E U G E N I O
B O R G N A
L’
I N D I C I B I L E
T
E N E R E Z Z A
I n c a m m i n o c o n
S i m o n e W e i l
F R A M M E N T O
D I L E T T U R A
Eugenio Borgna, L’ indicibile tenerezza, In cammino con Simone
Weil, Feltrinelli, Milano 2016
I N D I C E
p.
Le premesse
3
Deserti luoghi
4
Le ragioni della speranza
5
La condizione operaia
6
La dignità spezzata
7
Reificazione, Il Diario e le lettere di Etty Hillesum 8
Madre Teresa di Calcutta
10
I nostri poveri
11
Maria Teresa. Una testimonianza. 11
Ascoltare
12
Non dimenticare
12
Le cose che non cambiano
13
La sofferenza inutile
13
La vita di Simone Weil 13
Le forme della sventura
15
L’infelicità è muta
16
Malheur
16
La sventura rende Dio assente
18
Mille idee confuse
20
Non c’è conoscenza senza sofferenza
20
Il cuore
21
L’attitudine ad ascoltare
23
Grida nel silenzio 23
Simone Weil. Il dono d’una vita.
25
Le domande senza fine 25
Animo rivelatore 26
La partecipazione emozionale al sentimento altrui 27
Amicizia
28
L’amicizia creatrice come sorgente di vita
L’amicizia come dialogo
Il nocciolo segreto di ogni esperienza di amicizia :
l’inesauribile reciprocità.
Friedrich Nietzsche. Noi siamo due navi.
L’amicizia è un miracolo
L’ordine della grazia
Simone Weil. Attesa di Dio. 1941 – 1942. L’amicizia è armonia
soprannaturale.
L’amicizia è fragile
La comunità di destino
L’attenzione 30
L’attenzione è il solo cammino verso il mistero
Simone Weil. Attesa di Dio. 1941 – 1942. L’attenzione è
preghiera.
L’attenzione e la serendipità
Le fonti di speranza: L’amicizia e l’attenzione 32
La tenerezza: l’immagine della donna 32
La tenerezza ci apre al mondo
33
Simone Weil. Le lettere alle allieve
33
Amore
34
In dialogo con l’adolescenza
34
Le poesie. A un giorno. 34
Nel sorriso di un volto amato
36
La preghiera
37
Santa Teresa di Lisieux
37
Il tempo è l’attesa di Dio
37
Modi di leggere
38
Il grido ci lacera
38
Il mistero delle relazioni
38
La notte del nulla 38
Le luci del mistero 39
Il mio ultimo cammino
41
Vivere è prendere commiato?
42
Questa scrittura (frammento di lettura), benché compendi il
significato originario dell’opera di Eugenio Borgna non coincide con l’opera
autografa.
Siate curiosi di osservare la fonte originaria.
“Ma
dove sei? Ogni tanto guardo il cielo di notte e mi sembra di vederti in una
stella che brilla un po’ più delle altre.”
Le
premesse
Simone
Weil, questa donna così esile, così luminosa e così bruciata dalla passione, e
dalle fiamme della immedesimazione e talora della identificazione nel destino
di sventura e di dolore degli altri, degli ultimi della terra, degli umiliati e
degli offesi, sono state ostinatamente aperte alla speranza: ad una speranza
mondana prima, e ad una speranza metafisica poi; resistendo a prove, e a
sacrifici, che anche solo a ripensarli oggi ci fanno precipitare nelle
vertigini dell’insondabile e dell’inesprimibile, dell’inimmaginabile e
dell’impensabile.
Simone Weil mi ha lasciato tracce
luminose e strazianti nella memoria: di volta in volta ridestate nel loro
fascino quando la mia vita si confrontava con il mistero del dolore e della
sofferenza: nel mio cuore, e in quello degli altri.
È
necessario leggere, e rileggere senza fine, le opere letterarie di Simone Weil
se ci si vuole accostare alla sua natura, alla sua vertiginosa ragione d’essere,
che è al di là di
ogni comprensione razionale, e che solo la intuizione ci consente di
riconoscere e di accettare nel suo mistero.
Dolorose
analogie
Mille figure del male ancora oggi
sono talora in noi, e sono così frequenti nella società in cui stiamo vivendo.
Le fiammeggianti immagini della
riduzione dell’umano a cosa, della radicale indifferenza
etica alla sofferenza e al dolore, rinascono nella loro sconvolgente realtà
dal diario e da altri testi di Simone Weil che con un linguaggio di indicibile
tensione emozionale ne testimoniano i modi di essere, e le continue
metamorfosi. Sono figure del male descritte nella loro evidenza tematica con parole silenziose e assorte che dicono
stupendamente la enormità della violenza e della disperazione, la negazione di
ogni libertà e di ogni dignità umane, di ogni diritto e di ogni rispetto, che non possono essere dimenticate, non
possono essere considerate come antiquate, e come appartenenti ad una epoca
storica ormai definitivamente cancellata; e questo perché i meccanismi che ne
sono stati alla radice non sono cancellati, e non lo saranno forse mai, dalla
coscienza e dalla storia.
Psichiatria
umana e gentile : Infinito dialogo e ricerca del senso della follia.
La psichiatria, subalterna alla
neurologia, non destava grande interesse, mentre capivo che avrei dovuto
immergermi nello studio e nella pratica clinica di una psichiatria incentrata sui suoi aspetti culturali e umani, e non
solo in quelli clinici e psicopatologici.
Riconoscere
e cercare di realizzare il mio destino (il destino che si nasconde nella vita
di ciascuno di noi) seguendo il cammino misterioso che va verso l’interno, ed è
la premessa ad avvicinarsi alla interiorità, alla soggettività, degli altri, al
fine di comprendere le ragioni delle loro sofferenze, e di cercare di
mitigarle.
La
dimensione psico(pato)logica e umana della sofferenza
Constatavo come le sole
conoscenze mediche non bastavano, e dovevano essere associate ad altre aree
conoscitive, a quelle letterarie e anche a quelle filosofiche, senza le quali
la ragione d’essere dell’animo umano, e non è questo l’oggetto ultimo della
psichiatria?, non poteva essere analizzata e scandagliata nelle sue fondazioni
radicali.
“Solo così, solo utilizzando le
intuizioni letterarie e filosofiche, è possibile avvicinarsi agli abissi
enigmatici e oscuri della angoscia e della tristezza, della dissociazione e
della ossessività; ed è possibile comprenderne le molteplici forme di
espressione.”
Karl Jaspers
La conoscenza emozionale, la
conoscenza che sgorga dalle ragioni pascaliane del cuore, si affianca alla
conoscenza razionale e scientifica: Ogni esperienza psicopatologica è la storia
di una vita che deraglia, e talora si frantuma, sulla scia di esperienze, non
necessariamente patologiche, che devono essere chiarite e decifrate nella loro
natura.
Fare psichiatria significa
seguire questo emblematico invito:
“Il
più forte dà una mano al più debole.”
Manfred Bleuler
Nella vita e negli scritti di
Simone Weil risplende una straordinaria testimonianza umana comprensione e di
conoscenza di ogni vita straziata dal dolore, e di ogni vita illuminata dalla speranza, che non muore nemmeno negli ultimi
confini della vita, quando ne sia imminente la morte.
Questo mio temerario discorso sul
pensiero e sull’immaginazione creatrice
di Simone Weil si accompagna alla considerazione di altre esperienze umane
consonanti:
Le
vite di Leopardi, di Nietzsche, di Rilke, di Etty Hillesum, di madre Teresa di
Calcutta e di santa Teresa di Lisieux.
La ricerca del senso solo apparentemente perduto nella follia.
Nel 1978 in Italia ha avuto luogo
la rivoluzionaria legge di riforma con la cancellazione
degli ospedali psichiatrici.
Deserti
luoghi
v Le esperienze in fabbrica di Simone Weil (dal
4 dicembre 1934 al 22 agosto 1935.)
Il
voler vivere e condividere la condizione operaia in una quasi mistica comunità
di destino.
Umanità
e dignità, rispetto e solidarietà, divorate dalla alienazione, non sopravvivevano. Certo, è stata una sua
scelta volontaria che si può comprendere solo se ci sia possibile immergerci
nella sua febbrile intenzione di conoscere la condizione umana ferita dal
dolore e dalla sofferenza, dalla angoscia e dalla solitudine, dalla perdita di
ogni libertà interiore e dalla alienazione, in luoghi nei quali giorno dopo
giorno trascorrevano la loro vita tante operaie, e tanti operai.
Come
non meravigliarsi che una giovane donna di venticinque anni possa avere
resistito alla agghiacciante atmosfera di deserti luoghi: solo salvati da
alcune relazioni umane che, intessute di sorriso e di gentilezza, di
compassione e di solidarietà, rischiaravano per un attimo le ombre e le tenebre
di giornate bruciate dal nonsenso, e dalla fatica di vivere? Sono state
esperienze nelle quali si rispecchiano ancora oggi situazioni di violenza
talora nascosta e mascherata, ma non per questo meno terribili nella loro
realtà umana e psicologica. Sono state esperienze che denotano i terrificanti
meccanismi di estraneazione e di dis-umanizzazione ancora oggi operanti in
altri deserti luoghi, nel silenzio delle coscienze, e nel silenzio di Dio. Ma
queste dolorose esperienze sono state rivissute da Simone Weil come sorgenti di
conoscenza delle condizioni di lavoro allora dominanti, come testimonianza di
solidarietà al destino di fatica di vivere, al destino di un vivere che
sconfinava ad ogni ora in un morire senza una speranza, che ne desse un senso,
e anche come immersione e come identificazione nella vita, lacerata dal
nonsenso.
v Le esperienze nel campo di concentramento a
Westerbork di Etty Hillesum.
Situazioni
ovviamente inconfrontabili le une con le altre ma situazioni nelle quali sono
riemerse le straordinarie attitudini femminili a resistere al male di vivere e
alla violenza inaudita, e a presagire la presenza luminosa e arcana di Dio.
Sono attitudini che mi sono sembrate riemergere in deserti luoghi radicalmente
diversi, ma contrassegnati da una uguale indifferenza al vivere e al morire,
come sono le aree di indigenza estrema, che ancora oggi non sono scomparse.
v L’indicibile testimonianza di solidarietà
umana di madre Teresa di Calcutta.
Le
forme della sventura
L a fenomenologia della sventura,
della infelicità, del sommo dolore, la parola francese malheur.
Il tema della sofferenza, che si
trasforma in sventura non ancorata
alla vita in una fabbrica, in un campo di concentramento, o in un manicomio, ma estesa ad ogni forma di vita.
Simone Weil descrive la sventura
con una inenarrabile forza d’animo.
Sono pagine ancora oggi di
sanguinante attualità perché la sventura, sia pure in modi diversi da quelli
rivissuti da Simone Weil, scorre senza fine (talora mascherata talora smorzata
nelle sue risonanze vitali talora nascosta talora spontanea talora generata dalla
violenza) nelle nostre vite, e non sempre ne abbiamo coscienza. La sventura non
riconosciuta, la sventura che i nostri occhi non sanno intravedere, la sventura
imbevuta di ombre che non si riescono a cancellare, la sventura che solo gli
occhi bagnati dalle lacrime sanno vedere, la sventura che è male di vivere, e
deserto della speranza, rinasce mirabilmente dalle descrizioni che ne fa Simone
Weil sulla scia di quello che avveniva in lei, e che intuiva negli altri. La
sventura si accompagna sempre alla domanda sul senso della sua presenza in noi:
in alcuni fra noi, e magari nei migliori fra noi. Sono pagine che non si
possono non leggere e rileggere, e soprattutto che non si possono non ricordare
nella loro lancinante passione della interiorità, e nella loro inesausta
profondità.
Concordanti
nella tesi che non ci possa essere conoscenza senza sofferenza. Ovviamente,
sono cose che non hanno a che fare con l’elogio della sofferenza ma con la
ricerca di un senso nel dolore, la sua comprensione e la sua interpretazione,
la sua trasformazione da esperienza senza senso ad esperienza solcata dai raggi
talora visibili talora invisibili della sensibilità e della fragilità.
“Il
dolore è l’estremo liberatore dello spirito, ci induce a discendere nelle
nostre ultime profondità, e genera costantemente i nostri pensieri: nutrendoli
di tutto quello che abbiamo in noi di sangue, di cuore, di passione, di
coscienza e di destino.”
Nietzsche
Le
ragioni della speranza
Nella
vita e negli scritti di Simone Weil non mancano emozioni, non mancano stati
d’animo, e non mancano pagine immerse nella gioia e nell’amicizia, nella
attenzione, come forme di esperienza alle quali ancorarsi, e dalle quali
muoversi alla comprensione piena della vita: non solo divorata dal dolore e
dalla sofferenza ma anche dalla speranza, e dalla apertura (ma questa ne è una
dimensione costante e luminosa) al mondo degli altri: alle loro gioie e alle
loro sofferenze, alla loro disperazione e alle loro richieste di aiuto, alle
loro mancanze e alle loro nostalgie.
L’amicizia
è grazia e speranza, contemplazione e preghiera.
La
grande significazione umana e filosofica dell’amicizia riemerge da pensieri e
da immagini che sono fra le cose più belle e struggenti che mai siano state
scritte sull’amicizia intesa in ogni caso come forma di vita che riscatta dalla
banalità e dalla terrestrità delle esperienze oggi dilaganti.
“Imparare a respingere l’amicizia. O meglio,
il sogno dell’amicizia. Desiderare l’amicizia è un grave errore. L’amicizia
deve essere una gioia gratuita come quelle che danno l’arte, o la vita. Bisogna
rifiutarla per essere degni di riceverla, essa partecipa della natura della
grazia (‘Mio Dio, allontanatevi da me…’). È una di quelle cose che ci sono date
per soprappiù. Ogni sogno d’amicizia merita di essere spezzato”.
Questa
considerazione è ricolma di apparenti contraddizioni, che fanno nondimeno parte
del mistero della vita, e di sfolgoranti intuizioni.
“L’amicizia
non nasce se non è accompagnata dalla attenzione: categoria di radicale
importanza ermeneutica. “
Maurice
Blanchot
“L’attenzione
è il solo cammino verso l’inesprimibile: la sola strada al mistero.”
Cristina Campo
Le poesie di Simone Weil
risplendono di una luce di volta in volta delicata e abbagliante, struggente e
malinconica, di una malinconia teneramente femminile.
Il
cammino dalla indifferenza religiosa alla fede in Dio :
Vi
sono evidenti analogie fra l’attesa di Dio in Simone Weil, e quella in santa
Teresa di Lisieux, e in ogni caso l’una e l’altra sono giunte, lungo sentieri radicalmente
diversi nella loro complessità e nella loro profondità, al desiderio e
all’ascolto di Dio: di un Dio sensibile al cuore, e non alla ragione.
Le
notti oscure dell’anima di san Giovanni della Croce: Il silenzio di Dio.
“Non
sono nata per condividere l’odio ma l’amore.”
Antigone
Non
è possibile non intravedere anche l’anima temeraria di Simone Weil che
nell’amore, nell’amore per le persone più fragili e più deboli, più sole e più
povere, ha consumato la sua vita.
La condizione operaia
È difficile immaginare una donna
giovanissima, insegnante di filosofia nei licei, che si congedi
dall’insegnamento, e si immerga nei deserti luoghi di una fabbrica che il suo
diario ci rivela nelle sue terribili condizioni di vita. Mi immedesimo, cerco
disperatamente di farlo, in lei, nel suo temerario desiderio di rivivere la
vita e le sofferenze degli operai in fabbriche, come quelle di allora,
contrassegnate da una insostenibile violenza, e da una inesorabile mancanza di
libertà e di senso.
Il sigillo di una continua
immaginazione creatrice trasforma ogni pensiero e ogni iniziativa di Simone
Weil in qualcosa di abbagliante, e di inconfrontabile.
La
psichiatria si ferma attonita dinanzi al mistero e al miracolo di una vita
spentasi a nemmeno trentaquattro anni, e impegnata giorno e notte alla
costituzione di relazioni umane creatrici, e di un mondo migliore, nel quale le
differenze sociali e culturali si appianassero, e si armonizzassero.
“Questa
esperienza che per molti aspetti corrisponde a quel che mi aspettavo, ne è
separata tuttavia da un abisso; è la realtà, non più l’immaginazione. Ha mutato
in me non questa o quella delle mie idee (molte sono state anzi confermate); ma
infinitamente di più, tutta la mia prospettiva delle cose, il senso stesso che
ho della vita. Conoscerò ancora la gioia, ma una certa leggerezza di cuore mi
rimarrà, credo, impossibile per sempre. Ma, su questo argomento, basta:
l’inesprimibile, a forza di volerlo esprimere, si degrada.”
L’alienazione
trasforma le persone in cose, in oggetti ma la reificazione dell’umano, che
avveniva in fabbrica, non manca nemmeno oggi in non poche condizioni di vita
nelle quali ci si perde nelle tenebre di una agghiacciante indifferenza.
“In
senso generale, la tentazione più difficile da respingere, in una vita simile,
è quella di rinunciare completamente a pensare: si sente così bene che questo è
l’unico mezzo per non soffrire più. Anzitutto di non soffrir più moralmente.
Perché la situazione cancella automaticamente i sentimenti di rivolta: fare il
proprio lavoro con irritazione, vorrebbe dire farlo male e condannarsi a morir di fame; non c’è alcuna persona a
cui prendere interesse, non c’è che il lavoro.”
Come
leggere queste cose senza ripensare ad altre situazioni che ancora oggi non
sono molto lontane da quelle rivissute da Simone Weil.
Vedi,
tu vivi a tal segno nell’istante presente – e ti voglio bene per questo – che
forse non immagini nemmeno cosa voglia dire concepire tutta la propria vita
davanti a sé e prendere la risoluzione ferma e costante di farne qualcosa, di
orientarla da cima a fondo, con la volontà e col lavoro, in un senso
determinato. Quando si è così – e io sono così, e allora so cosa vuol dire – la
peggior cosa al mondo che un essere umano possa farti è quella di infliggerti
sofferenze che spezzino la vitalità e quindi la capacità di lavoro.”
“So
anche troppo che cosa significa assaporare così la morte da viva; vedere gli
anni stendersi innanzi a sé, avere mille volte di che riempirli, e pensare che
la debolezza fisica costringerà a lasciarli vuoti, che sarà un compito
terribile anche solo percorrerli un giorno dopo l’altro.”
“Lo
sfinimento finisce col farmi dimenticare le vere ragioni della mia permanenza
in fabbrica, rende quasi invincibile la più forte fra le tentazioni che
comporta questo genere di vita: quello di non pensar più, unico mezzo per non
soffrirne. Spavento che mi penetra constatando la condizione di dipendenza
nella quale mi trovo di fronte alle circostanze esterne: sarebbe sufficiente
ch’esse mi costringessero un giorno ad un lavoro senza riposo settimanale –
cosa che, dopotutto, è sempre possibile – e io diventerei docile e rassegnata
(almeno per me).”
Ma
cosa dà un senso alla fatica di vivere in un ambiente di così radicale
indifferenza umana, e di così insostenibile violenza? Lo dicono queste sue
parole immerse nel dolore e nello sconforto.
“Solo
il sentimento della fraternità, l’indignazione di fronte alle ingiustizie
inflitte agli altri, rimangono intatti, ma fino a che punto ciò potrebbe
resistere? – Non sono tanto lontana dal pensare che la salvezza dell’anima di
un operaio dipenda anzitutto dalla sua costituzione fisica. Non riesco ad
immaginare come quelli che non sono robusti possano evitare di cadere in una
qualsiasi forma di disperazione – ubriachezza, o vagabondaggio, o delitto, o
vizio, o depressione. La rivolta è impossibile se non a intervalli d’un lampo
(voglio dire, anche sentimentalmente). Anzitutto, contro che cosa? Si è soli
col proprio lavoro, ci si potrebbe rivoltare solo contro di esso – ora,
lavorare con irritazione, vuol dire lavorare male, dunque morir di fame.”
“La
schiavitù mi ha fatto perdere completamente il senso di avere dei diritti. Mi
paiono un dono i momenti nei quali non devo sopportare nulla della brutalità
degli uomini. Quei momenti sono come sorrisi del cielo, doni del caso. Speriamo
di conservare questa condizione di spirito, così ragionevole… I miei compagni,
non hanno, credo, al medesimo grado il senso di questa condizione, non hanno
pienamente capito che sono schiavi. Le parole ‘giusto’ e ‘ingiusto’ hanno
evidentemente conservato, per loro, fino ad un certo punto, un senso; in una
situazione dove tutto è ingiustizia.”
La dignità spezzata
I
pensieri, che rinascono dalle ultime pagine del diario, ci dicono come Simone
Weil nonostante tutto ritrovasse un significato anche nel contesto di una
inaudita indifferenza ai valori della sensibilità e della umanità.
“Che
cosa ho guadagnato in questa esperienza di una inaudita indifferenza ai valori della sensibilità e della
umanità? Il senso che non ho nessun diritto, di nessun genere e su nulla
(attenzione a non perderla, questa coscienza). La capacità di essere moralmente
autosufficiente di vivere in questo stato di umiliazione latente e perpetua
senza sentirmi umiliata ai miei propri occhi; di gustare intensamente ogni
istante di libertà o di amicizia, come se dovesse essere eterno. Un contatto
diretto con la vita…”
Parole
lacerate dalla banalità del male :
“Per
poco non sono stata spezzata. Per poco il mio coraggio, la coscienza della mia
dignità sono stati quasi distrutti durante un periodo il cui ricordo mi
umilierebbe; ma, letteralmente, non ne ho conservata memoria. Il tempo m’era
divenuto un peso intollerabile. Il timore, la paura, di quel che sarebbe venuto
dopo trucidavano il mio cuore. L’oggetto del timore erano gli ordini. La coscienza della dignità
personale, quale la società l’ha costruita, è spezzata. Bisogna farsene
un’altra (benché lo sfinimento spenga la coscienza della propria medesima
facoltà di pensare!). Sforzarmi di conservare quell’altra coscienza. E
finalmente ci si rende conto della propria importanza. La classe di quelli che
non contano – in nessuna situazione – agli occhi di nessuno… e che non
conteranno mai, qualsiasi cosa accada.”
Una
grande macchina ignota
“Quando
si ha occasione di scambiare uno sguardo con un operaio – sia che lo si
incontri passando, che gli si chieda qualcosa, o che lo si guardi mentre lavora
alla sua macchina – la sua prima reazione è sempre il sorriso.”
“Coloro
che possiedono il potere decisionale delegano le parti poco gradevoli della
loro autorità ai subordinati e serbano per sé le parti della grazia e della
benevolenza. Sento d’esser preda di una grande macchina ignota. Non si sa a
cosa serva il lavoro che si sta facendo, non si sa cosa si farà domani.
L’ignoranza totale circa l’oggetto del proprio lavoro è enormemente
demoralizzante. Non si ha il senso che dai nostri sforzi esca un prodotto. Non
ci si sente affatto produttori. Non si ha neppure coscienza del rapporto fra
lavoro e salario. L’attività pare arbitrariamente imposta e arbitrariamente
retribuita. Si ha l’impressione d’essere un po’ come ragazzi ai quali la madre,
per farli star tranquilli, dà a infilar perline promettendo, per dopo, le
caramelle.”
v
“Quel
che conta in una vita umana non sono gli eventi che vi dominano il corso degli
anni – o anche dei mesi – e nemmeno dei giorni. È il modo con il quale ogni minuto
si connette al minuto seguente e quel che a ognuno costa, nel corpo, nel cuore,
nell’anima – e soprattutto nell’esercizio della facoltà d’attenzione –
compiere, minuto per minuto, quella connessione.”
v
Le vertiginose sequenze di un
tempo che non passa mai, e si arena nelle acque immobili della indifferenza e
della insignificanza:
“Eccomi
ad una macchina. Contare cinquanta pezzi… metterli ad uno ad uno sulla
macchina… da una parte, non dall’altra… premere ogni volta una leva… levar il
pezzo. Metterne un altro… contare ancora… Non vado abbastanza presto. La
stanchezza si fa già sentire. Bisogna andar più forte, impedire che un attimo
di sosta separi ogni gesto dal gesto seguente. Più presto, ancora più presto!
Ci siamo, ho messo un pezzo dalla parte sbagliata! Chissà se è il primo?
Bisogna fare attenzione. Questo pezzo è messo bene. Anche quest’altro. Quanti
ne ho fatti in questi ultimi dieci minuti? Non vado abbastanza presto. Aumento
ancora. Poco a poco, la monotonia del lavoro mi spinge a fantasticare. Per
qualche attimo il pensiero va a tante cose. Brusco risveglio: quanti ne sto
facendo? Non deve essere abbastanza. Non sognare. Aumentare ancora. Sapessi
almeno quanti bisogna farne! Mi guardo intorno; nessuno sorride, nessuno leva
la testa, mai. Nessuno dice una parola! Come si è soli! Faccio 400 pezzi l’ora.
Sarà abbastanza? Purché mantenga almeno questo ritmo… Finalmente la campanella
del mezzogiorno. Tutti corrono all’orologio marcatempi, allo spogliatoio, fuori
dalla fabbrica.” Si mangia qualcosa ma: “Il tempo corre. Bisogna rientrare.
Ecco
la mia macchina. Ecco i miei pezzi. Bisogna ricominciare. Far presto… Mi sento
svenire di stanchezza e di nausea. Che ora è? Ci sono ancora due ore prima
dell’uscita. Come riuscirò a farcela?. Con il corpo svuotato d’ogni energia
vitale, la mente vuota d’ogni pensiero, il cuore gonfio di disgusto, di rabbia
silenziosa, e, soprattutto, un senso di impotenza e di sottomissione. Perché la
sola speranza per il domani, è che mi si voglia lasciar passare ancora una
giornata simile.
Quanto
ai giorni che verranno, sono troppo lontani. L’immagine si rifiuta di
percorrere un numero tanto grande di tetri minuti.
Come
si vorrebbe poter deporre la propria anima, entrando, insieme al proprio
cartellino e riprenderla intatta all’uscita! E invece accade il contrario. La
si porta con sé in fabbrica, dove patisce; e la sera, quello sfinimento l’ha
come annientata e le ore di libertà sono vane.”
Leggendo
questo diario, di così immediata e sconvolgente pregnanza narrativa, mi sembra
ogni volta di essere immerso non in vicende lontane nel tempo e nei luoghi ma
in vicende che in analoghe strazianti climax emozionali stanno avvenendo oggi
in qualche parte del mondo a noi vicina, e talora anche in noi, e fra noi,
benché ovviamente non nei modi che Simone Weil ha vissuto nei mesi di lavoro, e
che sono stati fonte in lei di profondi e radicali cambiamenti di vita, e di
interpretazione della vita.
Reificazione
Il
fenomeno della reificazione, della disumanizzazione, che si esprime nel
togliere alle persone libertà e autonomia, dignità nel lavoro e rispetto, nel
trasformarle in cose, in oggetti, valutati, e considerati, solo tenendo
presenti la loro utilizzabilità; e questo ancora oggi avviene, non solo nei
luoghi di lavoro, ma anche nelle quotidiane relazioni di vita.
Etty
Hillesum
Il
Diario di Etty Hillesum
Nel
campo di concentramento Etty Hillesum ha riscoperto il valore della fede e
della speranza in Dio, scrivendo pagine di indicibile bellezza e di
straordinaria ricchezza umana, e spirituale.
La
vita di Etty Hillesum fu contrassegnata dalla straordinaria ricchezza umana e
psicologica, dalla continua immedesimazione, che sconfinava nella
identificazione, nel dolore e nelle ferite dell’anima degli altri, e dalla
rinascita della fede e della speranza in un Dio personale.
“Le
minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la
preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come
nella cella di un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte.
Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà
sempre più grande, e anche un fatto sempre più oggettivo. La concentrazione
interna costituisce alti muri fra cui ritrovo me stessa e la mia unità, lontana
da tutte le distrazioni. E potrei immaginarmi un tempo in cui starò
inginocchiata per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno
questi muri, che m’impediranno di sfasciarmi, perdermi e rovinarmi.”
Etty
Hillesum
“La sofferenza non è al di sotto della dignità
umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell’uomo. Voglio dire:
la maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore, e così vive
ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una
vera vita, fatta com’è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione.
Dio mio, tutto questo si può capire benissimo: ma se una vita simile viene
tolta, viene tolto poi molto? Si deve accettare la morte, anche quella più atroce,
come parte della vita. E non viviamo ogni giorno una vita intera, e ha molta
importanza se viviamo qualche giorno in più, o in meno?”
Etty
Hillesum
“Sono
accanto agli affamati e ai moribondi, ogni giorno – ma sono anche vicina al
gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto
per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine.
Si
deve anche avere la forza di soffrire da soli, e di non pesare sugli altri con
le proprie paure e coi propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si
dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e
altrimenti con la severità.”
Etty
Hillesum
v
“Il
dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o
nell’altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado
di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita.”
Etty
Hillesum
v
“
‘So tutto, tutto, in ogni momento’; a volte devo chinare il capo sotto il peso
di questa ineluttabile realtà, e allora sento il bisogno di congiungere le
mani, quasi in un gesto automatico, e così potrei rimaner seduta per ore – so
tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa
che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato.”
Il
diario e le lettere di Etty Hillesum sono fondamentali testimonianze alle quali
ripensare nel corso della nostra vita quando, in particolare, le notti oscure
dell’anima scendono in noi: straziandoci, e non consentendoci di ritrovare un
senso nel dolore.
Le
Lettere
Lettere
dalle quali non viene mai meno l’invito a non lasciare morire la speranza: una
speranza impossibile, e nondimeno una speranza ancora possibile se essa è la
petite fille espérance di Charles Péguy.
v
“Non
è facile sfuggire alla aridità e alla desertificazione delle emozioni. Il grave
rischio è quello di diventare apatici e insensibili. Il dolore umano di cui
siamo testimoni, e al quale assistiamo ancora ogni giorno, è più di quanto un
individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto, lo
sentiamo dire quotidianamente intorno a noi, e in tutti i modi immaginabili:
‘Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più in
fretta possibile’. E questo mi sembra molto pericoloso.”
v
Meditare
nel silenzio del cuore
“Certo,
accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibile. Ma
forse possediamo altri valori oltre alla ragione, valori che allora non
conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante. Io credo
che per ogni evento l’uomo possieda una intelligenza etica che gli consente di
superarlo. Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i
nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare
questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni
nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove
prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo
irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nella nostra mente e nel
nostro cuore, per farli assimilare e divenire fattori di crescita e di
comprensione –, allora non siamo una generazione vitale.”
“Non
è la ragione, la ragione calcolante, che ci consente di giungere a queste
considerazioni, ma la intuizione che scende nel cuore delle nostre esperienze;
separando quelle necessarie a vivere una vita dotata di senso da quelle che a
questo fine non sono necessarie. “
“Dai
campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno
portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che
là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in circostanze che
diventano quasi altrettanto difficili. E forse allora, sulla base di una comune
e onesta ricerca di risposte chiarificatrici su questi avvenimenti
inspiegabili, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti. Per
questo mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: ‘Non vogliamo pensare, non
vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa
miseria’. Come se il dolore – in qualunque forma si presenti a noi – non
facesse ugualmente parte dell’esistenza umana.”
“Volevo
solo dire questo: la miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, la
sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di
camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si
innalza una voce – non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare
–, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo
costruire un mondo completamente nuovo.
A
ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà
che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo
soccombere. E se sopravvivremo indenni a questo tempo, corpo e anima ma
soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto
di dire la nostra a guerra finita.”
La lettera lambisce il tema del suicidio che Etty Hillesum radicalmente rifiuta.
“Tu
parli di suicidio. Certo che posso capire, ma trovo che sia un argomento
malsano. C’è un limite a tutte le sofferenze, forse a un essere umano non è
dato da sopportare più di quanto non gli sia possibile – oltre quel limite,
costui muore da sé. Ogni tanto qui muore qualcuno perché il suo spirito è
spezzato, ed egli non riesce più a capire il senso, in genere sono persone
giovani.
Le
persone anziane sono radicate in un terreno meno labile e accettano il loro
destino con dignità e rassegnazione. Sì, qui si vede una gran varietà di persone
e si può osservare il loro atteggiamento verso le questioni più ardue, le
questioni ultime.”
Mi
chiedo, continuo a chiedermi, come siano state possibili cose di questa
selvaggia crudeltà e di questa inaudita violenza, e ancora una volta ripenso
alle parole di Simone Weil.
“La
sventura costringe a porre continuamente la domanda: ‘perché?’, la domanda
essenzialmente senza risposta. Così mediante essa si ode la non risposta. ‘Il
silenzio essenziale…”
L’esigenza
è di mantenere in ogni caso alta e incandescente la torcia luminosa della
fedeltà agli ideali di solidarietà e di comunione.
Madre
Teresa di Calcutta
Nella sua vita è stata in
febbrile comunione con la disperata solitudine e la infinita sofferenza degli
ultimi della terra.
Simone
Weil e madre Teresa di Calcutta consegnarono il senso della loro vita alla
carità e all’amore, alla accoglienza e alla gentilezza dell’anima, alla
solidarietà, alle attese e alle speranze impossibili.
“Forse
qui non avete persone affamate di pane –
ma ci sono individui affamati, soli, quelli che sono per strada, così tanti.
Sono stata anche in altri posti e ho visto le stesse cose: persone per strada,
indesiderate, trascurate, ignorate, persone affamate d’amore. Avevano tre o
quattro bottiglie accanto a loro; bevevano perché non c’era nessuno che desse
loro qualcos’altro. Dove siete voi? Dove sono io? La nudità non è solo mancanza
di vestito. Nudità; i nostri poveri hanno perso questa dignità, questa dignità
umana di figli di Dio. Non si tratta solamente della mancanza di una casa fatta
di mattoni, ma di essere respinti, indesiderati, trascurati, ignorati, gettati
via, di essere lo ‘scarto’ della società.”
“Ci
sono così tanti individui che non hanno altro che un pezzo di giornale (come
riparo), se ne stanno accasciati per terra”
“A
Londra ho visto persone appoggiarsi contro i muri di una fabbrica per
riscaldarsi. Come? Perché? Noi dove siamo? Per questo penso che per noi sia un
bene imparare ad amare. Una volta che abbiamo imparato ad amare, ad amare di
quell’amore che fa soffrire, allora saremo capaci di donarlo, i nostri occhi si
apriranno, e vedremo, vedremo. Molto spesso guardiamo senza vedere o vediamo ma
non vogliamo guardare, ecco perché dobbiamo cominciare a mettere in pratica
l’amore.”
v
Questi
fatti, straziano l’anima, nella consapevolezza che essi continuano ad essere
così, tendono anzi a crescere sulla scia
di tecnologie esasperate che rendono le persone povere sempre più povere, e
sempre più emarginate.
v
I nostri
poveri
v
“Poiché
… nessuno poteva stargli vicino. Allora sono andata da lui. Mi ha guardato e
poi mi ha chiesto: ‘Perché lo fai? Tutti mi hanno gettato via, perché stai
facendo questo? Perché mi vieni vicino?’. ‘Ti amo.’ gli ho risposto. ‘Ti amo,
tu sei Gesù sotto il volto sfigurato. Gesù sta condividendo la sua passione con
te. Allora ha alzato lo sguardo e ha detto: ‘Ma tu, anche tu in questo modo lo
stai facendo, anche tu lo stai condividendo.’ Allora gli ho detto: ‘No. Io sto
condividendo con te la gioia di amare, amando Gesù in te.’ Egli che stava
soffrendo così tanto, che cosa ha risposto? ‘Sia glorificato Gesù Cristo’. Non
si è lamentato della sua pena, non piangeva, non implorava, aveva semplicemente
capito di essere qualcuno, di essere amato. Questa è la fame d’amore, di
santità o di compassione. Qualunque sia il termine che vogliate usare il
significato non cambia: fame di santità. Queste persone, i nostri poveri,
capiscono bene, quindi cerchiamo di fare buon uso della loro sofferenza.”
v
La
condizione umana ferita in manicomio, silenzio di immense stanze senza vita
La straordinaria vocazione
femminile a resistere, e a non perdere la speranza, nemmeno nelle condizioni
estreme di vita.
Sono pazienti che non posso
dimenticare nella loro gentilezza e nella loro fragilità, nelle loro disperate
richieste di aiuto, di una parola, o di un sorriso e di una stretta di mano,
che erano loro negate, non per la intenzionale crudeltà di chi le curava, e di
chi le assisteva, ma per la paura immotivata, per il pregiudizio (ancora oggi trionfante) che la sofferenza psichica, la follia, non sia
se non perdita di senso, deserto delle emozioni, destrutturazione dei pensieri,
e perdita radicale della libertà, non
cogliendo invece in essa, fra le altre cose, la sensibilità ferita, la fragilità estenuata e la straziata nostalgia di un incontro, e di
un saluto che venga dal cuore.
Maria Teresa. Una testimonianza.
Altresì nel luogo desertico di un
manicomio, una forma di vita sa rivive ed esprime la propria sofferenza con
parole che testimoniano dignità e umana ricchezza.
“Mi sento disperata. Si può
patire così tanto? Soffrire così: Le sembra umano?”
“Ci sono depressioni che durano
eternamente, e a mia è una di queste.”
“Ci si sente diversi dagli altri
individui. Questo sentirmi lontana da tutti.”
“È come ricercare qualcosa che
non si raggiunge mai.”
“Possibile che non ci si consumi
con tutto questo? Nonostante tutto questo stillicidio l’organismo resiste. Mi
sembra un mistero. Ci sono dei momenti in cui mi sento liberata da questo peso.
Ci si trova a terra da un momento all’altro. Mi sento veramente morta. Mi sento
con dentro niente. Mi ritrovo senza nessun desiderio. Sono in un baratro.”
“Il tempo: quasi un fermarsi: un tempo che si fa eterno. Sono in
carcere: sto per entrarvi ora che esco di qui. Mi sento in bilico.
Istintivamente, mancandomi quest’angoscia, mi sento più sola. Il cuore stretto
da una morsa di acciaio. Il dovere sopportare tutte le avversità che ho: questa
è sofferenza. Estranea: è così che mi sento.”
“Mi sento terribilmente sola. Non
ho niente a cui aggrapparmi. Non c’è più niente che mi dia senso. Non riuscivo
a piangere. Mi sentivo disperata: almeno piangessi. Quello che mi mette in
crisi sono le decisioni. Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su
di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio
questa sofferenza tremenda perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza
della morte. Non ho questa speranza. Non ho più alcuna speranza.”
“Tutti i contatti umani sono tragici. Mi sento come prigioniera
nelle sabbie mobili, e i tentativi per uscirne, sempre più disperati,
raggiungono solo lo scopo di farmi precipitare giù in fondo. Non ce la faccio
più a vivere così. Cosa faccio visto che, anche con l’aiuto dei farmaci, non riesco
ad uscirne? Mi detesto. È una cosa disumana: non ne posso più. Questa
sofferenza mi annulla. Non è facile morire.”
Sì, in ogni esperienza depressiva
si vive, o si sopravvive, isolati dal mondo, e si fa fatica, e talora è
impossibile, mettersi in relazione con gli altri.
Ma l’ultima tranche del suo
discorso nasce dal radicale cambiamento della fenomenologia clinica, e
l’angoscia e la disperazione, la nostalgia della morte, e la impossibilità ad
una comunicazione aperta agli altri, a mano a mano scompaiono sulla scia della speranza che ritorna ad illuminare il
cammino di Madre Teresa.
v
“Ieri,
mi sentivo dentro una speranza non motivata. Avevo, solo, nel cuore una
speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una
speranza determinata: ieri, improvvisamente, è nata in me una diversa speranza.
Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza: è una speranza
che contiene un sacco di cose: anche il futuro; ma un futuro che non era vita.
Il futuro mi spaventava, prima, perché nel futuro vedevo la ripetizione del
presente. Il futuro, ieri, una situazione aperta, e la speranza era come una
nuova vita.”
v
Non sono parole, non sono
esperienze, che cambiano radicalmente le convenzionali interpretazioni della
sofferenza psichica, della fenomenologia depressiva in particolare, che la
considerano modo di essere destituito di ogni significato? Questo, ovviamente, non significa elogiare la sofferenza psichica,
elogiare la tristezza, la malinconia, il male di vivere, la depressione
insomma, ma cogliere i valori che in essa si creano, e tenerne presenti la
fragilità, e la esigenza di dialogo e di cura come comunità di destino.
Ascoltare
Ascoltare,
così facile e così difficile, significa accogliere, e comprendere, il senso nascosto
e segreto del dolore dell’anima.
Simone Weil, Etty Hillesum e
madre Teresa di Calcutta. Esistenze femminili sigillate da una comune sensibilità e da una comune vocazione alla conoscenza e alla
esperienza del dolore, dei significati che si nascondono nel dolore, da una
comune partecipazione alla vita degli altri e alla immedesimazione nella vita e
nelle emozioni ferite degli altri, e da una comune febbrile e inesauribile solidarietà, ma anche dalla umbratile intuizione dell’infinito che è in
noi, ed è l’immagine di Dio.
v
“Per
ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non
interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a
un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento
tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Nulla come l’ascolto, il vero
ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola.”
Giovanni
Pozzi
v
Non dimenticare
L’oblio,
il drago dell’oblio, è sceso crudelmente sui luoghi del deserto manicomiale, su
questi luoghi di infinito dolore e di indicibile solitudine, e in questo si
manifesta un aspetto della vita di oggi; e cioè quello di vivere il presente, e
nel presente, dimenticando il passato, e non guardando al futuro, che non si
può comprendere se non nella sua relazione al passato: come ci dice la
splendida metafora di Gabriel Marcel sulla speranza come la memoria del futuro.
La follia femminile sa resistere al dolore, e sa esprimere il
dolore con parole, e con emozioni, molto più intense e creatrici che non quelle
maschili.
Leggere è
vitale, rileggere è fruttuoso.
La
scrittura, sia pure nel tempo brevissimo di un sospiro, salva le parole dal
silenzio, e dal naufragio.
Il valore
di un sorriso, d’un gesto gentile: Simboli, ricordi incisi nella memoria di chi
dona e di coloro a cui la tenerezza è donata.
v
Certo, è possibile domandarsi ancora come avere cura e
rispetto della memoria di queste anime e come non perderne a memoria; e la
chiave non può che essere questa : L’associazione
di un’idea a un’altra per analogia.
Recuperare
la memoria di un passato che non è stato ancora sor-passato ma continua a
rispecchiarsi con infinito dolore in altri luoghi della vita che magari ci sono
vicini, e che non sempre, e anzi di rado, riusciamo a scorgere: distratti, come
siamo, dalla fatica di vivere e dalla stanchezza ma, più di sovente, dalla
noncuranza e dalla indifferenza, dalla apatia e dalla fuga dalle nostre
responsabilità.
Non si
spenga in noi la memoria di quello, che è avvenuto nel passato, nelle fabbriche
di allora, nei campi di concentramento, nelle grandi periferie urbane, e nei
manicomi.
v
Le cose che non cambiano
Ma le esperienze di Simone Weil, di Etty Hillesum, di madre
Teresa di Calcutta, le loro indicibili sofferenze, come quelle nei manicomi,
non possono essere dimenticate; indicando
modelli di indifferenza e di violenza che fanno parte della condizione umana, e
che continuano a sopravvivere, dilatate e amplificate da tecnologie sempre più
sofisticate, in ogni parte del mondo.
v
Non sono
scomparsi i pregiudizi fatali nei confronti della genesi e della natura dei
disturbi psichici, e della loro cura. Continuano ad essere utilizzate le
contenzioni, e non sono riconosciuti fino in fondo i valori di sensibilità e di
fragilità, di gentilezza dell’anima e di nostalgia disperata di dialogo e di
accoglienza, che fanno parte di ogni forma di sofferenza psichica.
v
Non sono
stati i manicomi a creare la malattia, la sofferenza psichica, ma è stato il
manicomio a creare la sofferenza inutile, quella che Emmanuel Lévinas ha
analizzato nelle sue segrete dimore, e nelle terribili responsabilità nelle
quali incorriamo quando non la riconosciamo in noi, dentro di noi, e negli altri
da noi.
La sofferenza inutile
La
sofferenza inutile, quella causata dalla indifferenza e dalla mancanza di
attenzione (la parola tematica di Simone Weil che la faceva appartenere
all’ordine della grazia, e che la riteneva premessa indispensabile alla
formazione della cultura), dalla ghiacciata noncuranza di chi avrebbe avuto il
compito di curare e di assistere, e non ne è stato capace, e talora anche dalla
violenza implicita.
Sappiano
le donne e sappiano gli uomini resistere al male, al dolore del corpo e
dell’anima, al silenzio di Dio, e sappiano mantenere in sé la speranza, una
misteriosa speranza, contro ogni speranza. Sono fragili analogie che consentono
in ogni caso di allargare e di dilatare l’area delle influenze che sgorgano
dalla immensa testimonianza umana e cristiana, filosofica e sociale, teologica
e storica, ma anche letteraria e linguistica, di Simone Weil.
La vita di Simone Weil
Il male è
origine di definitiva diffidenza e di indisponibilità a ridefinire il giudizio
:
“Quel che
ho subito in fabbrica mi ha segnata in modo così durevole che ancora oggi,
quando un essere umano, chiunque sia e in qualsiasi circostanza, mi parla senza
brutalità, non posso non avere l’impressione che si tratti di uno sbaglio,
purtroppo destinato probabilmente a chiarirsi.”
Le sofferenze condizionano gravemente la vita, cambiandone la
visione del mondo, Sono parole di esperienze così struggenti, così laceranti
che ci dicono quanta importanza abbiano i luoghi nel lasciare, anche solo dopo
pochi mesi, ferite sanguinanti che non si cicatrizzano più. Cosa diviene la vita quando non si ha
nemmeno più la certezza di incontrare persone capaci di essere sinceramente
gentili?
Ingeborg
Bachmann scrisse di Simone Weil :
“Questa
figura singolare, insegnante di filosofia e operaia in fabbrica, ebrea e
cristiana credente, critica nei riguardi della Chiesa cattolica, mezza eretica
e potenziale santa.”
“Non ha
scritto per scrivere e per creare qualcosa di autonomo; la scrittura,
piuttosto, era per lei – accanto a forti spinte di natura critica e pedagogica
– soprattutto un esercizio. Un esercizio che andava dall’umiltà alla
ribellione, ed era importante finché ai suoi occhi la distanza tra ‘sapere’ e
‘sapere con tutta l’anima’ non era colmata. Fu una fanatica dell’esattezza, nel
pensiero e nella vita, un’esattezza rivolta sia alle cose più piccole sia a
quelle più grandi, e destinata a condurre il suo pensiero e la sua vita in
situazioni estreme.”
“I
racconti della sua infanzia la mostrano socievole, appassionatamente ardente di
amicizia e amica fedele, molto caritatevole, piena di sdegno per l’ingiustizia
– ma non per quella di cui era personalmente vittima; coraggiosa, paziente,
intelligente e dotata di una rara immaginazione creatrice, di una volontà
incrollabile, di una grande sensibilità sociale e insieme di grande fragilità.“
Simone
Pétrement
“Interessata
ai grandi problemi; già avida di sapere ciò che può importare, di raccogliere i
mezzi necessari per risolvere, nel limite del possibile, tutti i grandi problemi,
di assumere in una sola vita tutto l’essenziale, che è una delle sue
caratteristiche più sorprendenti. Ancora bambina era risoluta a far sì che la
sua vita servisse a qualcosa.”
La
fenomenologia di una condizione politica e sociale
che
Simone Weil descrive nella sua drammatica imminente dissociazione:
“Il suo
partito era quello dei poveri, dei diseredati e degli oppressi, e a questo
partito senza nome aderiva a modo suo.”
“Le
parole che Simone Weil scrive sulla situazione politica e sociale della Germania
sono di una intelligenza straordinaria, e danno la misura della sua cultura,
certo, ma anche della sua capacità di risalire dai fatti alla loro più profonda
interpretazione. Il titolo del saggio (La Germania in attesa) indicava la
precarietà e la problematicità della situazione che avrebbe potuto avere le più
diverse conclusioni: non escluse, come l’anno dopo sarebbe accaduto, quelle
catastrofiche.”
“La crisi
ha spezzato tutto ciò che consente a ogni uomo di porsi fino in fondo il
problema del proprio destino, ovvero le abitudini, le tradizioni, la stabilità
della struttura sociale, la sicurezza; soprattutto tale crisi, in quanto non è,
in generale, considerata come un’interruzione passeggera nello sviluppo
economico, ha chiuso qualsiasi prospettiva per il futuro ad ogni singolo
individuo.”
“Ma la
situazione è tragica non tanto per la miseria in sé, ma perché nessun uomo, per
quanto energico, può nutrire la più piccola speranza di evitarla con le proprie
forze. Soprattutto i giovani, appartengano essi alla classe operaia o alla
piccola borghesia, per i quali la crisi costituisce lo stato di cose normale,
l’unico che abbiano conosciuto, non possono neppure immaginare un fatto che si
riferisca a ciascuno di loro personalmente.”
“Nessuno
spera di poter conservare o trovare un posto grazie al proprio valore
professionale. Potrebbero forse cercare una consolazione nella vita famigliare?
Tutti i rapporti all’interno della famiglia sono inaspriti dalla dipendenza
assoluta in cui si trova il disoccupato rispetto al membro che lavora.”
La vita
di Simone Weil si è venuta svolgendo in una epoca storica contrassegnata dalle
violenze più atroci, e dalla distruzione di ogni valore di solidarietà, e anzi
di umanità, e nondimeno la sua testimonianza non si spegnerà mai: fiaccola
sempre accesa nelle ore liete e luminose, e nelle ore buie e oscure, della
nostra vita.
Le forme della sventura
L’altro
Più profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
più grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di
sguardi,
più bianca cenere
giace sulla parola, cui hai creduto.
Paul Celan, Conseguito silenzio
Simone
Weil fu testimonianza di un’inenarrabile fiducia nei valori umani della
comunione e della solidarietà e testimone della realtà lacerante della
sventura: Ereditiamo parole di indicibile incandescenza emozionale e di
inenarrabile coraggio che riconfermano da altri punti di vista la grandezza
umana e spirituale di questa donna straordinaria nella profondità e nella
vastità delle esperienze, e delle opere.
Simone Weil moriva in un presente isolato da ogni sua altra
dimensione temporale :
“Quel contatto con la sventura aveva ucciso la mia giovinezza.
Fino allora non avevo mai avuto esperienza della sventura se non della mia, che
in quanto mia mi sembrava di scarsa importanza, e che d’altra parte era solo
una sventura a metà, essendo biologica e non sociale. Sapevo bene che c’era molta
sventura nel mondo, ne ero ossessionata, ma non l’avevo mai constatato
attraverso un contatto prolungato. Mentre ero in fabbrica, confusa agli occhi
di tutti e ai miei propri con la massa anonima, la sventura altrui è penetrata
nella mia anima. Nulla me ne separava, perché avevo realmente dimenticato il
mio passato, e dal momento che mi era difficile immaginare la possibilità di
sopravvivere a quelle fatiche, non scorgevo davanti a me alcun futuro.”
La
sventura è un mistero
La sventura (la parola non ha l’ambiguità e gli inquietanti
risvolti della parola francese malheur che sconfina semanticamente nella infelicità,
nel dolore, e nel male.)
Simone Weil ha dedicato negli ultimi anni della sua vita
riflessioni e meditazioni riguardanti il mistero di Dio e la sventura che sono
ancora oggi di una sconvolgente attualità umana, e non solo religiosa; come lo
sono, del resto, quelle di santa Teresa d’Ávila e di san Giovanni della Croce,
di santa Teresa di Lisieux e di madre Teresa di Calcutta.
Il punto di vista di una psichiatria aperta alla comprensione
umana ed esistenziale del dolore e della disperazione che fanno parte della
sventura; di questa esperienza umana alla quale siamo tutti esposti, e alla
quale siamo tutti chiamati a cercare di dare un senso. Un senso sfuggente e
inafferrabile ma non impossibile quando lo si voglia cercare, come Simone Weil,
sulle ali della intuizione della quale ha parlato in particolare nelle lezioni
di filosofia tenute nei licei in cui ha insegnato.
Il
perduto senso della vita
v
“Certo,
solo narrando quello che avviene in noi, nella nostra interiorità, solo
comunicando ad altri le nostre sofferenze e la nostra gioia, la nostra
tristezza e il nostro male di vivere, le nostre attese e le nostre speranze, le
nostre nostalgie e le nostre disillusioni, le conosceremmo meglio nelle loro
radici emozionali, e nei loro significati. (Non lo diceva già Shakespeare
quando nel Macbeth invitava a parlare delle proprie esperienze di vita e di
dolore se non si voleva che il cuore si spezzasse?”
v
Talvolta
non si riesce a causa della stanchezza, della delusione, della monotonia, della
noia a ritrovare un senso nelle cose che si fanno.
Il tema
del senso della vita, e del senso del lavoro, non può non essere considerato
attualissimo. Cambiano le condizioni materiali del lavoro, crescono
vertiginosamente le tecnologie, ma il tema del senso si ripropone nella sua
radicale importanza psicologica e umana.
Simone
Weil ebbe immediata la percezione dell’enorme importanza che ha il senso nella
vita: nella realizzazione, o nel naufragio fatale, della propria esistenza.
v
“La
sventura è un mistero, la sventura non si spegnerebbe nemmeno se le condizioni
di lavoro e le condizioni di interazione relazionale umana cambiassero
radicalmente. La vita ha molte forme di espressione ma la schiavitù ne ha una
sola; e la creatura umana, ridotta in schiavitù, non ha se non il desiderio di
svago, di distrazione e di divertimento, e la caduca percezione della sua vita
oscilla fra eccessi e noia senza riconoscerne intimamente alcun senso ed alcuna
finalità.”
Simone
Weil
v
“La
sventura è l’esperienza che nasce da una esistenza non più fondata sulla
libertà e sulla dignità, sugli orizzonti di senso e sulla ricerca di un
appagamento esistenziale.”
Ingeborg
Bachmann
L’infelicità è muta
“È
difficile essere creduti quando si descrivono solo le proprie impressioni.
Eppure non si può descrivere diversamente l’infelicità di una condizione umana.
L’infelicità
è fatta solo d’impressioni. Le circostanze materiali della vita, fintantoché è
almeno possibile vivere, non bastano da sole a dar ragione dell’infelicità,
perché circostanze equivalenti, unite ad altri sentimenti, renderebbero felici.
Quel che rende felice o infelice è l’insieme dei sentimenti connessi alle
circostanze di una vita, ma quei sentimenti non sono arbitrari, non sono
imposti o cancellati per suggestione, possono essere mutati solo dalla radicale
trasformazione delle circostanze stesse. Per mutarle bisogna anzitutto
conoscerle. L’infelicità è la cosa più difficile a conoscersi. È sempre un
mistero. È muta. Si deve essere particolarmente preparati all’analisi interiore
per afferrare le vere sfumature e le loro cause e questo non accade, in genere,
agli infelici.”
“Quando
gli sventurati si lamentano, si lamentano quasi sempre in un modo sbagliato
senza evocare la loro vera infelicità, e d’altra parte, nel caso di
un’infelicità profonda e permanente, un fortissimo pudore impedisce le
lamentele. Così ogni condizione infelice fra uomini crea una zona di silenzio nella
quale gli esseri umani si trovano chiusi come in un’isola. Chi esce dall’isola
non volge il capo. Le eccezioni, quasi sempre, sono solo apparenti.”
La bellissima immagine della infelicità, della sventura, come
esperienza che crea uno spazio di silenzio (di un silenzio che non è sentiero
che ci porta verso la nostra interiorità, e nemmeno ascolto dell’infinito che è
in noi, ma inaridirsi di emozioni e di slanci del cuore) nel quale le persone
sono imprigionate come in un’isola. La sventura, la infelicità, è struttura
portante del pensiero e della esperienza di vita di Simone Weil: un
incandescente filo rosso che scorre lungo tutti i suoi scritti mai chiusi alla
speranza umana.
Malheur
La
sventura è immagine del male
Le esperienze della sventura e del male sono due immagini di
una comune realtà che sconfinano, e si confondono, l’una nell’altra, e che non
è possibile distinguere. Le ambiguità della parola francese malheur consentono
di pensare al male come ad una dimensione della infelicità e della sventura.
v
La
psichiatria nel corso della sua storia è stata creatrice di male; non
riconoscendo i valori che sono presenti nella follia, e trasformando i
pazienti, come crudelmente è avvenuto negli anni del nazionalsocialismo
tedesco, in vittime innocenti di discriminazione e di emarginazione, di
oggettivazione e di violenza mortale.
v
Il male ha molteplici forme di espressione,
visibili e invisibili.
v
Mentre il bene è uno, ed è immediatamente percepibile da
chiunque sappia ascoltarne il timbro segreto, che è talora il timbro del
silenzio, e dello stupore.
male nasce, e rinasce, anche nel vivere quotidiano con le sue
inesauribili connotazioni di banalità e di apparente insignificanza. Il male ci
viene imposto dagli altri, e talora, o tante volte, siamo noi consapevolmente,
o inconsapevolmente, ad imporlo agli altri; sulla scia di un male che è in noi,
e che rinasce in noi, anche al di là delle nostre intenzioni: sono le notti
oscure dell’anima quando siamo sommersi dal dolore e dall’angoscia mortale,
dalla disperazione e dalla sofferenza, dalla agostiniana inquietudine del cuore
e dal richiamo della morte volontaria. Questo è il male involontario, il male
inevitabile, il male che risale dagli abissi della nostra interiorità, ma c’è
il male che ci viene incontro ogni giorno nelle molte situazioni della vita: il
male che gli altri fanno a noi, e il male che siamo noi a fare agli altri. Ogni
volta che togliamo all’altro la sua libertà, e la sua dignità, ogni volta che
lo consideriamo come una “cosa”, come un “oggetto”, noi diveniamo fatalmente
causa di dolore e di sofferenza, di sventura e di infelicità, di angoscia e di
disperazione, e in fondo di male che dilaga nel cuore degli altri, ma anche nel
nostro cuore, in questa fatale interscambiabilità di esperienze.
v
Il male che è in noi
v
Il
male che abita in noi non è in nulla confrontabile con il male assoluto ancora
oggi inimmaginabile nella sua agghiacciante realtà: Il male dell’Olocausto; e
nondimeno, proprio perché evitabile, è sorgente infinita di dolore e di sofferenza.
Il male che si nutre di parole crudeli e indifferenti, gelide e scostanti,
talora anche solo oscure e dissonanti; il male che nasce da sguardi divaganti e
perduti quando gli altri ci chiedono disperatamente un gesto di accoglienza, un
sorriso, o una semplice stretta di mano; il male che si intravede nella
impazienza e nella incapacità ad ascoltare, nel silenzio gelido e impersonale,
nella indifferenza e nella noncuranza.
Queste
figure del male sembrano inconsistenti, e lo sono nei confronti delle tragiche
diserzioni della storia, ma di esse noi siamo responsabili, e di sovente non ce
ne accorgiamo, e nemmeno ci pensiamo.
v
Ci
sono infinite definizioni di quelle che sono le fondazioni ultime del male; ma
la più radicale è quella indicata da Simone Weil, e da Hanna Arendt, che hanno
parlato in modi diversi della banalità del male, sostenendo che il male
consista nel negare all’uomo la sua dignità, e la sua soggettività, e nel
considerarlo, condizionati dall’onda imperversante del conformismo, una cosa: un
semplice oggetto e talora annichilirlo considerandolo non esistente ed agendo
in nome di tale venefica percezione di umana assenza.
v
La sventura come reificazione
dell’umano
Reificare: Far decadere a cosa,
trattare alla stregua di cosa materiale.
La sventura s’impadronisce dell’anima e le imprime fino in fondo il
suo proprio marchio, quello della schiavitù.
“La
sventura è inseparabile dalla sofferenza fisica, e tuttavia ne è completamente
distinta. Nella sofferenza tutto ciò che non è legato al dolore fisico o a
qualcosa di analogo è artificiale, immaginario, e può essere eliminato mediante
un’opportuna disposizione del pensiero. Perfino nell’assenza o nella perdita di
un essere amato la parte irriducibile dell’afflizione è qualcosa di simile a un
dolore fisico: una difficoltà nel respirare, una stretta al cuore, o un bisogno
insoddisfatto, una fame, oppure quel disturbo quasi biologico causato dalla
brutale liberazione di un’energia fino a quel momento orientata da un affetto e
ora priva di direzione.
Un’afflizione
che non racchiude al centro questo nucleo irriducibile è mero romanticismo, è
letteratura.
Anche
l’umiliazione è uno stato violento di tutto l’essere corporeo che freme di
fronte all’oltraggio, ma deve trattenersi, costretto dall’impotenza, dalla
paura o dall’umiltà, dalla saggezza ed intelligenza etica”.
La
sventura radicale
Le parole Simone Weil dimostrano
sconvolgenti profondità ed inenarrabili modernità che non sono nemmeno scalfite
dal trascorrere vertiginoso del tempo.
“C’è
vera sventura solo quando l’avvenimento che ha afferrato una vita l’ha
sradicata, l’ha colpita direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti:
sociale, psicologico, fisico. Il fattore sociale è essenziale. Non c’è vera
sventura là dove non si verifichi, in qualsiasi forma, una decadenza sociale o
l’apprensione di una simile decadenza. La sventura propriamente detta e tutte
le afflizioni che se ne differenziano – sebbene molto violente, profonde e
prolungate – sono fra di loro in continuità e allo stesso tempo separate da una
soglia. La sventura si trova al di là di un certo limite, non prima. Questo
limite non è puramente oggettivo; fattori personali di ogni genere entrano in
gioco. Uno stesso avvenimento può preci precipitare
un essere umano nella sventura e non un altro. Il grande enigma della vita
umana non è la sofferenza, bensì la sventura.”
v
“Coloro
che hanno ricevuto uno di quei colpi che lasciano un essere umano a terra non
hanno parole per esprimere quanto capita loro. Fra le persone che incontrano,
quelli che, pur avendo sofferto molto, non hanno avuto mai contatto con la
sventura propriamente detta non hanno idea di che cosa sia. È qualcosa di
specifico, che non è riconducibile a nient’altro, come i colori, di cui non si
può affatto dare l’idea a un cieco sin dalla nascita.”
E
coloro che sono stati mutilati dalla sventura non possono prestare soccorso a
nessuno, e sono quasi incapaci di desiderarlo. Così la compassione nei riguardi
degli sventurati è un’impossibilità. Quando si verifica, si compie un miracolo
più sorprendente che camminare sulle acque, guarire gli infermi e resuscitare
un morto. La sventura ha costretto il Cristo a supplicare di essere
risparmiato, a cercare consolazione presso gli uomini, a credersi abbandonato
dal Padre suo.”
v
La sventura rende Dio assente
Una
esperienza, quella della infelicità, della sventura, che mette in crisi ogni
umana dimensione della vita, e che porta con sé il silenzio e l’assenza di Dio.
v
La
sventura è sovente una ferita inemendabile :
“La
sventura rende Dio assente per un certo tempo, più assente della luce in un
vuoto immerso nelle tenebre. Un orrore sommerge l’anima. Durante quest’assenza
non c’è nulla da amare. E se in queste tenebre dove non vi è alcunché da amare
l’anima smette di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Questo è
orribile. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler
amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio
le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo. Ma se l’anima cessa di
amare, cade già in questo mondo in qualcosa di quasi equivalente all’inferno.”
v
“Un dolore localizzato intorno al
punto centrale del sistema nervoso, al punto di congiunzione dell’anima al
corpo, che dura anche nel sonno, non mi ha mai lasciato un istante. Per dieci
anni è stato così, è accompagnato da un tal senso di prostrazione, che il più
delle volte i miei sforzi di attenzione e
di lavoro intellettuale erano quasi altrettanto svuotati di speranza di quelli
di un condannato a morte che deve essere giustiziato l’indomani. Spesso molto di più, quando si mostravano
del tutto sterili, e privi di un seppur momentaneo risultato.”
v
Ero
sostenuta dalla fede che nessuno sforzo di autentica attenzione va mai perduto,
anche quando non porti mai direttamente o indirettamente qualche risultato
visibile.
v
“La
sventura inchiodando il corpo e l’anima a un luogo fisso, li
trafigge. Che la sventura imponga o non imponga, letteralmente, l’immobilità,
vi è in ogni caso immobilità nel senso che una parte dell’anima è sempre,
incessantemente, indissolubilmente congiunta al dolore.”
v
“Felici
coloro per i quali la sventura entrata nella loro anima è la sventura del mondo
stesso nella loro epoca. Essi hanno la possibilità e la funzione di conoscere
nella sua verità, di contemplare nella sua realtà la sventura del mondo. È
questa l’autentica funzione redentrice.
Ma
sventurati coloro che avendo questo compito non lo assolvono”.
Il
compito è riconoscere la immagine sociale della sventura.
v
La
sventura e il tempo
“La
sventura è un ‘enigma’. Ha la stessa essenza della sofferenza fisica, da cui è
inseparabile: la sofferenza fisica, quando è tale che non si può né sopportarla
né smettere di sopportarla, e dunque sospende il tempo facendone un presente
privo di avvenire eppure impossibile come presente (impossibile raggiungere
l’istante seguente: tra l’istante seguente e quello attuale si sovrappone un
infinito invalicabile, l’infinito della sofferenza; d’altra parte il presente
della sofferenza è impossibile, costituisce l’abisso del presente). La sventura
ci fa perdere il tempo, ci fa perdere il mondo. La sventura è anonima,
impersonale, indifferente. È la vita resa estranea e la morte resa
inaccessibile. È l’orrore di essere come essere senza fine.”
Maurice
Blanchot
“La sventura si riferisce al
tempo. Nella sventura noi subiamo il tempo ‘puro’, senza avvenimenti, senza
progetti e possibilità, come una eternità vuota che bisogna ad ogni istante
sopportare infinitamente (come, nell’estrema miseria, la fame e la stanchezza).
Purché finisca. Ma non c’è fine. Privati di noi stessi, privati di quell’Io che
è il nostro naturale sostegno, privati del mondo che in tempi normali esiste in
vece nostra e ci toglie il peso di noi stessi, noi ci identifichiamo col tempo
indefinitamente sopportato.”
Il tempo frammenta nella sventura
in istanti che si arenano in un presente senza storia, e senza divenire, e che
trattengono prigioniera la sventura non consentendole di cambiare, e di
modificarsi, nelle sue fiamme ardenti e inafferrabili. Sì, la sventura ci fa
perdere il tempo, e ci fa perdere il mondo,
fino a quando non ricompaiano gli arcobaleni della speranza contro ogni
speranza.
“Ma
dove è il pericolo, cresce / anche ciò che dà salvezza”.
Friedrich
Hölderlin
Il
mistero rende insondabile ogni vita.
L’ incandescente
parola tematica della vita di Simone Weil, ferita dal dolore e redenta dalla
nostalgia di infinito, che è stata nostalgia di Dio.
La
fenomenologia del dolore descritta e vissuta da Giacomo Leopardi
Sono
riflessioni di stupefacente verità psicologica e umana, e sembrano scritte
oggi: radicate, come esse sono, in una febbrile attualità.
“Quando
l’uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilità
d’esser felice, e la somma e certa infelicità dell’uomo, comincia dal divenire
indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, né
perdere e soffrire più di quella ch’ella già preveda e sappia. Ma se la
sventura arriva al colmo, l’indifferenza non basta, egli perde quasi affatto
l’amor di se, (ch’era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo
rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad
odiare la vita, l’esistenza e se stesso, allora è il tempo di quel maligno
amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo
crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l’ultima
espressione della estrema disperazione e della somma infelicità.”
Giacomo
Leopardi
Il
sommo dolore dell’animo, ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorché
non somma, tuttavia tanto straordinaria non si sentono, cioè finattanto ch’essi
sono sommi; ma la loro proprietà è di render l’uomo attonito, confondergli,
sommergergli, oscurargli l’animo in guisa, ch’egli non conosce nè se stesso, nè
la passione che prova nè l’oggetto di essa, ché l’animo nostro non è capace di
contenerla tutta intera simultaneamente. Si rimane immobili, e senza azione
esteriore, nè, si può dire, interiore. Così sarebbe anche la somma gioia.
Mille idee confuse
v
“Il
gran dolore non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne ha neppure
interno. Vale a dire che l’uomo nel grande dolore non è capace di
circoscrivere, di determinare a se stesso nessuna idea, nessun sentimento
relativo al soggetto della sua passione, la quale idea o sentimento egli possa
esprimere a se medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare, per dir così,
il pensiero nè il dolor suo. Egli sente mille sentimenti, vede mille idee
confuse insieme, o piuttosto non sente, non vede, che un sentimento, un’idea
vastissima, dove la sua facoltà di sentire e di pensare resta assorta, senza
potere, nè abbracciarla tutta, nè dividerla in parti, e determinar qualcuna di
queste. Quindi egli allora non ha propriamente pensieri, non sa neppur bene la
causa del suo dolore.
Se piange (e l’ho osservato in me
stesso), piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di
che. Quei drammatici, e simili, che in circostanze di grandi passioni
introducono de’ soliloqui, fondandosi sulla convenzione che permette ai suoi
personaggi di dire alto quello che essi direbbero tra se medesimi se fossero
reali, sappiano che in tali circostanze l’uomo non dice nulla. E fra tali
drammatici ve ne sono di sommi (Shakespeare medesimo), se non son tali tutti.”
v
“Quando l’animo è domato, ogni
calamità, per grave che sia, è tollerabile.”
Non c’è conoscenza senza sofferenza
Le parole di Nietzsche sono
estreme e radicali: capaci di dissolvere l’insieme di banalità, di inerzie, di
oblio, di indifferenza, di noncuranza, di mistificazioni, e di illusioni, che riempiono non di rado i modelli di vita a
cui ci abituiamo, e con cui incontriamo gli altri, e noi stessi.
Ereditiamo
intuizioni folgoranti :
-
Che
sconvolgono, oggi ancora, gli scenari esistenziali ed emozionali della vita,
-
Che
consentono di smascherare la cascata infinita delle convenzioni e delle
mistificazioni, così frequenti in ciascuno di noi.
-
Che
consentono di considerare insostenibili i dominanti pregiudizi :
Sulla
mancanza di senso delle esperienze del dolore e della sofferenza, psicotiche e
non-psicotiche
Sulla
loro inutilità al fine della comprensione della vita.
Non
c’è conoscenza senza sofferenza, ci continua a dire Simone Weil, e l’opera di
Nietzsche ne è una straordinaria e continua testimonianza.
Sono
pagine, quelle di Simone Weil, e queste di Leopardi e di Nietzsche, fra le più
alte che mai siano state scritte sul dolore, sulla sofferenza, sulla sventura.
v
“L’esistenza
mi pesa spaventosamente: me ne sarei liberato da tempo se non fosse proprio
questo stato di sofferenza e di rinuncia quasi totale ciò che mi permette di
accedere ai più alti valori della sfera spirituale e morale – la lietezza che
mi dà questa conoscenza mi solleva ad altezze tali che riesce a trionfare di
ogni tormento e di ogni disperazione. Tutto sommato sono più felice di quanto
lo sia mai stato in vita.”
La
felicità rinasce dalla condizione di sofferenza, dal tormento, e dall’ infinito
dolore dell’anima nella misura in cui si concordi e si assimili la tesi, non
solo di Nietzsche, che non ci sia conoscenza senza sofferenza, e che la
sofferenza sia sorgente di riflessioni alle quali altrimenti non è possibile
giungere.
v
Il tema dei modi con cui dal
dolore sono condizionate le nostre relazioni con gli altri.
“Le
conoscenze teoriche, razionali, astratte, solo se associate alla conoscenza del
dolore, ci consentono di giungere alla comprensione dei nostri modi di vivere e
di morire, e di quelli degli altri.”
La
gaia scienza, Nietzsche
“Noi dobbiamo generare
costantemente i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di
tutto quel che abbiamo in noi di cuore, fuoco, passione, tormento, coscienza,
destino, fatalità. Vivere – vuol dire per noi trasformare costantemente in luce
e fiamma quel che siamo, nonché tutto quello che ci riguarda; non possiamo
affatto agire diversamente.”
È il dolore, Leitmotiv delle sue
riflessioni, a generare i nostri pensieri, nutrendoli di quelle che sono le
nostre emozioni e le nostre passioni.
“Il grande dolore soltanto è
l’estremo liberatore dello spirito, in quanto esso è il maestro del grande sospetto…”
Il
grande sospetto, la principale fonte della diffidenza non deve divenire
totalizzante nell’atto di giudizio del prossimo:
-
Implicando
il pre - giuzizio, ovvero la percezione
di giudizio negativo a priori.
-
Avversando
la disponibilità alla ri – definizione del giudizio.
“Il
grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che vuole tempo, in cui, per
così dire, veniamo bruciati, costringe noi a discendere nelle nostre ultime
profondità. Dubito che un tale dolore ‘renda migliori’; eppure so che ci scava
in profondo.”
Il
dolore fa parte della vita
Ciascuno
di noi dovrebbe scendere con temerario coraggio nelle profondità della nostra
anima se vuole conoscere i segreti luoghi del dolore dal quale veniamo
bruciati; questa consapevolezza diverrebbe fonte di un’integrità introspettiva
e comportamentale imprescindibile affinché :
“Quando
l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile.”
Quando
il dolore scende nella nostra anima, la illumina nei suoi abissi e nelle sue
contraddizioni, nelle sue lacerazioni e nelle sue metamorfosi.
Il cuore
v
“Se
vogliamo fare dell’incontro con gli altri non una semplice occasionale
conoscenza, ma un dialogo aperto alla speranza è necessario che non si sia
sconfitti e divorati dal deserto dei significati. È necessario andare oltre il
deserto, oltre le apparenze e le convenzioni, oltre le certezze impossibili e i
silenzi del cuore, e avvicinarsi alle regioni segrete del cuore; anche del
cuore ferito.
Il
dialogo è atto di reciproca cura
Nel
dialogo, nel dialogo fra chi cura e chi è curato, la conoscenza e la ricerca
del senso non sono il privilegio di chi cura o di chi insegna, ma rinascono
contestualmente da chi cura e da chi è curato; nella misteriosa
interscambiabilità della comunicazione, e della donazione di senso che riscatta
il deserto della parola e il deserto delle emozioni.
v
“Bisogna
essere capaci di ammirazioni impetuose e accogliere in cuore molte cose con
amore. Occhi grigi e freddi non sanno il valore delle cose, spiriti grigi e
freddi non sanno il peso delle cose.”
Il
dialogo consente di cogliere il senso radicale delle cose che si svolgono nella
nostra vita interiore, e in quella di chi, stando male, non trova nemmeno più
le parole che dicano la sua angoscia e il suo dolore. Certo, ogni dialogo si
rivela nella sua radicalità solo se il linguaggio delle parole si intreccia al
linguaggio del corpo (quello che sgorga dal volto, dagli sguardi, dal sorriso e
dalle lacrime, dai gesti di tenerezza e di accoglienza), e a quello del
silenzio. Solo così si riesce a mettersi in contatto con i luoghi segreti del
cuore dal quale rinascono le sorgenti della fiducia e delle attese, della
speranza e dell’ascolto.
“I
grandi pensieri vengono dal cuore, e quelli che grandi non sono nascono dalla
ragione.”
Nietzsche
Solo
dal cuore, dall’infinito arcipelago delle emozioni troppo spesso considerate
subalterne agli astratti cieli della ragione calcolante, rinascono le voci
della nostra anima, con il loro timbro udibile o inudibile, e il silenzio colmo
di parole inespresse. Accogliere e interpretare il linguaggio del silenzio
significa accogliere e interpretare il linguaggio dei volti che nascondono in
sé cascate inesauribili di gioia e di dolore, di nostalgia e di disperazione,
delle quali è necessario cercare di decifrare i significati oscuri, e talora
desertificati dal senso.
“Ricondurre
nella interiorità l’esteriorità della nostra esperienza.”
Rainer
Maria Rilke
In
dialogo senza fine
La
richiesta di una inenarrabile vicinanza umana
Vieni
tu, ultimo, ch’io riconosco,
nelle
fibre del corpo insanabile dolore:
come
arsi nello spirito, ecco ardo
in
te; a lungo il legno ha rifiutato
di
assentire alla fiamma che tu attizzi,
ma
ora io ti alimento e ardo in te.
La
mia mitezza di qui, alla tua rabbia,
si
fa rabbia d’inferno, non di qui.
Puro
ormai da progetto e da avvenire,
salii
sull’irto rogo del soffrire, sicuro
che
questo cuore vuoto di sostanza non vale
a
comperare un lembo d’avvenire.
Sono
ancora io che qui ardo irriconoscibile?
Ricordi
non trascino in queste fiamme.
O
vita, vita: Essere-fuori. Ed io
nella
fiamma. Nessuno mi conosce.
(Rinunzia.
Non è come nell’infanzia
la
malattia. Un rimando. Un pretesto per crescere.
E
sussurri e richiami da ogni parte.
Ciò
che a quel tempo primo ti stupì, non mischiarlo
a
questo che ora vivi.)
Rainer
Maria Rilke
L’attitudine ad ascoltare
v
Entrare
in relazione con noi stessi nella introspezione, e con gli altri nella
immedesimazione: l’una e l’altra in dialogo senza fine. Ma come non dire che
questo dialogo è possibile solo se si abbia coscienza, e se ne sia radicalmente
estranei, dei fatali pregiudizi che portano a distinguere una vita degna di
essere vissuta da una vita non più degna di esserlo.
v
La
nostalgia
I
sentimenti di solitudine, di tristezza, di inquietudine dell’anima, di
rimpianto, di perdita sono riconosciuti in quanto tali poiché caratterizzano
esperienze radicalmente negative se paragonate con lieti ricordi di comunione,
di felicità, di serenità; Questi sentimenti erompono da una medesima fonte: La
nostalgia.
Grida nel silenzio
Il
dolore dell’anima segna il cuore e la memoria:
“Quando
siamo sommersi, o anche quando siamo lambiti, dal dolore dell’anima non lo si
riconosce facilmente; il dolore dell’anima tende a nascondersi e ad assumere
immagini che si intravedono solo se siamo capaci di ascoltare le persone, di
guardarle negli occhi, e di avvicinarsi ad esse con occhi bagnati di lacrime.”
Hermann
Broch, La morte di Virgilio.
v
Il
dolore dell’anima, la infelicità, la sventura, che vive nel cuore di tante
persone ci dovrebbe fare riflettere sui doveri della solidarietà, e invece noi
passiamo accanto ai dolori della loro anima distratti e indifferenti,
noncuranti e pieni d’affanno per le cose banali della vita. Il dolore
dell’anima in noi e negli altri riconduce nondimeno, la rilkiana parola
tematica, nella interiorità la esteriorità delle nostre esperienze; e allora è
necessario educarci a riconoscerne le tracce anche in forme di vita solo
apparentemente estranee al dolore dell’anima, come sono quelle della timidezza
e della fatica di vivere, della solitudine e del rifiuto della vita, che non si
curano senza la nostra testimonianza umana e la nostra solidarietà concreta:
nutrita non di sole parole ma di gesti orientati a lenire la disperazione che è
in fondo il nocciolo segreto di ogni dolore e di ogni sventura nei loro sconfinamenti
senza fine.
v
Ma
con un improvviso e potentissimo colpo d’ali, essi furono posti con un gesto
tanto ieratico e tanto deciso al termine della poesia, diventando realtà
poetica, essi che non sono ancora, ma che certamente nasceranno: sono gli eredi
ideali di Trakl poeta, tutti quelli che avrebbero attinto consolazione e forza
dal suo disperato dolore :
Risuonano
a sera i boschi d’autunno
di
anni mortali, le pianure dorate
e
i laghi azzurri, su cui più fosco
il
sole; la notte abbraccia
Ma
quiete si adunano nel folto dei salici
nuvole
rosse, le abita un dio adirato
sangue
versato, frescura lunare;
tutte
le strade sfociano in nera corruzione.
Sotto
i rami dorati della notte e le stelle
ondeggia
l’ombra della sorella per il bosco silenzioso
a
salutare gli spiriti degli eroi, le teste sanguinanti;
e
piano risuonano nel canneto i cupi flauti d’autunno.
O
più superbo lutto! Voi bronzei altari,
l’ardente
fiamma dello spirito nutre oggi un potente dolore,
eredi
non nati
Simone Weil. Il dono d’una vita.
Guardare
al suicidio, al digiuno, alla morte volontaria, da un altro punto di vista:
Da
quello di una vita che, non tollerando la sofferenza e la morte di infinite
persone innocenti, sente di potersi realizzare solo nel sacrificio estremo: seguendole
in un analogo destino.
“Chi
da vicino ha preso parte direttamente al dramma di un suicidio, se è dotato di
un qualche senso di umanità ed è un po’ inclinato a veder chiaro nelle cose
dell’anima, troverà che un fatto bisogna riconoscere, che non c’è un motivo
unico che possa spiegare l’avvenimento. In fin dei conti rimane sempre un
mistero.”
“La
cosa più semplice e più comoda sembra che sia quella di attenersi all’ipotesi
della malattia mentale. Infatti, si è andati avanti su questa via fino al punto
da dichiarare malato di mente ogni suicida. Così viene a cessare il problema
dei motivi che determinano il suicidio. Il problema del suicidio rimane
sbrigativamente risolto essendo collocato al di fuori del mondo normale. Ma non
è così”.
Karl
Jaspers
Le domande senza fine
v
“Il
suicidio, che non giunge a realizzarsi, sembra dotato di una funzione
catartica: riaccendendo speranze apparentemente per sempre perdute, e questo
anche se non cambiano i contesti che ne siano stati almeno in parte il motivo.”
v
La
lirica del vivere e del morire, del vivere che si muove alla soglia del morire
riscattata nondimeno dalle intermittenze del cuore e dalla speranza. Il dolore
dell’anima dona consiglio : in ogni nostra vita illumina la domanda senza fine
sul senso del vivere :
Animo
rivelatore
Adombramenti
di senso del vivere :
Infiniti
e gravi abbraccian l’animo
che
cadendo rivela i segreti abissi dell’oceano del cuore.
Increspan
la superficie della coscienza :
Marittimo
zefiro notturno
carezza
il tetro velo
e
piano, lo sconvolge.
Il
dolore dell’anima :
Lumen
di Luna riluce
ed
argentee sfumature
screziano
il candido nero del mare
la
via scernendo.
Michele Vitti
“Dopo
mesi di tenebre interiori, all’improvviso e per sempre ho avuto la certezza che
qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle,
penetra nel regno della verità riservato al genio, se solo desidera la verità e
fa un perpetuo sforzo d’attenzione per attingerla. Così diventa anch’egli un
genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all’esterno.”
Dare
un senso alla vita : la scelta consapevole di vivere
La
salvezza sgorgava nondimeno dal pensiero che desiderare la verità, e sforzarsi
di raggiungerla, siano modi di avvicinarsi alla vita.
“Ho
paura. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non
fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno
chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso
spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei
granellini sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia.”
“è
forse per questa piena di sentimenti, per cui in una giornata soffro e godo ciò
che apparentemente si può soffrire e godere in tutta un’esistenza, che
rimpiango il passato, che adoro il presente, che non desidero l’avvenire;
perché sono contenta di essere io, con i miei difetti e con le mie poche virtù,
perché non so se in avvenire potrò ancora essere così.”
Antonia
Pozzi
“Può
aver pensato che un abbandono completo a ciò che riteniamo essere il bene possa
avere degli effetti straordinari e miracolosi. Vediamo nell’Enracinement che
non negava la possibilità del miracolo, inteso come un fenomeno ‘che richiede
fra le altre condizioni quella dell’abbandono totale dell’anima sia al bene che
al male.”
“La
tristezza la rendeva quasi del tutto indifferente a ciò che le poteva accadere.”
La partecipazione emozionale al sentimento altrui
Ora,
vorrei chiedermi quale significato possa essere dato a questa immedesimazione,
anzi a questa identificazione, nel destino di un numero infinito di persone che
ad ogni istante pativano (Simone Weil smise di nutrirsi). Non lasciamoci
trascinare dai pregiudizi di una psichiatria che in questa identificazione
riconoscerebbe connotazioni patologiche, e invece cogliamone la stremata
umanità, e i bagliori di una immensa inenarrabile capacità di immergersi nei
mari sconfinati della sofferenza degli altri: sì, vivendola come sua, e
attribuendole una sconvolgente donazione di senso. Ci sono rischi psicologici
in queste fatali immersioni nella vita, nella vita quotidiana e nella vita
interiore, delle persone: delle persone che si amano, delle persone che si
conoscono, e delle persone che non si conoscono, e che si sentono vicine nel
dolore e nella sofferenza, nella tristezza e nella gioia lacerata? Sì, ci sono
pericoli di dipendenza, vorrei definirla così, di perdita, o almeno di compromissione,
delle proprie libertà di scelta e di decisione ma sono pericoli riscattati e
liberati dal fuoco ardente della generosità e della solidarietà, dell’amore e
dell’accoglienza del destino di dolore e di sofferenza degli altri. Sono
esperienze di vita di inestimabile valore che rendono umane e dotate di senso
le relazioni fra le persone, e creano comunità di destino.
v
“In
una sola circostanza non so davvero più niente di questa certezza, quando vengo
a contatto con la sventura altrui. Anche, e forse a maggior ragione, se si
tratta della sventura di coloro che mi sono indifferenti o sconosciuti, Questo
contatto mi procura un male così atroce, strazia da parte a parte la mia anima
a tal punto che per qualche tempo l’amore di Dio mi diventa quasi impossibile.
Tanto che ne sono preoccupata per me stessa.”
v
Così
morivano in Simone Weil gli aneliti ad una vita donata agli altri, ad una vita
solo appagata dalla realizzazione di ideali così alti e così vertiginosi, così
ardenti e così fragili, da destare commozione e stupefazione infinite, e
insieme da essere impossibili.
Fu
una morte per amore, per troppo amore, per amicizia, per troppa amicizia (che
in lei sconfinava in amore) degli altri, della vita degli altri e per il loro
vivere.
la
morte volontaria (le penombre semantiche delle parole: morte volontaria è
parola più sfrangiata e più dolce, più aperta alla speranza, che non quella
arida e spettrale di suicidio, e anche questo conta quando si abbia a che fare
con questo tema insondabile e fragilissimo) sia in ogni caso immersa nel
mistero, e come non la si possa nemmeno lambire nelle sue parabole agoniche se
non in un atteggiamento di attesa e di speranza, di silenzio e di
contemplazione, di preghiera (se vive in noi la luce della fede) e in fondo di
sospensione di ogni giudizio.
Il
sentimento di insignificanza del vivere e del morire, la nostalgia profonda
delle cose sognate e desiderate, che non è stato possibile realizzare in vita,
le fiamme ardenti delle assenze umane concorrono al sentimento di volontà di morte
volontaria i cui atti salvifici consistono nell’elaborazione interiore degli
avvenimenti e nella disposizione alla richiesta di aiuto.
“Ritornai
in me con grande fatica. Ecco la vita a cui mi consegno. Se guardo indietro
vedo il silenzio che si richiude e le ombre delle nuvole che si inseguono il
silenzio ripiomba al nostro effimero passaggio. È questo, mi dico, il presente.”
Virginia
Woolf
“Ricordo
i vividi e nitidi colori d’un mare celeste. Poi un incendio arse il mio animo
ed un vento forte straziò il mio spirito , tuoni violenti lesero la mia fragile
umana sensibilità. Ed il nostro sottile filo si fendette: Volai lontano come
una piuma, volitai smarrendo la mia identità. Ora, ai miei occhi, il mare,
celeste, non è più: Le vivide sfumature celesti scialbano del colore della
cessazione, dell’epilogo:
Il
bianco.”
Amicizia
L’amicizia
creatrice come sorgente di vita
v
“Sono
giunta al punto che non posso assolutamente concepire l’eventualità che un
qualche essere umano provi amicizia per me. Se credo alla sua, è semplicemente
per quel tanto che la ragione mi suggerisce di credervi poiché ho fiducia in
lei e da lei ricevo l’assicurazione di questa amicizia. Ma per la mia
immaginazione, essa rimane comunque impossibile. Questa disposizione
dell’immaginazione mi induce a una gratitudine tanto più tenera verso coloro
che compiono questa cosa impossibile. Poiché l’amicizia è per me un beneficio
incomparabile, senza misura, una sorgente di vita, in senso non metaforico, ma
letterale. Poiché non solo il mio corpo, ma la mia stessa anima, interamente
avvelenata dalla sofferenza, sono inabitabili per il mio pensiero, è necessario
che esso si trasferisca altrove. Non può abitare in Dio se non per brevi
istanti. Spesso abita nelle cose. Ma sarebbe contro natura che un pensiero
umano non abitasse mai in qualcosa di umano. Così, letteralmente, l’amicizia
dona al mio pensiero tutta la parte della sua vita che non gli deriva da Dio o
dalla bellezza del mondo. Può dunque ben comprendere quale dono lei mi ha
accordato offrendomi la sua amicizia.”
v
L’amicizia
come dialogo
Ogni
amicizia, ogni amicizia fondata sulla reciprocità e sulla autenticità delle
emozioni e dei pensieri, ha in sé prima di ogni altra cosa il significato di un
dialogo senza fine che continua anche quando non ci si vede, non ci si
incontra, e non ci si parla. Quando ci si rivede, l’incontro apparentemente
perduto si ricostituisce subito nella sua spontaneità e nella sua continuità.
Il tempo, il tempo interiore, il tempo vissuto, non si incrina mai nonostante
le interruzioni del tempo degli orologi, del tempo del mondo; e il linguaggio
della parola, ma anche il linguaggio del volto e degli sguardi, del sorriso e
delle lacrime, sostituiscono quello che è stato il linguaggio dell’assenza: il
linguaggio del silenzio.
L’amicizia
è dialogo: l’amicizia è corrente carsica (che si manifesta di nuovo dopo un
periodo di latenza.)che scorre nascosta e luminosa fra persone vicine e
lontane, presenti e assenti, consapevoli che nei momenti della gioia e del
dolore, della nostalgia e della prova, non si sarà mai soli. Sì, ci sono
amicizie profonde e amicizie che non lo sono, amicizie che durano una vita e
amicizie che si sfaldano rapidamente, amicizie di matrice emozionale e amicizie
di matrice razionale; ma in ciascuna di esse non possono mai mancare arcane
disponibilità all’ascolto e al dialogo, alla accoglienza e alla solidarietà.
Nell’amicizia,
nella misura in cui sia spontanea, non si spengono mai aneliti alla
condivisione e alla comunione.
Il
nocciolo segreto di ogni esperienza di amicizia : l’inesauribile reciprocità.
L’amicizia,
come ogni esperienza essenziale della vita, ci trasforma nei nostri orizzonti
emozionali e vitali, e fa sgorgare in noi speranze che anche nel dolore ci
aiutano a resistere alle nubi e alle notti oscure dell’anima.
L’amicizia
è esperienza del presente ma anche del passato, della memoria, non della
memoria cronologica, ma della memoria vissuta, che ogni volta rende vive le
esperienze del passato, e del futuro, della speranza, che come diceva Gabriel
Marcel è la memoria del futuro.
Le
amicizie talora si lacerano, nulla lasciando dietro di sé se non braci
agonizzanti.
L’amicizia
creatrice consiste in armonizzazioni e umili riconciliazioni fra i diversi modi
di vivere ed i sentimenti nelle loro risonanze interiori e nelle sue forme di
espressione : nelle parole, nel silenzio, nei gesti.
Friedrich
Nietzsche. Noi siamo due navi.
v
Eravamo
amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così e non vogliamo
dissimularci e mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene. Noi
siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo
benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto:
allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all’ancora in uno
stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già
alla meta, una meta che era la stessa per tutti e due. Ma proprio allora
l’onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l’uno lontano
dall’altro, in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai – forse
potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli
ci hanno mutati! Che ci dovessimo divenire estranei è la legge incombente su
noi: ma appunto per questo dobbiamo diventare più degni di noi!“
Anche
quando le due navi si sono allontanate definitivamente, non vengono mai meno il
ricordo e la nostalgia della amicizia, e in essa noi vogliamo continuare a
credere; e allora, una volta vissuta, l’amicizia vivrà luminosa, e non si
spegnerà mai.
“Ma
la nostra vita è troppo breve, troppo scarsa la nostra facoltà visiva per poter
esser più degli amici nel senso di quella nobile possibilità. E così vogliamo
credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri
nemici l’un l’altro.”
Ogni
nave può richiamare intorno a sé altre navi in un circolo di solidarietà e di
reciprocità che crea amicizie aperte, e non chiuse nei loro labirinti segreti.
v
L’amicizia
è un miracolo
v
“È
sommamente inutile trascurare la virtù ispiratrice dell’amicizia. Quel che
dev’essere severamente vietato è sognare le gioie del sentimento. Questa è
corruzione. L’amicizia non si lascia distaccare dalla realtà più di quanto
faccia la bellezza. È un miracolo, come la bellezza. E il miracolo consiste
semplicemente nel fatto di esistere. A venticinque anni è ormai tempo di farla
finita radicalmente con l’adolescenza. Non lasciarti imprigionare da nessun
affetto. Preserva la tua solitudine. Il giorno, se mai esso verrà, in cui ti
fosse dato un vero affetto, non ci sarebbe opposizione fra la solitudine intima
e l’amicizia, anzi tu potrai riconoscerla proprio a quel segno infallibile. Gli
altri affetti debbono essere severamente disciplinati.
L’amicizia…
non può esistere tra esseri molto distanti l’uno dall’altro. L’amicizia
presuppone che gli esseri siano prossimi l’un l’altro e siano giunti
all’uguaglianza tra di loro. È proprio dell’amicizia fare uso in modo uguale
dell’uguaglianza che già esiste tra gli uomini. Ed è proprio della giustizia
rendere uguali quelli che sono disuguali: quando questa uguaglianza è
raggiunta, l’opera della giustizia è compiuta. E così l’uguaglianza è al
termine della giustizia, ed è al principio e all’origine dell’amicizia.
Imparate
ad essere soli, non fosse altro che per meritare la vera amicizia. Imparate a
esserlo serenamente e gioiosamente.“
Simone
Weil scrisse questo brano dei ‘Quaderni’ in corsivo :
“Preserva
la tua solitudine. Il giorno, se mai verrà, in cui una VERA amicizia
ti fosse data, non vi sarebbe opposizione tra la solitudine interiore e
l’amicizia, al contrario. È proprio da questo segno infallibile che tu la
riconosceresti”.
v
L’ordine
della grazia
v
Impara
a respingere l’amicizia, o piuttosto il sogno dell’amicizia. Desiderare
l’amicizia è una colpa grave. L’amicizia deve essere una gioia gratuita (come
le gioie estetiche). Occorre rifiutarla per essere degni di riceverla: essa
appartiene all’ordine della grazia. [‘Dio mio, allontanati da me…’] (Preghiera
di Saint-Cyran, ispirata a Luca, V, 8.) È fra le cose che sono ‘date in
sovrappiù’. Ogni sogno d’amicizia merita di essere infranto. [Non è un caso che
tu non sia stata mai amata…]
Desiderare
di sfuggire alla solitudine è una debolezza. L’amicizia non deve guarire le
pene della solitudine, ma duplicarne le gioie. L’amicizia non si cerca, non si
sogna, non si desidera; si esercita (è una virtù).”
v
Simone
Weil. Attesa di Dio. 1941 – 1942. L’amicizia è armonia soprannaturale.
v
“Esiste
tuttavia un amore personale e umano che è puro, ove si racchiude un
presentimento e un riflesso dell’amore divino. È l’amicizia, purché si adoperi
questa parola rigorosamente, nel suo autentico significato… L’amicizia è
un’armonia soprannaturale, una unione di contrari… Una certa reciprocità è
essenziale all’amicizia. Se da parte di uno dei due amici manca qualsiasi
benevolenza, l’altro deve sopprimere l’affetto dentro di sé per rispetto del
libero consenso, non desiderando dunque di arrecarvi offesa. Se l’uno non
rispetta l’autonomia dell’altro, quest’ultimo deve recidere il legame per
rispetto di se stesso… Ogni amicizia è impura se contiene anche solo una minima
traccia del desiderio di piacere o del desiderio contrario. Nella perfetta
amicizia questi due desideri sono del tutto assenti. Gli amici accettano
pienamente di essere due e non uno, e rispettare la distanza che il fatto di
essere due creature distinte pone fra loro. Grazie a questa virtù
soprannaturale del rispetto dell’autonomia umana, l’amicizia è molto simile alle
forme pure della compassione e della gratitudine suscitate dalla sventura.”
“Poiché
il comandamento ‘Amatevi l’un l’altro’ era stato proferito dal Cristo, poco
prima di morire, in aggiunta ai comandamenti dell’amore per il prossimo e
dell’amore di Dio, si può pensare che nell’amicizia pura, come nella carità
verso il prossimo, si racchiuda qualcosa di analogo a un sacramento. Egli ha
forse voluto dare un’indicazione concernente l’amicizia cristiana con le
parole: “Allorché due o tre di voi si saranno riuniti in nome mio, io sarò fra
loro”. L’amicizia pura è un’immagine dell’amicizia originaria e perfetta,
quella della Trinità, essenza stessa di Dio. È impossibile che due esseri umani
siano uno e tuttavia rispettino in modo scrupoloso la distanza che li separa,
se Dio non è presente in ciascuno di loro. Il punto d’incontro delle rette
parallele è all’infinito.
v
L’amicizia
è fragile
L’amicizia
è fragile, ed è esposta alle ferite della stanchezza, della noncuranza, della
disattenzione, delle incomprensioni, della gelosia; e allora è necessario
viverla, e accoglierla in noi, nella nostra interiorità. Ma non dovremmo
nemmeno mai dimenticare che l’amicizia è una categoria dello spirito che ci fa
vivere le relazioni umane nella reciprocità e nella gentilezza, nella
accoglienza e nella comprensione, nella solidarietà e nella comunione. Ogni
amicizia non resta imprigionata in sé ma si riverbera come una eco nel mondo
delle relazioni interpersonali: rendendole migliori, e più aperte alla
speranza. Non è forse, questo, il senso della metafora nietzscheana della
amicizia come una nave che ha la sua rotta e la sua meta ma che richiama
intorno a sé altre navi? Sì, una metafora bellissima, che coglie il senso delle
nostre comuni amicizie.
La
comunità di destino
Meditiamo
le cose straordinarie che Simone Weil scrive, e ci sarà possibile capire sempre
meglio quanto l’amicizia sia indispensabile nel vivere una vita degna di essere
vissuta nelle sue diverse stagioni. L’amicizia in lei è la premessa ad una vita
che voglia uscire dai confini ghiacciati della propria soggettività, e voglia
costruire ponti che ci mettano in contatto gli uni con gli altri, creando una
comunità di vita, ed una comunità di destino.
L’attenzione
L’attenzione
è il solo cammino verso il mistero
v
“L’attenzione
è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. È
l’accordare a qualcosa una considerazione estrema è la scelta di accettare di
soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa,
di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al
di fuori di noi.
Qui
l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è
la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre
in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.
Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se
non disattenzione. Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza
riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine,
all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare
la sua massima realizzazione. È chiedergli qualcosa di molto prossimo alla
santità, in un tempo che, diversamente, sembra perseguire soltanto, con cieca
furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla
propria facoltà di attenzione.”
v
Simone
Weil. Attesa di Dio. 1941 – 1942. L’attenzione è preghiera.
“L’attenzione,
nel suo grado più elevato, e la preghiera sono la stessa cosa.”
“L’attenzione
è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma è uno sforzo negativo. Di per
sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, l’attenzione non è quasi
più possibile, a meno che non si sia già molto esercitati; allora è meglio
lasciarsi andare, provare a rilassarsi e cominciare daccapo dopo qualche tempo.
L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in se stessi, così come si inspira
e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono
infinitamente più di tre ore d’applicazione che fanno dire, con la sensazione
di aver fatto il proprio dovere: ‘Ho lavorato molto’. Ma, al di là delle
apparenze, è molto più difficile. Nella nostra anima c’è qualcosa a cui ripugna
la vera attenzione molto violentemente. Questo qualcosa è malevolo.“
v
“Ogni
volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in noi
stessi. Un quarto d’ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di
molte opere buone.”
L’attenzione
e la serendipità
“L’attenzione
consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e
permeabile all’oggetto, nel mantenere in se stessi, in prossimità del pensiero
ma a un livello inferiore, e senza che vi sia contatto, le diverse conoscenze
acquisite che si è costretti a utilizzare. Nei confronti di tutti i pensieri
particolari già formati, il pensiero deve essere come un uomo in cima a una
montagna che, guardando davanti a sé, al tempo stesso percepisce, pur senza
guardarle, molte foreste e pianure sottostanti. E soprattutto il pensiero deve
essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma deve essere pronto ad
accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi : La
serendipità.”
Serendipità
{Ingl. serendipity, da Serendip, antico nome dell’isola di Ceylon: voce coniata
da H. Walpole nei Tre principi di Serendip pubblicato nel 1754.}
Il
trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne cerca un’altra.
"Quando
qualcuno cerca, " rispose Siddhartha "allora accade facilmente che il
suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che
cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbir nulla, in sé,
perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è
posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare
significa: esser libero, restare aperto, non aver scopo. Tu, venerabile, sei
forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante
cose che ti stanno davanti agli occhi."
Hermann
Hesse
"Accade
a volte che un sognatore o un bambino si rompano gli occhi nell'intento di
vedere con precisione, di sorprendere nel cielo crepuscolare il momento in cui
compare ciascuna delle prime stelle. Ben tesa è la curiosità, allora; ben
vigile, l'attenzione; in uno stato come di ossessione le pupille.
Mai però
si raggiungerà il risultato desiderato. Una livida solitudine permane nel punto
preciso dove con tanta ansia si guarda. In cambio, un poco più lontano, qualche
cosa è successo. Niente ivi c'era prima; ma ora, ma adesso, rispende la più
brillante delle stelle. Senza volerlo il nostro sguardo si rapprende nella
luce."
E. D'Ors,
Diario Europeo, 1946
Felici
dunque coloro che trascorrono l’adolescenza e la gioventù soltanto a sviluppare
questo potere d’attenzione. Forse non sono più vicini al bene rispetto ai loro
fratelli che lavorano nei campi e nelle fabbriche. Vi sono vicini in altro modo,
dopotutto, essi sono parimenti umili donne e uomini esposti a lunghe e lente
sofferenze. I contadini e gli operai possiedono quella vicinanza a Dio, di
sapore incomparabile, che è propria dell’estrema povertà, dell’assenza di ogni
considerazione sociale. Ma se consideriamo le occupazioni in se stesse, gli
studi sono più vicini a Dio a causa dell’attenzione che ne è l’anima. Chiunque
attraversi gli anni di studio senza sviluppare in sé una simile attenzione ha
perso un grande tesoro.
v
Le fonti di speranza:
L’amicizia e l’attenzione
L’amicizia
e l’attenzione possono essere intese come fonti di speranza in una vita
lacerata dalla sventura, e dai luoghi che la causano; consentendoci di dare un
senso alla vita, e invitandoci a creare relazioni umane gentili e rispettose
della libertà e della dignità, della fragilità e delle attese, delle persone.
Arcobaleni che incrinano le ombre e le tenebre in cui siamo immersi quando la
nostra vita conosce la presenza della sventura e della infelicità, del dolore e
dell’angoscia, della agostiniana inquietudine del cuore e della disperazione.
Dovremmo
pensare, immaginare, tenere vivi nel nostro cuore i valori dell’amicizia e
dell’attenzione; non dovremmo mai dimenticare di vivere l’amicizia come esperienza
creatrice di realtà che non si oscurano nemmeno nelle ore difficili della vita,
e l’attenzione come categoria conoscitiva aperta a cogliere il senso radicale
dei pensieri e delle emozioni, delle parole e dei silenzi, che sono in noi, e
negli altri da noi.
Le immagini fotografiche
Sul suo
corpo sempre più esile ed etereo, si possono cogliere le vicende della sua
vita, della sua partecipazione al destino del grande numero di persone che
morivano di fame, e alle quali voleva essere vicina con il suo cuore e con la
sua vita in una ostinata volontà di sacrificio e di solidarietà. Sul suo volto
si possono cogliere valori innati ed umilmente acquisiti: La nobiltà e la
dignità, la lealtà e la fedeltà, il coraggio, il rispetto di sé e degli altri,
e la gentilezza, la tenerezza, la grazia solo lambite dalle penombre della
nostalgia, della malinconia e della tristezza ma riscattate dalla speranza, la
fede splendente e dura come cristallo.
Sì, la
testimonianza di umanità della vita di Simone Weil ci aiuta a resistere al
male: alle diverse dimore del male, e alle sue molteplici metamorfosi.
Simone
Weil desiderò di essere d’aiuto alle persone deboli e fragili, povere e
abbandonate. Una vita bruciata dall’amore del prossimo, dalla immedesimazione e
dalla identificazione nella sventura, nella sventura degli altri che diveniva
immediatamente la sua sventura.
Il
conforto morale che Simone Weil donò fu inestimabile. Consolò coloro che
convissero insieme a lei le inumane vicissitudini del deserto luogo.
Diminuirono con la sua misericordiosa presenza le sofferenze del tempo di
attesa e reificazione segnate dall’incessante lavoro così doloroso.
Il semplice
persistere di un compito umanitario nel centro stesso del male, nel punto
culminante della ferocia, sarebbe una sfida clamorosa alla ferocia che il
nemico ha scelto e che ci impone a nostra volta. La sfida colpirebbe tanto di
più perché a svolgere questi compiti umanitari sarebbe una donna animata da una
tenerezza materna. Di fatto questo atto misericordioso fu compiuto da rare
personalità, l’efficacia morale di un simbolo è indipendente dalla quantità. La
presenza d’una umana resistenza disarmata farebbe sentire in modo nuovo e
inatteso fin dove possono giungere le risorse morali e la risolutezza.
La tenerezza: l’immagine
della donna
La donna :
Mediatrice
di tenerezza, di tenerezza materna, e di immenso slancio oblativo, che la
potevano portare a sacrificare la vita nella vertigine di una indicibile
testimonianza umana:
Radicalmente
estranea alla forma di vita maschile:
incapace
di rifiutare la violenza, e incapace di riconoscere il valore simbolico dei
gesti, e dei comportamenti, e il dono di una morte e di un morire che nascano
sulla scia di ideali impossibili, e nondimeno ancora possibili.
“Un
sorriso poteva portare la luce in quegli ambienti immersi nella oscurità del
dolore, e nel silenzio di Dio.”
La
tenerezza dimenticata
nella sua grazia e nella sua fragilità,, così umbratile e così eterea,
sconfinante senza fine nella carezza,
la
tenerezza desiderata e sognata, la tenerezza dello sguardo e delle mani:
v
“Tanto la
carezza quanto la tenerezza e il gioco si riferiscono a questa realtà
fondamentale della vita umana che non ha la stessa radice dell’eros, che non è
una forma di sessualità repressa. C’è una certa corrispondenza tra tenerezza e
rifugio, intendendo il rifugio come una cavità originaria che accoglie chi sta
per nascere, oppure chi è appena nato, per proteggerlo e per rassicurarlo.”
Bruno
Callieri
v
Tentava la vostra mano la tastiera,
i vostri occhi leggevano sul foglio
gl’impossibili segni; e franto era
ogni accordo come una voce di cordoglio.
Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva
in vedervi inceppata inerme ignara
del linguaggio più vostro: ne bruiva
oltre i vetri socchiusi la marina chiara.
Passò nel riquadro azzurro una fugace
danza
di farfalle; una fronda si scrollò nel
sole.
Nessuna cosa prossima trovava le sue
parole,
ed era mia, era vostra, la vostra dolce
ignoranza.
Eugenio
Montale
La tenerezza ci apre al
mondo
La
tenerezza ci apre al mondo, ad un mondo che non è chiuso nella prigione della
immanenza: un mondo aperto agli orizzonti della trascendenza.
Ma la
tenerezza è in ogni caso uno stato d’animo che ci consente di entrare in un
dialogo silenzioso con le persone, e con le cose, in un dialogo scandito dagli
sguardi.
v
Nella tenerezza si incrinano le barriere, che
separano le persone le une dalle altre, e si rigenerano slanci del cuore, che
rendono palpitanti di vita le nostre relazioni con gli altri, con la loro
interiorità.
v
Simone Weil. Le lettere
alle allieve
Le
lettere che scrisse Simone Weil nascono da un cuore aperto all’ascolto dei
problemi dell’adolescenza.
1924
“Vorrei
tanto che mitigasse la sua sensibilità. Se le lascia libero corso, fa un uso
vano di forze preziose che potrebbero essere spese in modo efficace. D’altra
parte, è un’onta non riuscire a dominarsi. Quanto a odiare la vita, bisogna
essere singolarmente ingrati per abbandonarsi a un simile sentimento…”
“La vita
è crudele, è vero, ma le sue autentiche crudeltà lei non le conosce ancora e
probabilmente non le conoscerà mai. Nell’attesa, dimentica di gustare le gioie
pure che essa offre a tutti, persino ai più sventurati. La rassegnazione
autentica non è un sentimento triste, è un’accettazione gioiosa della vita così
com’è, comprese le sofferenze”.
“Si metta
in testa una volta per tutte che penso spesso a lei e con affetto. Almeno
riguardo a questo, smetterà di tormentarsi. I tormenti sono tipici
dell’adolescenza, ma io non voglio essere occasione o pretesto di tormento per
nessuno. I sentimenti affettuosi esistono per aiutare a vivere, non per far
soffrire.”
“È vero,
lei è ancora una bambina, ma questo non la dispensa dal dovere di essere forte.
Sappia che se pensa a me solo per tormentarsi, il suo sentimento è puramente
egoistico e non ha alcun valore. Quando si amano gli altri di per sé, si è
sempre felici di sapere che essi esistono.” L’amore allora è, fra le altre
cose, la facoltà di essere felici della esistenza degli altri.”
Amore
v
“La bontà
soprattutto, quando esiste, è qualcosa di reale; perché il più piccolo atto di
benevolenza, da un semplice sorriso fino a un gesto cortese, esige che si vinca
sulla stanchezza, su tutto quel che schiaccia e incita al ripiegamento su di
sé.”
“Riguardo
all’amore, non ho consigli da darle, ma nondimeno qualche avvertimento. L’amore
è una cosa grave con cui si rischia spesso di impegnare per sempre sia la
propria vita sia quella di un altro essere umano. Anzi, lo si rischia sempre, a
meno che uno dei due non faccia dell’altro la propria marionetta; ma, in
quest’ultimo caso, assai frequente, l’amore è qualcosa di odioso. Veda, in
definitiva, l’essenziale dell’amore consiste in questo: un essere umano si
trova ad aver bisogno vitale di un altro essere – bisogno reciproco o meno,
duraturo o no, secondo i casi.”
“Posso
dirle che, alla sua stessa età, quando ho avuto la tentazione di cercar di
conoscere l’amore, l’ho respinta, dicendo a me stessa che era meglio non
rischiare di impegnare la mia vita in una direzione che non mi era possibile
prevedere, prima di aver raggiunto quel grado di maturità che mi permettesse di
sapere esattamente cosa chiedere in generale alla vita, cosa aspettarmi da
essa.”
“Inoltre,
sembra che l’amore comporti un rischio: è il rischio di diventare arbitro di
un’altra esistenza umana, nel caso si sia profondamente amati.”
Sono
considerazioni sgorgate, certo, da concezioni ideali dell’amore che non so
quanto oggi non possano non essere antiquate, ma non possono non essere
considerate come espressione di una forma di sentire e di vivere immersa nel
fuoco ardente di ideali impossibili, e forse ancora possibili.
v
In dialogo con l’adolescenza
Simone
Weil, scrivendo ‘le lettere’ scelse le parole con attenzione affinché potessero
aiutare a incrinare la solitudine e il dolore dell’anima nelle giovani
generazioni, e a mantenere in loro, palpitante e viva, la grazia della speranza
contro ogni speranza, senza la quale in ogni età della vita è così difficile
vivere nelle notti oscure dell’anima, e nel silenzio di Dio.
“In
un paesaggio, non abbiamo forse il cielo, il sole che sorge, ascende, tramonta,
e le stelle, e infine tutto l’universo? Vi si possiede il mondo, vi si può
attendere con serenità le vicissitudini della sorte dell’ineluttabile.”
“Mia
cara bambina, non le ho scritto in tutti questi anni per la forza stessa dei
sentimenti da lei espressa nelle sue lettere. Quando un adulto ne ispira di
simili in un ragazzo, vi è una sorta di abuso di fiducia che li autorizza; ne
può conseguire una influenza tale da distruggere la personalità e intralciare
lo sviluppo. A causa di questo genere di ammirazione cieca, gli adolescenti
corrono dei rischi riguardo all’integrità del loro essere morale; occorre che
ne vengano salvaguardati con la freddezza e il silenzio. Oggi, lei ha
vent’anni, simili scrupoli non sono più necessari.”
Nel
momento di morire, se si muore in un sentimento d’amore – e l’amore di Dio è la
stessa cosa che l’amore dell’universo, delle sue leggi, di tutti gli esseri
pensanti che vi si trovano –, si tratta necessariamente di un amore puro.
Soltanto nel momento della morte, l’uomo può attingere il più alto grado di
purezza.”
Le poesie. A un giorno.
Come potrebbe il cuore non spezzarsi
Se l’improvvisa e dolce scossa del mattino
Dissipa l’ombra dell’infinito agitarsi
In dubbi, rimorsi, paura del destino?
La
grazia lo ferisce; sanguina
Davanti alla pianura dove l’acqua stende
Una
coltre di nebbia delicata
Sul
ramo spoglio e tremante,
Sull’ala sospesa ed esitante,
L’aria da un debole lampo inondata
♦
♦ ♦
Giorno che nasci, colmo di rugiada,
Così chiaro nell’anima e nei cieli,
Tutto questo splendore che si posa
Ovunque come una carezza
Limpido a noi sarà di tenerezza.
La sera che l’aria fluida ha traversato
Ne colmerà l’umido prato.
Ma prima ancora che la notte scenda,
O giorno, come sarai sporcato!
♦ ♦ ♦
Per chi, ahimè, nascesti?
Questi giovani esseri prostrati,
Volevi bagnarli d’aurora
Nei
campi non ancora arati?
I
volti ingrigiti dal fango,
Lontano da mani ad essi soli attente,
Sono
alla terra incatenati,
La bocca aperta senza preghiera,
L’occhio insensibile alla luce,
Privi del loro diritto ai giorni.
♦ ♦ ♦
Debole sorriso luccicante di lacrime,
Esordio di un giorno in mezzo ai giorni,
Vieni, afferraci, libera dalle ansie,
Ascendi, illumina, ascendi, accorri!
La tua fiamma slitta di ora in ora;
La tua ala d’un quieto lampo sfiora
Uno
per uno i pallidi paesi.
L’aria è in fiore sulle tue tracce.
Che una volta per i lenti spazi
Si assista al tuo sgorgare!
“Ho
imparata a memoria, la poesia ‘Amore’ di George Herbert. Spesso, nei momenti
culminanti delle violente crisi di mal di testa, mi sono esercitata a recitarla
applicandovi tutta la mia attenzione e aderendo con tutta l’anima alla
tenerezza in essa racchiusa. Credevo di recitarla solo come una bella poesia,
ma a mia insaputa quell’esercizio aveva la virtù di una preghiera. Durante una
di quelle recitazioni, come le ho scritto, il Cristo stesso è disceso e mi ha
presa.”
‘Amore’
Amore, mi diede il benvenuto; ma l’anima
mia si ritrasse,
Di polvere macchiata e di peccato.
Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi
esitante
Sin dal mio primo entrare,
Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo
Se di nulla mancassi.
Di un ospite, io dissi, degno di essere
qui.
Amore disse: Quello sarai tu.
Io, lo scortese e ingrato? Oh, amico mio,
Non posso alzare lo sguardo su Te.
Amore mi prese la mano e sorridendo
rispose:
E chi fece gli occhi se non io?
È vero, Signore, ma li macchiai: se ne
vada la mia vergogna
Là dove merita andare.
E non sai tu, disse Amore, chi portò
questa colpa?
Se è così, servirò, mio caro.
Tu siederai, disse Amore, per gustare
della mia carne.
Così io sedetti e mangiai.
George Herbert
Nel sorriso di un volto amato
“Nei
miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto la
possibilità di questo: un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un
essere umano e Dio. Avevo sentito vagamente parlare di cose simili, ma non vi
avevo mai creduto. Ricusavo i racconti di apparizioni nei Fioretti al pari dei
miracoli nel Vangelo. Del resto né i sensi né l’immaginazione avevano avuto la
minima parte in quella improvvisa presa di possesso del Cristo; attraverso la
sofferenza ho soltanto percepito la presenza di un amore analogo a quello che
si legge nel sorriso di un volto amato.”
“In
un momento d’intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza
attribuirgli il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito, senza
esservi assolutamente preparata, una presenza più personale, più certa, più
reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi che
all’immaginazione, analoga all’amore che traspare attraverso il più tenero
sorriso di un essere amato.”
La preghiera
“Supplicare
è attendere dal di fuori la vita o la morte. In ginocchio, il capo reclinato,
nella posizione che meglio consenta al vincitore di ghigliottinare con un
fendente di spada; la mano che tocca le sue ginocchia (ma è probabile che
originariamente fosse sollevata più in alto) per ricevere dalla sua
compassione, il dono della vita. Così trascorre qualche minuto d’attesa. Il
cuore si svuota di tutti i suoi attaccamenti, raggelato dal contatto imminente
della morte. Si riceve una vita nuova, fatta puramente di misericordia. Bisognerebbe
pregare Dio così.”
v
“La
dolcezza infinita di quel testo greco, il Padre Nostro, mi ha allora presa a
tal punto che per alcuni giorni non ho potuto fare a meno di recitarlo fra me e
me ininterrottamente. Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di
recitarlo ogni volta ogni mattina, con attenzione assoluta. Se mentre lo recito
la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura infinitesimale,
ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta un’attenzione
assolutamente pura.”
“La
virtù di questa pratica è straordinaria e ogni volta mi sorprende, perché pur
sperimentandola quotidianamente supera ogni volta le mie attese. Talora già le
prime parole strappano il mio pensiero dal mio corpo per trasportarlo in un
luogo fuori dello spazio, dove non c’è prospettiva né punto di vista. Lo spazio
si apre. Alla finitezza dello spazio ordinario della percezione delle contingenze
umanamente insostenibili si sostituisce un’infinità alla seconda o talvolta
alla terza potenza. Nello stesso tempo quest’infinità si riempie da parte a
parte di silenzio, un silenzio che non è assenza di suono, bensì oggetto di una
sensazione positiva, più positiva di quella di un suono.”
v
Santa Teresa di Lisieux
“Per
me, la preghiera, è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso
il Cielo, è un grido di riconoscenza e d’amore in mezzo alla prova come in
mezzo alla gioia, alla fine è qualcosa di grande di soprannaturale, che mi
dilata l’anima e mi unisce a Gesù.”
“Qualche
volta quando il mio spirito è in una aridità così grande che mi è impossibile
cavarne un pensiero per unirmi al Buon Dio, recito molto lentamente un “Padre
Nostro” e poi il saluto dell’angelo; allora queste preghiere mi affascinano,
nutrono l’anima mia molto di più che se io le avessi recitate precipitosamente
un centinaio di volte.”
Il tempo è l’attesa di Dio
v
“Dio
attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo. Dio attende
come un mendicante che se ne sta in piedi, immobile e silenzioso, davanti a
qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane. Il tempo è questa attesa. Il
tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. L'umiltà nell’attesa ci
rende simili a Dio. Dio è unicamente il bene. Il ‘Volo ut sis’ è umile amore,
accoglienza paziente e silenziosa. Chiunque si fa avanti o parla usa un po’ di
forza. I mendicanti che hanno pudore sono Sue immagini.”
“È
una situazione spirituale penosa. Io vorrei renderla non meno penosa, ma più
chiara. Nella chiarezza qualsiasi pena è accettabile.”
“Dio
ha amato il mondo fino a dare il proprio figlio unico affinché chiunque confida
in lui non sia perduto ma abbia la vita eterna. Dio non ha inviato suo figlio
nel mondo perché giudichi il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di
lui. Chi confida in lui non è giudicato. Chi non confida è già giudicato,
perché non ha confidato nel nome del figlio unico di Dio. Il giudizio sta in
questo, che la luce è venuta nel mondo, e gli uomini hanno amato le tenebre
piuttosto che la luce; perché le loro opere erano cattive. Chiunque fa cose
mediocri odia la luce, e non va verso la luce, affinché le sue opere non siano
confuse. Chiunque compie la verità va verso la luce, affinché le sue opere
siano manifeste e sia manifesto che esse sono state operate in Dio.”
La
grazia che converte la di-sperazione nella speranza contro ogni speranza.
Come
non chiamare cristiana una vita contrassegnata dai più alti e vertiginosi
ideali di solidarietà e di comunione, di grazia mai incrinata dall’ombra, di
comprensione e di accettazione del mistero, che è nella preghiera,
nell’infinito? Sono testi che aiutano a vivere infinitamente di più che non
quelli di una religiosità astratta e dis-incarnata dalla vita.
v
Modi di leggere
v
“Quale
sarebbe la differenza tra il giusto e l’ingiusto, se tutti si comportano sempre
(o quasi sempre) in conformità alla giustizia che essi leggono? Giovanna
d’Arco; quelli che oggi l’esaltano l’avrebbero quasi tutti condannata. Ma i
suoi giudici non hanno condannata la santa, la vergine combattente per la
giustizia, ma la strega.”
“Causa
di questo o quel modo di leggere. L’opinione pubblica è una causa molto forte.
Le passioni. Giovanna d’Arco: nella sua storia si legge ciò che detta
l’opinione pubblica contemporanea. Ma essa stessa è stata incerta. E il
Cristo…”
v
Il grido ci lacera
Il
linguaggio delle immagini e del silenzio è talora ancora più ardente e arcano
del linguaggio delle parole.
“È
solo quando abbiamo bisogno fino allo spasimo di un rumore che voglia dire
qualcosa, quando gridiamo per ottenere una risposta ed essa non ci è concessa,
è proprio allora che tocchiamo il silenzio di Dio. Quando siamo troppo sfiniti,
allora abbiamo bisogno di parole vere. Gridiamo per averne. Il grido ci lacera.
Non otteniamo altro che il silenzio. Rare personalità offrono tutto il cuore al
silenzio. Forse molti esseri umani arrivano alla morte senza essere mai passati
per questa prova. Ma chi può dirlo? È il segreto dei cuori. Il verbo è il
silenzio di Dio nell’anima. È il Cristo in noi.”
San
Giovanni della Croce
Il mistero delle relazioni
“Due
prigionieri, in celle vicine desiderano la libertà del loro incontro, essi
comunicano con colpi contro il muro. Il muro è ciò che li separa, ma è anche
ciò che permette loro di comunicare. Così tra noi e tra noi e Dio. Ogni
separazione è un legame.”
v
La notte del nulla
“Ma
di colpo le tenebre che mi circondano diventano più spesse, esse penetrano
nell’anima mia e la avvolgono in modo tale che non mi è più possibile ritrovare
in essa l’immagine così dolce del mio Eremo, tutto è sparito! Quando voglio
riposare il mio cuore stanco delle tenebre che lo circondano, con il ricordo
del paese luminoso verso cui aspiro, il mio tormento raddoppia; mi sembra che
le tenebre, facendo propria la voce dei peccatori, mi dicono facendosi scherno
di me: ‘ – E tu sogni la luce, una patria odorosa dei più soavi profumi, tu
sogni il possesso eterno del Creatore di tutte queste meraviglie, tu credi di
uscire un giorno dalle nebbie che ti circondano! Avanza, avanza, rallegrati
della morte che ti darà, non ciò che tu speri, ma una notte più profonda
ancora, la notte del nulla’.”
Simone
Weil, La storia di un’anima
“Madre
amatissima, le parrò forse esagerare la mia prova, in realtà se lei giudicasse
secondo i sentimenti che esprimo nelle poesiole che ho composto quest’anno,
debbo sembrarle un’anima piena di consolazioni e per la quale il velo della
fede si è come strappato, e tuttavia… non è più un velo per me, è un muro che
si innalza fino ai cieli e copre il firmamento stellato… Quando io canto la
felicità del Cielo, l’eterno possesso di Dio, io non ne sento alcuna gioia,
perché canto soltanto quello che IO VOGLIO CREDERE. Talora è vero, un piccolissimo raggio di
sole viene a illuminare le mie tenebre, allora la prova smette un istante, ma
in seguito il ricordo di questo raggio invece di provocarmi gioia rende le mie
tenebre ancora più spesse.”
Simone
Weil, La storia di un’anima
Le luci del mistero
“Vivere
senza mistero significa non sapere nulla del mistero presente nella nostra
vita, del mistero dell’altro, del mistero del mondo; significa passare sopra ai
lati reconditi di noi stessi, dell’altro e del mondo; significa rimanere alla
superficie, significa prendere il mondo sul serio soltanto nella misura in cui
esso può essere calcolato e sfruttato, non recedere al di là del mondo del
calcolo e dell’utilità. Vivere senza mistero significa non vedere o addirittura
negare i processi decisivi della vita.”
Dietrich
Bonhoeffer
“Non
vogliamo sentirci dire che il mistero è la radice di tutto quanto è
comprensibile, chiaro e manifesto. E quando ce lo sentiamo dire, vogliamo
aggredire tale mistero, calcolarlo e spiegarlo, vogliamo sezionarlo, e il
risultato è che, così facendo, uccidiamo la vita e non scopriamo il mistero. Il
mistero rimane mistero. Si sottrae alla nostra presa. Mistero non significa
però semplicemente non sapere qualcosa. Non la stella più lontana è il mistero
più grande, bensì, al contrario, quanto più una cosa ci viene vicino, quanto
meglio la conosciamo, tanto più misteriosa essa diventa per noi. Non l’essere
umano più lontano è per noi il mistero più grande, bensì proprio il più vicino.
E il suo mistero non diventa per noi più piccolo per il fatto che lo conosciamo
sempre di più, bensì con la sua vicinanza egli diventa per noi sempre più
misterioso. L’ultima profondità del mistero l’abbiamo lì dove due persone
diventano così vicine l’una all’altra da amarsi reciprocamente. Da nessun’altra
parte al mondo l’essere umano percepisce la potenza del mistero e la sua
magnificenza tanto fortemente come qui”.
Dietrich
Bonhoeffer
Passato
Andasti, amata felicità, e dolore
duramente amato.
Che nome ti darò? Tribolazione, vita,
beatitudine,
parte di me stesso, mio cuore, – passato?
Da
sola si chiude la porta,
odo i tuoi passi allontanarsi lentamente e
svanire.
Che mi resta? Gioia, tormento, desiderio?
Questo soltanto so: andasti – e tutto è
passato.
Lo senti come io tenda ora la mano verso
di te,
fino a farti male?
Come apra in te ferite
sino
a farti sanguinare
solo per conservare la certezza che mi sei
vicina,
tu, vita del corpo, vita terrena, tu vita
piena?
T’accorgi tu del mio desiderio spaventoso
di provar dolore?
che bramo veder scorrere il mio sangue
solo perché non tutto sprofondi nel
passato?
Vita, che mi hai fatto?
Perché venisti? Perché passasti?
Passato, quando mi sfuggi, –
resti tu mio, il mio passato?
Come il sole sempre più rapido affonda nel
mare
quasi attratto dalle tenebre,
così affonda e affonda e affonda
senza sosta
tua immagine nel mare del passato
ed è sepolta già da poche onde.
Come il vapore del caldo respiro
si dissolve nella fresca aria del mattino,
così mi si dilegua la tua immagine,
e il tuo volto, le tue mani, la tua figura
io più non conosco.
Mi appare un sorriso, uno sguardo, un
saluto,
ma anche questo si disgrega, si dissolve,
senza consolazione, senza vicinanza,
ed è guastato:
ormai è solo passato.
Per la tua vicinanza mi risveglio a notte
fonda
pieno di spavento –
sei per me di nuovo perduto? Cerco te
eternamente invano,
te, mio passato?
Tendo le mani
e prego –
e
sperimento la realtà nuova:
ciò
che è passato ritorna a te
come la parte più viva della tua vita
attraverso la gratitudine e il pentimento.
Di Dio cogli nel passato perdono e bontà,
e prega che t’assista oggi e nel giorno
che verrà.
Dietrich
Bonhoeffer
“Mia
carissima Maria! Questa è per te, solo per te. Esitavo a mandartela, perché
temevo ti potesse spaventare. Questo non deve succedere e non succederà, se
coglierai quello che c’è dietro. Le ultime sei righe sono la cosa più
importante, per esse è nato tutto il resto; ad esse io mi sorreggo e dovrai
farlo anche tu! Di più oggi non posso dire. Tutto ciò che potevo è in questo
tentativo di poesia. Se non ti piace strappala, buttala via. Ma non volevo
tenertela nascosta. Tuo Dietrich.”
Il mio ultimo cammino
v
I tuoi ordini, a mio parere, hanno minore
autorità
delle
leggi non scritte e imperscrittibili di Dio.
Tutti costoro
qui presenti mi approvano.
Lo
direbbero, se la paura non chiudesse loro la bocca.
Ma i capi
posseggono molti privilegi, e soprattutto
quello di
agire e parlare come loro piace.
Sofocle, Antigone
Non sono
nata per condividere l’odio, ma l’amore.
Sofocle, Antigone
Ecco che
mi si trascina via, prendendomi per le mani,
io
vergine, io senza sposo, io che non ho avuto la mia parte
né del
matrimonio, né del nutrimento dei bambini.
Abbandonata,
senza un amico, ahimè!
Quale
crimine ho dunque commesso davanti a Dio?
Ma perché dovrei ancora, sventurata,
volgere i miei sguardi
a Dio? Chi posso chiamare in mio soccorso?
Ah!
È per aver fatto il bene che mi si fa
tanto male.
Ma se davanti a Dio ciò che mi s’infligge
è legittimo,
nella mia sofferenza riconoscerò i miei
torti.
Se sono essi in torto, non auguro loro
maggiori pene di quelle che mi fanno
subire ingiustamente.
Sofocle, Antigone
v
Vivere è prendere commiato?
Così
noi viviamo, e prendiamo sempre commiato (l’immagine bellissima è di Rainer
Maria Rilke), il commiato da esperienze che vivevano in noi, e che lentamente
muoiono, il commiato da speranze che si trasformano in illusioni, il commiato
da sogni che a mano a mano perdono il loro fascino, il commiato da libri che ci
sembravano immortali, e che svaniscono nella loro immagine, e nel loro fascino,
il commiato da luoghi amati che scoloriscono nella memoria del cuore, il
commiato da musiche che ci incantavano, e ora non ci dicono più nulla, il commiato
da quello che noi eravamo, ieri, un mese, un anno, vent’anni fa, e che oggi non
siamo più, il commiato da emozioni che si rianimavano in noi, e che ora si sono
spente, il commiato da persone che si sono amate, e si sono poi perdute, e
l’estremo commiato: quello dalla vita. Ci sono nondimeno commiati definitivi e
commiati temporanei, commiati dolorosi e commiati che non fanno male; ma non da
tutto si può prendere commiato: non si prende commiato dalle persone, dalle
esperienze, dai luoghi, dai paesaggi, dalle situazioni, dai libri, dalle
musiche, che hanno radici ineliminabili dalla nostra vita. Così, ci sono stati
libri, dai quali mi è stato impossibile prendere commiato, e fra questi i libri
di Simone Weil, che si sono sempre accompagnati alla mia vita, e verso i quali
non è mai venuta meno la mia fascinazione umana e spirituale, emozionale e
culturale, e di essa questo mio libro vorrebbe essere testimonianza fragile e
discontinua, sincera e temeraria.
Bibliografia
v
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l’opera autografa
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