suo grembo.
La scena non era immune di quel senso di
sgomento, che sempre s'accompagna alla vista della colpa e dell'infamia d'un
nostro simile, prima che la società si sia fatta corrotta al punto di
sorriderne in luogo di tremarne.
Si poteva
sicuramente concluderne che l'applicazione d'una sentenza legale avrebbe avuto
un significato serio ed efficace. Di conseguenza, la folla era severa e
composta.
L’infelice colpevole resse con tutte le
proprie risorse di donna al grave fardello di mille occhi inesorabili, tutti
fissi sulla sua persona e concentrati sul suo petto. Ne venne quasi
sopraffatta. D'indole impulsiva e veemente, ella s'era munita per affrontare le
trafitte e le pugnalate venefiche del pubblico vituperio, che si fosse sfogato
in insulti d'ogni specie; ma c'era un tratto tanto più terribile nella
solennità dell'umor popolare, che anelò di scorger piuttosto tutti quei rigidi
volti contorti da una sprezzante allegria e d'esserne presa a bersaglio.
L’intelletto,
e soprattutto la memoria, erano straordinariamente alacri e seguitavano ad
evocare scene diverse; facce diverse da quelle che la guatavano tetre di sotto
alle falde dei cappelloni puntuti. Le
reminiscenze più comuni e irrilevanti, episodi d'infanzia e di scuola, giuochi,
liti di bimbi, bozzetti domestici dei suoi anni di fanciulla le sciamavano
intorno, confusi a ricordi degli
eventi più gravi d'epoca successiva; l'un
quadro vivido né più e né meno d'un altro; quasi tutti fossero parimenti
importanti o un giuoco dal primo all'ultimo. Era, chissà, un espediente
istintivo dello spirito, onde sollevarsi con l'esibizione di quelle forme, dal
peso crudele e spietato della realtà.
Hester,
Ritta su quel meschino rialto, rivide il villaggio natio e la dimora paterna.
Mirò il
volto del padre, ed anche quello della madre, con lo sguardo d'affetto vigile e
ansioso che sempre distingueva nel ricordo e che, persino dopo la morte di lei,
aveva posto sovente l'ostacolo d'una rimostranza gentile sul cammino della
figliuola. Vide il proprio viso splendente di virginea bellezza, che illuminava
tutto l'interno del torbido specchio in cui soleva mirarlo.
Eppure in
quello stesso sguardo offuscato c'era uno strano potere di penetrazione, quando
chi lo possedeva lo adoperava per leggere l'anima umana.
Alla fine,
in luogo di quelle scene mutevoli, tornò la piazza del mercato ed i suoi
abitanti che appuntavano gli sguardi severi su Hester.
Poteva esser vero? Ella strinse a sé la
piccina con tanto impeto, che questa emise un lamento; chinò gli occhi sulla
lettera scarlatta e la toccò persino con un dito, onde accertarsi che l'infante
e l'onta fossero reali. Sì! ecco le sue realtà... tutto il resto era svanito!
III
Il riconoscimento
Sui suoi
tratti appariva un'intelligenza notevole, come di chi avesse coltivato le
facoltà della mente a tal segno, da condurla a improntare di sé quelle fisiche
e a manifestarsi con indizi infallibili.
Quando
scoprì gli occhi di Hester fissi nei suoi, e vide ch'ella mostrava di
riconoscerlo, levò un dito con mossa lenta e pacata, tracciò un cenno per aria
e se lo premé sulle labbra.
Madama
Hester ha provocato un grosso scandalo, v'assicuro, nella congregazione del pio
sacerdote.
Sappiate,
signore, che quella donna era moglie d'un certo scienziato, inglese di nascita,
il quale però visse lungamente ad Amsterdam donde, un bel po' di tempo fa,
intendeva varcare l'oceano. Da un paio d'anni, o forse meno, la donna abita a
Boston, nessuna nuova è giunta del dotto gentiluomo; e la giovane moglie,
lasciata al suo mal consiglio...
E chi mai
sarà, favorite dirmi, il padre di quella creatura... avrà un tre o quattro
mesi, se non erro, che madama tiene in braccio?
In verità,
amico, qui interviene un enigma; e il Daniele che lo spiegherà non s'è ancor
fatto avanti. Madama Hester non vuole saperne di parlare, e invano i magistrati
han lavorato di cervello tutti insieme. Chissà che il colpevole non se ne stia
a osservare il triste spettacolo, ignorato dagli uomini e dimentico che Iddio
lo vede.
I nostri giudici hanno condannato madama a
stare per tre ore di fila sul palco della berlina, e d'oggi in poi, durante il
resto dei suoi giorni terreni, a portare sul petto un contrassegno d'infamia.
Durante tutto quel tempo, Hester era rimasta
ritta sul piedestallo, sempre con lo sguardo fisso sul forestiero; uno sguardo
così fisso, che nei momenti di più intenso raccoglimento, tutti gli altri
oggetti del mondo visibile sembravano svanire lasciando loro due soli. Un
dialogo di tal fatta, forse, sarebbe stato ancor più terribile dell'incontro
come ora avveniva, col sole cocente del mezzodì che le avvampava il volto
illuminandone la vergogna; col segno d'infamia scarlatto sul petto; col frutto
del peccato fra le braccia; con tutta una popolazione, quasi attratta da una
festa, la quale mirava quei lineamenti che si sarebbero dovuti guardare
soltanto alla quieta luce del focolare, nella grata ombra d'una casa, o sotto
un velo matronale, in chiesa. Per tremendo che fosse, ell'era conscia d'un riparo nella presenza di quei mille testimoni.
Meglio star lì, con tanta folla tra lei e lui, che accoglierlo a faccia a
faccia, loro due soli. Cercava scampo, per così dire, nella pubblica vista, e
paventava il momento in cui le sarebbe venuta a mancare la sua protezione.
Assorta in tali pensieri, non avvertì neppure una voce alle proprie spalle, fin
quando non ebbe ripetuto il suo nome più d'una volta, in tono alto e solenne,
che tutta la moltitudine poté ascoltare.
I
sacerdoti esortarono Hester a non celar il nome che la tentò al doloroso
misfatto.
La vergogna sta nel commettere, non nel proclamare
il peccato.
Il giovane
ministro del culto aveva uno sguardo apprensivo, trepido, quasi sgomento, come
d'un essere che si sentisse affatto confuso e smarrito sul cammino
dell'esistenza, e a proprio agio soltanto in un rifugio tutto suo. Talché, fin
dove glie lo permettevano i suoi obblighi, egli seguiva i sentieri solitari in
penombra, così conservandosi candido e semplice; uscendone, quando l'occasione
si desse, con una freschezza, una fragranza, una blanda purità di pensiero che,
a detta di molti, commoveva come la favella d'un angiolo.
Arthur, il
sacerdote, disse ad Hester:
Hester —
cominciò sporgendosi dalla loggia e rapprendendo lo sguardo negli occhi di lei
— tu hai udito le parole di quest'uomo virtuoso, e conosci la responsabilità che m'angustia. Se senti che giova alla
pace dell'anima tua e che il castigo terreno verrà reso in tal guisa più
efficace alla sua salvezza, t'ordino di
rivelare il nome del tuo compagno di peccato e di dolore! Non tacere per
malintesa pietà e sollecitudine: dacché credimi, Hester, quand'anche colui
dovesse scendere da un alto luogo e fermarsi al fianco sul tuo piedestallo
d'infamia, meglio sarebbe questo, che celare un cuore colpevole per tutta la
vita. Che cosa può fare per lui il tuo silenzio, se non tentarlo e, perché no,
costringerlo ad aggiungere alla colpa l'ipocrisia? Il Cielo t'ha impartito
un'ignominia manifesta affinché tu ne tragga un manifesto trionfo sul male ch'è
dentro e sulla sofferenza ch'è fuori di te. Bada a non allontanare da lui, che
forse non ha il coraggio d'afferrarlo da solo, il calice amaro ma salutare che
ti vien presentato alle labbra!
La voce
del giovane tremava, dolce, melodiosa, profonda e sovente spezzata. Il
sentimento che ne trapelava così chiaro, piuttosto che il senso immediato delle
parole, la faceva vibrare in ogni cuore, e poneva gli ascoltatori in unanime
accordo di simpatia. Perfino la povera pargoletta sul seno di Hester subì
quell'influsso: volse infatti lo sguardo vacuo fino a quel punto, e levò le
piccole braccia con un mormorio di contento e insieme di pena.
Hester
scosse la testa.
Mirabile forza e generosità d'un cuore di
donna! Non parlerà!
Resosi
conto della propria impotenza di fronte
all'indocile atteggiamento della povera peccatrice, il sacerdote anziano,
tenne alla moltitudine un discorso sul peccato in tutte le sue specie, ma con
continuo riferimento alla lettera infamante. E con tanta efficacia insisté su
quel simbolo per tutta l'ora in cui le sue frasi rimbombarono sul capo degli
astanti, ch'esso assunse un nuovo terrore nella lor fantasia, e parve prendere
la propria tinta scarlatta dalle fiamme del baratro infernale. Frattanto Hester
rimase sul piedestallo dell'onta con occhi vitrei e un'aria di stanca
indifferenza. Quella mattina aveva sopportato tutto ciò di cui è capace la
natura umana; e poiché la sua fibra non era di quelle che sfuggono a una
sofferenza troppo intensa col deliquio, il suo spirito poteva ripararsi
soltanto sotto uno strato petrigno d'insensibilità, mentre il fisico si serbava
intatto.
IV
L’incontro
Hester —
cominciò il medico — non ti chiedo perché né in qual modo tu sia caduta nel
baratro, o per dir meglio, salita sul piedestallo dell'infamia, dove t'ho
ritrovata. Al mio ingresso in questa colonia di cristiani il primo oggetto che
mi si sarebbe parato alla vista saresti stata tu, Hester, ritta di fronte al
popolo, statua dell'ignominia. Anzi, sin da quando scendemmo assieme gli
scalini della vecchia chiesa, congiunti in matrimonio, avrei potuto scorgere le
vampe di cotesta lettera scarlatta balenare in fondo al nostro sentiero!
— Tu sai —
disse Hester che, prostrata com'era, non riuscì a tollerare quest'ultima calma
pugnalata inferta al contrassegno del suo disonore; — tu sai che fui franca con
te. Non provavo amore e non lo simulai.
—
Vive l'uomo che ci ha oltraggiati entrambi,
Hester! Chi è?
—
Non domandarmelo! — rispose Hester, fissandolo in
volto risoluta. — Questo non lo saprai mai!
Un'unica
cosa, a te che fosti mia moglie, desidero imporre: Hai serbato il segreto.
Serba del pari il mio!
Nessuno mi
conosce in questa terra. Non fiatare con anima viva del nome di sposo che mi
desti un giorno!
—
Serberò il tuo segreto come il suo.
—
Giura!
—
Hester giurò.
—
E adesso, signora Prynne; ti lascio sola; sola con
la tua bimba e la lettera scarlatta!
V
Hester e il suo ago
Hester
aveva scontato la prigionia. Fu aperto l'uscio del carcere, ed ella uscì alla
luce del sole che, cadendo indistintamente su tutto, parve al suo cuore malato ed oppresso intesa all'unico
scopo di rivelare la lettera scarlatta sul suo seno. C'era forse uno
strazio più reale nei primi passi ch'ella mosse senza scorta dalla soglia della
prigione, di quello provocato dal corteo e dallo spettacolo già descritti, i
quali avevan fatto di lei l'infamia comune, che tutto il genere umano era stato
convocato a segnare a dito.
Quello era
stato, inoltre, un singolo evento a sé stante, destinato a prodursi un'unica
volta in vita sua, e che dunque aveva potuto affrontare chiamando a raccolta
tutta la forza vitale bastante a molti anni di quiete.
Ma
stavolta, con quel tragitto solitario iniziato sul limitare della prigione,
cominciava la pratica quotidiana; ed essa doveva assumerla e mandarla avanti
mediante le ordinarie risorse della propria natura, ovvero soccombere sotto il
suo peso. Più non poteva prendere in
prestito dal futuro il sollievo al dolore presente. L'indomani avrebbe portato seco la sua prova; lo stesso avrebbe fatto
il giorno dopo e il successivo; ciascuno la sua, che pure era identica alla
prova di oggi, già così indicibilmente penosa da tollerare. E quelli del lontano avvenire si sarebbero
trascinati innanzi, sempre recandole il medesimo fardello da toglier su e da
sorreggere, senza poterlo mai gettare a terra: ché i giorni ammassati negli
anni avrebbero edificato la loro tortura sul cumulo del suo obbrobrio. Lungo
tutto quel lasso di tempo, rinunciando
alla propria individualità, ella si sarebbe trasformata nel simbolo pubblico,
additato dal predicatore e dal moralista, al quale essi avrebbero ricorso per
dar vita e sostanza alle immagini di fragilità e di passione peccaminosa nella
donna. Così i giovani e i puri avrebbero imparato a guardarla, con la lettera
scarlatta fiammeggiante sul seno... lei, figlia di genitori onorati; lei,
madre d'una bimba che un giorno sarebbe divenuta una donna; lei, un tempo
innocente; come l'effigie, il corpo, la realtà del peccato. E sulla sua tomba, l'infamia che avrebbe
dovuto recare sin lì, sarebbe stata la sua sola memoria.
Potrà sembrar sorprendente che col mondo
davanti a sé; senza che nessuna clausola restrittiva della sua sentenza la
costringesse entro i confini della colonia puritana così remota ed oscura;
libera di tornare al paese natio o in un'altra qualsiasi nazione d'Europa, ed
ivi di nascondere la propria condizione e identità sotto nuove spoglie
né più e né meno che se fosse emersa in un'altra forma dell'esistenza; ed
essendole aperti anche gli accessi della buia, inscrutabile foresta, ove la sua
indole selvaggia avrebbe potuto assimilarsi a una gente la cui vita e le cui
usanze erano aliene dalla legge che l'aveva condannata; potrà sembrar
sorprendente che questa donna seguitasse
a considerare come il suo domicilio per l'appunto quell'unico sito nel quale
doveva esser per forza l'emblema della vergogna.
Ma c’è una fatalità, un sentimento così irresistibile
e ineluttabile da aver la forza d'una condanna, che quasi invariabilmente
obbliga gli esseri umani ad aggirarsi come fantasmi nei pressi del luogo ove un
evento grave e indelebile ha dato il colore alla loro esistenza; e ciò faranno tanto più irresistibilmente
quanto più fosca è la tinta che l'oscura. Il peccato, l'ignominia, erano le
radici ch'ella aveva affondato nel terreno. Pareva che una nuova nascita,
con più forti capacità d'assimilazione, avesse trasformato quella contrada
selvosa, ancora così ingrata ad ogni altro pellegrino e viandante, nell'asilo
squallido e selvaggio, ma perenne, di Hester.
La catena
che l'avvinceva a questo suolo era di ferro e l'esulcerava fin nei recessi
dell'anima, ma non le era consentito di spezzarla giammai.
Poteva darsi che un altro sentimento la
confinasse entro la cerchia e il sentiero che le eran stati fatali a tal segno.
Ivi dimorava, ivi moveva i passi colui, al quale ella si giudicava avvinta in
un'unione che, ripudiata sulla terra, avrebbe condotto entrambi davanti al
seggio dell'estremo giudizio e fatto di esso il loro altare nuziale, per un
futuro comune di punizione infinita.
Ivi, si
diceva, s'era svolta la scena della sua colpa, ed ivi doveva svolgersi la scena
del suo castigo terreno; e così, forse, la tortura dell'onta quotidiana avrebbe
finito per purgare l'anima sua creandovi una purezza diversa da quella che
aveva perduto; più sacra, perché frutto di martirio.
Hester,
dunque, non fuggì. Nei pressi della città, entro i confini della penisola, ma a
una certa distanza dall'altre abitazioni, sorgeva una casupola dal tetto di
paglia. In quella piccola, solitaria dimora, con gli scarsi mezzi in suo
possesso Hester si stabilì con la figlioletta.
Un'ombra arcana di sospetto calò immantinente
sul luogo. I fanciulli, in età troppo tenera per capire come mai quella donna
fosse stata isolata dall'ambito degli affetti umani, sgattaiolavano abbastanza
vicino da scorgerla assidua al cucito presso la finestra, o ritta sulla soglia
di casa, o intenta a coltivare il giardinetto, o in atto d'incamminarsi per la
viottola che menava in città; e a vederle sul seno la lettera scarlatta, se la
davano a gambe, colti da un panico strano, contagioso.
Per
derelitta che fosse la sua situazione, e senza
un amico al mondo che osasse avvicinarlesi, Hester non correva alcun rischio di povertà. Possedeva un'arte bastante, anche in un paese che offriva un campo
relativamente angusto al suo esercizio, a provvedere il cibo per la florida
pargoletta e per sé. Era l'arte, allora come oggi quasi l'unica a cui una donna
possa dedicarsi, del ricamo.
Ella
portava sul petto, nella lettera confezionata così elegantemente, un campione
della sua delicata e fantasiosa maestria, alla quale le dame d'una corte
sarebbero state ben liete di ricorrere onde aggiungere ai loro tessuti di seta
e oro l'ornamento più ricco e spirituale dell'ingegno umano. Vero è che laggiù,
con la funerea semplicità che soleva distinguere l'abbigliamento puritano,
poteva esser scarsa la richiesta delle sue confezioni più fini.
Man mano, e neppur troppo adagio, le sue
creazioni divennero, come diremmo oggigiorno, di moda. Vuoi per pietà d'una
donna dal destino così miserando; vuoi per la curiosità morbosa che attribuisce
un valore fittizio anche a cose comuni o meschine; vuoi per qualsivoglia
circostanza imponderabile che allora come oggi è sufficiente a conferire a una
data persona quanto altre perseguono invano; ovvero perché Hester colmava
effettivamente un vuoto che altrimenti sarebbe rimasto tale per forza; fatto
sta ch'ella non si trovò a corto di lavoro, e le ore dedicate al cucito furon
tutt'altro che mal rimunerate. Cittadini d’ogni condizione sociale sovente
indossavano i suoi ricami. Ma
non resta testimonianza d'un sol caso in cui si fosse ricorso alla sua maestria
per ricamare il bianco velo destinato a coprire i puri rossori d'una sposa.
Tale esclusione è indizio dell'implacato rigore con cui la società guardava
biecamente la sua colpa.
Hester s'accontentava del tenor di vita più
frugale ed ascetico, e d'un modesto benessere per sua figlia. Gli abiti di lei
erano fatti delle stoffe più rozze e nelle tinte più scure; con quell'unica
guarnizione, la lettera scarlatta, ch'era condannata a portare. Quelli della
bimba, d'altro canto, si distinguevano per una ingegnosità fantastica, o per
dir meglio bizzarra, la quale contribuì invero a intensificare l'etereo fascino
che cominciò a manifestarsi per tempo nella fanciullina, ma che sembrava aver
anche un significato più recondito.
Eccettuata
quella tenue spesa per l'ornamento della sua piccina, Hester impiegava tutto il
superfluo in opere di carità a
beneficio di disgraziati meno derelitti di lei, i quali non di rado insultavano
la mano che li nutriva. Gran parte del tempo, che avrebbe potuto facilmente
riservare ai frutti migliori dell'arte sua, la dedicava a far abiti grossolani pei poveri. È probabile che quel genere d'occupazione
fosse ispirato a un'idea di penitenza, e ch'ella sacrificasse realmente una
gioia consacrando tante ore a un lavoro manuale così rozzo. Era nella sua
indole qualcosa di ricco, voluttuoso; un gusto per la bellezza sfarzosa il quale, tranne
che nei prodotti squisiti dell'ago, non trovava nulla su cui esercitarsi negli
altri possibili impieghi della sua esistenza. Le donne ricavano un piacere incomprensibile all'altro sesso dalla
delicata fatica dell'ago. Per Hester essa avrebbe forse costituito un modo
d'esprimere, e quindi di placare, la passione della sua vita. Al pari di tutte
l'altre gioie, la discacciò come peccaminosa. Questo morboso immischiarsi della
coscienza in una questione di poco peso, non era indice, temiamo, di penitenza
genuina e risoluta, ma di qualcosa di dubbio, qualcosa che, sotto sotto, poteva
essere profondamente errato.
In tal maniera, Hester si trovò ad aver una
parte da adempiere nel mondo. A causa della sua innata energia e rara bravura,
esso non poteva ripudiarla completamente. In tutti i suoi rapporti con la società, tuttavia, nulla le dava
l'impressione di appartenervi. Ogni
gesto, ogni parola, e persino il silenzio di coloro con cui veniva in contatto,
implicavano e sovente dichiaravano ch'ella era al bando, e sola.
Si teneva in disparte dagli interessi morali,
eppure accosto ad essi, come uno spettro che torna al focolare domestico, e non
può farvisi oltre vedere o sentire, o unirsi alle gioie familiari col sorriso,
o ai comuni dolori col pianto; e quando gli fosse riuscito di
manifestare la simpatia proibita, avrebbe destato soltanto terrore e
raccapriccio. Quest'ultime emozioni, difatti, parevan l'unica porzione del
cuore universale che le fosse serbata. Non era quella un'epoca di delicatezza;
e la sua situazione, quantunque la capisse bene e corresse pochi rischi di
scordarla, veniva presentata sovente alla sua vivida consapevolezza come uno
strazio nuovo, col tocco più rude sul punto più vulnerabile. I poveri, già
dicemmo, ch'ella ricercava per farne oggetto della sua generosità,
vilipendevano spesso la mano protesa per sovvenirli. Le dame d'alto ceto, del
pari, la cui soglia varcava nell'ambito del suo mestiere, solevano instillarle
nel cuore delle gocce d'amarezza, talvolta mediante quell'alchimia di quieta
perfidia, con cui le donne sanno estrarre sottili veleni dalle bagattelle
ordinarie; e talvolta pure, con espressioni più volgari, che cadevano sul petto
inerme della meschina come un aspro colpo su una piaga. Hester s'era addestrata
lungamente e bene; non rispondeva mai a cotesti attacchi se non con una vampa
che le saliva irresistibilmente alle gote pallide per poi calare di nuovo nel
profondo del seno. Era paziente... una martire, anzi; ma s'asteneva dal pregare
pei nemici; per tema che a dispetto delle sue aspirazioni al perdono, le parole
della benedizione non avessero a ritorcersi caparbiamente in anatemi.
Di continuo, e in mille altri modi, avvertiva
le innumeri fitte dell'angoscia ch'era stata così astutamente escogitata per
lei dalla sentenza perennemente operante del tribunale.
Se entrava in una chiesa nella speranza di
goder del sorriso solenne del Padre Universale, le toccava spesso la mala sorte
d'accorgersi ch'era lei l'argomento della predica. Finì per aver terrore dei bimbi; difatti
essi avevano assorbito dai genitori la vaga idea d'un non so che di tremendo in
quella cupa donna che scivolava in silenzio per la città accompagnata ognora da
una fanciullina. E quindi, dopo averla lasciata passare, l'inseguivano a
distanza con grida acute e, una parola priva per loro d'un significato preciso,
ma non per questo meno terribile per lei, ancorché uscisse da labbra che la
pronunciavano ignare.
Sembrava
denotasse una diffusione così vasta della sua onta, che tutto il creato la
conosceva; non avrebbe potuto cagionarle una più profonda trafitta, se le
foglie degli alberi si fossero bisbigliate a vicenda la storia tenebrosa; se
l'avesse mormorata la brezza estiva; se l'avesse gridata a gran voce la bufera
invernale!
Hester
subiva perpetuamente cotesta spaventosa agonia nel sentirsi un occhio umano sul
marchio; quel punto non diveniva mai inerte; sembrava al contrario divenire via
via più sensibile alla quotidiana tortura.
Ma talora, una volta in tanti giorni od anche
in tanti mesi, sentiva un occhio, un occhio umano, sull'impronta infamante, che
pareva procurarle un sollievo fugace, quasi metà del suo strazio venisse
condiviso. Ma un attimo dopo, riaffluiva tutto precipitosamente in lei, dandole
uno spasimo ancora più acuto; dacché, in quel breve intervallo, ella aveva
peccato di nuovo. Hester aveva forse peccato da sola?
La sua immaginazione rimase in certo modo
scossa e, qualora la sua fibra morale e intellettuale fosse stata più debole,
lo sarebbe rimasta ancor più, dallo strano e isolato tormento della sua vita.
Sentiva o si figurava che
la lettera scarlatta l'avesse dotata d'un nuovo senso. Tremava a pensare, e
tuttavia non poteva a meno di farlo, ch'essa le desse una conoscenza affettiva
del peccato nascosto in altri cuori. Era terrorizzata dalle
rivelazioni che in tal modo sorgevano in lei. Che eran mai? Potevano non essere
le insidiose mormorazioni dell'angelo
delle tenebre, al quale non sarebbe parso vero di convincere quella
creatura in lotta, sua vittima sol per metà, che il sembiante della purezza era solo bugia e che, se la verità avesse a mostrarsi dovunque, una lettera scarlatta
avrebbe fiammeggiato su più d'un petto oltre a quello di Hester? Oppure
doveva accogliere coteste insinuazioni, così oscure e tuttavia così distinte,
come veraci?
Talvolta
la rossa infamia sul suo seno aveva un palpito di simpatia, quand'ella passava
accanto a un venerando sacerdote o magistrato, modello di giustizia e di pietà,
che quell'epoca d'antica riverenza riteneva un mortale in dimestichezza con gli
angioli. “Quale cosa malvagia è qui
intorno?”; diceva Hester tra sé.
“Mira, Hester, ecco una compagna!”; e alzando
il capo, sorprendeva gli occhi d'una fanciulla che guardavano timidamente e di
sfuggita la lettera scarlatta, e subito si distoglievano mentre un tenue, un
freddo rossore saliva alle gote di costei; quasi la sua purezza venisse in
certo modo macchiata da quello sguardo fugace. Demonio, che avesti per
talismano quel simbolo fatale, nessun oggetto di riverenza, sia tra la gioventù
che la vecchiaia, lasciasti dunque alla misera peccatrice?... Una simile perdita della fede è sempre una delle
conseguenze più tristi del peccato. Si
accetti come prova che tutto non era corrotto nella povera vittima della
propria fragilità e della dura legge dell'uomo, la lotta che Hester sosteneva
tuttora per credere che nessun altro mortale fosse colpevole al pari di lei.
Il volgo escogitò una storia sulla lettera
scarlatta, con cui ci sarebbe facile di comporre una paurosa leggenda. Asserì
cioè che il simbolo non era di semplice
panno scarlatto, bensì
arroventato con fuoco infernale, e si poteva vederlo tutto rutilante ogni volta
che Hester se ne usciva nottetempo. Dobbiamo dire d'altronde, ch'esso bruciava
il petto di Hester così profondamente, che forse in quella diceria c'era più
vero di quanto possa esser propensa ad ammettere l'incredulità di noialtri
moderni.
VI
Perla
Finora
abbiamo appena accennato alla bimba: alla creaturina la cui vita innocente era
sprigionata, per decreto inscrutabile della Provvidenza, qual fiore leggiadro e immortale, dallo
sfrenato rigoglio d'una passione colpevole. Come pareva strano alla misera
donna, mentre osservava lo sboccio e la bellezza ogni giorno più fulgida e
l'intelletto che spandeva i suoi tremuli raggi sui tratti minuscoli di quella
fanciullina! La sua Perla! Così infatti Hester l'aveva chiamata, non in quanto
il nome ne descrivesse l'aspetto, scevro della luce calma, bianca, smorzata,
che il paragone potrebbe suggerire. Ma chiamò Perla la bimba perché era di gran pregio, e la madre
aveva pagato con ogni suo avere quell'unico tesoro!
Di giorno
in giorno scrutava timorosamente la natura in isboccio della piccina, sempre
paventando di scoprirvi qualche oscuro segno, che corrispondesse alla colpa a
cui essa doveva la propria esistenza.
La bambina
possedeva una grazia innata, che non sempre coesiste con la
bellezza perfetta; il suo abbigliamento, per semplice che fosse, appariva
tuttavia all'osservatore come quello che più le si confaceva. Ma la piccola
Perla non indossava rustiche vesti. La madre, aveva comperato i tessuti più ricchi che si
potessero procacciare, e permesso alla propria fantasia di sbizzarrirsi a
piacere nella confezione e negli ornamenti degli abiti che la bimba portava al
cospetto della gente. Così magnifica era la figuretta di Perla in quelle
acconciature, e tanto lo splendore della sua bellezza rifulgente dalle vesti
sfarzose.
Il sembiante di Perla era impregnato d'un
fascino d'infinita varietà; in quell'unica bimba ce n'erano molte, che
comprendevano tutta la gamma dalla grazia di fiore selvatico propria a una
figlia dei campi, alla pompa in miniatura d'una principessina. Ma in tutte, dalla prima all'ultima,
esisteva comunque un'impetuosità, una certa cupezza di tinte, ch'ella non
smarriva giammai; e se durante una delle sue metamorfosi si fosse fatta più
pallida, avrebbe smesso d'essere lei... non sarebbe più stata Perla.
Questa
mutevolezza esterna denotava, ed esprimeva in misura appena adeguata, le
svariate proprietà della sua vita interiore. La natura di lei appariva profonda, oltre che molteplice; ma, a meno
che i propri timori non l'ingannassero, Hester la giudicava incapace d'ogni
rapporto e adattamento nei confronti del mondo in cui era nata. Non c'era verso
d'assoggettare la bimba alle norme comuni. La sua nascita aveva violato una
legge fondamentale.
La madre
trasmise al nascituro i raggi della vita dell'intelletto; e seppur candidi e
chiari in origine, questi avevano assunto le cupe chiazze di cremisi e d'oro,
il riflesso di fuoco e l'ombra nera. Soprattutto, lo spirito di ribellione che fu di Hester in
quell'epoca, s'era perpetuato in Perla. La madre poteva riconoscere il
proprio stato d'animo selvaggio, disperato, ribelle, la volubilità dell'umore e
persino certe nubi di mestizia e d'abbattimento che allora le gravarono sul
cuore. Ora le illuminava lo sfavillio mattutino di una tempra infantile, ma col
passare del giorno terreno, chissà che non se ne sarebbero sprigionati il turbine
e la tempesta.
La disciplina familiare, a
quei tempi, era d'una specie ben più rigida d'oggi.
Hester, madre solitaria di quell'unica
figlia, correva pochi rischi di sbagliare in tema di eccessiva severità. Memore
però dei propri errori e disgrazie, cercò d'imporre per tempo una sorveglianza
affettuosa ma stretta sulla tenera anima commessa alla sua custodia. Ma il
compito fu impari alle sue forze. Appurato come nessuno dei due trattamenti
influisse notevolmente sulla bimba, Hester si vide costretta a starsene in un
canto, e a lasciar che la governassero i suoi impulsi.
Sua madre, mentre Perla era ancora nella
prima infanzia, imparò a riconoscere un certo sguardo speciale, che l'avvertiva
quand'era fiato sprecato insistere, discutere o supplicare. Era uno
sguardo così intelligente, eppure inspiegabile, così perverso, talvolta così
maligno, ma accompagnato di solito da un impeto d'esuberanza selvaggia.
Quando quello sguardo le si
affacciava negli occhi fieri, scintillanti, nerissimi, le conferiva uno strano
attributo di distanza inviolabile; quasi ella si librasse per
l'aria e potesse svanire come un bagliore che non sai donde venga né dove vada.
A mirarlo, Hester doveva slanciarlesi contro, inseguire la piccola maliarda
nella fuga a cui invariabilmente si dava, attirarsela al seno in un abbraccio
tenace e coprirla di baci ardenti; non tanto per amore prorompente, quanto per
accertarsi che Perla era di carne e d'ossa e non mera illusione. Ma il riso di
Perla, una volta che l'avesse afferrata, pieno com'era di festevolezza e
d'armonia, rendeva la madre più dubbiosa che mai.
Angosciata
da quel sortilegio sconcertante e insidioso, che tanto spesso si frapponeva tra
lei e il suo unico tesoro, pagato a così caro prezzo e ch'era tutto il suo
mondo, Hester rompeva talvolta in un pianto disperato. Allora poteva darsi,
dacché non c'era modo di prevederne gli effetti, che Perla si aggrondasse e
stringesse i piccoli pugni e indurisse le fattezze minute in un'aria di
scontento severo, ostile. Di solito ricominciava a ridere, e più forte che mai,
come una cosa incapace di provare e d'intendere la sofferenza umana. Oppure, ma
questo succedeva più di rado, era colta da un impeto di dolore, e tra
singhiozzi e parole mozze gridava il suo affetto per la madre, e pareva voler dimostrare che anche lei aveva
un cuore che si poteva spezzare.
L’unico
vero conforto lo trovava allorché la bimba giaceva nella placidità del sonno. Allora era
sicura di lei, e assaporava delle ore di gioia quieta, deliziosa.
Come
presto, con che strana sveltezza, davvero, Perla raggiunse un'età fatta pei
rapporti col prossimo; Che gioia,
allora, se Hester avesse potuto
ascoltarne la chiara voce cinguettante mescolarsi allo schiamazzo d'altre voci
di bimbi, e distinguere e districare gli accenti della sua diletta dal
groviglio degli urli d'un gruppo di allegri monelli! Ma questo non poteva esser mai. Perla era nata reietta dal mondo
infantile. Rampollo di male, emblema e frutto di peccato, non aveva il diritto
di frequentare i bambini battezzati. Nulla
era più notevole dell'istinto, ché tale appariva, con cui la piccina
comprendeva la propria solitudine; il destino che le aveva tracciato
intorno un cerchio inviolabile; tutta la particolarità, infine, della sua
situazione rispetto a quella dei coetanei.
In tutti i
suoi tragitti per la città non mancava mai Perla; prima, pargoletta in braccio,
poi fanciullina, minuscola compagna della madre, di cui stringeva un dito nel
piccolo pugno, mentre saltellava tutta svelta per non restarle addietro. Vedeva
i bimbi della colonia sul margine erboso della strada o sulla soglia di casa.
Perla stava a guardarli, non perdeva nulla
della scena, ma non cercava mai di stringere amicizia. Interpellata, non rispondeva. Se i bambini
facevan capannello intorno a lei, diventava davvero terribile nella sua piccola
rabbia, brandiva dei sassi per colpirli, con certi strilli acuti,
incoerenti, che facevan tremare la madre perché somigliavano tanto agli anatemi
lanciati da una versiera in una lingua sconosciuta.
Fatto sta
che i piccoli disprezzavano Hester e
Perla in cuor loro.
Perla avvertiva quel sentimento, e lo
ripagava con l'odio più fiero che possa esacerbare un seno infantile.
Tutta
quell'animosità e iracondia aveva ereditato Perla, per diritto inalienabile,
dal cuore di Hester. Madre e figlia stavano assieme nel medesimo cerchio
d'isolamento e nella natura della bambina sembravano perpetuarsi gli elementi
inquieti che sconvolsero Hester prima della nascita di Perla, ma che in seguito
avevano preso a placarsi ad opera dei blandi influssi della maternità.
Perla non abbisognava di un'ampia e svariata
cerchia di conoscenze. La magia della vita emanava dal suo spirito
instancabile e si comunicava a mille cose, come una torcia accende una fiamma
dovunque la si accosti.
I fiori
divenivan spiritualmente adatti a qualunque dramma occupasse la scena del mondo
interiore di lei. La sua stessa vocina serviva a far discorrere una moltitudine
di personaggi immaginari.
Meravigliosa era la gran varietà d'immagini a
cui abbandonava la mente, prive di continuità, invero, ma pronte a balzar su ed
a danzare, ognora straordinariamente attive, per tosto accasciarsi, quasi
esauste da un flusso di vita così rapido e febbrile, subito seguite da altre
forme d'energia parimenti sfrenata. Sembrava davvero il giuoco fantasmagorico
delle aurore boreali. Nel semplice esercizio della fantasia, nondimeno, e
nell'inclinazione allo spasso di un'indole in via di sviluppo, c'era forse poco
più di quanto sia dato osservare in altri fanciulli d'intelligenza vivace; se
non che Perla, in mancanza di compagni di giuoco in carne ed ossa, si affidava
maggiormente allo stuolo d'immagini da lei plasmate.
Non creava
mai un amico, immaginava una messe di nemici armati, contro i quali si
precipitava in battaglia. Era indicibilmente triste, e dunque che pena profonda
per una mamma, che ne sentiva l'origine nel proprio cuore, osservare in un
essere così giovane quel riconoscimento costante d'un mondo avverso, e un
allenamento così implacabile delle forze che dovevano legittimare la sua causa
nella lotta destinata a seguire.
Spesso
mirando Perla, Hester lasciava cadere il lavoro nel grembo e gridava, con uno
strazio che non riusciva a celare, ma che si esprimeva da solo in una via di
mezzo tra il gemito e la parola: “O Padre nei Cieli, se sei ancora mio Padre...
cos'è quest'essere che ho messo al mondo?”. E Perla, nell'ascoltare
l'implorazione o avvertendo ad opera d'un tramite più sottile quelle fitte
d'angoscia, alzava sulla madre la bella faccina luminosa con un sorriso
d'intelligenza degno d'un folletto, e riprendeva i suoi giuochi.
Resta
ancora da riferire un'altra peculiarità
nel comportamento della piccina. Il
primo oggetto ch'ella notò in vita sua, si fu... che mai?... non già il sorriso
della mamma a cui rispose, come sogliono i pargoli, con quel debole embrione
d'un altro sorriso sulla boccuccia, rammentato in seguito con tanta incertezza
e con tante amorevoli discussioni per stabilire s'era stato realmente un
sorriso. No davvero! il primo oggetto che Perla sembrò ravvisare si fu...
dobbiam dirlo? la lettera scarlatta sul petto di Hester!
Un giorno,
mentre la madre si chinava sulla culla, gli occhi dell'infante vennero attratti
dal luccichio del ricamo d'oro intorno alla lettera; e levando la manina, essa
l'afferrò con un sorriso non vago, sibbene distinto da un deciso baleno che
diede alla sua faccia l'espressione d'una bimba assai più matura. Allora,
ansimando, Hester strinse il segno fatale, sforzandosi istintivamente di
strapparglielo; tanto infinita era la tortura inflitta dal tocco consapevole
della tenera mano di Perla.
Di nuovo,
quasi l'angoscioso gesto della mamma fosse inteso unicamente a divertirla, la
piccola Perla la fissò negli occhi e sorrise!
Un pomeriggio estivo, quando ormai era
abbastanza grandicella per correre, Perla si divertiva a cogliere manciate di
fiori di campo e a gettarli un dopo l'altro contro il petto materno;
saltellando come un piccolo elfo ogni volta che colpiva la lettera scarlatta. La prima
mossa di Hester fu quella di giungervi sopra le mani onde celarla. Ma sia per
orgoglio o rassegnazione, sia per un senso che la propria penitenza sarebbe
stata più completa mediante quel dolore indicibile, ebbe ragione dell'impulso e
si tenne eretta, pallida come la morte, fissando tristemente gli occhi della
piccola Perla. E la gragnuola dei fiori proseguì, quasi sempre azzeccando il
bersaglio, e coprendo il seno della madre di ferite a cui essa non poteva
trovare un balsamo in questo mondo, né sapeva cercarlo in un altro.
— Figlia,
che cosa sei? — gridò la madre.
— Oh, la
tua piccola Perla! — rispose la bimba.
— Sei tu
mia figlia in verità? — chiese Hester.
— Sì; sono
la tua piccola Perla! — ripeté la bambina, seguitando a folleggiare.
— Tu non
sei la mia figlia! Io non ho Perle! — affermò la madre, un po' per celia;
dacché le succedeva spesso d'esser còlta dalla voglia di scherzare nel mezzo
della sofferenza più intensa.
— Dimmi
dunque che cosa sei, e chi fu a mandarti quaggiù!
— Dimmelo,
mamma! — esclamò la bimba, accostandosi a Hester tutta seria, e stringendolesi
ai ginocchi. — Dimmelo tu!
— Il Padre
tuo Celeste ti ha mandata! — rispose Hester.
Ma lo
disse con un'esitazione che non sfuggì all'acume della fanciullina.
Non fu Lui
a mandarmi! — gridò risolutamente. — Io non ho un Padre Celeste!
— Zitta,
Perla, zitta! Non devi parlare così! — rispose la mamma soffocando un gemito. —
Fu Lui che ci mandò tutti sulla terra. Mandò persino me, la tua mamma. Tanto
più te, dunque! Altrimenti, mio strano folletto, donde saresti venuta?
— Dimmelo!
dimmelo! — ripeté Perla, non più seriamente, ma ridendo e caprioleggiando
sull'impiantito. — Sei tu che devi dirmelo!
VII
Il Palazzo del Governatore
Le era
giunta all'orecchio la voce d'un progetto da parte di alcuni tra i cittadini
principali, che nutrivano le massime più rigide in fatto di religione e di
governo, intesa a toglierle la figliuola.
Già
parlammo della bellezza doviziosa e lussureggiante di Perla; una bellezza che
splendeva di tinte vivide e intense: carnagione luminosa, occhi profondi e
ardenti, e capelli già d'un color castagno lucido e scuro, destinati a diventar
quasi neri con l'andare degli anni. Aveva il fuoco addosso, in ogni fibra;
pareva il germoglio imprevisto d'un momento di passione. Inventando il costume della
bambina, aveva lasciato che la propria preferenza per lo sfarzo si sbizzarrisse
liberamente, abbigliandola d'una tunica di velluto cremisi d'un taglio
speciale, copiosamente ricamata di fantasie e rabeschi dorati. Tal rigoglio di
colori, che avrebbe conferito un'aria pallida e smorta a gote meno vermiglie,
si adattava mirabilmente all'avvenenza di Perla, e faceva di lei la più fulgida
fiammella che avesse mai danzato sulla terra.
Ma la
precipua caratteristica di quel costume, ed anzi di tutto l'aspetto della
bambina, consisteva nel rammentare irresistibilmente all'osservatore il segno
che Hester era condannata a portare sul petto. Perla era la lettera scarlatta
in altra specie; la lettera scarlatta dotata di vita! La madre medesima, quasi
la rossa ignominia le stesse arroventata nel cervello a tanta profondità che
tutte le sue concezioni ne assumevano la forma, aveva operato la somiglianza
con il massimo scrupolo; prodigando molte ore di morboso talento a creare
un'analogia tra l'oggetto dei suoi affetti e l'emblema della sua colpa e
tortura. Ma, a dire il vero, Perla era l'una cosa al pari dell'altra; e solo in
conseguenza di cotesta identità, Hester era riuscita a riprodurre così
perfettamente la lettera scarlatta nell'aspetto di lei.
Quando le
due pellegrine giunsero entro la cerchia della città, alcuni giovani monelli
alzaron gli occhi dal loro giuoco e si dissero gravemente l’un l’altro :
Mira la donna dalla lettera scarlatta; e mira
ancora, ecco l'immagine della lettera scarlatta che le corre al fianco! Orsù
dunque, andiamo a coprirle di fango!
Ma Perla,
che era una fanciulletta intrepida, dopo aver fatto cipiglio, pestato i piedi e
agitato la manina in molteplici gesti di minaccia, mosse precipitosamente
all'attacco del gruppetto nemico e lo volse in fuga. Somigliava ad un implume
angelo del giudizio di tal specie, il cui compito fosse stato quello di punire
i peccati della generazione nascente.
Ottenuta
la vittoria, Perla tornò tranquillamente da sua madre e le alzò in volto gli
occhi sorridenti.
Mia piccola Perla, il tuo
sole devi trovarlo da te.
VIII
Il piccolo elfo e il
sacerdote
È stato
vagliato a fondo il problema se con il nostro prestigio e autorità, operiamo
realmente secondo coscienza affidando un'anima immortale, com'è quella di
cotesta bambina, alla guida di chi incespicò e cadde in mezzo alle insidie del
mondo. Parla tu, che di questa bimba sei madre! Non credi che gioverebbe alla
salute temporale ed eterna della tua piccina toglierla alla tua custodia,
vestirla con sobrietà, disciplinarla con rigore e istruirla nelle verità del
cielo e della terra? Che puoi far tu per lei, al riguardo?
— Posso
insegnare alla mia piccola Perla ciò che ho imparato da questo! — rispose
Hester, posando il dito sul segno vermiglio.
— Donna, è il tuo marchio d'infamia! —
ribatté l'austero magistrato. — Proprio per via della macchia di cui quella
lettera è l'indice, vorremmo affidare tua figlia ad altre mani!
E tuttavia
— asserì la madre tranquillamente, seppure impallidendo — questo marchio m'ha
insegnato... m'insegna di giorno in giorno, m'insegna in questo momento, certe
lezioni mediante le quali sarà dato a mia figlia di farsi migliore e più
saggia, anche se a me non possono giovare.
Isolata e
repudiata dal mondo, e con quell'unico tesoro per serbar vivo il suo cuore, si
sentiva in possesso di diritti inoppugnabili contro il mondo, e pronta a
difenderli fino alla morte.
— Dio mi diede la figlia! — gridò. — Me la
diede in compenso di tutte l'altre cose che voi mi toglieste. È la mia
gioia!... ma non meno la mia tortura! Perla mi tien viva quaggiù! E Perla mi
punisce, anche! Non lo vedete ch'è la lettera scarlatta, e tuttavia capace
d'essere amata, dimodoché la sua potenza di punire il mio peccato diventa un
milione di volte maggiore! Voi non la prenderete! Prima morrò!
Dio
l'affidò alla mia custodia — ripeté Hester, alzando la voce sin quasi a un
urlo. — Non la cederò a nessuno!
Parla tu
per me! — gridò. — Tu fosti il mio sacerdote e avesti cura dell'anima mia, e mi
conosci meglio di quanto possano farlo questi uomini. Non voglio perdere la
bambina! Parla per me! Tu sai, perché possiedi una comprensione che costoro non
hanno!, tu sai che cosa c'è nel mio cuore, e quali sono i diritti d'una mamma,
e come più forti quando quella mamma non ha che sua figlia e la lettera
scarlatta! Provvedi tu! Non voglio perdere la bambina! provvedi tu!
C'è del
vero in quanto essa dice — cominciò il sacerdote con una voce dolce, tremula,
ma potente, tanto che ne riecheggiò il vestibolo e la cava armatura vibrò
all'unisono; — c'è del vero in quanto Hester dice e nel sentimento che
l'ispira! Iddio le diede la bimba, e le diede pure una conoscenza istintiva
della natura e dei requisiti di lei, entrambi così peculiari che nessun altro
mortale può possederla. E poi, non esiste forse un carattere di spaventosa
santità nel rapporto tra questa madre e questa figlia?
Ella
riconosce, credete a me, il solenne miracolo operato da Dio nell'esistenza
della bambina. Possa anche sentire, e questa a parer mio è verità lampante,
come un dono così generoso fu inteso, sopra ogni altra cosa, a mantener viva
l'anima della madre e a preservare quest'ultima da più neri abissi di colpa ove
altrimenti Satana potrebbe aver cercato di precipitarla! Dunque è bene, per
questa povera peccatrice, che sia affidata alle sue cure una tenera essenza
immortale, un essere capace d'eterno gaudio e dolore, per venir addestrato da lei
alla rettitudine; per rammentarle, ogni istante, la sua caduta; ma tuttavia per
insegnarle, quasi mediante il sacro pegno del Creatore, che s'ella menerà al
Cielo la figlia, la figlia vi menerà lei alla sua volta! In questo la madre
peccatrice è assai più fortunata del padre peccatore. Pel bene di Hester,
dunque, e non meno pel bene della povera bimba, lasciamole nello stato in cui
la Provvidenza giudicò di disporle!
Il giovane sacerdote ha addotto argomenti
tali che lasceremo le cose così come stanno.
IX
Il medico
Egli
stesso d'altro canto affermava con caratteristica umiltà il proprio
convincimento per cui, qualora la Provvidenza avesse giudicato opportuno di
toglierlo da questa terra, sarebbe stato perché era indegno d'adempiervi anche
la missione più modesta.
I buoni han sempre un concetto troppo basso
di sé.
Sembrava giudicasse indispensabile di
conoscere l'uomo, prima di tentar di giovargli.
Ovunque
siano un cuore e un intelletto, le infermità dell'organismo assumono le proprie
tinte dalle caratteristiche di entrambi. In Arthur il pensiero e
l’immaginazione erano così attivi, e così intensa la sensibilità, che il male
corporeo aveva probabilmente in essi il suo fondamento. Di guisa che il medico
buono ed amico s’ingegnava d’addentrarsi nel cuor e nell’anima del paziente,
scavando tra i principi, frugando tra intimi ricordi e saggiando ogni cosa con
tocco guardingo come il cercatore d’un tesoro in una buia caverna.
Quando una moltitudine
incolta cerca di veder coi suoi occhi, è capacissima di prendere abbaglio.
Quando tuttavia si forma un giudizio basandolo, come suole, sull'intuito del
grande e caldo suo cuore, le conclusioni cui perviene sono spesso così profonde
e infallibili, da assumere il carattere di verità rivelate per via ultraterrena.
X
Il medico e il paziente
Arthur, il sacerdote, non fidandosi di
nessuno, in veste d’amico, non poteva riconoscere il nemico quand’esso
compariva veramente.
-
Tutte le
forze della natura reclamano con tanta veemenza la confessione del peccato per
far manifesto un delitto taciuto; alluse Prynne, il medico.
-
Nessuna
forza, quando non sia la Divina Misericordia, è capace di divulgare con parole,
o con simboli od emblemi, i segreti che possono giacere sepolti in un cuore
umano, replicò il sacerdote. Il cuore,
che se ne rende colpevole, deve serbarli per forza sino al giorno in cui tutte
le cose nascoste verranno rivelate. Né io ho letto o interpretato la Sacra
Scrittura, in modo da capire che il palesamento dei pensieri e delle azioni
umane, destinato ad adempiersi allora, sia inteso come una parte della
retribuzione. Questo sarebbe un modo meschino di considerar le cose. No:
coteste rivelazioni, se non erro assai, sono intese meramente a promuovere la
soddisfazione spirituale di tutti gli esseri pensanti, che staranno in attesa
di veder chiarito in quel giorno l'oscuro problema di questa vita. La
conoscenza del cuore umano sarà necessaria alla soluzione più completa di tale
problema. Ed io reputo inoltre che il cuore, il quale serbò quei segreti sciagurati
di cui parlavate testé, li cederà in quel giorno finale, non già con
riluttanza, ma con gioia indicibile.
-
Perché
allora non rivelarli quaggiù? Perché i peccatori non dovrebbero usar prima di
questo conforto indicibile?
-
Lo fanno
per la maggior parte — rispose il sacerdote, premendosi fortemente il petto,
quasi in preda a un insistente spasimo di dolore. — Molte, molte povere anime
mi si son confidate, non solo sul letto di morte, ma nel pieno rigoglio della
vita e della riputazione. E sempre, dopo uno sfogo siffatto, oh, qual conforto
mirai in quei fratelli colpevoli! proprio come in colui che respira alla fine
l'aria pura, dopo lunga oppressione del suo fiato corrotto. Come potrebbe
essere altrimenti? Perché un disgraziato, reo, che so, d'un delitto, dovrebbe
preferir di serbare la salma sepolta in cuor suo, invece di gettarnela fuori
immantinente, e lasciare che vi provveda l'universo?
-
Eppure certuni seppelliscono così i loro
segreti — osservò impassibile.
-
È vero;
esistono uomini simili — rispose il sacerdote. — Ma a prescindere da più ovvie
ragioni, può darsi sian costretti al silenzio dalla conformazione stessa
dell'indole. Oppure... che cosa ci vieta di pensarlo? colpevoli come possono
essere, e tuttavia conservando lo zelo per la gloria di Dio e il vantaggio
dell'uomo, rifuggono dal palesarsi così neri agli occhi del mondo; giacché, da
allora in poi, nessun bene potrà venir adempiuto da essi; nessun male passato,
redento da migliori servigi. E così, con tormento indicibile, si aggirano in
mezzo ai loro simili, e paion puri come neve intatta, mentre hanno i cuori
tutti imbrattati dell'iniquità di cui non riescono a sbarazzarsi.
-
— Quegli uomini s'ingannano — asserì il
medico con enfasi un po' maggiore del consueto e scotendo leggermente il dito.
Vorresti tu farmi credere, o saggio e pio amico, che una falsa mostra possa
esser migliore, possa giovare di più alla gloria o al vantaggio dell'uomo,
della verità stessa di Lui? Credi a me, quegli uomini s'ingannano!
-
— Può darsi — concluse il giovane sacerdote in
tono indifferente, quasi rinunciasse a una discussione che giudicava oziosa o
irragionevole. Possedeva, invero, una pronta facoltà di schivare qualunque
argomento perturbasse la sua fibra troppo sensibile.
Nessuna legge o riverenza dell'autorità,
nessun rispetto pei decreti o le opinioni umane, nessun senso del giusto o
dell'ingiusto alberga nell'indole di quella bambina. Non è possibile scoprire
in lei alcun principio, se non la libertà d'una legge violata.
Vieni via, mamma! vieni via, o ti piglierà
l’Uomo Nero! S'è già preso il sacerdote. Vieni via, mamma, o ti
piglierà! Ma non può acchiappare la piccola Perla!
E trascinò
seco la madre, saltando, ballando e sgambettando bizzarramente, come una creatura
che non avesse nulla in comune con una generazione passata e sepolta, né si
riconoscesse con essa affinità di sorta. Era come se fosse stata creata di
recente, con elementi nuovi, e occorresse lasciarla vivere la sua vita, ed
esser legge di se medesima, senza che le sue eccentricità le venissero imputate
a misfatto.
-
Ecco una donna, la quale, siano i suoi falli quel
che si vogliono, è del tutto immune di quel mistero di colpevolezza segreta che
voi stimate così doloroso da sopportare. Credete che Hester sia resa meno
infelice dalla lettera scarlatta che reca sul petto? Chiese il medico.
-
Lo credo fermamente. Nondimeno, non posso
risponder di lei. Replicò il sacerdote. Secondo me, sarà sempre meglio per chi soffre
poter mostrare liberamente la propria pena, com'è il caso di questa povera
Hester, piuttosto che celarla tutta nel cuore.
-
Poco fa mi chiedevate il mio parere sulla vostra
salute.
-
Sì; e sarei lieto di conoscerlo. Dite francamente,
vi prego, se mi aspetta la vita o la morte.
-
Guardandovi
di giorno in giorno, mio buon signore, e vagliando gli indizi del vostro
aspetto, come faccio da mesi, son propenso a giudicarvi un individuo seriamente
malato, e tuttavia, forse, non
al punto che un medico esperto ed attento debba disperar di guarirvi. Vi supplico,
signor mio, di perdonare l'indispensabile chiarezza del mio dire, qualora
appaia necessario il perdono. Permettete ch'io vi domandi in veste d'amico,
d'uno a cui la Provvidenza commise la vostra vita e il benessere fisico: mi son
state palesate e riferite appieno tutte le manifestazioni di questo male? Voi, signore, fra quanti
uomini ho mai conosciuto, siete quello il cui corpo è più strettamente
congiunto, confuso e immedesimato, per così dire, con lo spirito del quale è lo
strumento. Il vostro è un caso raro di simpatia tra anima e corpo.
-
In tal caso, non m'occorre chieder altro — rispose
il giovane sacerdote alzandosi in piedi con una certa fretta. — Voi non v'occupate, penso, di medicina
dell'anima.
-
Una malattia, una piaga, se ci è lecito chiamarla,
del vostro spirito, provoca immediatamente la sua adeguata manifestazione nel
vostro organismo. Volete, quindi, che il
medico guarisca il male corporeo? Come può esser ciò, a meno che prima non gli
riveliate la ferita o la pena dell'anima?
-
No!... non
a te!... non a un medico di questa terra! – gridò Arthur, il sacerdote. Se si tratta di male
dell'anima, allora m'affido a chi dell'anima è l'unico Medico! Lui, nella sua
benevolenza, può sanare; Lui può uccidere! Faccia di me ciò che nella Sua
giustizia e saggezza stimerà conveniente. Ma chi sei tu, che osi frapporti tra
il paziente e il suo Dio?
XI
I recessi d’un cuore
Uomini pii, le cui facoltà si erano
sviluppate mediante l'ardua fatica tra i libri e la paziente meditazione, e come
trasumanate mediante le comunicazioni spirituali col mondo migliore, ove la
purezza della lor vita aveva quasi introdotto quei santi personaggi, mentre
indossavano ancora la veste mortale.
Uomini pii, per altro verso forniti di tante
virtù, ai quali mancava l'estrema e più rara testimonianza del loro ufficio, la
Lingua di Fiamma. Vanamente si sarebbero provati, qualora si fossero mai
sognati di provarcisi, ad enunciare le più alte verità con lo strumento più
umile delle parole e delle immagini familiari. Le loro voci calavano, lontane e
indistinte, dalle superne altezze ov'essi solevano dimorare.
Arthur, il sacerdote, avrebbe asceso le alte
vette della fede e della santità, se quella tendenza non fosse stata impedita
dal fardello, qual che si fosse, di misfatto o d'angoscia, sotto al quale era
condannato a vacillare. Esso lo
manteneva in basso, allo stesso livello degli infimi; lui, l'uomo dagli
attributi celestiali, alla cui voce gli angioli avrebbero altrimenti potuto
porgere orecchio e rispondere! Ma era quel fardello medesimo a porlo in una
comunione così intima con i peccaminosi fratelli umani, che il suo cuore
vibrava all'unisono con i loro, e ne accoglieva la pena in se stesso, ed
infondeva il proprio palpito di pena entro migliaia d'altri cuori, in
empiti di mesta, suadente eloquenza. Suadente per lo più, ma talvolta
terribile! La gente ignorava il potere
che la commoveva a tal segno. Riteneva il giovane sacerdote un miracolo di
santità. Se lo figurava come il portavoce del Cielo, dei suoi messaggi di
saggezza e di rampogna e d'amore. Ai suoi occhi, il suolo medesimo ch'egli
calcava era santificato. Le vergini della sua chiesa impallidivano intorno a
lui, vittime d'una passione così intrisa di sentimento religioso, che
s'immaginavano fosse tutto religione, e lo recavano apertamente nel candido
seno, qual sacrificio più grato davanti all'altare.
Èra inconcepibile la tortura che gli
infliggeva la pubblica venerazione. Il suo impulso genuino era quello di
adorare il vero, e di stimare simili ad ombre, e affatto prive di peso o
valore, tutte le cose che del vero non contenessero l'essenza divina come vita
entro la loro vita. Che era egli dunque? una sostanza?... o la più
vaga di tutte l'ombre? Anelava a parlare
dal pulpito, a voce spiegata, per dire al popolo che cos'era realmente. — Io,
che voi mirate in queste nere vesti del sacerdozio; io, che salgo al sacro
pergamo e volgo al cielo la mia faccia pallida, arrogandomi il diritto di
comunicare in vostro prò con l'Altissima Onniscienza; io, nella cui vita
quotidiana scorgete la santità di Enoch; io, dai cui passi, secondo voi, emana
un bagliore sul mio sentiero terreno, sì da guidare ai regni beati i pellegrini
che mi seguiranno; io, che ho imposto la mano del battesimo sui vostri figli;
io, che ho sussurrato la prece d'addio sui vostri cari morenti ai quali l'Amen
giungeva fievolmente da un mondo che avevano già abbandonato; io, il vostro
sacerdote, oggetto di tanta reverenza e fiducia, sono nient'altro che impurità
e menzogna!
Arthur, il
sacerdote, era salito sul pulpito risoluto a non scenderne finché non avesse
pronunciato parole di tal fatta. Più d'una volta, s'era rischiarato la voce,
aveva aspirato il lungo, il profondo e tremulo respiro destinato a riemergere
carico del nero segreto dell'anima sua. Più d'una volta... più di cento volte,
anzi, aveva parlato davvero! Parlato? Ma come? Aveva annunciato agli
ascoltatori d'essere totalmente abbietto, il più abbietto degli esseri, il
peggiore dei peccatori, un abominio, una cosa d'iniquità inaudita; e che l'unica
meraviglia si era, ch'essi non vedessero il suo corpo infame davanti ai loro
occhi, sotto il divampar della collera divina! Potevan darsi discorsi più
chiari di quelli? Non balzavano su dai loro posti per subitaneo impulso, gli
astanti, e non lo strappavano dal pulpito ch'egli insozzava? Manco per sogno!
Stavano a sentir tutto, e poi lo riverivano più che mai. Erano lontani
dall'indovinare il tremendo significato latente in coteste parole d'autoaccusa.
“Che pio giovane! — si dicevano l'un
l'altro. — Un santo in terra! Ohimè, s'egli discerne tanta colpevolezza nella
sua anima candida, quale orrendo spettacolo potrebbe scorgere nella tua o nella
mia!”. Il sacerdote sapeva bene... ipocrita sottile, seppur roso dal rimorso
com'era!, sotto qual luce verrebbe considerata la sua vaga confessione. S'era sforzato di abbindolare se stesso,
mediante il riconoscimento d'una coscienza colpevole, ricavandoci però soltanto
un altro peccato, e una vergogna che si denunciava senza dargli almeno il
sollievo momentaneo d'ingannarlo. Aveva detto la schietta verità,
trasformandola in schiettissima bugia. E nondimeno, per la sua stessa
conformazione dell'indole, amava la verità e aborriva la menzogna come pochi
uomini fecero mai. Quindi, sopra ogni altra cosa, aborriva la propria
sciagurata persona!
Il turbamento interiore lo trascinò a certe
pratiche più in accordo con l'antica fede corrotta di Roma che non con la
migliore della Chiesa in cui nacque e fu educato. Sotto chiave, era conservata
una cruenta disciplina. Sovente quel sacerdote protestante e puritano l'aveva
brandita sulle proprie spalle; ridendo intanto, amaramente di sé, e vibrando
dei colpi tanto più spietati a motivo di quel riso amaro. Soleva inoltre, a
somiglianza di tant'altri pii puritani, digiunare: non già, tuttavia, come
costoro, onde purificare il corpo e renderlo strumento più acconcio
dell'illuminazione celeste, ma con rigore e finché gli si piegavano i ginocchi,
per atto di penitenza. Stava anche in veglia per notti di seguito, talvolta nel
buio totale; tal'altra, nel barlume d'una lampada; e tal'altra ancora, mirando
in uno specchio il proprio volto sotto la luce più violenta che poteva
ottenere. Simboleggiava in tal modo l'introspezione costante con cui torturava
se stesso, senza riuscir tuttavia a
purificarsi. Durante coteste veglie protratte, spesso gli vacillava il
cervello, e parevan fluttuargli davanti certe visioni: forse appena intraviste,
e in una debole luce lor propria, nella remota opacità della stanza, o più
vividamente, e accosto a lui, nello specchio. Quando era un'orda di forme
diaboliche, che sogghignavano e si beffavano del pallido sacerdote, e gli
facevan cenno di partirsi con loro; quando uno stuolo d'angeli splendenti, che
s'alzavano pesantemente a volo come onusti di pena, ma divenivano man mano più
eterei; quando giungevano gli amici morti della gioventù, e il padre dalla
barba bianca e dal santo cipiglio, e la madre, che distoglieva il volto
passandogli accanto. Spirito d'una mamma... tenuissima larva d'una mamma,
avrebbe pur potuto, ci sembra, gettare un'occhiata compassionevole sul figlio!
E finalmente, per la stanza resa così macabra da quei pensieri spettrali,
scivolava Hester, menandosi appresso la piccola Perla vestita di rosso, che
prima puntava il dito verso la lettera scarlatta sul seno di lei, poi verso il
petto del sacerdote medesimo. Nessuna di quelle visioni lo ingannava mai
interamente. In qualunque istante, con uno sforzo della volontà, egli poteva
distinguere delle sostanze attraverso la loro nebulosa insussistenza, e
convincersi che non eran solide per natura, come cotesta tavola di quercia
scolpita, o quel grosso tomo di teologia dalla rilegatura di cuoio e il
fermaglio d'ottone. Ma con tutto ciò, in un certo senso, erano quelle le cose
più vere e sostanziali con cui il povero sacerdote avesse allora a che fare.
La tristezza indicibile
d'una vita falsa come la sua, si è di spogliare del nerbo e della sostanza ogni
realtà che ci attornia, e che fu destinata dal Cielo a gioia e nutrimento dello
spirito. Per l'uomo insincero, è falso tutto l'universo; è impalpabile, si
riduce a niente nella sua stretta. E lui stesso, in quanto si mostra sotto una
luce falsa, diventa un'ombra, o cessa addirittura d'esistere. La sola realtà
che seguitasse a dare ad Arthur un'esistenza effettiva su questa terra, erano
l'intima angoscia dell'anima e la sua inoccultabile espressione nell'aspetto di
lui. Se avesse una sola volta trovato la forza di sorridere e d'assumere un
gaio sembiante, un uomo simile non sarebbe più esistito!
XII
La veglia del sacerdote
Arthur
pervenne al luogo ove, ormai tanto tempo innanzi, Hester aveva vissuto le sue
prime ore di pubblico vituperio.
La stessa
piattaforma o impalcatura, annerita e macchiata dalle tempeste o dal sole di
sette lunghi anni, oltreché consunta dai passi dei molti rei che vi erano
ascesi, si drizzava tuttora sotto il balcone della chiesa. Il sacerdote ne salì
gli scalini.
Era una
scura notte del principio di maggio. Una coltre uniforme di nubi ammantava
l'intera distesa del firmamento dallo zenit all'orizzonte. Se la stessa
moltitudine che aveva assistito in veste di testimone al castigo di Hester
fosse stata convocata stavolta, non avrebbe scorto sul palco la faccia, e forse
neppure il contorno d'una forma umana, nel cupo grigiore della mezzanotte. Nessun occhio poteva scorgerlo,
tranne quello ognora vigile che l'aveva veduto nel suo studiolo mentre brandiva
la disciplina cruenta. Perché dunque, recarsi colà? Era una semplice parodia
della penitenza? Una parodia, sia pure, nella quale però l'anima sua scherzava
con se stessa! una parodia della quale arrossivano e piangevano gli angioli,
mentre ne godevano i demoni con riso beffardo! Ivi l'aveva sospinto quel
Rimorso che lo perseguitava dovunque, la cui sorella e compagna inseparabile
era la Codardia, che lo tirava invariabilmente indietro col tremulo artiglio
proprio quando l'altro impulso lo aveva incalzato fin sull'orlo d'una
rivelazione. Povero sciagurato! Che diritto aveva una debolezza come la sua di
gravarsi d'un delitto? il delitto compete a chi ha nervi di ferro, che può
compiere la sua scelta, e cioè sopportarlo; ovvero, qualora opprima
soverchiamente, esercitare la propria forza feroce e selvaggia per un buon
fine, e sbarazzarsene subito! Quello spirito fiacco e tra tutti il più
sensibile, non poteva far nessuna delle due cose, eppure le alternava di
continuo, ed esse intrecciavano in un unico nodo indissolubile lo strazio della
colpa che sfidava il Cielo e dell'inane pentimento.
Ed ecco,
mentre stava sul palco in quella vana mostra di espiazione. Arthur fu
soverchiato da un grande orrore, quasi l'universo fissasse un marchio scarlatto
sul suo petto nudo, proprio al disopra del cuore. Quello era il punto, invero,
ove s'accaniva da lungo tempo il dente velenoso della sofferenza corporea.
Senza nessuno sforzo della volontà, incapace di ritenersi, egli gridò ad alta
voce; e l'urlo rintronò per la notte, e fu respinto dall'una all'altra casa e
riverberato dai colli nello sfondo; quasi un'accolta di diavoli, scoperto in
quel suono tanto affanno e terrore, ne avesse fatto un balocco, e se lo
rimandasse avanti e indietro.
È finita!
— mormorò il sacerdote ,
coprendosi il volto con le mani. — Tutta la città sarà desta e correrà in
istrada, e mi scoprirà quassù!
Ma così
non andò. Il grido era forse risonato al suo trepido orecchio con una forza
assai maggiore di quanta ne aveva posseduta realmente. La città non si destò; o
se lo fece, i torpidi dormienti scambiarono il lamento per qualcosa di pauroso
in un sogno.
Il
sacerdote divenne relativamente tranquillo. Di lì a poco, pertanto, i suoi
occhi incontrarono un lumicino vacillante che, dapprima lontanissimo, venne man
mano risalendo la strada. Ai suoi barlumi si ravvisava ora un palo, ora la
siepe d'un giardino, ora il graticolato d'una finestra, ora una fonte col suo
truogolo colmo, e poi ancora un portone ogivale di quercia col battente di
ferro e un rozzo ceppo a mo' di limitare. Arthur notò tutti quei particolari
minuti, pur nel fermo convincimento che il fato della propria esistenza
procedesse furtivo nei passi che oramai udiva distinti; e che in capo a pochi
momenti, il raggio della lanterna sarebbe caduto su lui, svelando il suo segreto lungamente riposto.
I fantasmi del suo pensiero :
Tutto il popolo, infine, accorre levando le facce stupefatte
e inorridite sul palco. E chi vi scorge, con la rossa luce d'oriente sulla
fronte? chi, se non il reverendo Arthur ritto colà dov’era stata ritta Hester?
Travolto dall'orrore grottesco del quadro, il
sacerdote all'improvviso e con infinito sgomento ruppe in un gran scoppio di
risa. Gli rispose immediatamente un riso leggero, aereo, infantile, nel quale,
con un sussulto del cuore, ma non sapeva se di pena pungente o di piacere non
meno acuto, riconobbe l'accento della piccola Perla!
— Perla!
piccola Perla! — gridò dopo un istante; indi, con voce sommessa: — Hester!
Hester! Siete voi?
— Sì: è
Hester! — ella rispose in tono sorpreso; e il sacerdote ne udì i passi
avvicinarsi lungo il marciapiede che aveva percorso. — Sono io, con la mia
piccola Perla.
— Donde
venite, Hester? qual motivo vi ha portata fin qui? — chiese il sacerdote.
Vieni
quassù, Hester, con la piccola Perla! — disse il reverendo Arthur.
Ci foste
già entrambe, ma io non ero con voi. Venite quassù ancora una volta, e ci staremo
tutti e tre assieme!
Ella salì in silenzio sulla piattaforma,
tenendo per mano la piccola Perla. Il sacerdote cercò l'altra mano della bimba,
e la prese. Ed ecco, qualcosa che sembrava l'empito tumultuoso d'una nuova
vita, una vita diversa dalla sua, gli dilagò come un torrente nel cuore e gli
corse per tutte le vene, quasi la madre e la figlia infondessero il loro calor
vitale nel suo organismo intorpidito. I tre formarono una catena elettrica.
—
Sacerdote! — sussurrò la piccola Perla.
— Che vuoi
dirmi, figliuola? — domandò Arthur.
— Starai quassù con la mamma e con me, domani
a mezzogiorno?
— No, oh no, mia piccola Perla — rispose il
sacerdote; dacché, con la nuova energia del momento, lo aveva ripreso tutta la
paura della pubblica esibizione, ch'era la diuturna angoscia della sua vita; e
già tremava della compagnia in cui, seppur con una gioia strana, ora si
ritrovava. — No, bambina mia. Starò certo con tua madre e con te un altro
giorno, ma non domani.
Perla rise
e tentò di svincolare la mano. Ma il sacerdote gliela tenne stretta.
— Non domani, ma un'altra, volta, Perla.
— E quale altra volta? — insisté la
fanciullina.
— Il
giorno del Giudizio Universale — bisbigliò il sacerdote; e, strano a dirsi, la
consapevolezza d'esser maestro del vero di professione, lo spinse a dare quella
risposta alla bimba. — Allora e laggiù, davanti a quel seggio, tua madre e tu
ed io dovremo comparire insieme. Ma la luce di questo mondo non vedrà il nostro
incontro!
Perla rise ancora.
Prima però
che Arthur avesse finito di parlare, una luce balenò d'ogni parte nel cielo
coperto. Era causata senza dubbio da una di quelle meteore, che un osservatore
notturno può scorgere così spesso bruciare in tanta profusione negli spazi
vuoti dell'atmosfera. Tanto possente n'era il bagliore, che illuminò il denso
strato delle nubi tra la terra e il cielo. La grande volta rifulse come il
riverbero d'una lampada immensa. E palesò la scena familiare della strada con
la nitidezza del mezzodì, ma anche con la paurosa solennità che una luce
inconsueta conferisce sempre agli oggetti familiari. Le case di legno, coi lor
piani sporgenti e i bizzarri abbaini puntuti; gli scalini e le soglie degli
usci, con l'erba primaticcia che vi spuntava intorno; gli orti neri di terra
smossa di fresco; la carreggiata scarsamente battuta e, persino nella piazza
del mercato, guarnita di verde sui due lati; eran tutti visibili, ma distinti
da una singolarità che sembrava impartire alle cose del mondo
un'interpretazione morale affatto inusitata. Ed ivi si teneva il sacerdote, con
la mano sul cuore; ed Hester con la lettera ricamata luccicante sul petto; e la
piccola Perla, un simbolo lei stessa, e il legame che univa quei due. Si tenevano nel culmine di quello splendore
strano e solenne, quasi esso fosse la luce destinata a svelare ogni segreto, e
l'alba che unirà tutti coloro che si appartengono scambievolmente.
C'era una
malia negli occhi della piccola Perla e il suo visetto, quando lo alzò sul sacerdote, recava il sorriso
perverso che così spesso le dava quell'aria d'un elfo dispettoso. Svincolò la
mano da quella di Arthur e accennò al di là della strada. Ma egli si strinse le
mani sul petto e affisò lo sguardo verso lo zenit.
Era assai
comune, a quei tempi, interpretare tutte le comparse di meteore, o d'altri
fenomeni che si dessero meno regolarmente del sorgere e calar del sole e della
luna, come altrettante rivelazioni d'origine soprannaturale.
La
veridicità di un evento si basava sulla fede d'un solitario testimone oculare,
il quale mirava il prodigio attraverso la lente d'ingrandimento, multicolore e
deformante, della fantasia e lo foggiava più distintamente nel ricordo. Era
davvero un'idea grandiosa, che il destino venisse rivelato da quei tremendi geroglifici
sulla cappa del cielo. Si pensava che un papiro così ampio fosse abbastanza
esteso perché la Provvidenza ci scrivesse sopra la sorte d'un popolo.
Ma che dire, quando un individuo scopre una
rivelazione indirizzata esclusivamente a lui solo, su quella stessa sconfinata
pagina di registro? In tal caso, sarà sintomo di condizioni mentali assai in
disordine il fatto che un uomo, reso assorto in se stesso da una lunga, intensa
e segreta sofferenza, abbia dilatato il suo egotismo sull'intera distesa della
natura, finché il firmamento medesimo gli apparirà nient'altro che un foglio
adatto a vergarvi la storia e il fato dell'anima sua!
Noi imputiamo quindi unicamente all'infermità
dell'occhio e del cuore del sacerdote, la circostanza che, alzando lo sguardo
allo zenit, egli vi scoprisse la comparsa d'una lettera immensa, l'A maiuscola, tracciata in linee d'una luce rossastra.
Non già che la meteora non avesse potuto mostrarsi in quel punto, fiammeggiando
oscuramente attraverso un velo di nubi; non però nella forma attribuitale
dall'immaginazione colpevole di lui; o per lo meno, lo fece con sì scarsa
chiarezza, che la colpa d'un altro avrebbe potuto scorgervi anch'essa il
proprio simbolo.
L'indomani,
peraltro, ch'era domenica, tenne un discorso che fu ritenuto il più ispirato e
potente, e il più fecondo d'influssi celestiali, di quanti gli fossero mai
usciti dalle labbra. Più di un'anima, si dice, fu indirizzata sulla via del
vero dall'efficacia di quel sermone, e giurò di serbarsi devotamente grata al
signor Dimmesdale per tutto il tempo a venire. Mentre però egli scendeva dal
pulpito, il sagrestano dalla barba grigia gli si fece incontro tenendo un
guanto nero che il sacerdote riconobbe per suo.
— È stato
trovato stamane — disse il sagrestano — sul palco ove si espongono i rei alla
pubblica infamia. Ce lo lasciò cader Satana, mi figuro, nell'intento d'una
beffa scurrile contro la vostra reverenza. È stato davvero cieco e stolto, come
fu e sarà sempre. Le mani pure non han bisogno di guanti che le nascondono!
— Grazie,
amico mio — rispose il sacerdote gravemente, ma trasalendo in cuore; difatti il
suo ricordo era confuso a tal segno, ch'egli aveva quasi finito per considerar
visionari gli eventi della notte scorsa. — Sì, sembra proprio il mio guanto!
XIII
Un altro aspetto di Hester
Nell'ultimo incontro con Arthur, Hester era
rimasta colpita dalle condizioni in cui l'aveva trovato ridotto. I suoi nervi
parevano totalmente distrutti. La coscienza aveva avvilito la forza morale,
cangiata in una debolezza più che infantile.
Decise, inoltre, ch'egli aveva diritto a
tutto l'aiuto ch'era in grado di dargli.
Hester scoprì, o credé di scoprire, che nei
confronti del sacerdote le incombeva una responsabilità, alla quale non era
tenuta verso nessun'altra persona, o quanto meno verso il mondo intero. I
vincoli che l'avevano unita al resto del genere umano... vincoli di fiori o
d'oro, o di seta, o di qualunque materiale diverso, eran stati tutti recisi.
Qui invece era il vincolo ferreo del misfatto comune, che né lui né lei
potevano infrangere. A somiglianza d'ogni altro legame, questo portava seco i
suoi obblighi.
Ora Hester
non occupava precisamente lo stesso posto in cui la scorgemmo durante il primo
periodo della sua ignominia. Gli anni erano cominciati e finiti. Perla ne
contava ormai sette. Sua madre, con la
lettera scarlatta sfavillante sul petto nel ricamo fantastico, costituiva da
lungo tempo un oggetto familiare agli occhi di tutti. Come suol darsi quando
una persona si trova in un certo risalto al cospetto della comunità, e al tempo
stesso non interferisce negli interessi o nei vantaggi pubblici e privati, una
specie di stima generale aveva finito per sorgere nei confronti di Hester.
Torna a credito della
natura umana il fatto che, quando non sia in giuoco il suo egoismo, essa è più
proclive ad amare che a odiare. L'odio, mediante processo tacito e graduale, si
trasformerà addirittura in affetto, a meno che la metamorfosi non venga
impedita da un'irritazione continuamente rinnovata del sentimento originale
d'ostilità.
Nel caso
di Hester, mancava l'irritazione come pure l'insofferenza.
Ella non si ribellava al suo prossimo, ma ne
sopportava i peggiori maltrattamenti senza lamentele; non accampava nessuna
pretesa in compenso di quanto pativa; non l'opprimeva ricercandone la simpatia.
Inoltre, l'immacolata purezza della sua vita durante tutti quegli anni in cui
era stata al bando nella sua onta, veniva computata largamente in suo favore.
Senza più nulla da perdere, ormai agli occhi del genere umano, e senza più
speranze o manifeste ambizioni di sorta, doveva esser stato soltanto un genuino
rispetto della virtù a ricondurla sul suo sentiero, cotesta povera creatura
smarrita.
Fu poi
notato che Hester, mentre non rivendicava
mai neppure il diritto più umile di partecipare ai privilegi del mondo, oltre quello di respirar l'aria di tutti e
guadagnare il pane quotidiano per la piccola Perla e per sé con la costante
fatica delle sue mani, era pronta a riconoscere la propria appartenenza
all'umana famiglia ogniqualvolta si trattava di far del bene. Nessuno più zelante di lei nel soddisfare
tutte le richieste della miseria con i suoi scarsi mezzi; anche
quando il povero dal cuore pieno di fiele ricambiava con uno scherno il cibo
recato regolarmente alla sua porta, o gli abiti confezionati per lui da dita
capaci di ricamare il manto d'un sovrano.
In tutte
le calamità invero, sia generali che particolari, la reietta dal mondo trovava
subito il proprio posto. Non come ospite, ma come abitante legittima, entrava
nella casa ch'era stata oscurata dalla sventura; quasi il suo mesto crepuscolo
fosse l'elemento in cui ella aveva il diritto di comunicare coi propri simili.
Ivi la lettera ricamata mandava fiochi bagliori, e nel suo raggio arcano era un
conforto. Altrove l'impronta del peccato era la face votiva nella stanza del
dolore. Aveva perfino mandato i suoi sprazzi, nell'amara ora estrema del
paziente, oltre il limitare del tempo. Gli aveva mostrato dove mettere i passi,
mentre la luce terrena si affievoliva rapidamente, e prima che l'avesse
raggiunto la luce futura.
In tali emergenze, la natura di Hester si
palesava calda e generosa: una fonte di tenerezza umana, che appagava ogni vera
necessità senza esaurirsi giammai. Il suo petto era un origliere
reso tanto più soffice, pel capo che n'aveva bisogno, dal marchio della
vergogna. Si era ordinata da se medesima Suora di Carità; o per dir meglio,
l'aveva ordinata la mano pesante del mondo, quando né il mondo né lei si
aspettavano quel risultato.
La lettera era il simbolo,
della sua vocazione. Tanta volontà di soccorrere si scopriva in quella donna,
tanta efficienza e tanta simpatia, che molti ricusavano di dare
alla scarlatta A maiuscola il suo significato originale. Dicevano che voleva
dire Abile.
Quando tornava il sole, ella non c'era. La
sua ombra s'era dileguata oltre la soglia. L'ospite soccorritrice aveva
tolto commiato senza darsi neppure un'occhiata alle spalle per raccogliere il
pegno della riconoscenza, caso mai ve ne fosse nei cuori di coloro che aveva
servito con tanto zelo.
Quando li incontrava in
strada, non alzava mai la testa per riceverne il saluto. Se eran decisi a
rivolgerle la parola, posava il dito sulla lettera scarlatta e procedeva. Questo era forse orgoglio, ma tanto simile
all'umiltà, che esercitava sull'opinione pubblica tutto il leniente effetto di
quest'ultima virtù.
Il
volgo è di tempra dispotica, e
quindi capace di negare la giustizia comune, qualora venga richiesta con troppa
insistenza come un diritto; ma altrettanto spesso largisce qualcosa di più
della giustizia, se l'appello è rivolto, come ai despoti piace che sia,
unicamente alla sua generosità.
Interpretando
il contegno di Hester come un appello di tal specie, la società era propensa a
mostrare alla vittima d'un giorno un sembiante più benevolo di quant'essa
poteva desiderare, o forse meritarsi.
Avevan completamente perdonato ad Hester la
sua fragilità; anzi avevano cominciato addirittura a
considerare la lettera scarlatta non come il segno di quell'unica colpa, di cui
ella aveva pagato un fio così lungo e tremendo, bensì delle buone azioni
compiute in seguito. “Vedete quella donna con l'emblema ricamato? — chiedevano
ai forestieri. — È la nostra Hester... la
Hester di tutta la città, così buona coi poveri, così servizievole verso i
malati, così consolante per gli afflitti!”.
Poi, è vero, la tendenza della natura umana a
dir sempre il peggio di sé quand'esso s'impersona nel prossimo, li costringeva
a sussurrare il fosco scandalo del passato. Fatto sta, nondimeno, che agli
occhi di quei medesimi che parlavano in tal modo, la lettera scarlatta
produceva l'effetto della croce sul petto d'una monaca.
L’effetto del simbolo sull’animo della stessa
Hester, era strano e potente. Tutta la leggera e graziosa verzura della
sua fibra era avvizzita ad opera di quel marchio arroventato. Persino
l'avvenenza della persona aveva subìto un simile cambiamento. Lo si poteva
ascrivere in parte alla studiata austerità del vestire, e in parte al riserbo
dei modi di lei. Un'altra triste trasformazione consisteva poi in questo, che
la copiosa e lussureggiante capigliatura era stata recisa, ovvero completamente
celata in una cuffia, talché non un sol riccio lucente ne sfuggiva oltre alla
luce del sole. Sia a motivo di tutto ciò, sia ancora più d'un certo non so che,
sembrava che sul viso di Hester non ci fosse più nulla dove l'Amore potesse
indugiare; nulla nella persona di Hester, pur maestosa e statuaria, che la
Passione si sarebbe mai sognata di stringere nel suo abbraccio; nulla sul seno
di Hester, da farne ancora il ricettacolo dell'Affetto. Qualche attributo era
scomparso in lei, la cui permanenza sarebbe stata essenziale a mantenerla
donna.
Questo è sovente il fato, e questa l'aspra metamorfosi del
carattere e della persona, quando ha affrontato e vissuto compiutamente
un'esperienza di particolare severità. S'ella era tutta tenerezza, ne muore. Se
sopravvive, la tenerezza verrà distrutta completamente in lei ovvero, e lo
stesso accadrà del suo sembiante, schiacciata a tanta profondità nel cuore, da
non poterne riaffiorare mai più. Quest'ultima è probabilmente la giusta teoria.
Colei che un giorno fu donna e non lo è più, potrebbe tornare ad esserlo in
qualsiasi momento, purché intervenisse il magico tocco a compiere la
trasfigurazione.
L’impressione di freddezza marmorea prodotta
da Hester dovevasi attribuire soprattutto alla circostanza che la sua vita era
passata in gran misura dalla passione e dal sentimento al pensiero. Sola al
mondo... sola, per quanto concerneva ogni forma di dipendenza dalla società, e
con la piccola Perla da guidare e proteggere; sola, e senza speranza di
riacquistare il proprio posto, quand'anche non avesse sdegnato di stimarlo
desiderabile, ella gettò via i frammenti d'una catena spezzata. La legge del
mondo non era legge per la mente sua. Era cotesta un'epoca in cui l'intelletto
umano, emancipato di recente, aveva raggiunto un ambito più vasto ed attivo di
quello conosciuto per tanti mai secoli.
Nell'educazione
della sua bambina, l'entusiasmo di pensiero della madre ebbe qualcosa su cui
sfogarsi. Nella persona della fanciulletta, la Provvidenza aveva affidato alla
custodia di Hester il fiore della donna da proteggere e coltivare in mezzo a
uno stuolo di difficoltà. Tutto stava contro di lei. Il mondo le era ostile.
Nella natura della bambina si avvertiva qualcosa di sbagliato, che
continuamente testimoniava com'ella fosse nata a sproposito, un'emanazione
della colpevole passione materna, e che spesso spingeva Hester a chiedersi, col
cuore pieno d'amarezza, se la nascita della povera creaturina fosse stata un
bene od un male.
La stessa
desolata domanda, invero, le si affacciava spesso alla mente nei confronti di
tutto il suo sesso. Valeva la pena di accettar l'esistenza, anche da parte
delle più fortunate? Per ciò che si riferiva alla sua esistenza particolare,
ella aveva deciso già da un pezzo in senso negativo, e lasciato cader la
questione come risolta. Un'attitudine speculativa, sebbene possa mantener
quieta la donna al pari dell'uomo, la rende tuttavia melanconica. Ella discerne
forse davanti a sé un compito davvero disperato.
Hester, il
cui cuore aveva smarrito il proprio palpito sano e regolare, errava senza una
traccia nel buio labirinto della mente; ora scansando un dirupo insormontabile;
ora indietreggiando davanti a una fonda voragine. L'attorniava una scena
lugubre ove non c'era un asilo, un conforto. A volte, un dubbio pauroso cercava
d'impadronirsi dell'anima sua, se non avrebbe fatto meglio a mandar subito in
cielo la sua Perla e ad andare ella stessa in quell'aldilà che l'Eterna
Giustizia le riservava.
La lettera
scarlatta non aveva adempiuto il suo compito.
XIV
Hester e il medico
Hester
ingiunse alla piccola Perla di correre in riva all'acqua e di giuocare con le
conchiglie. La bimba s'involò come un uccello e denudatasi i bianchi piedini,
si die' a sgambettare lungo la sponda. Ogni tanto si fermava di botto e spiava
curiosamente in una pozza lasciata dalla bassa marea a mo' d'uno specchio
affinché Perla vi si mirasse. La spiava di rimando dalla pozza l'effigie d'una
fanciulletta dai riccioli scuri e lucenti e col sorriso d'un elfo negli occhi,
a cui Perla, non avendo altre compagne di giuoco, proponeva di prendersi per
mano e di fare le corse. Ma la fanciulletta immaginaria, dal suo canto, le
ricambiava il cenno, come a dire: “Qui si sta meglio! Vieni tu”. E Perla,
entrandovi a mezza gamba, scorgeva sul fondo i suoi piedi bianchi; mentre, da
una regione ancora più in basso balenava una sorta di sorriso spezzato,
fluttuante qua e là nell'acqua smossa.
Signora,
si sente dire un gran bene di voi da tutte le parti! Non più tardi di iersera,
un saggio e pio giudice discorreva dei fatti vostri, madama Hester, e mi
sussurrava che in consiglio c'era stata una discussione a vostro riguardo. Si
trattava cioè di decidere se fosse il caso, senza pregiudizio del bene comune,
di togliervi dal petto cotesta lettera scarlatta. Affé mia, Hester, io pure ho
rivolto una supplica all'illustre magistrato affinché ciò avvenga al più
presto!
Non dipende dal beneplacito dei magistrati di
rimuovere questo contrassegno — osservò Hester pacatamente. — S'io fossi degna d'esserne sbarazzata, lo si
vedrebbe scomparire di suo, oppure trasformarsi in qualcosa che esprimesse un
diverso significato.
E allora
continuate a portarlo, se più vi piace — ribatté egli. — La donna deve pur
assecondare la sua fantasia, per quanto riguarda gli ornamenti del seno. La
lettera è ricamata con sfarzo, e sul vostro fa una splendida figura!
L’antico
aspetto dell'intellettuale e dello scienziato calmo e quieto, il ricordo
migliore ch'ella avesse di lui, era interamente svanito, ed aveva ceduto il posto
ad uno sguardo ansioso, indagatore, quasi feroce, eppure accuratamente
sorvegliato. Pareva esser suo desiderio e proposito di mascherare
quell'espressione con un sorriso, ma il sorriso gli faceva cilecca, e gli
fluttuava così beffardo sulla faccia, che l'osservatore capiva molto meglio
quanto tristo egli fosse.
Dedicandosi
per sette anni alla continua indagine d'un cuore colmo di torture e ricavandone
il proprio godimento e dando esca a quelle torture di fuoco che analizzava e di
cui si pasceva la vista.
-
L’ultima volta che c'incontrammo, sette anni or
sono — disse Hester — vi compiaceste d'estorcermi la promessa di serbare il
segreto sui nostri rapporti d'un tempo. Dacché la vita e la riputazione di
quell'uomo erano nelle vostre mani, pareva non restarmi altra scelta che il
silenzio, secondo la vostra ingiunzione. Pur non fu senza gravi timori ch'io mi
vincolai in tal maniera; poiché, avendo rinnegato ogni dovere verso gli altri
esseri umani, mi restava un dovere verso di lui; e qualcosa mi sussurrava che vi
mancavo, impegnandomi ad osservare le vostre istruzioni. Da quel giorno,
nessuno è stato vicino a quell'uomo quanto voi. Lo fate morire ogni giorno di viva morte; eppure
egli non vi conosce. Acconsentendo a ciò, certo io mi sono comportata
slealmente con l'unico uomo verso il quale m'era ancor dato d'essere sincera!
-
Che male ho fatto a costui? Credi a me, Hester, il
più lauto compenso che un medico s'ebbe mai da un monarca, non avrebbe potuto
ripagare le cure ch'io ho prodigato a quel miserabile.
Perché,
Hester, al suo spirito mancava la forza che tu avesti, capace di reggere a un
fardello pari alla tua lettera scarlatta. Oh, il bel segreto che potrei
rivelare! Ma di ciò basti. Ogni risorsa della scienza, io l'ho esaurita per
lui. Se ora respira e striscia sulla terra, lo deve a me solo!
-
Meglio se fosse morto allora!
-
Meglio se fosse morto allora! Nessun mortale
soffrì mai ciò che ha sofferto quest'uomo. E tutto, tutto in cospetto del suo
peggior nemico! Egli mi ha conosciuto. Ha sentito un influsso sovrastargli
sempre come un anatema. Sapeva, mediante un qualche senso spirituale, ché il
Creatore non fece mai un essere altrettanto sensibile di lui... sapeva che non
era amica la mano che tirava le fibre del suo cuore, e che un occhio lo
scrutava curiosamente alla ricerca del male soltanto, e lo scopriva. Ma non
sapeva che l'occhio e la mano eran miei! Ma era l'ombra costante della mia
presenza!... la stretta vicinanza dell'uomo da lui più bassamente offeso!... e
che aveva finito per esistere unicamente ad opera di questo veleno perpetuo, la
più orrenda vendetta! Affé mia, non sbagliava! c'era sì un demonio al suo
fianco! un uomo mortale, che un giorno ebbe un cuore, è divenuto un demonio pel
suo speciale tormento!
-
Non l'hai torturato abbastanza? — disse Hester,
notando l'espressione del medico. — Non ti ha pagato di tutto?
-
No... no! non ha fatto che aumentare il suo
debito! — rispose il dottore, e man mano che proseguiva, la ferocia del suo
atteggiamento andava smorzandosi nella melanconia. — Rammenti, Hester, com'ero
nove anni fa? Già mi trovavo nell'autunno dei miei giorni, e non era nemmeno il
principio d'autunno. Ma tutta la mia vita, l'avevano composta anni assidui,
studiosi, meditabondi, tranquilli, dedicati fedelmente all'incremento della mia
scienza, e fedelmente anche, quantunque quest'ultimo fine non fosse che
incidentale a petto dell'altro, fedelmente al progresso del bene umano. Nessuna
vita era stata più pacifica e innocente della mia; poche vite altrettanto
prodighe di benefizi! Ricordi? Anche se potevi giudicarmi freddo, non ero forse
un uomo sollecito del prossimo e parco verso se stesso... affabile, sincero,
giusto e di costanti, seppur non caldi affetti? Non ero tutto questo?
-
Tutto questo, e più ancora.
-
E che cosa sono oggi? Quello che sono, te l'ho già
detto! Un demonio! Chi fu a rendermi tale?
-
Fui io! — gridò Hester rabbrividendo. — Fui io,
non meno di lui. Perché non ti sei vendicato su di me?
-
Ti ho lasciata alla lettera scarlatta. S'essa non
m'ha vendicato, non posso fare di più!
-
Debbo svelare il segreto. — asserì Hester
risolutamente. — Ed egli deve scorgerti nella tua vera natura. Qual potrà
essere il resultato, lo ignoro. Ma questo lungo debito della confidenza che gli
spetta da parte di chi fu la sua maledizione e rovina, sarà finalmente pagato.
Per quanto riguarda la distruzione del suo buon nome e del suo stato nel mondo,
forse della stessa sua vita, egli è nelle tue mani.
-
Né vedo d'altronde, io che dalla lettera scarlatta
fui ammaestrata alla verità, anche se è quella del ferro rovente che si
addentra nell'anima; né vedo, nel suo perdurare in una vita d'orrido vuoto,
vantaggi tali da abbassarmi a implorare la tua mercé. Fanne quello che vuoi!
Non c'è bene per lui... né per me... né per te! Non c'è bene per la piccola
Perla! Non c'è un sentiero che ci guidi all'uscita di questo labirinto pauroso!
Nel tormento
da lei manifestato scopriva un carattere quasi maestoso.
-
Io ti compiango pel bene che fu sprecato nella tua
natura!
-
Ed io compiango te per l'odio che ha trasformato
un uomo saggio e giusto in un demonio! Vuoi tu purgartene ora, e ritornare un
essere umano? Se non pel profitto di colui, doppiamente pel tuo! Perdona, e
lascia il suo castigo a venire alla Potenza che lo rivendica! Ho detto poc'anzi
che non potrà esserci più nessun bene
per lui, né per te, né per me, che stiamo errando tutti assieme in questo
tenebroso labirinto di male, e incespicando a ogni passo nella colpa di cui
cospargemmo il nostro sentiero. Potrebb'esserci un bene per te, e per te solo,
dato che fosti profondamente offeso, ed hai in tuo potere il perdono. Vuoi
rinunciare a quell'unico privilegio? Vuoi ripudiare quell'inestimabile
beneficio?
-
Non mi è lecito perdonare. Non posseggo il potere
che dici. La mia antica fede, dimenticata; mi ritorna e mi spiega tutto ciò che
si compie e si patisce. È il nostro fato. Lascia che il fiore nero vegeti come
può!
XV
Hester e Perla
Tolse
congedo da Hester e s’allontanò chinandosi ogni poco. E il sole che splendeva
così luminoso su qualsiasi altro oggetto, cadeva realmente sul suo capo?
-
Sia peccato oppur no, odio quell’uomo! – disse
Hester amaramente, seguendolo ancora con lo sguardo.
Si
rimproverò il sentimento, ma non poté sormontarlo o diminuirlo. Nel tentativo
di riuscirvi, ripensò ai giorni lontani in una terra remota, quand'egli soleva
emergere a sera dall'isolamento dello studio, e sedersi alla luce del fuoco
domestico e alla luce del suo sorriso di sposa.
Stupì
d'essersi mai lasciata indurre a sposarlo! Decise che il delitto di cui doveva
pentirsi più d'ogni altro, consisteva nell'aver resistito e risposto alla
tepida stretta di quella mano, e d'avere permesso che il suo sorriso delle
labbra e degli occhi si mescolasse e fondesse con quello di lui.
E l’offesa perpetrata allora, quella convinta,
in un'epoca in cui il suo cuore era ignaro di tutto, a credersi felice al
proprio fianco, appariva più infame di qualunque altra egli avesse subìto in
seguito.
-
Sì, l'odio! — ripeté Hester ancor più amaramente.
— Mi tradì.
M'ha fatto
più male di quanto io gli feci!
Tremino coloro che conquistano la mano d'una
donna, se non ne conquistano insieme l'intera passione del cuore!
Quando un
tocco più potente del loro avrà destato tutti gli affetti di lei, d'esser
rimproverati perfino pel quieto contento, l'immagine marmorea della felicità
che le avevano spacciata per la calda sostanza di essa. Ma Hester non aveva
forse avuto ragione da un pezzo di quell'ingiustizia? Che voleva dir ciò? Sette
lunghi anni di tortura ad opera della lettera scarlatta avevano dunque inflitto
tanta angoscia senza promuovere nessun pentimento?
Perla
realizzò delle barchette in legno di betulla e le stivò di conchiglie e
arrischiò sul possente oceano più ricchezze di tutti i mercanti della Nuova
Inghilterra; ma la maggior parte naufragò presso la riva.
Indi
raccolse la bianca spuma che screziava l'orlo dell'alta marea, la gettò al vento
e la rincorse con l'ali ai piedi per agguantare i grandi fiocchi di neve prima
che ricadessero.
La bimba
contemplò la lettera scarlatta con strano interesse: proprio come se l'unico
scopo per cui era stata mandata sulla terra fosse stato quello di scoprirne
l'ascoso significato.
-
Mia piccola Perla. Sai, figlia mia, che cos’è
questa lettera che tua madre è condannata a portare?
-
Sì, mamma — rispose la bimba. — È la lettera A
maiuscola. Me l'insegnasti tu sul sillabario.
-
Hester fissò intensamente il visino di lei; ma
benché vi scorgesse l'espressione bizzarra che aveva osservato così spesso nei
suoi occhi neri, non riuscì a stabilire se Perla attribuisse realmente un
significato a quel simbolo. Provò un desiderio morboso d'appurare la quistione.
-
Lo sai, figliuola, perché tua madre porta questa
lettera?
-
Lo so di sicuro! — rispose Perla scrutandola
vivacemente sul volto. — È per lo stesso motivo per cui il sacerdote tiene la mano sul
cuore!
-
Che motivo è mai questo? — chiese Hester,
accennando un sorriso a sentire la strana incoerenza dell'osservazione; ma
impallidì a ripensarci. — Che cos'ha a che vedere la lettera coi cuori altrui?
-
Be', mamma, ho detto tutto quello che so — asserì
Perla in tono più grave del solito.
-
Ma sul serio, cara mamma, che significa questa
lettera scarlatta?... e perché la porti sul petto?... e perché il sacerdote
tiene la mano sul cuore?
Tolse la
mano di sua madre tra le sue, mirandola con una intensità che di rado si
manifestava nella sua indole sfrenata e capricciosa. Hester fu colpita
dall'idea che la bimba stesse davvero sforzandosi di avvicinarlesi con fiducia
infantile e di creare con tutta l'energia e l'intelligenza di cui poteva
disporre un punto d'incontro e d'intesa tra di loro. Perla appariva sotto un nuovo
aspetto. Sino a quel giorno la madre, pur amando sua figlia con la forza d'un
unico affetto, si era ammaestrata a sperare in contraccambio poco più che il
capriccio d'una brezza d'aprile:
Ti gela
più spesso di quanto t'accarezzi. Qualora tu l'accolga sul seno, in compenso delle
quali mancanze, talora, colta da un vago impulso, ti bacerà la gota con una
sorta di dubbia tenerezza e giocherà gentilmente coi tuoi capelli, per poi
tornarsene a badare all'altre sue oziose faccende, lasciandoti in cuore un
piacere sognante. E questo, si badi, era il giudizio d'una madre sull'indole
della figlia. Qualunque altro osservatore avrebbe potuto scoprirci pochi ma
sgradevoli tratti, e darvi un colorito assai più scuro. Ora però s'impose nella
mente di Hester l'idea che Perla, con la sua precocità e perspicacia fuor del
comune, era quasi vicina all'età in cui si poteva farne un'amica, e confidarle
quel tanto delle pene materne ch'era lecito rivelare senza venir meno al decoro
sia suo che della figliuola.
Dal minuscolo caos della tempra di Perla, si
vedevano emergere, si sarebbe potuto vederli fin dal primo momento, i saldi
principi d'un coraggio indomito, d'una volontà incontrastabile, d'un ostinato
orgoglio, suscettibile di venir trasformato in dignità morale, e un fiero
disprezzo di molte cose che, all'esame, avrebbero mostrato di contenere il
malseme del falso. Possedeva poi degli affetti, seppure ancor aspri
ed ingrati, come sono i più forti sapori della frutta acerba. Con tutti quegli
attributi di buona lega, pensò Hester, il male ch'ella aveva ereditato dalla
madre doveva esser grande davvero, se dal piccolo elfo non sbocciava una donna
virtuosa.
La
tendenza inevitabile di girare intorno all'enigma della lettera scarlatta,
pareva una qualità innata di Perla. Dalla prima epoca della sua vita cosciente,
ella vi si era accinta come alla propria precisa missione. Hester s'era detta
sovente che la Provvidenza aveva operato secondo un disegno di giustizia e di
castigo dotando la bimba di quella spiccata propensione; senza però chiedersi
mai fino a quel punto, se a cotesto disegno non andasse anche unito un fine di
misericordia e di benevolenza.
Qualora la
piccola Perla venisse accolta con fede e fiducia, come un messaggero spirituale
non meno che come una fanciullina terrena, forse che non poteva avere il
compito di lenire la gelida sofferenza nel cuore materno e d'aiutar lei a
vincere la passione, un tempo così violenta e neppur ora estinta o sopita, ma
solo imprigionata nel cuor suo?
Che
significa la lettera, mamma?... e perché la porti?... e perché il sacerdote
tiene la mano sul cuore?
Che cosa
le dico? — si chiese Hester. — No! se questo è il prezzo della sua simpatia,
non posso pagarlo.
— Stupida
Perla — rispose — che domande son queste? Ci sono al mondo molte cose che i
bambini non debbono cercar di conoscere. Che ne so io, del cuor del sacerdote?
E quanto alla lettera scarlatta, la porto a motivo del suo ricamo d'oro.
Durante
tutti quei sette anni, Hester non era mai stata sleale verso il simbolo sul proprio
petto. Può darsi che esso fosse il talismano d'uno spirito rigido e severo, ma
tuttavia protettore, il quale ora l'abbandonò: dacché riconobbe come, a
dispetto della sua stretta sorveglianza sul cuore di lei, un nuovo male vi si
fosse insinuato, o un vecchio male non ne fosse mai stato espulso. Quanto alla
piccola Perla, la serietà svanì tosto dal suo volto.
XVI
Una passeggiata nel bosco
Hester restò ferma nel proposito di rivelare
ad Arthur, a costo di qualunque pena presente o conseguenza futura, il vero
carattere dell'uomo che si era insinuato nella sua intimità.
Mamma — disse la piccola
Perla — il sole non ti vuol bene. Scappa a nascondersi perché ha paura di
qualcosa sul tuo petto. Guarda! Eccolo là che giuoca, lontano lontano. Sta qui,
tu, e lascia ch'io corra e lo acchiappi. Io non sono che una bimba. Non fuggirà
da me, perché non porto ancora nulla sul petto!
Né lo porterai mai, spero, figlia mia.
E perché no, mamma? — chiese Perla fermandosi
di botto appena spiccata la corsa. — Non mi verrà di suo, quando sarò donna?
Perla
partì di carriera, e il sole lo acchiappò
davvero, si disse Hester con un sorriso, e vi rimase nel mezzo ridendo,
circonfusa del suo splendore e scintillante del brio suscitato dalla rapida
corsa. La luce indugiò intorno alla leggiadra bambina, come lieta d'una simile
compagna, finché la madre non si fu avvicinata quasi abbastanza da entrare
anch'essa nel circolo magico.
Guarda! —
rispose Hester sorridendo. — Posso allungare la mano e prenderne un poco.
Ma quando
ci si provò, il sole scomparve; oppure, a giudicar dall'aria luminosa che
danzava sulle fattezze di Perla, la madre ebbe l'impressione che la bimba lo
avesse assorbito entro di sé, pronta tuttavia ad emanarlo daccapo con uno
sprazzo sul proprio cammino quando si fossero immerse in un'ombra più cupa.
Nessun attributo della natura di Perla le
dava il senso d'un vigore tutto nuovo ed intrinseco, quanto quel perenne
fermento del suo spirito; la piccina era immune del male della tristezza che
quasi tutti i fanciulli d'oggigiorno ereditano.
Era certo
un fascino dubbio, che conferiva una lucentezza dura, metallica, al carattere
della bimba. Questa aveva bisogno, un bisogno che a molti s'accompagna per
tutta la vita, d'un dolore che la colpisse profondamente, sì da renderla umana
e capace di comprensione. Ma c'era ancor tempo per la piccola Perla.
Andiamo,
figlia mia! — disse Hester guardandosi intorno dal luogo ove Perla s'era
fermata nel sole. — Sediamoci un po' a riposare nel bosco.
Io non
sono stanca, mamma — rispose la fanciullina. — Ma siedi pur tu, se intanto mi
racconterai una storia.
Una
storia, figliuola?
Oh, una
storia sull'Uomo Nero — rispose Perla, afferrando sua madre per la gonna e
fissandola in volto, seria e birichina insieme. — Su come bazzica questa
foresta, e porta seco un libro... un librone pesante dai fermagli di ferro; e
il brutto Uomo Nero porge il libro e una penna a chiunque lo incontra qui fra
gli alberi; e quello deve firmare col suo sangue. Migliaia e migliaia di
persone l'hanno incontrato, e hanno firmato nel suo libro, e recano addosso il
suo marchio, e poi lui imprime il suo marchio sul petto di ciascuno!
Incontrasti mai l'Uomo Nero, mamma? E mamma, questa lettera scarlatta è il
marchio dell'Uomo Nero su di te.
Così
conversando, si erano sufficientemente addentrate nella foresta, così che
chiunque si fosse trovato a percorrere la viottola che vi era tracciata non le
avrebbe scorte. Presero posto su un rigoglioso ammasso di muschio, che durante
una cert'epoca del secolo precedente era stato un pino gigantesco, con le
radici ed il tronco nell'ombra fonda e la cima spaziante nell'alto. Era una
valletta, quella dove sedevano, dalle prode cosparse di foglie che salivano
dolcemente d'ambo i lati, e solcata nel mezzo da un ruscello che scorreva su un
letto pur esso di foglie sommerse. Dagli alberi sovrastanti pendevano grossi
rami che ostruivano la corrente e in certi punti la costringevano a formare dei
gorghi e delle nere buche; mentre, dov'esso fluiva più rapido e vivace,
traspariva l'alveo di ciottoli e di bruna sabbia scintillante. Seguendo il
corso del rivo, l'occhio poteva cogliere la luce riflessa dall'acqua per breve tratto della
foresta, ma tosto ne smarriva ogni traccia nello scompiglio cagionato dai
tronchi e dagli arbusti, e qua e là da una grossa roccia coperta di licheni
bigi. Tutti cotesti alberi giganteschi e massi di granito parevano adoperarsi a
fare un gran mistero del corso di quel rivoletto: forse per tema che, nella sua
incessante loquacità, esso non avesse a sussurrar certe storie del cuore
dell'antica selva donde sgorgava, o specchiarne i segreti sulla piana
superficie d'una gora. Perennemente, invero, il ruscelletto mandava un mormorio gentile, quieto
e blando, ma mesto come la voce d'un fanciullo che trascorre l'infanzia senza
svaghi e ignora l'allegrezza, attorniato com'è da tristi conoscenze e foschi
eventi.
O ruscello! sciocco e uggioso ruscelletto! —
gridò Perla, dopo averne ascoltate le chiacchiere per un certo tempo. — Perché
sei così triste? fatti coraggio, e smettila di sospirare continuamente!
Ma il
ruscello, nel corso della sua breve vita tra gli alberi del bosco, aveva
conosciuto un'esperienza così solenne, che non poteva impedirsi di parlarne, e
pareva non aver altro da dire. Perla gli somigliava, in quanto la corrente della
sua vita sgorgava da una fonte non meno misteriosa, ed era fluita attraverso
scene non meno gravemente adombrate di mestizia. Ma a differenza del rivoletto,
ella ballava e brillava e ciarlava briosamente lungo il suo corso.
Che dice
questo triste ruscelletto, mamma? — domandò.
Se tu
avessi un dispiacere, il ruscello potrebbe parlartene, come a me sta parlando
del mio! Ma ora, Perla, odo un passo sul sentiero ed un rumore di frasche
smosse. Vorrei che tu te n'andassi a giocare, e mi lasciassi discorrere con
colui che arriva di laggiù.
La
fanciullina se ne andò cantando e risalì il corso del rivo, ingegnandosi
d'unire una cadenza più leggera alla sua voce melanconica. Ma il ruscelletto
non volle saperne di lasciarsi lenire, e seguitò a narrare il proprio segreto
incomprensibile d'un mistero assai doloroso accaduto in passato, o alzando un
lamento profetico su qualcosa che doveva ancor accadere entro i confini della
tenebrosa foresta. Talché Perla, la quale d'ombra ne aveva anche troppa nella
sua tenera vita, decise di troncare ogni rapporto con quel ruscello
piagnucoloso. Si die' quindi a cogliere viole e silvie e certe aquilegie
scarlatte che trovò nei crepacci d'una grande roccia.
Sparito il
suo piccolo elfo, Hester mosse pochi passi verso la viottola che attraversava
la selva, ma sempre restando sotto l'ombra fonda degli alberi. Scorse il
sacerdote venirsene avanti solo soletto, appoggiandosi a un bastone che s'era
tagliato cammin facendo.
Il suo
aspetto tradiva un fiacco scoramento, che non era mai stato altrettanto palese
quand'egli andava in giro per la colonia, né in alcun'altra circostanza in cui
si sapeva esposto all'attenzione altrui. Qui invece, esso era dolorosamente
manifesto, nella totale solitudine della foresta che già di per sé avrebbe costituito
un grave cimento per lo spirito. C'era nella sua andatura un languore: quasi
egli non vedesse il motivo di muovere un sol passo avanti, né provasse il
menomo desiderio di farlo, bensì fosse contento, se d'alcunché potesse esser
contento, di lasciarsi cadere presso le radici dell'albero più vicino, e
giacere colà passivamente per sempre. Le foglie lo avrebbero coperto, e il
suolo sarebbe andato man mano accumulandosi in un piccolo rialto sulle sue
membra, sia che serbassero o no un po' di vita. La morte era una realtà troppo
precisa per augurarsela o cercar di schivarla.
Agli occhi
di Hester Arthur non palesò nessun sintomo di sofferenza positiva e vivace, a
parte il fatto che, come aveva osservato la piccola Perla, si teneva la mano
sul cuore.
XVII
Il sacerdote e la sua
parrocchiana
Arthur
mosse un passo e scoprì la lettera scarlatta.
Hester!
Hester! — disse. — Sei tu? sei tu in vita?
Lo sono —
ella rispose. — In quella ch'è ormai la mia vita da sette anni! E tu, Arthur
Dimmesdale, sei vivo anche tu?
Non deve
far meraviglia che si ponessero tali domande sulla rispettiva esistenza
corporea, e addirittura che ognun dei due dubitasse della propria. Tanto
stranamente si ritrovavano nell'oscura selva, che il loro somigliava al primo
incontro nell'oltretomba di due spiriti, un tempo intimamente uniti nell'altra
vita, ma che ora ristessero agghiacciati e tremanti di terrore reciproco.
Spettro
ciascuno, e sgomento dell'altro spettro! Ma egualmente sgomenti di se medesimi:
ché quel momento cruciale li ripiombava nella consapevolezza, e rivelava
all'uno e all'altro cuore la sua storia e la sua esperienza come la vita non fa
mai, tranne che in quegli istanti di ambascia. L'anima contemplava il suo
sembiante nello specchio dell'attimo fuggente.
Hester —
disse — hai trovato la pace?
Ella
sorrise dolorosamente, chinando lo sguardo sul seno.
— E tu? —
chiese.
— Nulla ho
trovato... null'altro che disperazione! Che cosa potevo cercare, essendo quello
che sono, e vivendo una vita qual'è la mia? Fossi un ateo, un uomo senza coscienza,
un miserabile, la pace avrei potuto trovarla da un pezzo. Anzi, non l'avrei mai
perduta! Ma stando così le cose dell'anima mia, le poche buone qualità che
potevano essere originariamente in me, e tutti i doni più preziosi di Dio,
divennero strumenti di tormento spirituale. Hester, sono molto infelice!
— La
gente ti venera. E fai certo del bene in mezzo ad essa! Questo non ti dà alcun
conforto?
— Più
infelicità, Hester!... più infelicità che mai! — rispose il sacerdote con un
sorriso amaro. — Per quanto concerne il bene che in apparenza posso compiere,
non ho fede in esso. Deve essere per forza un abbaglio. Che può operare
un'anima rovinata come la mia, al fine di redimere altre anime?... o
un'anima contaminata, al fine di purificarle? E quanto alla venerazione della gente, magari si cangiasse in odio e
disprezzo! Puoi stimare un conforto, Hester, il fatto ch'io debba stare sul
pulpito e affrontare tant'occhi levati sulla mia faccia, quasi ne irraggiasse
la luce del cielo?... ch'io debba vedere il mio gregge affamato di verità, e
intento alle mie parole quasi le pronunciasse una lingua della Pentecoste!... e
poi guardare in me stesso e discernere la nera realtà di ciò ch'esso idoleggia?
Ho riso, con cuore amaro e straziato, del contrasto tra ciò che sembro e ciò
che sono! E Satana ne ride!
— Qui
fate torto a voi stesso — disse Hester con dolcezza. — Vi siete
profondamente e acerbamente pentito. Il vostro peccato è rimasto dietro a voi,
nei giorni remoti. La vostra vita presente non è in verità meno santa di come
appare agli occhi altrui. Non esiste realtà nel pentimento suggellato e
ribadito dalle opere buone? e perché non dovrebbe arrecarvi la pace?
— No, Hester, no! non c'è in esso nessuna
sostanza! È morto e freddo, e non può nulla per me! Di penitenze, ne ho fatte
abbastanza! di pentimento, non n'ho avuto punto! altrimenti, mi sarei
sbarazzato da un pezzo di queste vesti di santità contraffatta e palesato al
genere umano così come mi vedrà davanti al seggio Giudizio finale. Felice voi,
Hester, che portate apertamente sul petto la lettera scarlatta! La mia lettera
brucia di nascosto! Tu non sai qual sollievo, dopo il tormento di una frode che
dura da sett'anni, sia per me di specchiarmi in un occhio che mi vede per quello
che sono! Se avessi un solo amico o, perché no, un nemico acerrimo! dal quale,
disgustato delle lodi di tutti gli altri uomini, mi fosse dato recarmi
quotidianamente, e venir riconosciuto come il più vile dei peccatori, credo che
l'anima mia potrebbe restar viva con tal mezzo. Anche quel po' di sincerità
basterebbe a salvarmi! Così invece, è tutta menzogna!... tutta vacuità!...
tutta morte!
Hester lo fissava nel volto, ma esitava a
parlare. Tuttavia, sfogando con tanta veemenza le sue emozioni represse così a
lungo, quelle parole le offrivano il destro di comunicargli senza indugio
quant'era venuta per dire. Ebbe ragione dei propri timori e parlò.
— L'amico che ti auguravi testé — disse —
con cui piangere sulla tua colpa, l'hai in me, la tua complice! — Esitò ma
riuscì a proseguire con uno sforzo. — Il nemico, ce l'hai da molto tempo, e
dimori con lui, sotto lo stesso tetto!
Il sacerdote balzò in piedi ansimando e
stringendosi il cuore, quasi volesse strapparlo dal seno.
— Ah! che dici! — gridò. — Un nemico! e
sotto lo stesso tetto! che intendi?
Hester si rese pienamente conto di quanto
grave fosse il danno che aveva arrecato a quell'infelice, abbandonandolo per
tant'anni, o addirittura per un solo momento, alla mercé d'un uomo i cui propositi
non potevano esser altro che malvagi. La vicinanza medesima del
nemico, sotto qualunque maschera potesse celarsi, bastava a disturbare la sfera
magnetica d'una creatura sensibile come
Arthur. C'era stato un periodo in cui Hester aveva dato minor peso a quella
considerazione; o forse, nella misantropia cagionata in lei dalla sofferenza,
aveva lasciato subire al pastore quella che ai suoi occhi appariva come una
sorte.
Tollerabile
della propria. Ma negli ultimi tempi, dopo la notte della veglia di lui, tutto
il suo sentimento per quell'uomo s'era raddolcito e rafforzato insieme. Gli
leggeva più chiaramente nel cuore. Era sicura che la presenza continua del medico, il veleno segreto della sua perfidia e
la sua ingerenza autorizzata come medico nelle infermità fisiche e morali del
sacerdote; era sicura che tutte
quelle circostanze funeste fossero state impiegate a un fine crudele. Ad opera
loro, la coscienza del paziente si manteneva in uno stato d'esacerbamento, la
cui tendenza non era già quella di curare con salutari dolori, ma di scomporre
e corrompere il suo spirito. Il resultato di ciò, sulla terra, non poteva esser
altro che la pazzia e, nell'oltretomba, quell'eterno allontanamento dal Bene e
dal Vero, di cui forse la pazzia forma il simbolo terreno.
Oh,
Arthur! — gridò — perdonami! in ogni altro caso ho lottato per serbarmi
sincera! la sincerità era l'unica virtù in cui m'era dato di perseverare, e in
cui perseverai durante tutte le mie sventure: tranne quando si trattò del tuo
bene... della tua vita... della tua riputazione! Allora accondiscesi a un
inganno.
Ma la menzogna non giova
mai, neppur per schivare una minaccia di morte!
Non
capisci che voglio dire? Il medico era mio marito!
La tempra
di lui era stata a tal segno indebolita dalla sofferenza, che persino le sue
più basse energie non furon capaci se non d'una rivolta momentanea. Egli si
accasciò al suolo e nascose il volto tra le mani.
— Tu mi
perdonerai! — gridò Hester buttandoglisi accanto sulle foglie cadute. — Lascia
che punisca Iddio! Tu mi perdonerai!
Con
subitanea e disperata tenerezza, gli gettò al collo le braccia, e si strinse al
petto la sua testa, incurante che la gota poggiasse sulla lettera scarlatta.
Tutto il mondo l'aveva guardata accigliato; da sette lunghi anni guardava
accigliato quella donna sola... e sempre ell'era riuscita a sopportarlo, a non
distogliere mai gli occhi mesti, impassibili. Ma il cipiglio di quell'uomo
pallido, emaciato, colpevole, affranto, quello Hester non poteva sopportarlo e
restar viva!
— Non mi perdoni ancora! — andava ripetendo
senza posa. — Sei sempre adirato meco? Non mi vuoi perdonare?
— Vi perdono, Hester! — rispose il sacerdote alla
fine, con un cupo accento che usciva da un abisso di tristezza ma era scevro di
collera. — Ora vi perdono di cuore. Possa Iddio perdonarci entrambi! Non siamo
i peccatori più spregevoli del mondo, Hester! Uno ce n'è, peggiore persino del
sacerdote impuro! La vendetta del medico è stata più nera della mia colpa. Egli
ha violato a sangue freddo la santità d'un cuore umano. Tu ed io, Hester, non
facemmo mai ciò!
— Mai, mai! — bisbigliò lei. — Ciò che
facemmo, ebbe una sua propria consacrazione! Noi lo sentimmo! noi ce lo
dicemmo! l'hai dimenticato?
Arthur,
premendosi nervosamente la mano sul cuore, col gesto ch'era ormai divenuto una
sua abitudine involontaria. — Pensa a me, Hester! Tu sei forte. Decidi per me!
— Non devi più abitare con quell'uomo! —
disse Hester in tono lento e risoluto.
— Sii tu forte per me! Consigliami sul da
farsi.
L’ampio
tragitto del mare! — continuò Hester. — Esso ti condusse quaggiù. Basta che tu
lo voglia, e ti ricondurrà indietro. Nel paese natio, sia in un remoto
villaggio rurale che nella vasta Londra; o sicuramente in Germania, in Francia,
nell'amena Italia... faresti smarrire a colui le tue tracce e il suo potere su
te! E che hai tu a che spartire con tutti questi uomini di ferro e le loro
credenze? Già da troppo tempo mantengono in ceppi la tua parte migliore!
Non può
essere! — replicò il sacerdote, che l'ascoltava quasi ella stesse
sollecitandolo a realizzare un sogno. — Non ho la forza d'andarmene! Sciagurato
e colpevole come sono, non ebbi mai altro pensiero che di trascinare la mia
esistenza terrena nella sfera assegnatami dalla Provvidenza. Perduta com'è
l'anima mia, vorrei fare ancora quanto posso per altre anime umane! Non oso
abbandonare il mio posto, sebbene io sia infedele, il cui sicuro compenso
saranno la morte e il disonore, quando terminerà la sua lugubre veglia!
Sei
schiacciato dal peso di questi sette anni d'angoscia — ribatté Hester,
fervidamente decisa a sorreggerlo con la propria energia. — Ma te lo lascerai
tutto alle spalle! Non t'intralcerà il passo sul sentiero della foresta; né lo
stiverai sulla nave, qualora tu preferisca attraversare l'oceano. Abbandona i
relitti di questo naufragio quaggiù, dov'esso accadde. Non impacciartene oltre!
Ricomincia ogni cosa da capo! Hai esaurito le tue possibilità nel fallimento di
quest'unica prova? No, certo!
Il futuro è ancor ricco di
prove e successi. C'è la felicità da godere! C'è il bene da compiere!
Baratta
questa tua vita falsa con una vera. Se il tuo spirito ti chiama a tale
missione, sii maestro ed apostolo come più si confà alla tua indole, sii uno
studioso e un saggio tra le menti più rinomate del consorzio civile! Predica!
Scrivi! Agisci! Fa' qualunque cosa, eccetto che accasciarti e morire! Rinuncia
a questo nome di Arthur e prendine un altro che sarà illustre, e tale che
potrai portarlo senza paura e vergogna. Perché dovresti tardare anche un sol
giorno nei tormenti che ti hanno corroso la vita a tal segno! che ti han reso
incapace d'agire! che ti lasceranno impotente perfino a pentirti! Vattene
dunque!
Hester! —
gridò Arthur, nei cui occhi una luce malferma, accesa dall'entusiasmo di lei,
balenò e si estinse subitamente; — tu dici di fare una corsa a un uomo cui
vacillano i ginocchi! debbo morire qui! Non mi resta ormai più la forza o
l'ardire d'avventurarmi nel mondo vasto, arduo, estraneo,
da solo!
Fu questa l’ultima affermazione dello
scoraggiamento da parte di uno spirito infranto. Gli mancava l'energia
d'afferrare la sorte migliore che sembrava a portata della sua mano.
Ripeté la parola.
— Solo, Hester!
— Non andrai
solo! — ella rispose in un soffio.
Tutto era stato detto!
XVIII
Uno sprazzo di sole
Hester
tuttavia, col suo spirito naturalmente
coraggioso ed attivo, e non solo straniata, ma bandita dal mondo tanto tempo
innanzi, s'era assuefatta a una larghezza di pensiero completamente
ignota al pastore. Aveva vagato senza una norma o una guida in una selva morale
non meno ampia ed oscura di quella vergine foresta, nella cui tenebra essi
proseguivano un colloquio che doveva decidere del loro destino. Il cuore e l'intelletto di lei avevan preso
dimora, per così dire, in luoghi deserti, ov'ella si aggirava con la stessa
libertà dell'Indiano selvaggio nei suoi boschi.
Il fato e
le vicissitudini l'avevano indirizzata sulla via dell'emancipazione. La lettera
scarlatta era stata il suo passaporto in certe regioni ove l'altre donne non
ardivano avventurarsi. Disonore, Disperazione, Solitudine! ecco i maestri di
lei, dei maestri spietati e violenti, che l'avevano resa forte, impartendole
tuttavia molte nozioni errate.
Il
pastore, d'altro canto, non aveva mai vissuto un'esperienza atta a fargli
oltrepassare l'ambito delle leggi generalmente riconosciute, quantunque, in un
singolo caso, ne avesse così pavidamente trasgredita una delle più sacre. Ma
quello era stato un peccato di passione, non di principio, e nemmeno di
proposito.
Come uomo
che aveva peccato, una volta, ma serbava viva e penosamente sensibile la
propria coscienza mediante l'irritazione della piaga aperta,
era lecito ritenerlo più al
sicuro entro i confini della virtù, che se non avesse peccato mai.
Ci sembra dunque di capire che, per quanto
riguarda Hester, quei sett'anni di bando e d'ignominia non eran stati in fondo
che un addestramento a quell'ora.
Considerando
ch'egli era stremato dalle lunghe e acute sofferenze; che la sua mente era
ottenebrata e confusa dallo stesso rimorso che la dilaniava; che tra il fuggire
come reo confesso e il restare come ipocrita, la coscienza non sapeva da qual
parte far pendere la bilancia; ch'era umano cercar di schivare la morte e
l'infamia e le trame inscrutabili d'un nemico; che infine, a cotesto povero
pellegrino sul suo lugubre e deserto sentiero, sfinito, infermo, disperato,
appariva un barlume d'affetto e di simpatia umana, una vita nuova e sincera in
cambio della grave condanna che stava ora espiando. E si dica pure la cruda e
triste verità, che la breccia una volta aperta dalla colpa nell'anima umana,
non viene mai colmata in questo stato mortale. Potrà esser sorvegliata e
custodita: sì che il nemico non forzi nuovamente il varco nella rocca e debba
forse, negli ulteriori assalti, scegliere un'altra via d'accesso, a preferenza
di quella donde riuscì a penetrare. Ma rimarrà sempre il muro in rovina, e nei
suoi pressi il passo furtivo dell'avversario voglioso di rinnovare il proprio
indimenticato trionfo.
“Se di
tutti questi sette anni — pensò — io potessi rievocare un istante di pace o di
speranza, resisterei ancora a motivo di quel pegno della misericordia celeste.
Ma ora, dacché son condannato irrevocabilmente, perché mai non dovrei cogliere
il sollievo concesso al colpevole prima dell'esecuzione? O se questo è il
sentiero verso una vita migliore, del che Hester cerca di persuadermi, non
rinuncio sicuro a più belle speranze se lo seguo! Né posso vivere oltre senza
la sua compagnia; così forte ella è nel sostenere, così tenera nel confortare!
O Tu a cui non oso levare gli occhi, vorrai Tu perdonarmi?”
Partirai!
— disse Hester calma, mentr'egli ne incontrava lo sguardo.
Provo
ancora la gioia? — gridò, stupito di se medesimo.
Oh! Hester, tu sei il mio angiolo buono! Mi
sembra d'essermi gettato su queste foglie del bosco, sofferente e offuscato di
dolore, e d'esserne sorto rinnovellato, e con nuove facoltà di glorificare
Colui ch'è stato misericordioso! Questa è già la vita migliore! Perché non la
scoprimmo prima?
— Non guardiamoci dietro! — rispose Hester. — Il passato è
finito! A che dovremmo indugiarvi? Vedi! con questo simbolo, tutto lo distruggo
e lo rendo come se non fosse esistito!
In così dire, aprì il fermaglio che fissava
la lettera scarlatta, e toltasela dal petto, la gettò lontano sulle foglie . Il
mistico segno si posò presso la sponda del ruscello dalla loro parte. Se fosse
andato a finire un palmo più oltre, sarebbe caduto nell'acqua, e avrebbe porto
al rivoletto un altro dolore da recar seco, oltre al racconto incomprensibile
di cui seguitava ognora a mormorare. Ma ivi giacque la lettera ricamata,
lucente come un gioiello smarrito, che un malcapitato viandante avrebbe forse
raccolto, per venir tormentato in futuro da strani fantasmi di colpa, da
ambasce e da inspiegabili sciagure.
Sbarazzata del marchio, Hester trasse un
sospiro lungo, profondo, in cui il fardello dell'onta e dell'angoscia le
scomparve dall'animo. Oh, squisito sollievo! Quel peso le era rimasto
sconosciuto finché non ebbe saggiato la libertà! Si tolse la scialba cuffietta che le imprigionava
le chiome; ed ecco, esse le caddero sulle spalle, scure e rigogliose, con
un'ombra e una luce nella loro dovizia, conferendo ai suoi lineamenti il
fascino della dolcezza. Le aleggiava sulle labbra e le splendeva negli occhi un
sorriso tenero e radioso, che pareva scaturire dal cuore medesimo della
femminilità. Un colorito vermiglio le ardeva sulla gota, rimasta pallida così a
lungo. Il suo sesso, la gioventù, tutto lo sfarzo della bellezza tornarono da
quel passato che gli uomini chiamano irrevocabile, e si strinsero con la sua
virginea speranza e una felicità ignorata sin lì, entro il magico cerchio di
quell'ora. E quasi la tenebra della terra e del cielo non fosse stata che un
effluvio di quei due cuori, si dileguò con il loro dolore. Ad un tratto, come
per subitaneo sorriso del firmamento, si sprigionò il sole e si diffuse a
fiotti nell'oscura foresta, allietando ciascuna foglia verde, cangiando in oro
quelle gialle cadute e sfavillando giù pei bigi tronchi degli alberi solenni.
Gli oggetti che fino ad allora mandavano un'ombra, furono pregni di lucentezza.
Il corso del ruscelletto si poteva risalire seguendone il giocondo luccichio
lontanante nel cuore del bosco, il cui mistero era divenuto una gioia.
Tanta era
la simpatia della Natura, di quella Natura selvaggia e pagana della selva, mai
soggiogata da leggi umane o illuminata da una più alta verità.
L’amore,
sia nato testé, sia destato da un sonno simile alla morte, deve ognora creare
uno sprazzo di sole, ch'empia il cuore a tal segno da ridondarne sulle cose del
mondo. Quand'anche la foresta avesse serbato la sua tenebra, sarebbe apparsa
luminosa agli occhi di Hester, luminosa agli occhi di Arthur.
Hester
guardò il compagno, fremente di un'altra gioia.
— Devi conoscere Perla! — disse. — La nostra
piccola Perla! L'hai vista, lo so!... ma or la vedrai con occhi diversi. È una
strana piccina! Quasi non la capisco! Ma le vorrai molto bene, com'io gliene
voglio, e mi consiglierai sul modo d'allevarla.
— Credi che la bambina sarà contenta di
conoscermi? — chiese il pastore, un po' a disagio. — Da molto tempo evito i
fanciulli, perché si mostrano spesso sospettosi... come restii a far meco
amicizia. Ho avuto perfino paura della piccola Perla!
— Ah, questo è triste! Ma ti vorrà molto
bene, e tu a lei. Non è distante. Ora la chiamo. Perla! Perla!
— Vedo la bimba. È laggiù, abbastanza
lontana, ritta in una striscia di sole sull'altra sponda del rivo. Credi dunque
che mi vorrà bene?
Hester sorrise e chiamò ancora Perla, che si
vedeva a una certa distanza, come l'aveva descritta il pastore, simile a una
visione vestita di luce, in un raggio di sole che le cadeva addosso attraverso
un arco di fronde. Il raggio tremolava, palesando o velandone la figura, ora
d'una vera bambina, ora d'un fantasma di bimba, a seconda del giuoco della
luce. Ella udì la voce materna, e mosse lentamente pel bosco.
L'ora
trascorsa mentre sua madre sedeva conversando col pastore, non era stata
tediosa per Perla. Quella grande foresta, per truce che apparisse a coloro che
recavano nel suo seno la colpa e le pene del mondo, si adoperò del suo meglio
per diventar la compagna di svago della fanciulla solitaria.
Ed ella era più garbata laggiù di quanto non
fosse per le strade dai margini erbosi della colonia, o nella casupola di sua
madre. I fiori mostrarono di saperlo; e più d'uno bisbigliò al suo passaggio:
“Ornati di me, bella bambina, ornati di me!”; e per compiacerli, Perla colse le
viole e le silvie e le aquilegie e alcuni ramoscelli di freschissimo verde, che
i vecchi alberi piegavano davanti ai suoi occhi. Con questi si guarnì i capelli
e il giovane busto, e divenne una piccola ninfa o una tenera driade, o checché
altro fosse in più intima comunione con l'antica foresta. In quella guisa Perla
s'era ornata, quando udì la voce della madre e tornò lentamente sui suoi passi.
XIX
La bimba sulla sponda del rivo
Le vorrai
molto bene — ripeté Hester, mentre lei e il sacerdote, seduti accanto,
osservavano la piccola Perla. — Non ti par bella? e vedi con che ingegno
naturale s'è ornata di quei semplici fiori! Se avesse colto nel bosco perle e
brillanti e rubini, non potrebbero donarle di più. È una splendida bimba! Ma io
so di chi è quel suo sembiante!
Si fu con
una sensazione che nessuno dei due aveva mai provato prima d'allora, che
seguirono il lento avvicinarsi di Perla. In lei si palesava il vincolo che li
univa. Per quei sette anni passati, ella era stata offerta al mondo come il
geroglifico vivente, in cui si rivelava il segreto ch'essi cercavano di
mantenere così misterioso; tutto scritto in quel simbolo; tutto chiaramente
manifesto, purché ci fosse stato un veggente od un mago capace di leggere il
carattere di fiamma! E Perla era l'unità del loro essere.
“Fa' che
non avverta nulla di strano... nessuna agitazione o impazienza nel tuo modo di
rivolgerti a lei — bisbigliò Hester.”
Soprattutto
tollera di rado le emozioni, quando non
riesce a comprenderle appieno. Ma è capace di forte affetto! Mi vuol bene, e ne
vorrà anche a te!
Frattanto
Perla aveva raggiunto la sponda opposta del ruscello, e lì si teneva, fissando
in silenzio Hester e il sacerdote, sempre seduti sul tronco muschioso in attesa
d'accoglierla. Proprio dove s'era fermata, il rivo formava una gora, così
liscia e tranquilla, che rifletteva un'immagine perfetta della sua figurina,
con tutta la sua bellezza pittoresca e brillante nell'ornamento di ghirlande ma
ingentilita e spiritualizzata più di quanto non fosse in realtà.
Strano era
l'atteggiamento di Perla, che guardava così fisso quei due attraverso l'opaca
penombra della foresta; mentre
appariva tutta glorificata da un raggio di sole, attratto alla sua volta quasi
per simpatia. Nel ruscello sottostante c'era un'altra bambina... un'altra e la
stessa, anche questa col suo raggio di luce d'oro. Hester si sentì straniata da
Perla, in una maniera indistinta e tormentosa; come se la bambina, nel suo
girovagare solitario pel bosco, si fosse smarrita fuor della sfera in cui lei e
sua madre dimoravano assieme, ed ora cercasse invano di tornarvi.
La bambina
e sua madre erano straniate a vicenda, ma per colpa di Hester, non di Perla. Da
quando quest'ultima aveva abbandonato il suo fianco, un altro ospite era stato
ammesso nella cerchia dei sentimenti di lei, e tanto ne aveva alterato
l'aspetto che Perla, la pellegrina di ritorno, non poteva ritrovare il suo
posto consueto, e non sapeva ove si fosse.
Vieni,
carissima figlia! — disse Hester in tono d'incoraggiamento, protendendo le
braccia. — Come sei lenta! Quando mai ti mostrasti così pigra? Questo è un
amico mio, che dev'essere anche il tuo. D'ora in poi, sarai amata il doppio di
quanto poteva amarti tua madre sola! Salta il ruscello e vieni a noi. Sai saltare
come un cerbiatto!
Perla,
senza punto rispondere a quelle espressioni melate, rimase sull'altra riva. Ora
fissava gli occhi lucenti e selvaggi sulla madre, ora sul pastore, ed ora li
comprendeva entrambi in un unico sguardo; quasi per scoprire e chiarirsi il
rapporto che intercorreva tra loro.
Assumendo
un'aria strana d'autorità, Perla allungò la mano tendendo il minuscolo indice e
accennando manifestamente al petto di sua madre.
Capricciosa
bambina, perché non vieni da me? — esclamò Hester.
Ho capito
cos'è che la perturba — sussurrò Hester al pastore, impallidendo nonostante lo
sforzo intenso di celare la propria afflizione e contrarietà. — I fanciulli non accettano mutamenti di
sorta, sia pur minimi, nell'aspetto consueto delle cose che hanno giornalmente
davanti agli occhi.
Perla sente la mancanza di qualcosa che m'ha
sempre visto sulla persona!
Perla! –
disse tristemente - guarda ai tuoi piedi! Là... davanti a te... su questa
sponda del rivo!
La bimba volse gli occhi nella direzione
indicata: ivi giaceva la lettera scarlatta, così vicina all'orlo dell'acqua,
che il ricamo v'era riflesso.
—
Portala qui! — disse Hester.
— Vieni tu a prenderla! — rispose Perla.
— S'è mai vista una simile bambina! —
osservò Hester sottovoce al pastore. — Oh, molte cose ho da dirti su di lei! Ma
in verità, ha ragione per quanto concerne questo odioso marchio. Debbo
sopportarne la tortura ancora un poco... pochi giorni soltanto, finché avremo
lasciato questa regione e ci volteremo a guardarla come una terra di cui sognammo.
Non può nasconderlo la foresta! L'alto mare lo avrà dalla mia mano e lo
inghiottirà per sempre!
Così detto, s'avvicinò alla sponda del rivo,
raccolse la lettera scarlatta e se la riagganciò al seno.
Nonostante la fiducia con cui, non più tardi d'un attimo innanzi, aveva parlato
di sommergerla nel profondo del mare, si sentì sovrastata da una condanna
ineluttabile mentre così riprendeva dalla mano del fato il simbolo letale. Lo
aveva gettato nello spazio infinito!... aveva respirato la libertà di un'ora...
ed ecco il supplizio scarlatto che tornava a luccicare al suo solito posto!
Così sempre avviene, che un atto iniquo, simboleggiato o meno ch'esso sia,
assume il carattere d'una sorte funesta.
Ravvisi
ora tua madre, figliuola? — le domandò in tono di rimprovero, ma più blando. —
Vuoi traversare il ruscello e riconoscer tua madre, ora che reca la sua onta
sulla persona... ora ch'è triste?
— Sì: ora lo voglio! — rispose la bimba
slanciandosi sull'altra sponda e stringendo Hester tra le braccia. — Ora sei
proprio la mia mamma! ed io sono la tua piccola Perla.
Mossa da un impeto di tenerezza non insolita
in lei, attirò a sé il capo di sua madre e la baciò in fronte e sulle gote. Ma
dopo... per una sorta di necessità, che sempre spingeva quella bambina a
inquinare qualunque conforto le avvenisse di largire con una trafitta
d'angoscia, Perla sporse le labbra e baciò anche la lettera scarlatta!
— Questo non è stato bello da parte tua! —
disse Hester. — Prima mi dimostri un po' d'affetto, e poi ti burli di me!
— Perché il pastore sta fermo laggiù? —
chiese Perla.
Aspetta di
darti il benvenuto. Vieni tu da lui, e domandagli la sua benedizione! Ti vuol
bene, mia piccola Perla, e vuol bene anche a tua madre. Non glie ne vorrai
anche tu? Vieni! È impaziente di salutarti!
— Lui ci vuol bene? — disse Perla, alzando
gli occhi in volto alla madre con aria perspicace. — Tornerà in città con
noialtre, e ci daremo la mano tutti e tre?
— Non ancora, cara piccina. Ma nei giorni a
venire, camminerà con noi tenendoci per mano. Avremo una casa e un focolare
nostri, e tu gli siederai sui ginocchi; lui t'insegnerà molte cose e ti vorrà
molto bene. Tu glie ne vorrai, nevvero?
— E si
terrà sempre la mano sul cuore?
— Sciocca, che domanda è questa! Vieni a
chiedergli la sua benedizione.
Il
melanconico ruscello avrebbe aggiunto quest'altra storia al mistero del quale
già ridondava e mormoreggiava il suo piccolo cuore, senza infondere nel suo
accento un po' più d'allegrezza di quanta ce n'era da secoli.
XX
Il pastore in un labirinto.
Man mano
che s'avvicinava alla città, aveva l'impressione d'un cambiamento nella serie
di oggetti familiari che gli si presentavano allo sguardo. Non sembrava che li
avesse lasciati la vigilia, o un giorno, o due giorni innanzi, sebbene da molti
giorni, o addirittura da anni.
Tuttavia
seguitava ad imporglisi questa importuna sensazione d'un cambiamento. Lo stesso
si verificava nei confronti di tutti i conoscenti in cui s'imbatteva, e di
tutte le ben note forme di vita umana della cittadina.
Un’ impressione analoga lo colpì
fortemente quando passò sotto il muro della propria chiesa. L'edificio
presentava un aspetto tanto strano e familiare al contempo, che la mente di
Arthur oscillò nell'alternativa: o lo aveva visto solo in sogno sin lì, o stava
semplicemente sognandone adesso.
Questo fenomeno, nelle varie forme che
assumeva, non era indice d'alcun mutamento esteriore, ma d'un mutamento così
subitaneo e importante nell'osservatore della scena familiare, che l'intervallo
d'un sol giorno aveva agito sulla sua conoscenza come un lasso di anni.
La volontà
del sacerdote, e la volontà di Hester, e il fato che sorgeva tra di loro,
avevano operato cotesta trasformazione. La città era la stessa di prima; ma
dalla foresta non ritornava lo stesso pastore. Avrebbe potuto dire agli amici
che lo salutavano: “Non son l'uomo per cui mi prendete! Quello lo lasciai
laggiù appartato presso la sponda d’un melanconico rivo!”
Gli amici,
non c'è dubbio, avrebbero continuato ad insistere: “Quell'uomo sei tu!”, ma
l'errore sarebbe stato loro, non suo.
Mai esisté
esempio più bello di come la maestà degli anni e della saggezza possa esser compatibile
con la deferenza e il rispetto, quando questi le siano dettati dall'inferiorità
del rango sociale e da più modesti talenti.
Entrò
nella stanza familiare, e contemplò intorno a sé i libri, le finestre, il
camino, l'accogliente tappezzeria alle pareti, con la stessa percezione di
novità che l'aveva assillato durante tutto il tragitto dalla valletta del bosco
alla città, e fino in casa. Qui aveva studiato e scritto; qui aveva praticato
veglie e digiuni donde era uscito stremato; qui aveva cercato di pregare; qui
aveva sopportato innumeri strazi. Ecco la Bibbia, scritta nella nobile lingua
ebraica, con Mosè e i Profeti che gli parlavano, e la voce di Dio che
improntava ogni cosa! Ecco sul tavolo, accanto alla penna macchiata
d'inchiostro, un sermone incompiuto con una frase troncata a mezzo laddove i
suoi pensieri avevano smesso di fluir sulla pagina, due giorni innanzi. Sapeva
d'esser stato lui, l'esile e pallido pastore, a compiere e a subire quelle
cose, e a vergare fino a quel punto il Discorso dell'Elezione! Ma gli sembrava
di tenersi in disparte e d'adocchiare quel suo io d'allora con una curiosità
sprezzante, compassionevole, eppur quasi invidiosa. Quell'io era scomparso. Un
altr'uomo era tornato dalla selva: più dotto, e a conoscenza di certi misteri nascosti,
ai quali l'ingenuità del primo non avrebbe mai potuto pervenire. Amara specie
di conoscenza era quella!
Il medico
sapeva dunque, di non esser oltre nell'opinione del sacerdote l'amico fidato,
sebbene il nemico più fiero. A questo punto, sarebbe parso naturale che venisse
manifestata una parte di quella conoscenza.
Strano è, comunque, quanto
tempo trascorre sovente, prima che le parole rivestano le cose; e con che
sicurezza due persone desiderose di schivare un argomento, possono spingersi
fin sull'orlo di esso, e ritirarsi senza averlo sfiorato.
Così il
sacerdote non nutrì nessun timore che il medico avesse a menzionare in termini
precisi la vera posizione in cui si trovavano reciprocamente. E nondimeno il
medico, col suo modo oscuro, strisciò paurosamente fino in prossimità del
segreto.
XXI
Hester e
la piccola Perla si recarono di buon’ora nella piazza del mercato.
In quella
pubblica ricorrenza, come in ogni altra circostanza da sette anni a quella
parte, Hester indossava un abito di ruvido panno grigio. Non solo ad opera del
colore, bensì d'una particolarità indescrivibile della foggia, esso produceva
l'effetto di farne svanire la persona fin nei contorni; mentre la lettera
scarlatta la ritoglieva a quella vaghezza crepuscolare per rivelarla sotto l'aspetto
morale della propria luce. Il volto di lei, familiare da tanto tempo ai
concittadini, mostrava la quiete marmorea ch'erano avvezzi a mirarvi. Ricordava
una maschera; o piuttosto la gelida calma dei tratti d'una morta; dovendosi tal
lugubre rassomiglianza al fatto che Hester era morta realmente nei confronti
d'ogni pretesa alla simpatia, e scomparsa dal mondo in cui pareva aggirarsi
tuttora.
Forse, in
quell'unico giorno, il suo volto recava un'espressione mai vista per l'innanzi,
né d'altronde abbastanza vivida da potervisi ora scoprire; a meno che un
osservatore dotato d'una virtù soprannaturale non avesse prima letto nel cuore,
e poi cercato una manifestazione corrispondente sul sembiante e nel portamento.
Un
siffatto veggente spirituale si sarebbe potuto immaginare che, dopo aver
sopportato l'occhio della moltitudine per sette miserrimi anni come una
necessità, una penitenza e qualcosa che una religione crudele imponeva di
subire, ella ora, solo per l'ultima volta, lo affrontasse liberamente e di sua
volontà, allo scopo di cangiare in una sorta di trionfo quanto era stato così a
lungo uno strazio. “Date un ultimo sguardo alla lettera scarlatta e a colei che
la porta! — avrebbe potuto dire al popolo la sua vittima e, com'esso credeva,
la sua schiava perenne. ”
Il vestito
di Perla era vaporoso e appariscente. Sarebbe stato impossibile indovinare che
una così fulgida apparizione di sole dovesse la propria esistenza a quella
forma di cupo grigiore; o che una fantasia, così rigogliosa e delicata insieme
qual doveva essere occorsa per inventare il costume della bimba, fosse la
stessa che aveva adempiuto ad un compito forse ancor più arduo, conferendo una
peculiarità così spiccata alla semplice veste di Hester. L'abito, tant'era
appropriato alla piccola Perla, pareva un'emanazione o un inevitabile sviluppo
e palesamento esteriore del carattere di lei, non meno inscindibile dalla sua
persona di quanto lo sia la lucentezza variopinta dall'ala d'una farfalla, o la
smagliante magnificenza dal petalo d'un fiore. Era il caso di Perla:
l'abbigliamento faceva tutt'uno con la sua natura. In quel giorno memorando,
inoltre, il suo umore si distingueva per una certa strana irrequietezza e
eccitazione, simile quanto mai allo sfolgorio d'un brillante, che manda baleni
e scintille a seconda dei vari palpiti del petto che adorna. I fanciulli
partecipano sempre alle agitazioni di coloro a cui sono uniti; sempre, in
special modo, intuiscono ogni perturbamento o imminente scompiglio, di
qualunque genere sia, nelle circostanze familiari; e perciò Perla, ch'era la gemma sull'inquieto petto
materno, tradiva con quella bizzarria del suo spirito le emozioni che nessuno
poteva scoprire nell'impassibilità marmorea del sembiante di Hester.
“To’, che
c’è, mamma? Perché oggi tutti hanno lasciato il lavoro ?
Guarda il
fabbro, laggiù! S’è terso il viso e s’è messo il vestito delle feste, e si
direbbe che ha voglia di darsi bel tempo, e aspetta solo che un’anima buona gli
insegni come si fa!” Gridò Perla.
E ci sarà
il pastore? E mi tenderà le mani, come quando mi menasti a lui dalla sponda del
ruscello?
— Ci sarà, figliuola. Ma oggi non ti
saluterà; né tu devi salutar lui.
Che uomo
strano, triste, è egli mai! — fece la bimba, quasi parlando tra sé. — Durante
la buia notte vuole averci accanto e tiene la tua e la mia mano, come quando
stavamo con lui lassù sul palco. E nella fonda selva, dove solo i vecchi alberi
possono ascoltare e un lembo di cielo può vedere, discorre teco, seduto su un
mucchio di borraccina! E mi dà un bacio in fronte, per giunta, che il
ruscelletto non riusciva a lavarmelo! Ma qui, in questo giorno di sole e tra
tutta la gente, non ci conosce; né dobbiamo conoscerlo noi! Un uomo strano,
triste, è quello lì, sempre con la mano sul cuore!
Dobbiamo
tornar a imparare l'arte dimenticata della spensieratezza.
Ma il
mare, in quei tempi lontani, ondeggiava e si gonfiava e spumeggiava a suo
capriccio, ovvero ubbidiva soltanto al vento tempestoso, e pochi o punti erano
i tentativi di governarlo compiuti dalle leggi dell'uomo.
Era il
simbolo più efficace della solitudine morale in cui la lettera scarlatta aveva
avvolto colei ch'era destinata a portarla; in parte ad opera del suo stesso
riserbo, e in parte dell'allontanamento istintivo, seppur non oltre malevolo,
dei suoi simili.
Dunque,
padrona — disse il marinaro — debbo ordinare al cambusiere di preparare
un'altra cuccetta, oltre a quelle pattuite da voi! Niente paura di scorbuto o
tifo, in questo viaggio! Col medico di bordo e quest'altro dottore, l'unico
pericolo che correremo sarà per troppe pillole e intrugli; tanto più che a
bordo c'è un mucchio di medicinali, che acquistai da un vascello spagnuolo.
— Che volete dire? — chiese Hester, turbata
più di quanto non lasciasse trapelare. — Avete un altro passeggero?
— Eh! — gridò il capitano — o non sapete che
questo dottore, Chillingworth dice di chiamarsi, intende assaggiare la vita di
bordo insieme a voi? Sì, sì, dovete saperlo, dacché colui m'ha detto d'esser
de' vostri, e intimo amico del signore di cui mi diceste... quello che si trova
nei guai per via di questi bisbetici vecchioni puritani!
— Si conoscono bene, è vero — rispose Hester
con aria calma, pur al colmo della costernazione. — Dimorano assieme da molto
tempo.
Nient'altro
si dissero il marinaro ed Hester. Ma in quell'istante, ella scorse il vecchio
Roger Chillingworth in persona, ritto nel canto più remoto della piazza, che le
sorrideva; e quel sorriso, superando l'ampio e tumultuante recinto e tutte le
risa e il brusio e gli svariati umori, pensieri e interessi della folla,
comunicava un significato segreto e spaventoso.
XXII
Avanzava
con la consueta debolezza, né la sua mano poggiava funestamente sul cuore.
Eppure, a esaminarlo nella giusta luce, la sua forza non pareva del corpo.
Poteva esser spirituale, e impartita da angelico strumento. Poteva esser l'ebbrezza del potente cordiale
che si distilla solo nel lambicco infocato dell'assidua e prolungata
meditazione. Ovvero, chissà, la sua tempra sensibile era invigorita dalla
musica fragorosa e squillante che si spandeva alla volta del cielo, e lo rapiva
nel proprio flusso.
Il suo
corpo era lì che andava avanti, e con insolita forza. Ma dov'era la mente? Nei
suoi più remoti recessi, tutta intenta a schierare con un'alacrità
straordinaria la processione di sublimi pensieri, tosto destinati ad uscirne: e
quindi egli nulla mirava, nulla udiva, nulla sapeva di quanto gli stava
intorno; ma l'elemento spirituale reggeva le deboli membra, e le trasportava
ignorandone il peso e mutandole in spirito a somiglianza di sé. Uomini
dall'intelletto non comune posseggono questo potere occasionale di compiere uno
sforzo immenso, nel quale gettano la vita di molti giorni, per poi restar senza
vita durante un pari lasso di tempo.
Come
profondamente si conobbero, allora! E quello era lo stesso uomo? Ma se ora
stentava a conoscerlo! a conoscer colui che procedeva fieramente, ammantato,
per così dire, così irraggiungibile, nella remota prospettiva dei suoi pensieri
senza simpatia, in fondo alla quale lo mirava adesso!
La voce del pastore era questa già di per sé
un dono prezioso: al punto che un ascoltatore, totalmente ignaro della lingua
in cui il predicatore si esprimeva, avrebbe potuto egualmente lasciarsi
trasportare soltanto dal tono e dalla cadenza. A somiglianza d'ogni altra
musica essa spirava passione e sentimento, moti dell'animo eccelsi o teneri, in
una favella innata del cuore umano, ovunque sia stato istruito.
Hester lo
ascoltava assorta e con intima partecipazione. Il sermone assumeva per lei un
significato tutto suo, affatto indipendente dalle parole che non riusciva a
distinguere. Queste forse, se le fossero giunte chiare, sarebbero state
nient'altro che uno strumento grossolano, ed avrebbero inceppato il senso
spirituale. Ora ne coglieva il tono basso, attutito, come del vento che
s'acquieta per riposare; ora si elevava con esso, mentre saliva per gradazioni
successive di dolcezza e potenza, finché il suo volume sembrava avvolgerla in
un'atmosfera di sgomento e solenne grandiosità. E tuttavia, per maestosa che
divenisse talvolta, in quella voce si coglieva ognora il carattere essenziale
d'un lamento. Un'espressione forte o sommessa d'angoscia... il sussurro od il
grido, a seconda di come lo s'intendeva, dell'umanità sofferente, che toccava
le fibre più riposte d'ogni cuore! A momenti questo profondo accento di
commozione era il solo che si potesse udire, e lo si udiva appena, sospirare in
un silenzio desolato. Ma anche quando la voce del sacerdote diveniva alta e
imperiosa, sempre se l'ascoltatore la seguiva intentamente, e con quel fine,
poteva scoprirvi il medesimo grido di sofferenza. Che era mai? Il compianto
d'un cuore umano oppresso dal dolore, forse da una colpa, che narrava il suo
segreto di dolore e di colpa al gran cuore del genere umano; implorandone la
simpatia od il perdono in ogni attimo, con ogni accento, e mai inutilmente! Era
quel tono sommesso, profondo e continuo, a rendere così suadente l'eloquio.
Sempre
sarebbe esistita una forza magnetica in quel luogo.
Avvertiva
una sensazione, troppo vaga per farne un pensiero, ma che le incombeva
gravemente sull'animo, per cui tutta l'orbita della sua esistenza, sia prima
che dopo, andava congiunta a quel sito come all'unico punto che le conferiva
unità.
Perla,
intanto, rallegrava la folla accigliata col suo raggio vagante e luminoso;
proprio come un uccello di piume smaglianti illumina le fronde di tutto un
albero sfrecciando qua e là, e s'intravede o si perde nel crepuscolo del fitto
fogliame. Aveva movenze ondeggianti, ma spesso brusche e disordinate. Erano
indice dell'irrequieta vivacità del suo spirito.
Ogniqualvolta Perla
scorgeva un oggetto che stuzzicava la sua curiosità sempre desta e mutevole,
gli volava incontro e, avresti detto, s'impadroniva della persona o della cosa quasi
le appartenesse di diritto in quanto l’ambiva; senza però concedere in cambio
il menomo dominio sulle proprie mosse.
Correva a
fissare in piena faccia l'Indiano selvaggio; e questi sentiva una tempra più
selvaggia della sua. Di lì, con un'audacia innata ma sempre con un riserbo non
meno caratteristico, volava in mezzo a un gruppo di marinai, gli adusti
selvaggi dell'oceano come gli Indiani lo erano della terraferma; ed essi
contemplavano Perla stupiti e ammirati, quasi un fiocco di spuma avesse preso la
forma d'una fanciulla e possedesse un'anima fatta della fosforescenza che
scintilla nottetempo sotto la prora.
Uno di
costoro, e precisamente il capitano che aveva conversato con Hester, fu
talmente colpito dall'aspetto di Perla, che tentò d'agguantarla nell'intento di
carpirle un bacio. Accortosi però che sarebbe stato lo stesso di voler
acchiappare per aria un colibrì, si tolse dal cappello la catena d'oro che lo
cingeva, e la gettò alla bimba. Subito Perla se l'avvolse intorno al collo e
alla vita con tanta destrezza, che una volta addosso l'oggetto divenne parte
della sua persona, e sarebbe stato difficile immaginarsela senza di esso.
Dal
contado era venuta molta gente, che aveva spesso sentito parlar della lettera
scarlatta, ed alla quale essa appariva terrificante ad opera di cento voci
false o esagerate, ma che non l'aveva mai vista coi suoi propri occhi. Ecco che
costoro, dato fondo ad altri modi di svago, fecero ressa intorno ad Hester con
un'indiscrezione insolente.
Ma per
sfacciata che fosse, non bastò a far sì che oltrepassassero un circolo di
notevole ampiezza. Si fermarono quindi a cotesta rispettosa distanza, ivi
inchiodati dalla forza centrifuga dell'avversione che l'arcano simbolo
ispirava.
I
cittadini, infine, il cui interesse per quel trito soggetto tornava a destarsi
languidamente mediante l'impressione ch'esso produceva sui nuovi venuti, si
portarono neghittosamente a quella volta e tormentarono Hester forse più di
tutti gli altri con le gelide, ben note occhiate che scoccarono sull'onta
familiare.
XXIII
La rivelazione della
lettera scarlatta
Fu come se
un angiolo, nel suo passaggio verso il paradiso, avesse scosso per un istante
sul popolo le fulgide ali, un'ombra e uno splendore insieme, spandendo su di
esso una pioggia d'auree rivelazioni.
Era giunto così per il sacerdote Arthur il
periodo della sua vita più brillante e colmo di trionfi d'ogni altro precedente
o forse di là da venire. In quel momento egli stava sulla vetta più superba del
primato a cui i doni dell'intelletto, la ricca cultura, l'eloquenza suadente e
una reputazione d'immacolata santità, potessero innalzare un sacerdote negli
albori, quando la dignità ecclesiastica era di per se stessa un piedestallo
elevato. Ecco la posizione che il pastore occupava quando aveva chinato la
fronte sui cuscini del pulpito, alla chiusa del Discorso dell'Elezione. Intanto
Hester sostava accanto al palco della gogna, con la lettera scarlatta tuttora
ardente sul petto!
Ciascuno
provò l'impulso entro di sé, e nell'attimo stesso lo subì dal vicino. In
chiesa, quell'urlo era stato frenato a stento; sotto la volta celeste, salì
rimbombando allo zenit. Gli esseri umani, e l'eccitamento in cui vibravano
all'unisono, erano sufficienti a creare quel fragore più impressionante della
voce d'organo della bufera, o del tuono: quell'ondata possente di tante voci,
fuse in un'unica grande voce da quella forza universale che parimenti aduna
tanti cuori in un unico cuore immenso. Mai dal suolo della Nuova Inghilterra
sorse un urlo siffatto! Mai sul suolo della Nuova Inghilterra dimorò un uomo
onorato dai suoi fratelli mortali quanto il predicatore!
Che n'era dunque di lui? Non si scorgeva
nell'aria intorno al suo capo il brillante pulviscolo di un'aureola?
Trasumanato dallo spirito e glorificato dagli ammiratori adoranti com'egli era,
i suoi passi calcavano realmente la polvere della terra?
Tutti gli occhi si voltavano al punto dove si
vedeva avvicinarsi il pastore.
Come
appariva cagionevole, in tutto il suo trionfo! L'energia, o per dir meglio l'ispirazione
che lo aveva sorretto sinch'ebbe trasmesso il sacro messaggio, il quale recava
seco dal Cielo la propria forza, era scomparsa ora ch'egli aveva così
fedelmente adempiuto al suo compito. Il rossore che gli avevano visto avvampar
sulla gota testé, era spento come una fiamma che cala senza speranza tra le
braci morenti.
Pareva a malapena d'un vivo, la faccia soffusa di quella tinta di morte;
serbava a malapena una traccia di vita, l'uomo che vacillava sfinito sul suo
cammino, e pur vacillando non cadeva!
Egli
giunse di fronte al palco sempre presente nella memoria, annerito dalle
intemperie, dove un giorno lontano, il primo di tutto quel lugubre lasso di
tempo, Hester aveva affrontato lo sguardo infamante del mondo. Colà stava
Hester, tenendo per mano la piccola Perla! E sul suo petto c'era la lettera
scarlatta. Qui il sacerdote sostò, benché la banda seguitasse a eseguire la
marcia solenne e gioconda al cui suono moveva il corteo. Lo incitava ad andare
avanti, avanti al banchetto!... ma qui egli sostò.
La folla
guardava sgomenta e stupita. Ai suoi occhi quella debolezza terrena era
soltanto una nuova manifestazione della forza celestiale del pastore; né
avrebbe giudicato un miracolo troppo eccelso per chi era già così santo, s'egli
fosse asceso davanti ai suoi occhi, facendosi vieppiù indistinto e splendente,
prima di svanire alla fine nella luce del cielo.
Si voltò verso il palco e protese le braccia.
Hester — disse — vien qui! Vieni, mia piccola
Perla!
Era spettrale lo sguardo con cui le mirava;
ma c'era in esso qualcosa di tenero e insieme stranamente trionfante. La bimba,
con quei suoi caratteristici movimenti d'uccello, volò a lui e gli abbracciò le
ginocchia. Hester, lentamente, quasi spinta da un fato ineluttabile a cui
ripugnasse tutta la sua volontà, si avvicinò del pari, ma ristette prima
d'averlo raggiunto.
“Fermatevi, pazzo! Che cosa intendete fare?!
Allontanate quella donna! Scacciate quella bambina! Tutto andrà bene! Non
macchiate la vostra fama! Non morite nel disonore! Posso ancora salvarvi!”
Bisbigliò il medico.
“Ah, tentatore! Arrivi troppo tardi, io
penso! Il tuo potere non è più lo stesso! Con l’aiuto di Dio ti sfuggirò
stavolta!” Rispose il sacerdote, stendendo nuovamente la mano alla donna dalla
lettera scarlatta.
Hester — gridò con un ardore straziante — nel
nome di Colui, così terribile e misericordioso, che in questo estremo momento
mi dà la grazia di compiere ciò che con mio grave peccato e penosissima
angoscia m'astenni dal fare sette anni orsono, vieni a me, ora, e cingimi della
tua forza! della tua forza, Hester: ma sia guidata dalla volontà che Iddio m'ha
concesso!
La folla
tumultuava. I dignitari laici ed ecclesiastici più vicini al pastore furon
colti così di sorpresa e così imbarazzati sul significato di quella scena, incapaci
com'erano d'accettare la spiegazione che si presentava spontaneamente o di
immaginarne un'altra qualsiasi, che rimasero spettatori silenziosi e passivi
del giudizio che la Provvidenza pareva in procinto di sentenziare. Mirarono il
pastore appoggiato alla spalla di Hester, e sorretto dal braccio di lei che lo
circondava alla vita, avvicinarsi al palco e salirne la scala; mentre stringeva
tuttora nella sua la piccola mano della figlia del peccato.
Di te e di
Perla sia ciò che ha decretato Iddio — disse il pastore; — e Iddio è
misericordioso! Lascia ora ch'io agisca
secondo la volontà ch'Egli ha manifestato ai miei occhi. Perché, Hester, sto
per morire. Debbo dunque affrettarmi a prendere su me la mia onta!
Parzialmente
sorretto da Hester, e poggiando una mano sul capo della piccola Perla, il
reverendo Dimmesdale si rivolse ai dignitosi e venerabili governanti; ai santi
ministri del culto, suoi fratelli; al popolo, il cui gran cuore era tutto
atterrito, e nondimeno ridondava di compianto, conscio che l'arcano segreto
d'una vita la quale, anche se colma di peccato, era colma egualmente d'angoscia
e pentimento, stava per venirgli svelato. Il sole, appena al di là del mezzodì,
sfolgorava sul pastore e ne rendeva nitida la figura mentr'egli si staccava
dalla terra per presentare il proprio atto d'accusa davanti al seggio
dell'Eterna Giustizia.
Voi tutti, che m'avete amato!... voi, che
m'avete ritenuto santo! guardate in me l'unico peccatore del mondo! Alla fine!
alla fine mi trovo sul luogo ove avrei dovuto trovarmi sette anni fa; qui, con
questa donna il cui braccio, più di quel po' di forza con la quale mi sono
arrampicato quassù, m'impedisce di cadere e di strisciare bocconi in questo
istante tremendo! Mirate la lettera scarlatta che Hester porta! Ne avete
tremato tutti quanti! Ovunque abbia volto i suoi passi; ovunque, col suo
miserando fardello, possa avere sperato di trovar requie, essa mandava un
livido bagliore di sgomento e d'orrenda ripugnanza intorno a lei. Ma c'era
qualcuno in mezzo a voi, del cui marchio di colpa e d'infamia non avete
tremato!
Sembrò a questo punto che il pastore dovesse lasciar occulto il resto
del suo segreto. Ma sopraffece la debolezza corporea, e ancor più la viltà del
suo cuore che si sforzava d'aver la meglio su di lui. Respinse ogni aiuto e
mosse impetuosamente un passo davanti alla donna e alla bambina.
— Lo
aveva su di sé — riprese con una sorta di ferocia, tant'era risoluto a dir
tutto. — L'occhio di Dio lo fissava! Gli angioli lo accennavano ognora! Il
Diavolo lo conosceva bene e lo inaspriva di continuo col tocco del suo dito
rovente! Ma egli lo celò con l'astuzia ai suoi simili e si aggirò in mezzo a
voi col sembiante d'uno spirito, dolente perché così puro in un mondo
peccaminoso! e triste perché rimpiangeva la sua famiglia celeste! Ora, in punto
di morte, si drizza davanti a voi. V'ingiunge di riguardare la lettera
scarlatta di Hester!
Guardate, allora! Guardatene una
testimonianza paurosa!
Con mossa convulsa, si strappò la stola
davanti al petto. E tutti videro! Ma quella rivelazione, sarebbe irriverente
descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine raccapricciante si
concentrò sul pauroso prodigio; mentre il pastore si ergeva, avvampando di
trionfo come chi, nell'acme d'un dolore acutissimo, abbia conseguito la
vittoria. Poi si accasciò sul palco! Hester gli sollevò la testa e la sostenne
contro il proprio seno.
Il medico gli si inginocchiò accanto, lo
distingueva un livido sembiante, donde la vita sembrava scomparsa.
-
Mi sei
sfuggito! – ripeté più volte il medico - Mi sei sfuggito!
Il sacerdote congedò il medico dicendo:
“Dio ti perdoni! — disse il
pastore. — Anche tu hai gravemente peccato!”
Distolse gli occhi morenti dal medico e li posò
sulla donna e sulla bimba.
—
Mia piccola Perla — disse con voce fioca; e sul suo volto era un sorriso dolce
e gentile, quasi d'uno spirito che s'immergesse in una quiete profonda; anzi,
libero ormai com'era del fardello, egli sembrava quasi desideroso di scherzare
con la bimba. — Cara piccola Perla, vuoi baciarmi, ora? Non volesti, laggiù
nella foresta. Ma lo vuoi ora?
Perla gli baciò le labbra. Una malia fu rotta. La grande scena di dolore
a cui partecipava, aveva destato nella fanciullina selvaggia ogni capacità
d'affetto: e le sue lacrime che cadevan sulle guance del padre, furono il pegno
ch'ella sarebbe cresciuta tra la gioia e la sofferenza dell'uomo, non già per
impegnare perpetuamente battaglia col mondo, ma per essere nel mondo una donna.
Anche verso sua madre, il compito di Perla quale messaggera d'angoscia era
adempiuto.
—
Hester, addio! — disse il pastore.
Non c'incontreremo mai più? — sussurrò ella,
chinando il viso e accostandolo al suo. — Non passeremo insieme la nostra vita
immortale? Certo, certo, ci siamo riscattati a vicenda con tutto questo dolore!
Tu vedi lontano nell'eternità, coi tuoi occhi morenti pieni di luce! Dimmi,
dunque, che vedi?
—
Taci, Hester, taci! — egli rispose con trepida solennità. — La legge che
infrangemmo!... la colpa qui rivelata così spaventosamente! siano esse soltanto
nei tuoi pensieri! Ho paura! ho paura! Può darsi che da quando dimenticammo il
nostro Dio... da quando violammo la riverenza reciproca per l'anime nostre...
d'allora in poi fosse vano sperar d'incontrarci nell'oltretomba in un'unione
pura e perenne. Lo sa, Dio: e Lui è misericordioso! Ha mostrato la Sua
misericordia soprattutto nelle mie afflizioni. Dandomi da portare sul petto
questa ardente tortura! Mandando quel vecchio cupo e terribile a mantenerla
sempre arroventata! Portandomi qui, a far questa morte d'ignominia trionfale
davanti al popolo! Se uno solo di questi tormenti mi fosse mancato, sarei
perduto per sempre! Sia lodato il Suo nome! Sia fatta la Sua volontà! Addio!
L'ultima parola emanò con l'estremo respiro del pastore. La moltitudine,
sin lì silenziosa, proruppe in una voce strana di sgomento e stupore, incapace
per allora d'esprimersi se non con quel mormorio che echeggiò così greve dietro
allo spirito dipartito.
XXIV
Conclusione
Dopo molti
giorni, quando la gente ebbe avuto il tempo d'ordinar le sue idee a proposito
della scena testé descritta, sorse un certo numero di versioni su quanto s'era
svolto sul palco.
La maggioranza degli
spettatori asserì
d'aver veduto sul petto dell'infelice sacerdote una lettera scarlatta,
l'identica immagine di quella portata da Hester, impressa
nella sua carne. Circa l'origine di essa, si fornirono varie spiegazioni che
dovettero necessariamente esser tutte ipotetiche. Certuni affermarono che il
reverendo Arthur, il giorno stesso in cui Hester rivestiva per la prima volta
l'insegna infamante, aveva iniziato delle pratiche di penitenza, in seguito
proseguite con tanti metodi infruttuosi, infliggendosi un'orrenda tortura.
Altri ancora, più in grado
d'apprezzare la speciale sensibilità del sacerdote e lo straordinario influsso del suo spirito sul
corpo, sussurrarono la propria opinione secondo cui lo spaventoso simbolo era
effetto del dente instancabile del rimorso ch'era andato rodendolo fin dai
precordi, per manifestare alla fine il pauroso decreto del Cielo con la
presenza visibile della lettera. Scelga
il lettore tra queste teorie. Noi abbiam fatto luce del nostro meglio su quel
portento, e saremmo contenti, ora che ha adempiuto al suo ufficio, di
cancellarne l'impronta profonda dal nostro cervello, ove la lunga meditazione
l'ha ribadito con una nitidezza quanto mai sgradevole.
Notiamo tuttavia la singolare circostanza per cui certuni, che
assisterono a tutta la scena e dichiararono di non aver mai distolto gli occhi
dal reverendo Arthur, negarono che sul suo petto vi fossero impronte di sorta,
più di quante ne siano sul petto d'un neonato. E neppure, a sentir loro, le sue
estreme parole avevano riconosciuto, o quanto meno implicato lontanamente, un
benché minimo nesso tra lui e la colpa a motivo della quale Hester recava da
tanto tempo sul seno la lettera scarlatta.
Secondo quei testimoni
degni del massimo rispetto,
il sacerdote, conscio
d'essere in punto di morte; conscio inoltre che la riverenza della moltitudine
lo collocava di già tra i santi e gli angioli, aveva voluto dimostrare al
mondo, spirando tra le braccia di quella donna caduta, quanto sia affatto
insignificante ciò che agli occhi dell'uomo è il fior fiore della virtù. Dopo
ch'ebbe consumato la vita lottando pel bene spirituale del genere umano, egli
aveva fatto della sua morte una parabola, allo scopo d'imprimere nell'animo dei
fedeli la triste e grandiosa lezione secondo cui, nella stima dell'Infinita
Purità, siamo tutti indistintamente peccatori. Essa era stata intesa a insegnar
loro come il più santo tra di noi, altro non abbia fatto che superare i suoi
simili fino a poter discernere più chiaramente la Misericordia che volge in
basso lo sguardo, e ripudiare più compiutamente il fantasma del merito umano,
che ambisce ad innalzare il suo. Senza voler contestare una verità di tanto
momento, non possiamo fare a meno di ritenere questa versione della storia del
signor Arthur se non un semplice esempio di quell'ostinata fedeltà con cui gli
amici d'un uomo, e specialmente d'un ecclesiastico, ne sostengono talvolta
l'integrità del carattere, quando delle prove, chiare come la luce del mezzodì
sulla lettera scarlatta, lo proclamano invece un uomo falso e colpevole.
L'autorità
su cui ci siamo principalmente basati, un manoscritto d'antica data compilato
sulla testimonianza verbale d'un certo numero di persone, alcune delle quali
conobbero Hester mentre altre ne udirono narrare la storia dai contemporanei di
lei, conferma pienamente il punto di vista seguito nelle pagine precedenti. Tra
le tante morali che fan ressa nella nostra mente, ricavate dalla triste
esperienza del povero sacerdote, questa sola formuliamo in una massima:
“Sii sincero! sii sincero!
Mostra liberamente al mondo, anche se non il peggio ch'è in te, almeno qualche
tratto da cui il peggio si possa dedurre!”
Nulla fu più impressionante
del cambiamento che quasi immediatamente dopo la morte del signor Arthur si
verificò nell'aspetto e nei modi del Medico. Ogni vigore e energia, ogni forza
fisica e intellettuale parvero abbandonarlo.
Scomparve alla vista mortale, come
un'erbaccia estirpata che appassisce al sole.
Lo sciagurato aveva fatto
consistere il principio stesso della propria esistenza nella ricerca e
nell'esercizio sistematico della vendetta; e quando, col trionfo e con
l'adempimento più completo di essa, quel malvagio principio rimase privo
d'ulteriore materiale che lo sostentasse;
quando, in breve, non ci fu
più per lui nessun lavoro del Diavolo da compiere in terra, non restò a cotesto
mortale disumanato che recarsi là dove il Padrone gli avrebbe affidato altri
compiti, e debitamente pagato la sua mercede.
Ma a tutti quegli esseri
d'ombra ormai familiari d'antica data, al medico come pure ai suoi compagni,
saremmo lieti d'usare misericordia.
È un interessante argomento
d'osservazione e d'indagine, stabilire se l'odio e l'amore non siano in fondo
la stessa cosa. Ciascuno dei due, al proprio massimo sviluppo, presuppone un
alto grado d'intimità e conoscenza del cuore; ciascuno fa sì che una persona
dipenda dall'altra pel cibo dei propri affetti e della vita spirituale;
ciascuno lascia l'amante appassionato, o il non meno appassionato odiatore,
sperduto e derelitto alla scomparsa dell'oggetto a cui tende. Considerandole
quindi dal punto di vista filosofico, le due passioni sembrano essere
essenzialmente identiche, eccetto che l'una ci avviene di scorgerla in una
chiarità celestiale, e l'altra in un fosco bagliore rossastro. Nel mondo dello
spirito, forse il vecchio medico e il sacerdote, reciproche vittime come erano
stati, videro inaspettatamente cangiarsi in aureo amore la loro provvista
terrena d'odio.
Lasciando
cadere questa quistione, abbiamo da comunicare al lettore una notizia di
carattere pratico. Al decesso del medico, che avvenne in quell'anno, risultò che
egli aveva lasciato nel suo testamento, gli esecutori del quale furono il
Governatore Bellingham e il reverendo Wilson, una considerevole sostanza alla
piccola Perla, la figlia di Hester.
Così Perla, il folletto,
ovvero il rampollo diabolico, come taluno insisteva ancora a chiamarla, divenne
la più ricca ereditiera dei suoi giorni nel Nuovo Mondo. Non è
improbabile che tale circostanza operasse un mutamento radicale nell'opinione
pubblica: e se madre e figlia fossero rimaste quaggiù, la piccola Perla, giunta
in età da marito, avrebbe potuto mischiare il suo sangue selvaggio con quello
della più devota schiatta di puritani. Ma non molto tempo dopo la morte del
medico, colei che portava la lettera scarlatta disparve, e Perla insieme ad
essa. Durante parecchi anni, benché qualche vaga diceria varcasse di quando in
quando l'oceano come un pezzo di legno alla deriva sbattuto sul lido dai flutti
e inciso con le iniziali d'un nome, non s'ebbero nuove d'indubbio fondamento
sul conto loro.
La storia della lettera
scarlatta divenne una leggenda.
Il suo
incanto, nondimeno, era tuttora potente e conferì un aspetto pauroso e solenne
tanto al palco dov'era morto il povero pastore quanto alla casupola sulla
spiaggia in cui aveva abitato Hester. Un pomeriggio dei bimbi giocavano presso
quest'ultimo sito, quando scorsero una donna alta, vestita di bigio, avvicinarsi
all'uscio. In tutti quegli anni esso non era stato aperto una sola volta; ma
costei lo dischiuse, ovvero il legno e il ferro ormai logori cederono alla sua
mano, o scivolò come un'ombra attraverso cotesti ostacoli; comunque, entrò in
casa.
Prima però
sostò sulla soglia.... si volse parzialmente: dacché, forse, l'idea di
ritrovarsi tutta sola, e mutata a tal segno, nell'antica dimora d'una vita così
intensa, era tanto lugubre e triste che neppur lei riusciva a sopportarla. La
sua esitazione durò solo un istante, sufficiente peraltro a rivelare una
lettera scarlatta sul petto di lei.
Hester aveva fatto ritorno e ripreso l'onta
abbandonata tanto tempo innanzi! Ma dov'era la piccola Perla? Se ancor viva,
doveva trovarsi oramai nel pieno sboccio della gioventù. Nessuno sapeva, né mai
venne a conoscere con certezza assoluta, se una tomba virginale avesse accolto
così prematuramente la bimba folletto, oppure se la sua indole selvaggia e
rigogliosa fosse stata addolcita e mansuefatta, e resa capace delle miti gioie
muliebri. Ma finché Hester visse, certi indizi palesarono che la reclusa dal
marchio scarlatto era oggetto d'amore e d'interesse da parte dell'abitante di
un'altra terra. Giunsero lettere suggellate con uno stemma, la cui insegna era
però sconosciuta all'araldica inglese. Nella casetta c'erano suppellettili di
comodità e di lusso, che Hester non si curava mai d'adoprare, ma che solo la
ricchezza poteva aver acquistato, e l'affetto predisposto per lei. C'erano poi
dei ninnoli, dei piccoli ornamenti, vaghi pegni d'un ricordo costante, che
dovevano esser stati eseguiti da dita delicate sotto l'impulso d'un fervido
cuore. E una volta Hester fu vista ricamare una veste da neonato, con tanta
profusione di preziose fantasie, che avrebbe potuto sollevare un pubblico
tumulto, qualora un infante fosse stato esposto in tale acconciatura alla nostra
comunità di sobrie tinte.
In conclusione, credettero che Perla fosse
viva non solo, ma sposata e felice e sollecita di quella madre mesta e
solitaria, che ben volentieri avrebbe accolto al proprio focolare domestico.
Ma Hester riconosceva una vita più vera qui
nella Nuova Inghilterra, che non nell'ignota nazione ove Perla aveva fondato
una famiglia. Qui s'era adempiuto il suo
peccato; qui, il suo dolore; e qui doveva ancora adempiersi la sua penitenza.
Aveva dunque fatto ritorno, e ripreso spontaneamente, dacché neppure i più
implacabili giudici di quel ferreo periodo glielo avrebbero imposto; ripreso il
simbolo sul quale abbiamo riferito una storia così cupa. Da allora esso fu
sempre sul suo petto. E tuttavia, durante gli anni di pena, di zelo,
d'abnegazione, che composero la successiva esistenza di Hester, la lettera
scarlatta cessò d'esser lo stigma che attirava lo sprezzo e l'acrimonia del
mondo, e divenne il simbolo di qualcosa che occorreva compiangere e riguardar
con sgomento, eppure con riverenza. E poiché Hester era scevra di fini
egoistici e non viveva menomamente pel proprio godimento e profitto, la gente
le recava tutte le sue sofferenze e difficoltà, e ne sollecitava il consiglio,
in quanto lei stessa era passata per un tormento terribile.
Le donne
soprattutto, nei continui affanni della passione ferita, sciupata, offesa, mal
riposta o traviata e peccaminosa; o col greve fardello d'un cuore chiuso in se
stesso perché vilipeso e ignorato, venivano alla casetta di Hester, chiedendo
il motivo di tanta infelicità, e qual ne fosse il rimedio! Hester le confortava
e consigliava del suo meglio. Le assicurava, inoltre, del proprio fermo
convincimento per cui, in un'epoca più luminosa, quando il mondo fosse apparso
sufficientemente maturo e nel momento decretato dal Cielo, sarebbe stata
rivelata una verità nuova, al fine di stabilire compiutamente i rapporti tra
l'uomo e la donna su basi più sicure di reciproca felicità. Da giovane, Hester
s'era immaginata vanamente d'esser forse lei la profetessa prescelta, ma da
molto tempo ormai aveva riconosciuto l'impossibilità che una missione di verità
divina e misteriosa venisse affidata a una donna di peccato oppressa da un
dolore perenne.
L'angiolo e l'apostolo
della rivelazione imminente doveva essere, sì, una donna, ma nobile, pura e
bella; e resa saggia, inoltre, non dal tenebroso dolore, ma dall'etereo
strumento ch'è la gioia; e intesa a mostrare come l'amor sacro basti a farci
felici, mediante la prova più veridica d'una riuscita in tale intento!
Così
diceva Hester, e chinava i tristi occhi sulla lettera scarlatta. E dopo molti,
molti anni, venne scavata una tomba accanto ad un'altra ormai vecchia e
affondata nel suolo di quel cimitero presso il quale fu costruita
successivamente la King's Chapel. Sorse dunque accanto all'altra vecchia tomba,
e tuttavia con un breve margine in mezzo, quasi le ceneri dei due dormienti non
avessero il diritto di mescolarsi. Nondimeno, un'unica lapide le copriva
entrambe. Tutt'intorno, scorgevansi sepolcri scolpiti d'armi gentilizie; e su
quella semplice lastra d'ardesia, come il curioso visitatore può osservare
ancor oggi, stillandosi il cervello in cerca del suo significato, appariva
inciso uno stemma. Recava un'insegna, che tradotta nel frasario araldico,
potrebbe servire da motto e da compendio della nostra leggenda testé conclusa;
tanto è cupa, e ravvivata da un unico punto perennemente infocato di luce più
fosca dell'ombra:
“un'A rossa in campo nero.”