LE COSE CHE NON HO DETTO
AZAR NAFISI
Frammento di lettura
2008
Adelphi
INDICE
PARTE PRIMA.
Racconti di famiglia
Saifi
Geni
guasti
Imparo
a dire le bugie
Il
rito del caffè
Vincoli
familiari
Il
sant'uomo
Una
morte in famiglia
PARTE SECONDA.
Lezioni e apprendimento
Lontano da casa
La storia di Rudabeh
Scotforth House
Politica e intrighi
Sindaco di Teheran
Prove di rivoluzione
PARTE TERZA.
Mio padre in carcere
Un delinquente comune
I diari del carcere
Una donna in carriera
Un buon partito
Vita da sposata
PARTE QUARTA.
Rivolte e rivoluzioni
Una famiglia felice
Le manifestazioni
La rivoluzione
Un'altra amante
Non sentirsi più a casa
Leggere e resistere
Sogni infranti
Mio padre se ne va
Affrontare
il mondo
L'ultimo ballo
Pericoli dell'amore
«Raccontare
era una passione di famiglia. Mio padre scrisse due libri di memorie. Mia madre
ci raccontava le storie del suo passato. Non avrebbe approvato che io scrivessi
un libro di memorie, soprattutto di famiglia, e del resto nemmeno io avrei mai
immaginato che un giorno avrei raccontato dei miei genitori. Non vale la pena di scriverne. Non vale la
pena di parlarne, si pensa. Io non credo che si debba rimanere zitti. Del
resto, non restiamo mai davvero zitti, perché, in un modo o nell'altro, ci
raccontiamo attraverso le persone che diventiamo.
La maggior parte degli uomini tradisce la
moglie per avere un'amante.
Mio
padre tradiva mia madre perché non si sentiva amato. Io lo vedevo infelice e mi
sentivo quasi in dovere di riempire i vuoti della sua vita: raccoglievo le sue
poesie, lo ascoltavo quando era triste. Un
giorno mi confessò che non era il sesso che cercava nelle altre, ma una
sensazione di calore, voleva essere approvato, accettato. Essere accettati!
Quanto possa essere micidiale questo desiderio l'ho imparato dai miei genitori.
Mio padre cominciò a tenere un diario
quando io avevo quattro anni. Nel diario si rivolge a me. Nelle prime pagine mi esorta a fare la brava e a
comportarmi bene. Poi inizia a lamentarsi di mia madre, perché non lo ama più come una volta. Dice che
sono io adesso la sua unica consolazione, anche se sono così piccola, dice che
sono il loro angelo di pace.
Talvolta diveniamo fedeli non al prossimo, quanto ai suoi ricordi.
A
volte mi sentivo tradita, come se ci impedissero di avere una nostra storia.
Solo adesso capisco quanto la loro storia fosse anche la mia.
Quando muore una persona cara ci ritroviamo
di colpo nel mondo dei vivi, cui alla fine, bene o male, finiamo col cedere; ma
quello dei morti, come un amico o un nemico immaginario, o un'amante segreta,
continua a invitarci, con il richiamo di
quello che abbiamo perso. Cos'è il ricordo se non uno spettro nascosto in un
angolo della mente, pronto a irrompere durante il giorno, o a disturbare il
nostro sonno, con un atroce dolore, una gioia, qualcosa che non abbiamo detto o
che abbiamo ignorato? Quando muoiono i nostri cari non è soltanto la loro
presenza che ci viene a mancare, o i loro sentimenti, ma anche il modo in cui
ci hanno permesso di conoscerli, e di conoscere noi stessi.
C'era un che di commovente nel modo in cui
parlava di se stessa e del suo passato.
Adesso
sto cercando quei barlumi, per capire cosa rivelavano di mia madre, e di noi.
Le sue fotografie mi sembravano l'unico
modo per entrare nel suo passato. Ero una ladra di ricordi.
Ma
le fotografie, le descrizioni, persino i fatti, non bastano. Rivelano alcuni
dettagli, ma sono solo dei piccoli frammenti senza vita. Quello che sto
cercando sono i vuoti, i silenzi. Per ritrovare il passato bisogna scavare.
Due
rivoluzioni segnarono il paese, provocando conflitti, contraddizioni e uno
stato di perenne turbolenza.
La
monarchia assolutista era ormai destabilizzata e vigevano rigide leggi
religiose che sancivano la lapidazione, la poligamia, e il matrimonio per le
bambine di nove anni.
Le
donne uscivano di casa raramente, solo se accompagnate e coperte dalla testa ai
piedi. Non esistevano scuole per le
donne, anche se le figlie dei nobili potevano studiare in casa con un
tutore privato.
Eppure, dentro la crisi culturale e politica,
si intravedeva qualche barlume di un futuro che avrebbe rovesciato tutte le
vecchie regole. La Rivoluzione costituzionale del 1905-1911, la
prima nel suo genere nel Medio Oriente, che contribuì a far nascere l'Iran
moderno scuotendo diversi strati della società - il clero, le minoranze, gli
intellettuali, alcuni membri dell'aristocrazia, e le donne, tra cui alcune avevano iniziato a sostenere i
rivoluzionari, organizzando gruppi clandestini e reclamando l'accesso
all'istruzione. Le donne iraniane avevano conquistato in poco tempo quelle
libertà che le donne occidentali avevano impiegato anni, persino secoli, a
ottenere. A partire dal 1907 le donne persiane sono diventate le più
progressiste, se non radicali, al mondo. Questa mia sorprendente affermazione
non è un'opinione, ma un fatto.
Il rifiuto
della gente a staccarsi dal passato.
Io sono cresciuta negli anni Cinquanta e
Sessanta, e per me era una cosa scontata
andare a scuola, alle feste, al cinema, vedere le donne attive in ogni
campo, persino in Parlamento.
Ma
per mia figlia, nata nel 1984, cinque anni dopo la Rivoluzione iraniana che
ripristinò le leggi abrogate ai tempi di mia nonna e di mia madre, la
situazione cambiò radicalmente e fu costretta a indossare il velo in prima
elementare. Anche la sua generazione, però, alla fine avrebbe trovato il suo
modo di opporsi e di resistere.
Cercare
le fragili intersezioni, i punti di incontro, le risonanze tra i momenti di una
vita privata, personale, e i riflessi di una storia più ampia e universale. Erano
queste intersezioni tra il pubblico e il privato quello che avevo in mente
quando cominciai a scrivere il mio primo libro su Vladimir Nabokov.
Fu
allora, in un contesto di proibizione della libertà di pensiero, che stilai una
lista nel mio diario: «Le cose che non ho detto».
Finii per scrivere di tradimenti, che riguardavano me e le persone a me vicine, in modi
che non avrei mai immaginato. Sono tante
le forme del silenzio. C'è il silenzio che uno Stato tirannico impone ai suoi
cittadini, rubandogli i ricordi, riscrivendo la loro storia, imponendogli una
nuova identità. C'è il silenzio dei testimoni che scelgono di ignorare o di
tacere la verità; c'è il silenzio delle vittime che a volte diventano complici
dei loro carnefici. E poi ci sono i silenzi che ci concediamo su noi stessi, la
nostra personale mitologia, le storie che sovrapponiamo alle nostre vite reali.
Molto prima di scoprire come un regime dispotico possa imporre una nuova
immagine all'individuo e rubargli la sua vera identità, la sua idea di sé, io
l'avevo già vissuto all'interno della mia famiglia; e molto prima di scoprire
cosa significhi per le vittime diventare complici dei crimini commessi dallo
Stato, io avevo già conosciuto, in una sfera molto più personale, la vergogna
della complicità.
Il
vuoto creato dall’assenza. Parlarne non è risolutivo almeno non per me -, ma
aiuta a capire. Se anche non ci dà la pace, può sembrare
l'unico modo per avere un rapporto con l’essenza che fu in vita, adesso che
possiamo finalmente disegnare a modo nostro
i confini della nostra storia.
Parte
prima
Racconti
di famiglia
Opponeva
una strenua resistenza a tutto ciò che non aveva voluto.
La spontaneità dell'intimità, quando non
c'è bisogno di aggrapparsi uno all'altro. I loro corpi sembrano gravitare insieme,
naturalmente. Questa giovane donna sembra capace di lasciarsi andare.
Tutti
ribadivano la loro versione.
Il
problema non era quello che diceva, ma quello che taceva.
Era troppo orgogliosa, troppo testarda per
curarsi della verità, e così trasformò quella storia in un’invenzione della sua
fantasia.
Geni
guasti
La prima volta che mi fu permesso di
giocare con la mia bambola preferita - viso di porcellana con gli occhi
azzurri, lunghi capelli biondi e un vestitino turchese - cominciai a lanciarla
in aria e a prenderla al volo, più e più volte, finché cadde in terra e si
ruppe in mille pezzi. Nel corso degli
anni mi sarebbe capitato altre volte di perdere o di distruggere cose molto
care, soprattutto quelle avute da mia madre, - anelli, orecchini, lampade
antiche, statuine. Cosa significa questo? Che ero una sbadata che perde le
cose, e le persone?
Noi due avevamo un nostro rito: ogni sera
prima di dormire lui mi raccontava una
storia. Papà appoggia sul comodino un piatto di porcellana colmo di
cioccolatini e mi dice che se sono brava e gli faccio un sorriso grande grande
mi svela un segreto. Quale segreto? gli chiedo. Ma lui non può svelare nessun segreto alle bambine tristi con il
broncio. Io non cedo, mi rifiuto di fare come vuole lui, - deve dirmi il segreto
senza niente in cambio. Va bene, dice mio padre, ma scommetto che
sorriderai quando saprai di cosa si tratta. Voglio fare qualcosa di nuovo, mi dice con un tono da cospiratore. D'ora in poi le storie le inventiamo noi.
Quali storie? gli chiedo. Le nostre; possiamo inventarcele come ci pare e
piace. Non so come si fa, dico io. Sì che lo sai invece: pensi a un desiderio,
e poi ci inventi sopra una storia. Ebbe allora inizio un nuovo rito. Da
quel giorno, io e mio padre creammo un
linguaggio segreto, inventando storie per comunicarci sentimenti e bisogni,
costruendoci così un mondo tutto nostro.
Nel corso degli anni avrei imparato che potevo sempre trovare rifugio in quel
mio mondo fantastico, un mondo in cui avrei potuto volare in un luogo dove nessuno poteva entrare e controllarmi.
Nei primi anni Novanta, mio padre pubblicò
tre libri per bambini basati su testi classici. Uno di questi era una versione
dello Shahnameh, Il libro dei Re, il poema epico di Firdusi. Nell'introduzione
mio padre spiega di aver cominciato a
raccontare a noi, i suoi bambini, quelle storie, quando avevamo tre, quattro
anni. Letture, scrive, che in seguito avremmo continuato da soli. In questa
introduzione sottolinea che gli iraniani dovrebbero imparare a conoscere meglio
i loro antenati e i loro valori attraverso un'attenta lettura del Libro dei Re.
Un libro grazie al quale «oggi possiamo vedere, udire, sentire l'Iran dentro la
nostra casa, un poema che ci riscalda il
cuore...
Ci insegnò
che i poeti meritano un rispetto speciale, un rispetto diverso da quello che
dobbiamo ai nostri insegnanti, o agli anziani.
Nel corso degli anni l'Iran divenne per me un simbolo di identità: era il luogo dov'ero
nata e vissuta, era la lingua che parlavo, il cibo che mangiavo, ma allo stesso
tempo era un concetto mitico, un insieme di virtù e di valori, un simbolo della
resistenza e del tradimento.
Mia madre disprezzava il nostro profondo interesse per la letteratura
considerandolo una perdita di tempo. Negli anni mi venne in mente un'altra
spiegazione, più curiosa, di quella sua ostilità nei confronti di chi scriveva
storie: non voleva rivali. La sua vita
era la sua storia, non le interessava chi raccontava per mestiere.
Equilibrio: La vendetta e l’assoluzione.
Ero molto attenta a quelle storie e le interiorizzavo
come non facevo mai con le vicende della vita reale. Più tardi mio padre mi
spezzò il cuore, e poiché lo avevo amato e mi ero fidata di lui come di nessun
altro, lo ferii e gli spezzai il cuore anch'io. È grazie alle sue storie se adesso riesco in parte ad assolverlo.
Solo quei momenti sono riusciti a sfuggire ai nostri reciproci attacchi e
tradimenti.
Mentre mia madre comandava e pretendeva,
mio padre ci convinceva con le lusinghe - un po' come Tom Sawyer con i compagni
di giochi per indurli a dipingergli il recinto. Tra noi c'era quell'intimità che nasce dalla complicità.
Ogni venerdì mattina, mio padre mi
svegliava presto per andare a fare una lunga passeggiata. Lo chiamava il nostro
momento speciale; lui si metteva a raccontare.
Con il tempo i personaggi di Firdusi mi divennero
familiari come la mia vera famiglia, non avrei potuto vivere senza di loro.
Quel libro diventò per me un luogo meraviglioso dove potevo entrare
di giorno e di notte, e vagare senza meta, senza limiti o proibizioni. Ancora
oggi è per me un'abitudine aprire il
libro a caso e leggere una storia. Non ho mai analizzato Il libro dei Re,
non ho mai pensato di scrivere un saggio accademico, forse per preservare intatto quel senso di meraviglia
che mi prese la prima volta che lo sentii leggere da mio padre.
Furono
bruciati tutti i libri che trovarono in Iran, furono convinti che alla gente
bastasse un solo libro, il Corano.
Da bambina la mia storia preferita era
quella della bellissima Rudabeh e del suo amore per Zal, il guerriero dalla
bianca chioma. Papà invece preferiva la storia di Fereaydun e dei suoi tre
figli, che forse lo rispecchiava un po' - come quella di Rudabeh riguardava me.
Era come se, attraverso di essa,
riuscisse a esprimere qualcosa di sé che altrimenti sarebbe rimasto muto.
Era preso quando raccontava le sue storie preferite che sembrava
ascoltarle lui stesso la prima volta.
Le nostre vite si involano come il vento,
perché dunque dovrebbe il saggio affliggersi davanti alla morte?
Non
fate di voi degli assassini. Anche voi avete un'anima; così gli dice, come
potete strappare l’anima a un altro.
Iraj, ricordati, è uno degli uomini più
grandi di questo poema» mi diceva. «Iraj
era pronto a rinunciare all'Iran non perché aveva paura della lotta, ma perché
sentiva che i beni terreni non dovevano causare ostilità e rancore tra
fratelli. Era un uomo coraggioso, non solo fisicamente, ma anche moralmente,
una cosa ben più difficile da raggiungere». Più avanti, quando rilessi
Firdusi da sola, capii perché mio padre scelse come prima storia quella di
Iraj: perché Iraj era uno dei pochi
personaggi del Libro dei Re che non cercava vendetta.
Non era solo un uomo coraggioso e giusto,
ma, cosa più importante, era un uomo
buono. Per mio padre la bontà era fondamentale.
Quando mio fratello era piccolo, mio padre
scrisse una storia per lui e la intitolò: «L'uomo
che voleva essere buono». Era la storia di mio padre, da sempre
ossessionato dall'ingiustizia e dall'anelito a essere un uomo buono.
O mondo, da un capo all'altro irreale e
falso, nessun uomo saggio può vivere felice in te, ma benedetto colui che avrà fama di bontà; re o schiavo, il suo nome
durerà per sempre.
Per un po' vissi nell'illusione che il mio
paese fosse meraviglioso come quei palazzi costruiti con le parole dai poeti
classici. Il monte Damavand con la sua cima innevata, e tutte le altre montagne
sullo sfondo delle nostre passeggiate del venerdì mattina resteranno per sempre
dentro di me.
Imparo
a dire bugie
Melanie Klein, la quale, come tanti altri psichiatri, riduceva tutto
a un unico fattore.
Dopo
la nascita di mio fratello, raramente io e mia madre vivemmo momenti di
intimità. Lei si risentiva di quella che chiamava la mia testardaggine e io
soffrivo per le sue imposizioni.
Allora mi respingeva, e io mi sforzavo di
essere indifferente alle sue lamentele. Desideravo sempre la sua approvazione,
che lei puntualmente mi negava. Anche se lodava i miei buoni risultati, i voti
e cose del genere, avevo la sensazione di averla delusa, ma non sapevo in che
modo.
Volevo sentirmi amata da
lei. La contrastavo, ma
facevo di tutto per attirare la sua
attenzione. Una volta, quando avevo appena sette anni, mi gettai giù per le
scale che portavano nel giardino sul retro.
Un'altra volta, non molto tempo dopo, avendola
sentita parlare con un'amica di qualcuno che si era suicidato tagliandosi i
polsi, provai a farlo anch'io. E lei, per niente impressionata da quel mio
gesto disperato, mi fece restare in camera per il resto della giornata.
Lei odia chi racconta bugie, mi dice. Se c'è una cosa che ho sempre
cercato di insegnarti è di non dire
bugie, mai e poi mai! Rispondo che non sto dicendo bugie. Ho freddo, e
tanta paura. Voglio che lei mi abbracci e mi baci, ma lei è arrabbiata.
Mi sento esclusa e
abbandonata. Mio padre ha
l'aria assente e a volte, quando mi
parla, sembra parlare da solo.
Io
mi sentivo disperatamente sola e
distante. Volevo tanto che lei tornasse a essere la mia mamma, che mi
sorridesse, mi tenesse la mano.
E' sorprendente come
riusciamo a predire il nostro futuro, soprattutto in relazione agli altri - e
come spesso determiniamo il loro comportamento nei nostri riguardi. Quando mia
madre mi accusava di mentire e di essere complice di mio padre, io ero
innocente. Ma di lì a poco le sue parole si avverarono. In un certo senso, lei
non ci lasciò altra scelta. Non si fidava mai di noi. In realtà, lei desiderava
qualcosa che non potevamo darle. Poco tempo dopo, tornò a casa, ma nulla era
come prima.
Divenni
la complice più fidata di mio padre, un'alleanza
cementata dalla comune infelicità. Non scorderò mai quella volta che mia
madre mi prese da parte per interrogarmi. Non provai risentimento verso di lei,
forse perché ero troppo piccola. Mi veniva da piangere, come se mi sgridasse.
Non sapevo come difendermi, e provavo un vago senso di colpa. Sentivo che se
avessi ammesso quello che lei voleva farmi dire, se avessi dato la colpa a mio
padre, tutto si sarebbe sistemato. Ma non mi comportai in questo modo. E in
seguito imparai non ascoltarla più, a fingere di ascoltarla, facendo di sì con
la testa, senza sentire una sola parola.
Una conversazione con un'amica
immaginaria, le raccontavo storie che avevo letto o sentito, o ne inventavo di
nuove. Nella mia immaginazione avevo trovato un luogo, vasto e mutevole, di cui
ero la regina.
Sapevo
di fare la cosa sbagliata, e che poi l'avrei pagata, ma fu più forte di me.
Rimasi
nella mia stanza tutto il giorno. Per
tirarmi su cercai di inventare delle storie: C'era una volta una bambina
infelice... e poi? C'era una volta... lasciai perdere e scoppiai a piangere per
un bel po', e alla fine mi misi a guardare i miei libri illustrati. Quando
mio padre esce dal soggiorno è nero in volto. Però sento che il suo cuore come sempre è con me, che fa quella faccia
solo per circostanza. Perché hai disubbidito a tua madre? mi chiede. Non
rispondo. Devi chiederle scusa, mi dice. Non voglio una piccola ribelle in casa
mia! dice ad alta voce, ma non troppo convinto. Dopo tutto quello che tua madre
ha fatto per te... Perché, perché? mi chiede. Se chiedi scusa, è tutto
sistemato, mi dice piano. Da brava, Azi, cerca di ragionare... Adesso stai qui
finché non vengo a chiamarti, mi dice papà. Resto lì paralizzata, e una parte di me archivia il suo incomprensibile
abbandono che si ripeterà altre volte poiché, dimenticando, perseveravo nel
commettere gli stessi errori.
Anche
se ogni tanto le tensioni affioravano in superficie, quasi tutte le minoranze sembravano accettare il loro posto in un
sistema stratificato fino a quando la vera natura di quella discordia a lungo
covata, esplose in tutta la sua violenza.
Piano piano il caos della
strada svaniva per lasciare posto al sommesso mormorio della voce di mio padre,
che iniziava a raccontare. E così mi ritrovavo nel mondo dove gli eroi, le
eroine dai capelli corvini vivevano accanto al discolo Pinocchio, a Tom Sawyer,
agli animali di La Fontaine, e alla piccola fiammiferaia di Andersen - rimasta
viva dentro di me, perché non ho mai potuto accettare che morisse dopo tanto
dolore e sofferenze.
Una
volta, avevo circa quattro anni, mentre tornavo dalla lezione di danza
classica, persi mia madre. A un certo
punto mi voltai e non la vidi più.
Ripresi a camminare, piangendo in silenzio;
conoscevo bene quella via, e ogni negozio era come una briciola di pane che mi
guidava verso la salvezza. Poi di colpo
apparve mia madre con gli occhi pieni di angoscia e disse in un sospiro:
«Azi!». Non ho mai dimenticato quell'espressione di panico che le avrei rivisto
sul viso altre volte nel corso degli anni: quando io e mio fratello
rientravamo tardi, quando la telefonata di papà non arrivava, o quando lei
tornava e non ci trovava a casa. In seguito anche i suoi nipoti avrebbero
conosciuto quell'espressione che
preannunciava la tragedia, e che io inconsciamente interiorizzai e resi mia.
Il rito del caffè
Uno dei ricordi più vivi che
ho di mia madre è quello di lei che lavora a maglia. Mia madre faceva la maglia in ogni
stagione, persino d'estate; non seguiva
un modello, preferiva inventare nuovi disegni e nuovi colori, e il risultato
era sempre creativa e imprevedibile.
Suo
marito, forse per aver realizzato solo a metà le proprie ambizioni, in casa era
molto dispotico. Una mattina di molti anni dopo, quell'uomo così autoritario si
sarebbe chiuso in garage per spararsi un colpo alla testa. Lasciò un biglietto
alla moglie e ai figli in cui spiegava che non ce la faceva più a sopportare le
difficoltà economiche.
Ebbe
un'infanzia migliore di quella di mia madre, che crebbe alla mercé di una
matrigna volubile e di un padre disattento che confondeva la disciplina con
l'affetto. Mentre i suoi fratellastri vivevano nel lusso, mia madre venne relegata in una stanza in soffitta e
costretta a vivere come una poveretta nella sua stessa casa. Per il risentimento e l'amarezza aveva
sviluppato un orgoglio smisurato. Mi raccontò che mio nonno non le dava i
soldi per i libri, allora avevano iniziato a studiare insieme. «Fu così che
diventammo amiche» diceva. «Lei era sempre la prima della classe, era molto
competitiva. Non poteva competere con le altre in termini di abiti o cose del
genere; l'unico campo in cui poteva
competere e lì eccelleva - era lo studio, soprattutto la matematica». Ma, a
differenza dei fratellastri che vennero mandati a studiare all'estero, mia
madre si limitò a finire il liceo. «Volevo fare il medico» diceva. «Ero la
studentessa più promettente della classe». E spesso ricordava a me e a mio
fratello di aver sacrificato la sua carriera per restare a casa con noi.
«Mia
figlia» annunciava ad ogni mio pretendente durante il loro primo incontro «è stata educata per diventare una donna
istruita, non per fare la donna di fatica!».
Mi
disse, era intelligente, istruita, parlava il francese ma la cosa più
sorprendente era che lavorava in banca; a quei tempi, le donne del suo ambiente
al massimo facevano le insegnanti.
Ambizione,
desiderio di indipendenza. L’eterna
inquietudine di mia madre era in parte dovuta, credo, alla mancanza di un senso
di appartenenza. Non solo perché non si era mai sentita a casa sua, ma
anche perché non apparteneva né alla categoria delle casalinghe, né a quella
delle donne in carriera. Come molte donne del suo tempo, lei era una via di
mezzo, una che non aveva potuto
realizzare capacità e aspirazioni.
Non
alzava mai la voce, non si abbandonava a fragorose risate né sbandierava le
proprie emozioni. Diversamente da mia madre, non si
opponeva mai apertamente. Era riservata anche con chi le era più vicino, quasi
volesse nascondere qualcosa di prezioso a un mondo che le aveva negato tante
cose. Aveva però le sue evasioni: era patita del gioco d'azzardo e fumava. Mia madre si lanciava in continue crociate
per far desistere l'amica dai suoi vizi.
Quand'ero giovane, mia madre
mi ripeteva spesso che «ai suoi tempi» le ragazze che continuavano gli studi
solitamente non si sposavano.
Alcuni
genitori sostenevano che una ragazza che imparava a leggere e a scrivere
«avrebbe aperto occhi e orecchie», diventando una «ragazza facile.
Non avevo qualcuno che mi
difendesse,» diceva spesso mia madre «non avevo una madre a curarsi di me.
Non
accettarono mai di non aver potuto realizzare i loro talenti: quello che Emily
Dickinson chiamò «un'oscura capacità d'ali». Forse fu questo a tenerle unite
per tanti anni, nonostante le enormi differenze di carattere e l'insofferenza
reciproca per certe cose.
A
mia madre piaceva fare scenate e si vantava di essere una donna «assolutamente
franca e aperta», e si lamentava che invece zia Mina era ambigua e taciturna. «Probabilmente è nella sua natura tenere
nascoste le cose» diceva. «Sa quanto
apprezzo la sincerità, eppure mi racconta bugie o semplicemente tace». «Tua madre ha la testa fra le nuvole, non sa
neanche cos'è la vita!» diceva zia Mina. «E' un'idealista dalla testa ai piedi.
E' ingenua come una bambina di due anni!».
Quando
mia madre si metteva a parlare del suo marito, rievocandolo come un uomo
perfetto. «Se penso a come mi trattava Saifi...,» sospirava mia madre «non ebbe
occhi che per me fin dal primo istante. Mentre adesso...». «Mentre adesso
cosa?» la incalzava zia Mina con un sorriso tra l'ironico e il benevolo.
«Adesso hai un marito e due bambini sani e meravigliosi. Nezhat, vuoi vivere
per sempre con la testa fra le nuvole?».
Vincoli familiari
Per
anni mio padre lavorò alle sue memorie.
La prima stesura era ricca di aneddoti risalenti alla sua infanzia. Raccontava
con parole molto toccanti la storia straziante della sua sorellina di quattro anni, uccisa da un ladro che voleva strapparle gli
orecchini d'oro: per soffocare le sue urla, l'uomo le aveva dato una
coltellata. Quel fatto spronò mio padre a ribellarsi fin da piccolo contro le
ingiustizie della vita. Tuttavia, al momento della pubblicazione, gli consigliarono di eliminare i fatti
personali - dopotutto, l'aspetto davvero importante della sua biografia non
era l'omicidio di una sorella ma il grande operato nell'ambito pubblico. Quando
lessi il suo libro, pubblicato negli anni Novanta, lo trovai vuoto e artefatto senza quelle storie personali. E ricco di
importanti avvenimenti politici, ma privo di quella voce che anima le memorie
inedite. Mi dispiace di non aver prestato molta attenzione a quel manoscritto
quando mio padre era in vita. Me lo diede dopo la rivoluzione ma lo snobbai,
dubitando delle sue capacità di scrittore. Fu solo dopo la sua morte, quando
mio fratello mi mandò i suoi diari e i suoi scritti, che mi resi conto di cosa
mi fossi persa. Solo in quel tempo compresi quanto le “capacità di scrittore” e
le caratteristiche tecniche e formali di un opera non avessero importanza
dinanzi alle parole creative e vere di un uomo che pensava, e che credeva in
ciò che scriveva.
Il
libro inizia con l'albero genealogico della famiglia risalente a seicento anni
prima. Per quattordici generazioni, gli uomini di famiglia furono medici,
istruiti in filosofia e letteratura, e autori, alcuni di loro, di importanti
trattati.
Soltanto
dopo la rivoluzione il passato della
mia famiglia divenne di colpo importante per me, come rifugio da un presente fragile e instabile.
Era un uomo molto rigido e
severo, con una cupa attitudine verso il mondo che derivava probabilmente dagli
inesorabili doveri che imponeva a se stesso. In una fotografia che conservo di lui ha l’espressione seria
e impenetrabile di chi non vuole
rivelare nulla di sé al mondo.
Mio
padre fa qui una digressione sui divieti
sessuali in Iran che, secondo lui, non fanno che favorire la pedofilia.
Fino
agli inizi del ventesimo secolo, ci raccontava mio padre, il clero era il custode non solo della religione e della moralità, ma
anche dei nostri sensi, delle nostre vite private. Cosa sarebbe successo, si
chiedeva, quando altre immagini, altri suoni, odori e sapori, quando il vino, i
ristoranti, il ballo e la musica straniera, i rapporti più liberi tra i due
sessi, tutto quanto fosse entrato in competizione con le antiche tradizioni,
fino a travolgerle?
Mio
padre era un ragazzino indocile, continuamente punito per le sue marachelle. Nelle memorie inedite descrive le sue
ribellioni. Spesso associava la buona coscienza alla ribellione.
Quando
decise di lasciare la sua città d’origine, all'età di diciott'anni, fu per reazione a quella società così chiusa e ai
rigidi insegnamenti del padre.
Forse
cominciò a pensare al matrimonio quando
cercò di conciliare la sua educazione religiosa con il suo personale
romanticismo. E così se ne andò di casa a diciott'anni, senza soldi, contro
il volere dei genitori, rifiutando una vita sicura e ignaro del futuro. Lavorava moltissimo e studiava di notte, -
imparò da solo il francese e l'inglese. Per restare sveglio a volte si
sedeva a studiare dentro la piscina, reggendo in alto il libro, alla debole
luce del giardino.
Mio
padre incontrò per la prima volta mia madre. Rimase fulminato dalla sua bellezza e dal suo sguardo triste, e forse
anche dalle buone prospettive che un simile matrimonio avrebbe potuto offrire a
un giovane ambizioso come lui. Ma quando decisero di sposarsi, i genitori
di mio padre non approvarono perché avrebbero preferito una donna più
tradizionale. Ciò nonostante, la famiglia avrebbe accettato la sua decisione e
gli dava la sua benedizione.
Un sant’uomo (Affermazione ironica)
Era
un lontano parente. Esile e con l’aria ascetica dello studioso, parlava in tono
leggermente sprezzante, e ogni sua affermazione, anche la più banale, detta da
lui sembrava pregna di significato. Non era un intellettuale come tanti che
analizzavano l'Islam cercando di mettere in relazione la fede con la filosofia
e con la vita. Non perdeva tempo in
astrusi ragionamenti, si limitava a enunciare lapidarie dichiarazioni.
La modestia, dice in tono
pacato ma con molta determinazione, non impedisce a una donna di sentirsi
utile, o importante.
Mentre
giro per casa lui mi segue con gli occhi. Questa bambina, dice lui volgendosi
verso di me, è in un'età pericolosa e non tutti sono come noi, uomini timorosi
di Dio.
Avete degli uomini tra la servitù, e forse
questa bambina dovrebbe portare dei vestitini più modesti, coprirsi di più. Mia
madre è visibilmente sorpresa. Si fosse trattato di chiunque altro, non avrebbe
tollerato un simile comportamento, ma a lui risponde di non preoccuparsi,
perché per prima cosa mi ha insegnato a stare attenta («Guardati dagli sconosciuti! Non lasciarti mai toccare!»). I miei
genitori lo trattano con ogni riguardo. Mio padre, in nome dell'ospitalità, lo
ascolta con gentilezza, Mia madre si mostra invece sorprendentemente docile. «Apprezzo una persona che parla di sé con
tanta trasparenza. Se fossero tutti così fermi nelle loro convinzioni!»
butta lì a mio padre durante la cena, confondendo l'inflessibilità con la
forza, lo zelo con i princìpi. Sto facendo i compiti e lui, dietro di me, si
china per guardare il mio quaderno. Cosa stai scrivendo? mi chiede, e
abbassando la mano per prendermi il quaderno, mi sistema la gonna, sfiorandomi le cosce. Il mio fratellino
di un anno dorme nella camera di Naneh e io, come sempre quando i miei genitori
sono fuori, dormo nel loro letto, per non sentirmi sola. A un tratto mi
sveglio, sento un rumore, un respiro irregolare lì al mio fianco. Qualcuno da dietro mi stringe leggermente
le spalle, mi tocca sotto la vita. Un morbido pigiama mi sfiora le gambe nude.
Più delle mani che mi toccano, mi terrorizza quel respiro, sempre più concitato
e ansimante, mentre mi sento stringere più forte. Cerco di non muovermi,
trattengo il respiro, e chiudo forte gli occhi. Forse se li tengo chiusi e
resto immobile lui se ne andrà. Mi tiene stretta per un po', non so quanto, poi
di colpo si allontana. Lo sento
camminare con passo leggero, come in cerchio, e poi uscire dalla stanza. Tengo
ancora gli occhi chiusi, per paura di vederlo tornare. Per molto tempo dopo
quella notte non riuscirò più a dormire da sola al buio. Lui resta in casa
nostra ancora una sera. Non posso dirlo ai miei, ma cerco di evitarlo. Quando
mi chiede se ho altri compiti da fare, faccio finta di non sentirlo. Quando sta
per partire, mia madre mi chiama a salutarlo, ma io mi chiudo nel bagno. Non ti
ho forse insegnato l'educazione? mi rimprovera esasperata. È un uomo molto gentile. Ha detto di salutarti.
Ha detto che sei una bambina intelligente. Tornò a casa nostra altre due volte.
Io cercavo sempre di non incontrarlo, anche quando c'era gente. Ma lui si
comportava come se niente fosse successo, con lo stesso modo di fare distante e
garbato. Ma una volta mi colse di sorpresa. Mi ero rifugiata nel mio solito
posto, vicino al ruscello in fondo al giardino. Mi piacevano i fiori selvatici
che crescevano lì. Ero intenta in uno dei miei passatempi preferiti:
raccoglievo dei sassi, li mettevo nell'acqua e stavo a guardarli mentre
cambiavano colore. Lui si avvicinò in silenzio, si accovacciò alle mie spalle,
e mi chiese piano: «Cosa stai facendo? Non dovresti studiare?». Spaventata,
feci per alzarmi, ma lui mi tenne per la vita, e allungò le mani per toccare i
sassi. «Oh, che bello!» esclamò, e mi
accarezzò le gambe nude. Quando mi alzai, si alzò anche lui, continuando a
toccarmi in un modo che ancora oggi mi è troppo penoso descrivere. Dapprima
pensai: mi inventerò un personaggio immaginario, che non sono io, a cui è
capitata questa cosa. Ma il gioco che io e mio padre avevamo inventato non
funzionava con una storia così, e il senso di vergogna non se ne andava. Più avanti imparai che spesso la vittima si
sente in colpa, non solo perché, con il suo silenzio, diventa complice, ma
anche per quel vago senso di piacere nell'aver subito un atto riprovevole.
«Non lasciarti toccare dagli
sconosciuti!». Eppure - come imparai fin da bambina - raramente sono degli
sconosciuti a farci male. E' sempre chi ci sta intorno: l'affabile chauffeur,
l'esperto fotografo, il gentile insegnante di musica, il distinto marito di una
cara amica, l'uomo timoroso di Dio. Sono quelli di cui i tuoi genitori si
fidano, di cui non osano nemmeno dubitare. Nelle sue memorie, mio padre parla
della grande diffusione di una certa forma di pedofilia nella società dovuta al
fatto che «il contatto tra uomini e donne è proibito e il giovane adolescente
non può avvicinare nessuna donna a parte la madre, la sorella,». «Quasi tutte
le follie derivano da repressioni sessuali» sostiene, e spiega che tali devianze
si presentano laddove esiste la repressione sessuale, come nelle comunità
rigidamente cattoliche. Io non riesco a essere tanto indulgente.
Razionalmente capisco che la questione è molto
complessa, so che sposare una bambina di nove anni un tempo era la norma e non
un tabù, e che l'ipocrisia, più che un vizio, era un modo per sopravvivere.
Questo però non mi consola affatto; non cancella quel senso di vergogna. Mi
conforta il pensiero che si possano cambiare la società, la gente, le leggi, e
le tradizioni, che le donne non vengano più bruciate come streghe, che non ci
sia più la schiavitù, che adesso i bambini siano più protetti da chi vuole
fargli del male. Se la generazione dei miei genitori visse durante un periodo
di transizione, la mia crebbe in un mondo ben diverso. Fu la mia prima
esperienza, e la più dolorosa. Le altre furono casuali e passeggere, ma tutte
accrebbero in me il senso di vergogna, rabbia, impotenza. Non riuscii mai a
parlarne con i miei genitori, perché, dopotutto, erano degli adulti anche loro,
come i miei molestatori. Mi avrebbero creduto? O avrebbero creduto a lui, un
uomo che mia madre ascoltava e rispettava? Imparai a prendere le distanze da
quella esperienza, inserendola in un contesto più ampio. Vederla come un
malessere sociale più che un'esperienza personale, aveva un certo effetto
terapeutico: mi faceva sentire di avere qualche potere su quella realtà che non
potevo controllare. Mi tranquillizzava e al contempo mi disturbava sapere che
quanto era capitato a me era capitato a tanti, non solo nel mio paese, ma in
tutto il mondo. Che celavo lo stesso segreto di una ragazza, o di un ragazzo,
che abitavano in posti come New York. Ma dentro restavano la pena e lo
sconcerto, per molto tempo non ne parlai con nessuno. Rivissi quell'esperienza
così tante volte nella mente, che è tuttora vivida in ogni suo dettaglio. Molti
anni dopo parlai finalmente di quella esperienza.
Erano
persone intellettualmente coraggiose ma allo stesso tempo di un rigido
moralismo.
Forse ci definiamo di più
attraverso quello che nascondiamo che attraverso quello che riveliamo. Non
aveva torto, ma allora mi pareva che ciò che resta inespresso non esiste
realmente. Eppure ciò che è stato taciuto e soffocato a un certo punto diventa
importante quanto ciò che viene detto, se non di più. Che queste cose
accadessero era una cosa terribile, ma era ancor più intollerabile che non se
ne parlasse pubblicamente. Parlavano di numerosi scandali ma li rivestivano di
una patina rosea, di una satira che ne affievoliva la gravità e l’urgenza. Le
bugie riparatorie contavano più della verità.
Le nostre paure, le nostre
personali emozioni, se taciute diventano più forti, continuano a ferire. Se
vogliamo mandarle via, dobbiamo esprimerle, e per farlo dobbiamo prima
riconoscerle.
Per
molti anni, ormai adulta, il sesso fu per me un atto di arrendevolezza. E per
molti anni provai un vago senso di rabbia verso i miei genitori, soprattutto
mia madre, per non avermi protetto. Una rabbia con una punta di ironia: lei,
che per proteggermi, mi impediva di frequentare i miei coetanei, si era invece
fidata ciecamente di chi mi aveva fatto del male.
Una morte in famiglia
Ognuno
da una diversa prospettiva - continuarono a chiedersi come sarebbe stato diverso se fosse vissuto più a lungo.
Mia
madre, per senso del dovere verso quel padre che amava ma per il quale provava
anche un forte risentimento lo andava a trovare una volta alla settimana, lo
chiamava un giorno sì e uno no e manifestava
la propria amarezza solo con significativi silenzi. E poi, di colpo, lui
non c'era più. Morì inaspettatamente d'infarto, sul far dell'alba.
Non è facile dire a un
bambino che è morto un parente, e sono grata a zia Mina perché fu sincera e
diretta. Il nostro nonno era morto, ci disse con molta delicatezza, e nostra
madre era molto turbata.
L’
agitazione per una circostanza tanto insolita, il vago senso di una tragedia
ancora nell'aria, si mescolano a una spudorata sensazione di autocompiacimento
nel poter ostentare la mia tristezza. Questa mattina sono in ritardo perché è
morto mio nonno, dico all'insegnante e a tutta la classe attirandomi la loro
curiosità e la loro commiserazione. Alcuni giorni dopo scrissi un tema,
«L'evento che più ha cambiato la mia vita», e ancora oggi provo una certa
vergogna per le lodi ricevute. Gli volevo bene? Provavo dolore per la sua
morte?
Avevo imparato qualcosa da quell'esperienza?
Nel componimento risposi di sì a tutte e tre le domande. L'insegnante mi fece
leggere il tema davanti alla classe e mia madre conservò a lungo il quaderno
dove l'avevo scritto. Di tanto in tanto andava a prenderlo per leggerlo a
qualche ospite, e le venivano le lacrime agli occhi mentre scandiva le parole
da me scelte accuratamente.
Era una brava persona, però
era ingenuo e influenzabile.
«Tua
madre in questo momento si sta prodigando con abnegazione, è troppo orgogliosa
per ammetterlo, ma lei non ha mai avuto una vera casa ed è stata sempre
trattata come una parente povera! Però adesso è acqua passata, e lei non ha più
bisogno di loro. Forse, se avesse
espresso la sua rabbia, suo padre sarebbe stato più attento. Solo più tardi
capii le sue sagge parole. Mia madre, in tutti i momenti cruciali della sua
vita, sprecò l'occasione di modificare, o superare, il risentimento e continuò
a covarlo dentro di sé. Alla fine ne era dominata, come da un'entità maligna.
Qualche settimana dopo la morte di mio nonno, mentre ci stavamo recando a casa
sua, mia madre se ne uscì dicendo che ormai non c'era più nessuno a
proteggerla.
Cos’ha fatto tuo padre per
te? Era una brava persona, ma non è stato un buon padre. Non pensarci più!».
«Non ci riesco!» ribatté mia madre. «Gli devo tutto. E' lui che mi ha protetto
quand'ero giovane, e adesso non ho più nessuno al mondo!».
Zia
Mina alzò gli occhi al cielo. Dopo la sua morte si scoprì che mio nonno aveva
aiutato di nascosto alcune famiglie povere, senza dirlo in casa. Quella
scoperta aumentò la stima di mia madre, ormai fissata sull'innato altruismo di
suo padre.
«Ti auguro di riuscire a
vivere la tua vita» mi disse zia Mina.
Mia madre voleva bene a suo
padre, ma gli serbava rancore e si sentiva ferita. Era la brava figliola che
era stata trascurata e tuttavia non aveva mai preteso niente.
Il
venerdì che morì il nonno, una piccola folla si raccolse nel nostro soggiorno
per commemorarlo.
Vennero lodate la sua filantropia e le sue
disavventure politiche, come esempio di onestà. Il suo focoso temperamento fu
descritto come segno di una natura schietta, insofferente verso ogni forma di
ipocrisia. Mia madre parlò a lungo. Era stato un ottimo padre, disse, attento
più a lei che agli altri fratelli, e con voce commossa, ricordò quando l'aveva
chiamata l'anno prima, per dirle che avrebbe pagato lui le spese della nuova
casa. Non ti deve mancare niente, voglio che tu abbia la casa che ti meriti, così
le aveva detto. «Ma adesso in quella casa non posso più viverci!» concluse tra
le lacrime.
Il
21 marzo, poco prima del Nuovo Anno persiano, scrissi: «Oggi, ho sentito la mamma dire “Non ne posso più, quella lì mi sta
rovinando la reputazione. Lei non mi vuole bene, aspetta solo che muoia!”»
Parte seconda
Lezioni e apprendimento
“Non sono solo Sogni tutti i
Fatti appena ce li lasciamo alle spalle?”
Emily Dickinson
Lontano
da casa
Se
a casa ubbidivo per forza, a scuola mi
feci presto la reputazione di piccola ribelle. Avevo sempre la divisa
sporca d'inchiostro, e se rendevo in certe materie, come la letteratura, la
storia e l'algebra, ero molto disattenta in tutto il resto.
Volevano allontanarmi dalle
“cattive compagnie” e lottavano affinché potessi avere la “migliore
istruzione.”
New
York. Gli piaceva quel paese, era rimasto impressionato dalla cordialità della
gente e ancor di più dalla libertà, dalla possibilità che tutti avevano di
realizzare le proprie aspirazioni. Secondo lui l'America era un posto adatto
per una ragazzina come me.
Il suo principale difetto
era di essere uno scrittore prolifico, così poteva essere profondo ma a volte
anche superficiale, meticoloso o altrimenti impreciso.
L'unica stanza luminosa era
la biblioteca, dove pile
di libri si ammucchiavano sugli scaffali e sul pavimento. Ogni volta che
andavamo a fargli visita, a un certo punto, con uno strano sorriso seminascosto
dalla barba, mi mandava in biblioteca a
prendere un libro. Ho sempre immaginato i luoghi incantati non come sontuosi
edifici ma come rovine in penombra, rese ancora più solenni dai segreti
nascosti negli angoli bui.
Non guardava quasi mai
nessuno negli occhi, e io
restavo sempre sorpresa quando scoprivo con quanta attenzione aveva seguito un
discorso. Erano tutti orgogliosi dei suoi successi letterari, ma esasperati dai
suoi continui attacchi contro amici e conoscenti. In seguito, per poter
continuare a scrivere e guadagnarsi quel poco da vivere, fu costretto a
ritrattare le sue posizioni critiche e a elogiare lo scià. Nonostante questo, e
il fatto che trascorse la maggior parte della vita in grandi difficoltà
economiche (con conseguenti tensioni familiari e coniugali).
Quella
sera, quando andammo a fargli visita, Lo scrittore mi disse abbassando lo
sguardo: «Probabilmente non lo sai, ma
quando io andai in Europa, solo pochissime persone vi erano state prima di me.
Il nostro era un mondo molto più piccolo, e l'istruzione non era la nostra
urgenza primaria. Mi auguro che tu non dia per scontato quello che hai».
Senza aspettare una mia risposta aggiunse: «Bene, d'ora in avanti dovrai badare
a te stessa. Hai già pensato a cosa vuoi fare da grande?». Vorrei essere come
te, avrei voluto rispondere, ma sembrandomi una risposta troppo accattivante,
dissi che non lo sapevo. «Dovrai pur avere un modello» disse allora lui.
Non avevo nessun modello, sussurrai. «Be' ci
sarà qualcuno che ammiri, a cui vorresti somigliare? Adesso va' in biblioteca»
e mi indicò dove trovare un certo libro. «Questo è il mio regalo per il tuo
viaggio».
Mi disse donandomi il libro.
«Un giorno, quando lo leggerai, forse mi sarai grata». Il libro era Vis e
Ramin, di Fakhreddin Gorgani, vissuto all'incirca nella stessa epoca di
Firdusi.
«Devi
sapere» cominciò con il tono di quando mi faceva la predica «che quando era
bambino, non esistevano delle vere e proprie scuole in questo paese. I figli
delle famiglie più agiate erano istruiti in casa o nei maktab, delle stanzette
dove studenti di varie età restavano pigiati dall'alba al tramonto per essere
istruiti da un umile religioso. Amu Said fu tra i primi a frequentare una
scuola moderna; suo padre, medico personale del re, fu tra i fondatori delle
nuove scuole». Io e mia madre restammo in silenzio, ma lui continuò
tranquillamente, come se lo stessimo ascoltando. «Tua madre conosce bene la storia del nostro paese, e tu dovresti
impararla da lei. Hai raggiunto l’età per affrontare seriamente queste cose:
non basta conoscere Il libro dei Re, devi cominciare a interessarti di più alla
storia del paese».
Presi
il libro. Era la storia di due amanti sfortunati. Centinaia di pagine scritte
molti secoli prima, cosa dovevo farne?
Cominciai a leggerlo, ma lo trovai difficile e
ne presi un altro, più familiare. Ci
vollero una ventina d'anni e una rivoluzione perché capissi che dono speciale
avevo ricevuto quel giorno.
La
storia di Rudabeh
Ascoltavo sempre con grande
attenzione i racconti di mio padre, e per alcuni trattenevo il respiro, in
immobile attesa. Mi capita ancora oggi con la storia di Rudabeh, che, come un
leitmotiv, è riaffiorata in diversi momenti della mia vita. Quando iniziai a scrivere questo libro
avevo completamente dimenticato di aver chiamato così la mia amica immaginaria,
che d'improvviso emerse dai miei ricordi quasi come un richiamo. Rudabeh e Zal
erano i genitori di Rostam, il protagonista del Libro dei Re e, per me, l'eroe
leggendario più importante di tutta la letteratura persiana.
Una
figlia più incantevole del sole. Gli occhi splendono come giacinti, le ciglia
hanno rubato le piume al corvo, la luna fissa lo sguardo al suo volto; avverti
la fragranza del muschio, è il profumo dei suoi capelli. E' bella come un
paradiso, tanto è adorna, piena di grazia, di fascino e virtù. Le sue sopracciglia
erano «un arco perfetto», il suo naso «un piccolo stelo d'argento» e la sua
bocca «angusta come il cuore di chi è triste». Mi ero fatta raccontare da mio
padre tante di quelle volte la storia dei due amanti, Rudabeh e Zal, da
impararla quasi a memoria. Rudabeh - la prima di una lunga serie di personaggi
che mi appassionarono e in cui mi identificai.
“Sia il bene che il male non
possono restare a lungo nascosti.”
Firdusi
“La magica creatura gli
diede alcune delle sue piume e gli disse di gettarne una nel fuoco e chiamare
il suo nome ogni volta che si fosse trovato in pericolo: sarebbe venuto in suo
soccorso sotto forma di una nuvola nera.
«Goditi la vita e sii
generoso» gli disse. «Cerca la conoscenza e sii giusto». Zal, seguendo i consigli del padre,
radunò tutti i sapienti da ogni parte del paese e studiò con loro per molto
tempo. Poi decise di visitare il vasto territorio che governava.
La
figlia del re, la splendida principessa Rudabeh, sentì i genitori parlare della
bellezza di Zal, del suo coraggio e delle sue eroiche imprese, e si innamorò di
lui. «Sono innamorata, e il mio cuore si
agita come un mare in tempesta» confidò alle sue schiave. «Sogno che non mi lascerà mai. Il luogo del mio cuore dove dovrei provare
pudore è invece pieno di amore, e giorno e notte penso al suo viso.
Troviamo insieme il modo perché la mia anima e il mio cuore siano sciolti da
tanto affanno!». «Non hai dunque pudore?
Non hai rispetto per il padre?» l'ammonirono
le schiave, chiedendosi se Rudabeh volesse davvero incontrare «uno che era
stato allevato da un uccello su una rupe ed era lo zimbello fra le genti per la
sua stranezza». Poteva avere tutti gli uomini che voleva, le ricordarono le
schiave; perché struggersi per un forestiero?”
Ammiravo ancor di più
Rudabeh perché si ostinava ad amare un uomo così diverso. Mio padre, dopo
avermi raccontato la storia, mi avvertiva sempre: «Era molto difficile per una
ragazza disobbedire ai genitori, perciò vedi di non metterti in testa delle
strane idee. Per disobbedire ai genitori, bisogna avere delle sacrosante
ragioni». Rudabeh aveva
preso la sua decisione, senza lasciarsi condizionare da suppliche o pregiudizi.
«Non voglio un principe di Grecia, un gagliardo sire della Cina e neppure il
sovrano della Persia, ma Zal figlio di Sam che mi eguaglia nella statura, che
ha spalle e mani da leone. In lui soltanto avrà pace il mio cuore.” Sapevo a
memoria la scena in cui Zal vede la prima volta Rudabeh affacciata alla
finestra del palazzo. Io mi ero immaginata la scena talmente nei particolari
che quando fui in grado di leggerla nelle parole di Firdusi rimasi un po'
delusa.
A
ogni istante l'amore cresceva; mettendo al bando la ragione, e la passione si
impossessò di loro finché comparve il giorno annunciato. Zal dovette allora
prendere congedo stringendo forte al petto la sua luna, come l'ordito di un bel
panno che si serrò alla propria trama. Ma il loro amore viene osteggiato,
altresì da entrambe le famiglie. I due amanti devono così superare numerosi
ostacoli e dure prove prima di potersi finalmente sposare. Poco dopo le nozze,
Rudabeh rimane incinta di un figlio che si
dimostrerà unico per coraggio e bontà, sensibilità e integrità. In seguito,
nel leggere II libro dei Re, ricordai che mio padre mi aveva presentato Rostam
come un uomo quasi perfetto, ma con una
fatale debolezza: troppo preso dagli affari del regno aveva trascurato quelli
ben più duraturi del cuore. Anche le donne erano coraggiose, come Rudabeh, ma
lo mostravano nel privato, portando nel racconto i sentimenti e le emozioni che
gli uomini, anche Rostam, reprimevano o ignoravano, esse conquistano invece
l'immortalità come madri, mogli e amanti, mostrando un coraggio diverso, e
sfidano le regole e i tabù della società, pur di avere l'uomo che amano. Quelle
donne, così tenaci e sensuali, erano per me molto più romantiche e affascinanti
di qualsiasi eroe. Nel Libro dei Re ci sono anche donne, come la bellissima
Gurd Afrid, così coraggiose da combattere sul campo di battaglia travestite da
uomini. Ma il mio modello erano le donne
come Rudabeh, che possedevano una grande sensualità e forza interiore. Quelle
«buone» delle fiabe, premiate per la loro bontà. Donne che, senza grandi
dichiarazioni, senza voler salvare l'umanità o sconfiggere le forze di Satana,
si ribellavano in silenzio, con grande coraggio. Com'erano meschini i trionfi
di quei grandiosi guerrieri se privi di quell'amore per il quale Rudabeh era
pronta a sacrificare la vita!
Il
libro Vis e Ramin
Il centro sovversivo del
racconto, attorno al quale è tessuta la trama. Non è l'eroe maschio a cambiare
le cose, ma il ruolo attivo di donne come Vis, che riescono a sviare l'eroe dal
percorso previsto, costringendolo a ridefinire il senso della propria
esistenza.
Nella narrativa classica iraniana, sono queste
donne energiche a dominare la scena.
Avrei
poi ritrovato tracce di quelle eroine ribelli in una poetessa, Forugh
Farrokhzad, che cantò il suo amore in poesie di forte sensualità e sincerità. La nostra poesia migliore è sempre stata
di rottura e trasgressiva nel rimodellare la realtà e la nostra percezione di
essa.
Con Forugh Farrokhzad voglio
ricordare anche Alam Taj e Simin Behbahani e, vicino a loro, alcune eroine
della letteratura occidentale, come Catherine Earnshaw di Emily Bronte,
Elizabeth Bennet di Jane Austen, Dorothea Brooke di George Eliot, Jane Eyre di
Charlotte Bronté, Mathilde de La Mole di Stendhal. Anche la mite Sophia Western
di Tom Jones, e Clarissa Harlow di Richardson si distinguono per essersi
ribellate contro l'autorità dei genitori e della società, pretendendo di
sposare l'uomo che amano.
A
quel tempo c'era una canzone molto in voga sulla disperazione di un uomo per la
partenza del suo amore, che chiamava «la mia dolce primavera.
Mio fratello si divertiva si
divertiva a scrivere sulle pagine del mio diario per imitarmi, - ho ancora quei
fogli scritti con la sua calligrafia di bambino: «Caro diario, sono un bambino
di nove anni e scrivo sul quaderno di mia sorella...». Ma era anche molto
creativo.
Nel
tempo la nostra rivalità cessò e cominciammo a condividere molti interessi.
Dopo
un po', con un tono di voce dolcissimo, mi disse che ero fortunata ad avere dei
genitori così attenti e amorevoli,
mentre lei non aveva mai avuto la gioia o il conforto di una madre. «Voglio
che tu abbia quello che io non ho mai avuto» mi disse.
In
tono sognante, come una cantilena, mi raccontò una storia che mi avrebbe
ripetuto tante volte negli anni a venire. «Quando avevo quattro anni» cominciò
tenendomi la mano come per impedirmi di scivolare via, poi rimanemmo in silenzio.
Abitavamo in una casa in una casa con un grande giardino - ne sono rimasti
pochi oggi di quei vecchi giardini persiani, con grandi alberi e ruscelli con
le sponde punteggiate di fiorellini selvatici. Una notte venni svegliata dal
pianto di alcune donne. C'era anche mio padre, che uscì sulla veranda, e io lo
seguii, senza farmi vedere. Forse c'era la luna, ma era molto buio là fuori. Aveva solo questo ricordo di sua madre,
che era morta giovanissima. Nel corso degli anni, mia madre mi raccontò quella
storia sempre nello stesso ordine, con lo stesso tono sognante di quando
scavava tra ricordi che appartenevano solo a lei. Questo rendeva il suo
racconto ancora più toccante. Mi
rattristava profondamente che le rimanesse da ricordare solo la sua morte, e
neppure un momento di quando era viva.
Avrei avuto voglia di
consolare mia madre, e mi dispiace di non averlo mai fatto. «E poi, cos'è
successo?» mi limitavo a dire. Ma
lei non rispondeva. Diversamente da mio padre, che ci raccontava lunghe storie
della sua vita per poi analizzarle, le
storie di mia madre non avevano né un inizio né una fine. Di solito
consistevano di un unico evento importante, presentato sotto forma di enigma
aperto a diverse interpretazioni.
Con il passare del tempo la
sua amarezza per il passato si riversò in una più generale insoddisfazione del
presente. In qualche modo noi l'avevamo abbandonata. Con
gli anni i suoi fantasmi sarebbero divenuti più reali, mentre noi, la sua
famiglia, più inaccessibili e remoti. Non so come sarebbe andata se non avessi
passato quei tre mesi a Lancaster con mia madre. Piano piano, zampillò dentro
di me un nuovo sentimento per mia madre, un piccolo ruscello che più tardi
sarebbe diventato un grande fiume.
Scotforth
house
Presto
scoprii che la pioggia costante e il cielo grigio, per cui avrei rimpianto il
mio paese durante tutta la permanenza in Inghilterra, erano però anche
responsabili del verde sfolgorante e
delle magiche campanelle.
Quando si metteva in testa
di farci imparare qualcosa, perseguiva il suo scopo con incredibile
determinazione.
Niente si può fare bene come
si dovrebbe, era questo il messaggio che trasmetteva. Si lanciava nei progetti
più disparati e, seri o banali che fossero, vi si dedicava anima e corpo.
Di
tutti i suoi progetti, forse il più ambizioso era quello di avere una famiglia
perfetta. Tutto doveva essere perfetto: la famiglia, gli amici, il paese.
Voleva che io fossi una figlia ubbidiente, bellissima, intelligente, colta, con
una promettente carriera; probabilmente
fui la sua più grande delusione. Mi rattrista ripensare a quando mi guardava
con gli occhi lucidi, scuotendo la testa. «Povera Azi! Povera, povera Azi!»
sospirava. Forse vedeva se stessa da giovane: una ragazza sola e trascurata. Il
terzo giorno di scuola, quando salii nella mia stanza e trovai mia madre con le
arance e i pistacchi, scoppiai in lacrime. Ero disperata.
L’insegnante,
ci aveva parlato dell'opera di Shakespeare Molto
rumore per nulla. Non avevo capito
una parola, e nemmeno con l'insegnante di biologia, e con quello di musica,
e con l'autista dell'autobus... parlavano
tutti una lingua incomprensibile.
Eppure a scuola prendevo il massimo dei voti
in inglese! piagnucolai.
Perché lì non capivo niente? Mia madre allora mi fece sedere e, accarezzandomi
i capelli, mi sussurrò dolci parole confortanti. Poi mi aiutò a togliermi la
divisa, a cambiarmi, e mettendomi in bocca, uno alla volta, gli spicchi
d'arancia, mi disse: «Non devi sentirti obbligata se non te la senti.
«Credevo ci tenessi tanto a
farmi venire qui, per il mio bene!». Allora lei, continuando a imboccarmi, mi
disse con uno sguardo tenero: «Volevo per te quello che io non ho mai avuto.»
«Le donne» mi spiegava con
la sua voce calma «devono sempre lottare per ottenere quello che vogliono. E non solo nel nostro paese; fino a poco
tempo fa le donne inglesi dovevano consegnare tutti i loro averi al marito». «Questa bambina deve rendersi conto delle
grandi opportunità che ha, e non darle per scontate» ripeteva spesso a mia
madre. Solo più avanti capii quanto fosse coraggioso ed eccezionale il suo
rifiuto di conformarsi alle convenzioni di una società dove la donna era
confinata a un ruolo ben definito. Le donne come lei - molto istruite,
quasi tutte nubili, appassionate del loro lavoro e con uno stile di vita assai
diverso da quello delle altre - erano delle vere pioniere.
Volevo
fare il medico, mi dice mia madre, era il mio desiderio più grande – come tanti
in famiglia prima di lei. Ma dopo il liceo suo padre non le aveva permesso di
proseguire gli studi. Ho spesso pensato
di dovere la mia istruzione a mio padre, ai suoi racconti letterari, agli
stimoli intellettuali che mi venivano da lui e dalla sua famiglia. E invece
devo a mia madre, alla sua comprensione, alle cose che mi disse, se decisi di
continuare i miei studi in Inghilterra. In quel momento cominciai a pensare che
potevo regalarle qualcosa: potevo diventare la donna che lei avrebbe voluto
essere. Quel viaggio in Inghilterra e i tre mesi trascorsi insieme divennero
per me il simbolo di tutto ciò che amai, e in seguito rimpiansi, di mia madre.
Quando io e mio fratello avevamo bisogno di lei, mia madre era dolce e
premurosa, come se dentro di lei lo spirito buono si destasse da un lungo
sonno.
Paradossalmente però, per
diventare come lei mi voleva, dovetti allontanarmi da lei, per non essere la
sua marionetta. E quando alla fine imparai a cavarmela da sola, lei non si rese
conto di quanto fosse stato merito suo. Mia madre mi guarda, sorridente, appoggiandomi una mano
sulla spalla, come per proteggermi. Quel gesto, quell'espressione, li ritrovo
in altre foto. «Non devi essere triste» mi disse guardandomi con grande pena,
come se avessi una malattia incurabile. «Senza accorgertene arriverà l'estate e
sarai di nuovo a casa! Su su, da brava» aggiunse con un sorriso. Cosa avreste
fatto voi al mio posto?
Politica
e intrighi
Lì ero sola, praticamente
abbandonata a me stessa.
Ero triste, a volte avevo un po' paura; mi mettevo a leggere - ogni libro che
riuscivo a procurarmi - e poi mi addormentavo con la luce accesa. Faceva molto
freddo nella stanza, c'era una stufa che funzionava con le monetine e per
scaldarti dovevi stare così vicino che quasi ti scottavi; così leggevo a letto,
sotto il piumone e con la boule. Sul comodino avevo sempre due libri: le poesie di Hafez e quelle di Forugh
Farrokhzad. Ma leggevo soprattutto romanzi - Dickens, Dostoevskij, Austen, Stendhal che mi aiutarono a sentirmi a
casa in quel luogo grigio e piovoso.
Sta’ attento, non mettere la
tua vita nelle mani di un uomo che non si fida più nemmeno di se stesso.
In un sistema politico
dispotico le nostre disavventure, sostennero alcuni, derivavano dal nostro
attaccamento al culto della personalità, creatosi attorno allo scià. Non si può
bere nemmeno un bicchier d'acqua senza l'approvazione dello scià, disse a un
certo punto qualcuno. «Ma non è colpa sua! È colpa nostra, del nostro
atteggiamento verso i leader, ce l'abbiamo nel sangue. Li chiamiamo Re dei Re,
Ombra di Dio sulla terra.»
«
Fidarsi dello scià! Amico
mio, sono castelli in aria. Conosce bene Firdusi, si ricordi di quante volte i
suoi re tradiscono i loro consiglieri».
Si
sentiva utile, necessario, lo esaltava l'idea di avere davanti una serie di
possibilità che gli sembrano infinite. Questo, naturalmente, era un miraggio.
Poi subì una forte disillusione.
«Non
ho paura di esprimere le mie critiche. Lo dico apertamente quando non sono
d'accordo!».
Mio
padre era sincero quando sosteneva di non essere ambizioso nel senso
tradizionale del termine, in realtà lo era.
Voleva dimostrare che le
cose a cui loro aspiravano - la carriera, la ricchezza - per lui non
significavano niente.
Ma
era proprio questo il problema dei miei genitori: volevano il potere per
realizzare i loro ideali, però non volevano sporcarsi con la politica.
Talvolta penso che
diventiamo così dipendenti dall'immagine che ci creiamo di noi stessi da non
riuscire più a sbarazzarcene.
Sindaco
di Teheran
«Di solito ai visitatori
stranieri si fanno vedere le parti più belle della città,» disse mio padre «io
invece ho voluto iniziare dalle zone più povere, per dargli uno spunto su cui
riflettere.
Sapevano ben poco della storia di Teheran.
Credo che anche a mia figlia farebbe bene una lezione...»
E' più facile vantarci del
nostro glorioso passato che conservarlo.
Se
io avessi affrontato apertamente mio padre, se io non fossi rimasta in silenzio
con lui, cosa sarebbe successo?
Non sapevo quanto fosse
preziosa la vita!
Prove
di rivoluzione
In
una lettera molto affettuosa, mia madre mi scrisse di avermi mandato un pacco
di frutta secca: ciliegie e noci, calzini di lana l'inverno è così freddo lì! -
e un maglione azzurro, il mio colore preferito. Volevo qualcos'altro? Per il
mio compleanno aveva dato una catenina d'oro a una sua amica che sarebbe venuta
a trovarmi.
A partire dalla Rivoluzione
costituzionale all'inizio del secolo fino ai disordini del 1963 e alla
Rivoluzione iraniana del 1979, la sanguinosa lotta che divise l'Iran non fu
soltanto politica, ma anche culturale e ideologica. Esistenziale, si potrebbe
dire.
I
tradizionalisti si opponevano fortemente al processo di modernizzazione. I diritti delle donne, delle minoranze,
lo stile di vita, il cinema, la musica, la letteratura l’idea stessa dei
diritti dell’individuo, divennero i principali punti di scontro.
La
Rivoluzione bianca comprendeva una
serie di misure volte a modernizzare il paese: ridistribuire la terra tra gli
agricoltori; dare alle donne il diritto di voto e a candidarsi al Parlamento o
nei governi locali; nazionalizzare le risorse naturali; estendere
l'alfabetizzazione ai villaggi più remoti; e un progetto di compartecipazione
agli utili in favore degli operai. Alcuni giudicarono progressista la
Rivoluzione bianca, mentre altri affermarono che una rivoluzione calata
dall'alto non avrebbe risolto i numerosi problemi del paese.
Com'è diverso vivere
direttamente un momento storico e analizzarlo dopo che è successo.
Quei giorni mi tornano alla
mente come fotogrammi frenetici e spezzati, che per avere un senso vanno
analizzati e messi in ordine.
Chi come me visse quel periodo, naturalmente, non poteva comprendere fino in
fondo a cosa avrebbe portato, ma che stesse succedendo qualcosa di importante
era già chiaro allora. Per la prima volta si avvertiva una profonda frattura tra tradizione e modernità, due
mondi che ci eravamo abituati a veder coesistere, come una cosa scontata.
Quei momenti mi paiono adesso un'anticipazione, una piccola prova generale, di
quella che sarebbe stata la Rivoluzione iraniana del 1979.
Qual
è il vero Iran? Era questo il tema più dibattuto durante gli incontri. Cosa
aveva maggiore legittimità: le antiche tradizioni, o il rigido principio
islamico contemporaneo? Ma - aggiungo io adesso - si possono forse tralasciare
Firdusi, la letteratura persiana?
«Mai
fidarsi del clero, gente scaltra, che si guadagna da vivere con l'inganno!».
«Ma come si fa a credere allo scià quando dice di voler dare il diritto di voto
alle donne? C'è una vera libertà di voto in questo paese? Quante libere
elezioni abbiamo avuto nell'ultimo decennio?» così continuavano le discussioni
nel nostro soggiorno e, gira e rigira, si
tornava sempre alla questione del popolo iraniano e della sua volubilità.
«La
cosa più sorprendente» disse «non è tanto la forza del clero, ma, al contrario,
quanto rapidamente il pensiero laico sia riuscito a impadronirsi del nostro
immaginario».
Mio padre non si fidava
molto di lui, sospettava che fosse a conoscenza di certe cose non per le sue “capacità
divinatorie”, ma perché era un agente della SAVAK, i servizi segreti.
Erano quelli di cui amava
circondarsi, perché le davano sempre ragione o perché sapevano farglielo
credere.
«Ti
ho sempre voluto bene, lo sai» Ma
questo lavoro ti porterà solo dolore!». «Come puoi dirmi questo, proprio tu,
che sei sempre stata un modello per me!» ei era solo un’insegnante, non aveva
niente a che fare con il governo. Mio padre mi aveva confidato di aver tentato
inutilmente di convincere mia madre a non candidarsi. Ma ormai la sua
candidatura - per il Senato e per il Parlamento - era stata presentata e
approvata dallo scià. Nel diario mio padre spiega perché si opponeva: mia madre
non aveva nessuna esperienza politica e aveva un carattere imprevedibile. Mia
madre invece la vedeva diversamente: non voleva perdere quell'unica occasione
di partecipare alla vita pubblica. Più tardi avrebbe sostenuto di non aver mai
voluto entrare in Parlamento e di esservi stata costretta da mio padre.
Noi, quando raccontavamo una
bugia, sapevamo di mentire, mentre lei non se ne rendeva neppure conto.
Mio
padre era andato a fare il giro degli ospedali e delle centrali dei vigili del
fuoco, le zone più pericolose! E cominciò a lamentarsi: quante volte lo aveva
implorato di non accettare quella carica, se non per lei, almeno per il bene
dei suoi figli! «Si può dire tutto di
lui, ma i suoi figli li adora...» sospirò. Verso sera mia madre era
visibilmente preoccupata, perché non aveva più avuto notizie di mio padre.
Per
fortuna non hai visto cos'è successo oggi! «Si profilano giorni bui. Tu hai un
marito molto coraggioso... Tua madre,
aggiunse rivolgendosi a me, è la spina dorsale di questa famiglia! Cosa fareste
senza di lei?
I
feriti sono tantissimi. Il clero l'ha organizzata bene questa protesta, con
tanto di squadracce armate di bastoni e coltelli! Hanno incendiato un sacco di
edifici. Hanno molti sostenitori tra la gente. Lui però è al sicuro... almeno
per il momento, aggiunse poi in tono sibillino. «Quante volte gli abbiamo detto
di dimettersi, sia tu che io? Gliel'ho ripetuto anche oggi! E' troppo
pericoloso, vedo il pericolo ovunque!».
Questi
sono tempi molto pericolosi.
Abbiamo
bisogno di te, credimi. Tuo marito non appartiene a nessun gruppo. È solo.
Quando
mio padre, verso le dieci, arrivò, eravamo
tutti sfiniti, come se avessimo partecipato ai fatti della giornata. Era
ora! Questa povera donna quasi impazziva tanto era preoccupata!». La povera
donna incenerì mio padre con un'occhiata. Quell'estate mia madre si candidò al
Parlamento insieme ad altre cinque donne, ed entrò in carica nell'autunno del
1963. I miei genitori decisero di mandarmi all'École
Internationale di Ginevra, una scuola molto snob allora in voga, che mi
fece rimpiangere la grigia Lancaster e le mie allegre amiche inglesi. Quel
giorno, il 5 giugno 1963, i servizi segreti scrissero la prima pagina del
dossier su mio padre, accusandolo di aver collaborato con gli oppositori dello
scià e con il clero. In quel momento nessuno di noi in quel momento nessuno di
noi avrebbe potuto prevedere quali conseguenze quelle poche righe avrebbero
avuto nella nostra vita.
Parte terza
Mio padre in carcere
C'è un dolore tanto assoluto
- da inghiottire l'Essere - per poi coprire l'Abisso di Trance così la Memoria
può aggirarlo - scavalcarlo.
Emily Dickinson
Capitolo quattordici
Un delinquente comune
Sulla
prima pagina c'era una foto di mio padre con un titolo a lettere cubitali che
annunciava il suo arresto. L'articolo riportava una lunga lista di accuse, tra
cui quella di corruzione e malversazione; le persone arrestate erano una
quarantina, per lo più appaltatori. Numerosi dossier della SAVAK accusavano mio padre di «insubordinazione»
e di simpatie verso gli oppositori e il clero.
Il
primo ministro lo sa più di chiunque altro che Ahmad è innocente! Ma se sono
stati proprio loro a mettere in piedi tutte quelle accuse! C'è solo una cosa che dobbiamo fare: cercare di scoprire la vera
ragione del suo arresto»
Quando incontrai mio padre
in carcere il suo viso parve illuminarsi di umile bontà. Fu mio
padre a venirmi incontro e prendendomi tra le braccia mi baciò. «Tranquilla, va
tutto bene! Sono così felice di vederti!» mi sussurrò.
Mi
tenne la mano, e la prima cosa che mi disse fu: «Ricordati di non mostrare mai nessun segno di debolezza, non far vedere
mai che ti senti ferita, o che provi vergogna. Non hai vergogna adesso, vero?
Questa è solo una prova, e dobbiamo saper resistere. Questo è il momento di
essere orgogliosi!». Questo è il momento di essere orgogliosi. Quante volte
l'avrei sentito dire da lui o da mia madre nel corso degli anni! Quando mio
padre era un giovane sindaco stimato da tutti, esitavamo tutti a sentirci
orgogliosi di lui. Si diventa orgogliosi quando si subisce un'ingiustizia. «Un
tempo ti dicevo che dovevi sempre fidarti di me, ti ricordi?» mi sussurrò mio
padre. «Che se gettavi nel fuoco una piuma, come quella che Simorgh diede a Zal
nel Libro dei Re, sarei subito arrivato a salvarti? Ecco, io accorrerò sempre
in tuo aiuto, ovunque sia. Adesso però ho bisogno di te. Devi avere cura di tua
madre; devi essere gentile con lei». L'aveva chiesto anche a mio fratello,
aggiunse. «Sei tu l'uomo di famiglia adesso» gli aveva detto e il mio
fratellino di undici anni aveva preso la cosa molto seriamente. «Tua madre
adesso non ha che te e tuo fratello» continuò guardandomi intensamente. «Mi devi promettere che avrai cura di lei.
Io l'ho delusa, e adesso chiedo a te di starle vicino. Mi devi promettere che
non la ferirai, che le ubbidirai sempre». Gli promisi che avrei avuto cura di
lei e che avrei fatto del mio meglio per non ferirla. Una promessa che avrei
ripetuto e infranto molte volte.
Mio padre disse anche di far
finta che non fosse successo niente. E noi facemmo del nostro meglio per
comportarci normalmente, e arrivammo quasi al punto di crederci, malgrado non
ci fosse più niente al mondo come prima.
Nonostante il difficile
rapporto con mio padre, io e mia madre non dubitammo mai della sua onestà
politica.
Quante illusioni e quanti
inganni creiamo noi stessi!
Mio padre che sperava di avere una famiglia serena, mia madre che rimpiangeva
il suo primo marito, e io e mio fratello, che credevamo di rendere felici i
nostri genitori, di poterli proteggere l'uno dall'altra.
I diari del carcere
Se
adesso ripenso con obiettività a quei momenti, vedo in essi qualcosa di
«tragico» e perfino di «ironico», ma allora ero soprattutto disorientata, come se camminassi nella
nebbia. Nessuno aveva idea di cosa sarebbe successo a mio padre. Un giorno
dicevano che stavano per liberarlo, e il giorno dopo che lo avrebbero
condannato a quattordici anni o, peggio, che lo avrebbero assassinato in
carcere, fingendo un suicidio. A casa eravamo in balìa di queste voci e,
insieme ai familiari, gli amici e le presenze solidali, oscillavamo tra la
speranza e la disperazione.
«Oggi
sono esattamente nove mesi che sono in prigione. Mi hanno arrestato sulla base
di accuse inventate. Mi avevano promesso una rapida scarcerazione, ma con il
nuovo governo la situazione è peggiorata.»
Nei
suoi diari del carcere scrive soprattutto di lui, più che degli altri «nemici»
- era difficile sopportare di essere
stato pugnalato alla schiena da un amico. «Lo conosco da venticinque anni»
scrive a pagina 312. «Negli ultimi tempi eravamo diventati molto amici.
Sembrava un uomo di talento, umile e gentile, e invece era un bugiardo, un
adulatore, e terribilmente ambizioso. Il suo grande sogno era diventare primo
ministro ed era disposto a tutto per riuscirci. Gli ero molto affezionato, ma
presto scoprii la sua falsità, la sua disonestà. Imparai la mia prima lezione
sulla politica: la verità non conta quasi niente. Dentro e fuori il
ministero, così mi ha detto, tutti sanno che non sono un disonesto e che ho
sempre servito la gente. Il mio è un problema di natura politica, secondo lui.
Insieme abbiamo preso in considerazione e analizzato attentamente ogni genere
di ipotesi, ma purtroppo non siamo venuti a capo di nulla. Di notte, quando sono solo, piango molto. Per me, per i miei figli, e
per questo dannato paese. Adesso che avevamo l'opportunità di fare qualcosa per
la povera gente, il governo è caduto nelle mani di giovani incapaci, pieni di
pregiudizi». Quasi volesse convincere della sua innocenza un invisibile
interlocutore, mio padre spiega nei minimi dettagli perché «quelli» non possono assolutamente accusarlo di
avere rubato dalle casse dello Stato. Prima di tutto, perché «quelli» avevano accesso ai suoi conti e dunque
avrebbero potuto scoprire che i suoi averi personali, dopo venticinque anni
nell'amministrazione pubblica, non ammontavano a molto, a parte l'eredità della
moglie. Cita le parole di un giudice: «Se
Nafisi avesse voluto rubare l'avrebbe fatto quando era il vicepresidente
dell'Ufficio programmazione e bilancio».
Perché
è in prigione? Che ne sarà di lui? Così a un certo punto si rifugia nel mondo della fantasia, e riempie le pagine di sogni,
inventandosi un mondo più equo e più sensato. «Scrivo questo diario innanzitutto per me stesso, e poi per mia figlia e
mio figlio. Quando avranno più tempo e maggiore capacità di analisi di adesso,
forse questi scritti saranno per loro una guida e una fonte di consigli». I
cinque volumi - quasi millecinquecento pagine - dei diari di mio padre
registrano la sua vita in carcere fino alla liberazione con definitiva
assoluzione quattro anni dopo. Diceva
spesso in tono semiserio che i suoi anni di prigione erano stati tra i più
fecondi della sua vita. Lesse molti libri, imparò nuove lingue, scrisse poesie,
dipinse molti quadri.
Nei momenti difficili
riusciva a reagire, a tirare fuori il meglio di sé. Quando lo vedevo durante la nostra breve
visita settimanale, in quella stanza che non era la sua, separato dagli oggetti
e dai luoghi che associavo a lui, mi era difficile immaginare le sue lunghe ore di solitudine. Solo
adesso, leggendo i diari, scopro quel mondo così diverso, con le sue leggi, le
sue abitudini, i suoi incredibili personaggi. Oltre alla speranza e all'amore della famiglia e degli amici, fu il suo
grande entusiasmo per la vita a sostenerlo in quegli anni.
I
diari registrano l'oscillare delle sue emozioni: dolore, frustrazione, la sensazione di essere stato tradito.
Scrive anche una lettera
aperta al presidente Johnson, citando John Quincy Adams, Franklin Roosevelt,
Daniel Webster e Lincoln. Dice di aver visto con i propri occhi «gli operai
disperati di Detroit, stesi sui marciapiedi, accanto a una bottiglia di
whisky... gli edifici cadenti, anneriti dal fumo, di Harlem e di Chicago, la
gente triste e affamata di New Orleans e Baltimora... ma anche gli splendidi
grattacieli con le porte automatiche, la grande libertà, la bellezza, la
cultura e le comodità del paese...».
Non lasciarsi ingannare da
coloro che dimostrano attitudini dispotiche. Non considerare nemico chi la
pensa diversamente. Non ripetere gli errori commessi in passato. Non fare
l’elemosina ai poveri, non umiliate i poveri, se volete davvero aiutar loro
fatelo in base a un principio di umanità, di uguaglianza e di rispetto.
Dedica
numerose poesie a noi figli, alla moglie, agli amici e parenti più cari. Si
innamora di Socrate, Voltaire, Buddha;
traduce Paul Eluard, Victor Hugo, e
un libro sul corpo umano. Organizza una colletta per aiutare gli altri
prigionieri a pagare la cauzione.
Lavora
anche ai tre libri per bambini che pubblicherà molti anni dopo: una traduzione
delle storie di La Fontaine - con splendide illustrazioni copiate
dall'originale -, una raccolta di racconti di Firdusi, e un'antologia del
grande poeta persiano Nezami. «Firdusi l'ho amato fin dall'inizio» scrive.
«Secondo me è il più grande poeta iraniano, e il suo Shahnameh è un'opera
impareggiabile. Nessuno meglio di lui ci ha insegnato l'umanità, la gentilezza,
la bontà... Voglio che i miei figli imparino ad amare la loro terra, e
capiscano i valori degli antichi. Firdusi non elogia i tiranni e i suoi eroi
non hanno mai tratti malvagi.
Dalle pagine affiorano
strani personaggi: un pittore di talento, un prigioniero che si impicca per la
disperazione. Parla anche di un prigioniero improvvisamente resuscitato
all’obitorio: Invece di prendersi cura di lui, le guardie gridarono al
“miracolo” e lo ibernarono, abbandonandolo ad una morte lenta e atroce.
Spesso si lamenta che gli
dicano - magari per consolarlo - che è fortunato a stare in prigione.
Anche
lui si considerava fortunato di non far parte dell'opposizione e di non essere
come certi compagni di prigione, gente anonima e senza un soldo, che poteva
solo sperare in Dio. Leggendo i diari di quegli anni non posso fare a meno di
pensare - sempre con un misto di ironia e disperazione - che per mio padre il
carcere fu davvero una sorta di benedizione.
Una donna in carriera
«La
vita senza mio padre», potrei intitolare così questo capitolo della mia storia.
Mi sentivo praticamente orfana, perché
il suo destino era appeso a un filo, come il nostro. «Mi rattrista il
pensiero di Azar» scrive mio padre nelle prime pagine del diario. «E' rimasta sola proprio adesso che ha
più bisogno di una guida. Con sua madre non va d'accordo; fin da quando era
piccola, ho sempre cercato, inutilmente, di mettere pace tra loro. »
È sempre stato un buon
padre, e un uomo di princìpi!
Qualcuno
poi andava a trovare mio padre e gli diceva di cercare di controllare sua moglie, perché era per colpa sua se lui
restava in carcere. Ma nessuno riusciva a controllare mia madre. Era come
una bomba che tutti si passavano di mano, sperando che esplodesse da qualche
altra parte. «Non si può sempre farla
franca» dice una mattina mia madre con aria enigmatica.
Nell'autunno
del 1963, il suo governo presentò al Parlamento un disegno di legge, la
cosiddetta American Capitulation Law, che garantiva l'immunità diplomatica ai
militari americani presenti nel paese, sia per le cause civili che penali. Mia
madre e pochi altri (soltanto uno, insisteva lei) si opposero. «Chi l'ha
votata» affermava indignata «non ama il suo paese!
Prima gli inglesi, e adesso gli americani! Non
c'è da meravigliarsi se chi è onesto e non ha nessun legame con le potenze
straniere finisce in prigione!». Molti ammirarono il suo coraggio nel votare
contro quella legge, ma restarono poi esterrefatti quando, nel 1967, mia madre
si oppose alla legge per la Tutela della famiglia, che aboliva il divorzio
extragiudiziale, restringeva la poligamia, e istituiva speciali tribunali per le
questioni familiari. Il suo voto contrario scandalizzò i sostenitori dei
diritti delle donne. Ma lei ribatteva definendo ipocrita una legge che diceva
di voler proteggere le donne ma le costringeva a richiedere il permesso del
marito, autenticato da un notaio, per poter lasciare il paese. Mia madre era
troppo radicale, o troppo inflessibile, per accettare il compromesso, e così,
anziché accontentarsi di quelle che definiva «delle mezze misure», preferì
votare contro la legge. Allora io dissentii fortemente, e ancora dissento, però
non posso fare a meno di ammirare la sua
concreta indipendenza di pensiero. In seguito mia madre disse di averlo
previsto.
In un paese dove il governo
non è mai stato sincero con la gente, e le notizie sono tenute segrete, le voci
si sostituiscono ai fatti.
Lei appartiene al novero
degli eletti da Dio, che non sbagliano mai; se qualcosa non va è sempre colpa
degli altri. E nel mio caso, la colpa è mia». Così il diario di mio padre nell'autunno
del 1964 e, come sempre quando scrive di mia madre, le sue parole sono senza
incertezze e venate di disperazione. Quando
fui arrestato pensai che Nezhat avrebbe imparato la lezione, che avrebbe smesso
finalmente di credere di avere tutti al suo servizio. Vedendomi qui in
prigione, pensavo, capirà quello che non sono mai riuscito a farle capire
quando ero libero. Ma oggi mi sono reso conto che è la mia vita che vuole,
la mia stessa esistenza; non solo non ha imparato niente, ma è convinta che
questo sia per me il migliore dei posti e che io debba esserle grato!»
Una
volta mio padre, parlando con un amico della sua vita coniugale, gli citò una
storia di Farid adDin Attar, il poeta mistico persiano del dodicesimo secolo.
Racconta di un uomo che sta cavalcando impavido un feroce leone. Quando il
narratore lo segue fino a casa, rimane esterrefatto nel vedere come il suo eroe
si lasci tiranneggiare dalla moglie. «Come può un uomo che non teme una bestia
così feroce lasciarsi impaurire dalla propria moglie?» gli chiede. E lui
risponde: «E' grazie a quello che succede a casa mia che riesco a cavalcare un
leone». «Tu te ne stai qui tranquillo lontano dalle tribolazioni, puoi fare
quello che vuoi e intanto tutta la responsabilità ricade sulle mie spalle»
diceva mia madre a mio padre senza ironia. Io e mio fratello diventammo
protettivi e premurosi con lui.
Era
un ingegnere di successo, molto posato e onesto. Per questo piaceva ai miei
genitori. Un giorno arrivò a casa nostra con un mazzo di rose e mi chiese cosa
avessi deciso. Io, in preda al panico, risposi: «Non ho ancora voglia di
sposarmi... non per te, è che non mi sento pronta...». Ma io ho già una certa
età!» mi interruppe subito lui, come se non mi avesse sentito. «Non posso più
aspettare, devo saperlo adesso! Subito!» I miei ripetevano che non avrei dovuto
sposarmi troppo giovane e che, in caso mi fossi decisa, avrei comunque
continuato gli studi. La verità è che ero attratta da un altro, l'esatto
opposto di lui: bello, romantico e molto brillante. Parlava di poesia e di
filosofia, con una voce calda, Lui diceva delle cose così interessanti che, pur
essendo un tipo assolutamente normale, mi sembrò l'uomo più affascinante del
mondo, sorriso enigmatico e gli occhi
che sembravano sempre guardare lontano. Era bello, alto, aveva capelli e
occhi castani, e una voce meravigliosa e suadente. Aveva un fisico da giocatore
di football americano, ma l'aria di chi vuole diventare un grande scrittore, o
un filosofo.
Sentivo una forte attrazione
per chi mi stimolava intellettualmente. Forse questo l'avevo ereditato dai miei
genitori: l'amore di mio padre per la letteratura e la filosofia, e la passione
di mia madre per la discussione politica. Erano le sue storie, la cosa che mi
attraeva di lui.
A volte mi guardava negli
occhi con un'espressione di infinita dolcezza, come se fossi una creatura
uscita da una strana fiaba.
Capiva sicuramente che stavo
mentendo, ma il trucco era tener duro con la mia versione. Dopo un po', anche
la bugia più assurda assumeva il colore della verità. Avrei ripetuto la stessa
dinamica, ma su una scala diversa, di lì a qualche anno, dopo la Rivoluzione
iraniana.
«Ma cosa vuoi da me?» si
mette a urlare lei. «Non mi lascerai mai in pace finché vivo, vero?». Io la
guardo impassibile, ma dentro sono agitata. Mi vien voglia di piangere così poi
lei alla fine si intenerisce, e mi consola. «Non sei figlia mia!» Giunse a
dirmi talvolta.
«Io
ci vado comunque, non puoi impedirmelo!» insisto. Non mi ha allevata per farmi
diventare una poco di buono, dice proprio così. «Per questo» si mette a urlare
come una furia «hai voluto restare a Teheran, eh? Non perché vuoi bene a tuo
padre e vuoi stargli vicino, no!, ma per andare in giro a fare la civetta con
Dio solo sa chi!». A questo punto scoppio in lacrime. «Non posso più restare in
questa casa! Non ce la faccio più!» grido.
«Non
ce la faccio più!» le dico «non voglio più stare qui». «Su su, da brava, va
tutto bene» «Non riesco a capire come
Nezhat possa essere tanto crudele con se
stessa e con le persone che ama». «Mi copre sempre di insulti...» balbetto
fra i singhiozzi «ha detto che aspetto
solo che lei muoia!». «Ma non fa sul serio» mi spiega lei con molta dolcezza.»
Mia madre faceva emergere il
meglio e il peggio di noi. Ci privava del nostro spazio, e noi eravamo
costretti a crearci un mondo segreto, spesso immaginario. Mio padre trovava rifugio nella poesia,
nel lavoro, nel suo giardino. Rivedo il suo sguardo raggiante quando alcune
mattine metteva sulla tavola un vassoio di profumati petali di gelsomino, o
quando, durante il tragitto verso la nostra casa sul Mar Caspio, si inoltrava
nei boschi a cercare fiori selvatici da piantare in giardino.
Ogni tanto, mentre me ne
stavo comodamente sdraiata sul divano assorta in un romanzo, mi chiamava per
mostrarmi dei bellissimi fiori. Io mi rifugiavo nelle storie, coi loro
meravigliosi personaggi: Rudabeh, il mio modello, Julien Sorel, il mio amante,
Natasa Rostova, Elizabeth Bennet, Catherine Earnshaw e tante altre, le mie dame
di corte, che mi avrebbero aiutato a scoprire quell'io sfuggente, che speravo di
diventare. Com'era vario e meraviglioso quel mondo in confronto a quello in cui
vivevo!
A quel tempo, passavo ore
sdraiata sul letto a leggere. Sottolineavo alcuni passaggi, li trascrivevo nel
mio diario, e recitavo spesso i versi della mia poetessa preferita, Forugh
Farrokhzad: «Tutto il mio essere è un canto oscuro che ti condurrà verso l'alba
di un'eterna crescita». La
passione con cui cantò l'amore nelle poesie che la resero famosa, si ritrova
anche nei suoi scritti sulla politica e la società. Divenne una specie di icona, ammirata e odiata allo stesso tempo.
Trasformò il concetto di «peccato» («Ho peccato, un peccato pieno di piacere, /
avvolta in un abbraccio caldo e ardente») in un atto di sfida contro
l'autorità, soprattutto quella di Dio. Stremata dal divino ascetismo, a
mezzanotte nel letto di Satana cercavo rifugio negli abissi di un nuovo
peccato. «Solo la voce rimane». E' il titolo di una poesia di Forugh Farrokhzad
che riportai, sottolineato due volte, in testa a una pagina del mio diario.
L'avevo
scritto nel diario. Io protestai che lei non aveva nessun diritto di leggermi
il diario.
Nelle altre famiglie si
parlavano, noi ci scrivevamo.
«Il dovere di una madre è
quello di educare i figli all'onestà... Sono felice di aver cresciuto due
onesti individui»
premetteva prima di passare ai nostri misfatti. Spesso finiva così: «Mi dispiace di non essere stata una buona
madre. Non mi sento amata in questa famiglia, mi sento esclusa. Auguro ogni
bene a tutti e tre».
Azar
è infelice e non fa che piangere. Non vuole sposarsi finché io sono in carcere,
ma non so quando uscirò di qui e non voglio tenerla in sospeso
Quella sua evasività, che
all'inizio mi affascinava tanto, aveva cominciato a darmi fastidio. Quando lo informai del mio nuovo
pretendente lui mi disse in tono risoluto di non sposarlo, che c'era già lui,
c'era sempre stato. Ma ormai era troppo tardi. Dà un certo sollievo potersi appoggiare a una persona più decisa di te.
Mi ero sempre sentita
attratta da uomini come mio padre, intellettuali con un sogno e una missione,
uomini, almeno in teoria, flessibili e teneri. Decisi di sposarlo non perché mi
aspettassi qualcosa da lui, ma perché volevo assumere il ruolo che lui mi aveva
assegnato.
Mentre
io avevo un sacco di dubbi sul matrimonio, lui aveva un'idea chiarissima delle
regole e dei ruoli all'interno della coppia. E così mi convinsi che era la
persona adatta a me, anche se in certi barlumi temevo di diventare «un'altra
donna sprecata». Paradossalmente io e mia madre lo scegliemmo per le stesse ragioni:
era uno con le idee chiare, e aveva
superato l'ostacolo che mia madre presentava a ogni mio pretendente. «Mia
figlia non è stata allevata per fare la casalinga, e deve finire gli studi» gli
disse quando lo vide la prima volta.
Adesso sono un'esperta di
uomini «decisi». Danno solo l'impressione di essere decisi, ma non lo sono. Siccome
hanno una formula per ogni cosa, che impongono con la forza, sembrano sicuri di
sé. Ma quando succede qualcosa che non si aspettano, sono disorientati.
Avevo
pianto tutta la notte, piansi mentre mi recavo in carcere, e piansi per tutto
il tempo prima della cerimonia. Il giorno delle nozze mia madre mi ripeté più
volte che i nostri destini erano molto simili: anche suo padre non era presente
al suo matrimonio. Mio padre invece, nel diario, scrisse che i nostri destini
sembravano «intrecciati», adesso che avevo fatto anch'io il suo stesso errore.
Scrive in uno strano passaggio: «Ad Azar è toccato lo stesso mio destino, si è
piegata al matrimonio. Era troppo infelice in casa, soffriva per la mia
assenza, e se n'è andata. L'unica
persona che pensava sempre a me, adesso dedicherà a un altro il suo affetto».
Non bisogna lottare solo
contro qualcosa, bisogna lottare anche per qualcosa, mi disse una volta mio padre. Rudabeh aveva insistito per sposare Zal non
contro i suoi genitori, ma per amore di Zal. Per questo, la sua ostinazione
era giusta e meritevole. Ma l'importanza di quelle parole la capii troppo
tardi. Il mio matrimonio fu un vero melodramma.
Se
chiudo gli occhi e cerco di immaginare un luogo di pace dove mi sento veramente
a mio agio, penso sicuramente a quella casa, con quel giardino. Ricordo l'odore
del mare e della sabbia, le sfumature del verde, l'aria umida, e il sorriso
trionfante di mio padre mentre ci mostra un
fiore rosso fiamma che si chiama «Firdusi» e una pianta con dei fiorellini
a grappolo detta «nastri della sposa». Fu lì che andammo io e mio marito in
luna di miele. E non avremmo potuto scegliere un posto peggiore. Ho cancellato
quasi tutto delle prime due notti. Ricordo
solo che non riuscivo a fare l'amore. Avevo paura, mi sentivo sola. Di colpo mi
resi conto di essere ancora giovane e ignara della vita.
Lui
non fu tenero con me, ma neppure rude, se ricordo bene. Voleva soltanto avere
quello che secondo lui, abbastanza comprensibilmente, era suo diritto
pretendere. Rivedo chiaramente una scena in bianco e nero: l'aria è umida, lui,
con addosso un accappatoio bianco, se ne sta tutto pensieroso accanto alla
porta, e fuma una sigaretta. Ma io dove sono? Lì accanto a lui, probabilmente,
e gli dico qualcosa, lo rassicuro che sono ancora vergine.
La
sera dopo, a cena, tra le risate e in un'atmosfera di festa, lui dice alla sua
sorella più piccola: «Diglielo tu come si fa».
Lei allora si volta verso di me e con molta
dolcezza mi dice: «Devi solo chiudere
gli occhi e lasciarti andare. Immagina di essere altrove. Immagina qualsiasi
cosa... Immaginai, come mi aveva detto, immaginai di essere da un’altra parte.
Non credo però di essere riuscita a sentirmi completamente altrove, come mi
succedeva quando mia madre diceva delle cose che mi ferivano. Però riuscii ad
estraniarmi dal mio corpo. Da quel momento, per molti anni, il sesso fu per
me qualcosa che dovevo fare perché gli altri se lo aspettavano, perché non
potevo dire no. Nessuna delle brutte esperienze subite da bambina mi fece
sentire così in colpa, come quando facevo l'amore con mio marito. Sposandolo,
avevo mentito a me stessa e avevo in un
certo senso tradito l'ideale di donna che volevo diventare.
Vita
da sposata
Mi
iscrissi alla University of Oklahoma mentre mio marito finiva il corso di
laurea in Ingegneria. Avevo sempre disprezzato i ragazzi iraniani che
studiavano all'estero e convivevano con una donna, godendo non solo del sesso,
ma anche di quella sorta di intimità che non avrebbero mai condiviso con le
ingenue ragazze persiane che avrebbero sposato.
Tenevo sempre sul comodino
un libro di poesie di Farrokhzad, che ora aveva preso il posto di Rudabeh nel
mio cuore. Avevo sottolineato alcuni versi della poesia La verde illusione, che
parla di una donna seduta alla finestra che osserva il tempo che passa. Il
primo verso era sottolineato più volte.
Tutto il giorno ho pianto davanti allo
specchio. Tutto il giorno ho fissato i miei occhi ' su quegli occhi inquieti
impauriti che evitavano il mio sguardo e cercavano rifugio sotto le palpebre
come due bugiardi.
Mi colpiva come la poetessa
si ritraeva: come un'estranea che le incute timore, che la giudica con occhi
carichi di rimprovero. Andarsene
via di casa, abbandonare il marito, il figlio, e ogni sicurezza, era stata una
decisione inevitabile per Farrokhzad, ma durissima. Non ne andava fiera, era
tormentata dal senso di colpa. Il suo
trionfo di donna liberata le sembrava a volte «una frode, una corona di carta».
Considerava un peccato trascinare un matrimonio senza amore, ma dopo essersene
andata cadde preda dei rimorsi più cupi e della solitudine. In un’altra
poesia, Il volto terribile, parla di
quell'altra se stessa nello specchio che la guarda e l'accusa senza pietà.
Ritrovai un antecedente letterario di quell'immagine nelle poesie di Alam Taj, Scriveva poesie contro
l'ipocrisia della religione, del matrimonio senza amore, e le nascondeva tra le
pagine dei suoi poeti classici preferiti: Hafez, Saadi, Nezami.
Quell'immagine del tuo viso
allo specchio che ti accusa si impresse dentro di me per molti anni dopo il
matrimonio.
Pensavo
ormai al divorzio.
Lo
accusava di «mancanza di rispetto».
D'altronde, aggiungeva, sua figlia era la prima a mancare di rispetto a sua
madre.
Un giorno, mia madre, mi
diede l'ultimatum: o me o tuo marito! E se sceglievo lui dovevo fare le valigie
e andarmene di casa su due piedi. Riesco solo a dire che salii in camera mia,
feci le valigie, e seguendo docile mio marito, lasciai la mia casa.
Venivamo da mondi molto
diversi, e non eravamo riusciti a imparare una lingua comune. Mi
chiedeva delle cose a cui non sapevo rispondere: Perché a mia madre era
concessa una simile libertà? Perché mio padre era così debole?, e altre che mi
infastidivano: Perché sentivo il bisogno di andare a trovare mio padre in
carcere ogni giorno? Perché prendevo i libri tanto sul serio? Mi sentivo
umiliata e infelice.
La
ragazza allegra di un tempo è una donna confusa e inquieta. Non sei felice, vero? Non devi restare
imprigionata in un matrimonio infelice. Meglio separarsi subito. Meglio adesso,
prima di avere dei bambini.
In
quel periodo mio fratello tempestava mio padre di domande sull'esistenza di
Dio; aveva letto tutto Bertrand Russell. Mio padre era molto sfiduciato e non
sapeva cosa rispondergli.
Aveva
dedicato tutta la sua carriera a cercare di migliorare il suo paese, con
convinzione e fiducia nel trionfo della giustizia, e adesso era di fronte al
fatto che tutto era stato inutile. Nei diari mio padre scriveva dei meriti della poesia persiana, sulla
stupidità di chi lo interrogava. Affiorava una frase: Mi odio e non ho più
desiderio di vivere.
Ho
paura a chiederle un piacere; lo fa con una tale indegnazione che mi sento
umiliato. Oggi le ho detto che forse
Dio, attraverso di lei, mi vuole mettere alla prova.
«Ieri ho letto l'articolo di Alfred
Friendly» scrive mio padre nell'estate del 1966. «E' molto interessante. Se
da un lato esprime apprezzamento nei confronti dello scià e dei suoi progetti
di modernizzazione, non sembra molto ottimista riguardo al nostro paese, anzi
teme per il nostro futuro... si dice preoccupato per la situazione non solo
della nostra economia, ma anche del sistema giudiziario, e a questo proposito
cita il mio caso. Anche se sono solo poche righe, il suo messaggio è incisivo».
In quell'articolo del 6 luglio 1966, Friendly scrive: Una probabile montatura
Il caso più famigerato è oggi quello dell'ex-sindaco di Teheran, Ahmed Nafisi,
in carcere da 32 mesi senza mai essere stato processato. Natisi, un tempo molto
stimato e tra i favoriti dello scià, è accusato (a torto o a ragione, a seconda
dei pareri) di corruzione in merito a certi appalti municipali. Il caso ha tutta l'aria di una montatura
messa in piedi dai suoi nemici, personali e politici. Alcune settimane fa, dopo
duemila pagine di interrogatori, il pubblico ministero non ha trovato nessuna
prova contro di lui. Ma, anziché scarcerarlo, si è proceduto a un ulteriore
interrogatorio.
Nafisi rischia di restare in carcere per anni
senza processo. Mio padre ricevette le visite di amici e sostenitori esultanti,
tutti convinti dell'imminente scarcerazione. Quelle visite scossero il suo
pessimismo ma lo gettarono anche nell'incertezza. Cosa avrebbe fatto adesso? Da
dove sarebbe ripartito?
Colui
che lo aveva tradito e incarcerato gli consigliò di scrivere allo scià una
lettera di pentimento, facendogli capire che con quella lettera avrebbe
ottenuto la libertà. Mio padre si decise a scrivere allo scià questa lettera,
che poi pubblicò nel suo libro. In essa passa in rassegna tutti i capi
d'accusa, smantellandoli uno per uno. Quindi conclude: «Vorrei chiedere scusa per le colpe che non ho commesso, o della cui
natura non sono consapevole, perché ho turbato la serenità di Sua Maestà.
Affido i veri criminali all'ira di Dio, poiché, come dice il Corano: “Chi trama
l'inganno verrà sottoposto al giudizio della suprema autorità, quella di Dio,
che li ripagherà della stessa moneta”».
Quella lettera avrebbe
ritardato la sua scarcerazione.
Io l'avevo sempre
considerato un uomo senza cuore, eppure nel diario mio padre lo descrive come
una persona semplice, quasi naif, che scoppia a piangere quando lo vede in
prigione. Stavo pian piano scoprendo che le cose erano più complesse di quanto
pensassi, e che gli uomini che versavano lacrime potevano anche essere crudeli
e ingiusti.
Capii quanto fosse facile
diventare vendicativi e spietati come quelli che avevamo condannato. Mio padre
venne scarcerato su cauzione alla fine di agosto del 1966. Il tribunale, per
rendergli il più possibile difficili le cose, fissò la cauzione a circa sei
milioni di dollari.
Mio padre scrive con
orgoglio e commozione della moltitudine di persone accorse al ministero della
Giustizia per dare il loro contributo. «Mi viene da piangere» scrive. «Non
sapevo che la gente di Teheran avesse tanto buon cuore.
Questa nazione è davvero
strana: osserva in silenzio la tirannia e poi dà prova della sua volontà, della
sua esistenza, attraverso la resistenza passiva. Tra le persone che si sono
offerte oggi di pagarmi la cauzione c'era gente di ogni religione e classe
sociale. Mio padre elenca tutti i nomi, perché in futuro io e mio
fratello avessimo modo di dimostrare la nostra gratitudine. Finalmente la notizia fu concreta:
rilasciato su cauzione, in attesa di processo in data da stabilirsi.
Mio
padre arrivò a casa, e fu festeggiato da un sacco di gente che continuava ad
arrivare portando mazzi di fiori. Io, ormai in partenza, volli passare l'ultima
sera a casa dei miei per stargli vicino.
Giovedì
mattina Azar è partita per gli Stati Uniti.
Il
rancore tra me e mio marito derivava dalla nostra radicale diversità nel
concepire la vita e noi stessi. Non c'erano possibilità di riconciliazione. Ero
stanca del ruolo che avevo continuato a recitare.
Mi
ero fatta delle amiche, per lo più studentesse di Filosofia e Letteratura, che
leggevano Ferlinghetti e Ginsberg.
Straniero in terra
straniera, di Robert Heinlein.
Una sera, durante un
litigio, mi diede uno schiaffo. Era già intollerabile vivere insieme
continuando a urlarsi addosso, ma adesso la situazione aveva sorpassato ogni
limite. Feci le valigie, e me ne andai.
Iniziò
il processo a mio padre nel settembre del 1967, un anno dopo la sua
scarcerazione.
Mio padre scrisse e lesse la
sua arringa di centoventotto pagine. Inizia citando Firdusi, e seguono
citazioni dai poeti classici persiani, dal Corano, da Dante a Voltaire.
Più avanti mio padre mi spiegò
il perché di quelle citazioni: aveva voluto scegliere il meglio dei nostri
classici per dimostrare ai suoi nemici che non erano loro i veri figli di
questo paese, che le tradizioni e i valori dell'Iran erano altri, e che lui,
mio padre, li rappresentava. All'inizio della sua arringa racconta la storia di
un popolare personaggio satirico, che un giorno viene invitato a fare un
sermone. Salito sul pulpito, chiede agli astanti se sanno che cosa dirà. Quelli
rispondono di no. E lui si risente: a cosa serve parlare a gente tanto
ignorante? Il giorno dopo ripete la stessa domanda. Alcuni rispondono di sì,
altri di no. Allora lui dice Chi di voi sa cosa dirò può dirlo agli altri». Il
terzo giorno fa di nuovo la stessa domanda, e tutti rispondono di sapere già
cosa dirà.
Allora lui, scendendo dal pulpito dice:
«Perché dovrei perdere tempo a dirvi quello che già sapete?». Mio padre spiegò
alla corte che quella era la sua storia. «Io non so perché sono stato
arrestato. Se nessun altro lo sa, allora siamo tutti sulla stessa barca. Se
invece qualcuno lo sa, dovrebbe dirlo a chi non lo sa». Poi denunciò la corte
e, facendo i nomi, accusò alcuni funzionari di aver tramato un complotto contro
di lui. Esaminò attentamente ogni singolo capo d'accusa, smantellandoli uno a
uno. Quindi concluse leggendo una poesia scritta per l'occasione. Il
processo terminò il 27 novembre 1967. Mio padre venne prosciolto da ogni
accusa, tranne una, quella di insubordinazione, per cui venne bandito da
qualsiasi carica pubblica. La sentenza fu poi riesaminata e revocata dall'Alta
Corte. Durante il processo la stampa fu
dalla sua parte. Tre autorevoli testate.
Tornai
a vivere. Trovai nei miei un tale sostegno da dimenticarmi presto del
matrimonio e del divorzio. «Povera Azi,
non ti sei mai goduta la vita!» mi disse un giorno mia madre, guardandomi con
profonda commiserazione. Quei tre anni che mio padre passò in carcere
cambiarono per sempre la nostra vita. Ci rendemmo conto di quanto fosse facile
perdere tutto, e cominciammo a vedere diversamente tutto ciò che prima davamo
per scontato. Anche mia madre era cambiata. Con le lacrime agli occhi, leggeva
le poesie che mio padre aveva scritto per lei.
Però
le sue paure, le sue ansie, rimasero: c’era
voluta una detenzione in carcere perché mio padre avesse una famiglia serena.
Smisi di credere nel
matrimonio e nella fedeltà coniugale. Ma questo successe, credo, quando mio
padre cominciò a tradire seriamente mia madre. Per come poi andarono le cose, la detenzione di mio padre
avrebbe avuto certe conseguenze sul piano personale.
Parte quarta
Rivolte e rivoluzioni
Di tutto l'uomo non resta che una parte
del discorso. In genere, una parte.
Parte del discorso. IOSIF BRODSKIJ
Dopo
il divorzio feci domanda alla University of California di Santa Barbara. Se non
volevo laurearmi tardi, mi disse sedendosi accanto a me, era meglio finire gli
studi alla University of Oklahoma. Ma io avevo sempre desiderato andare a Santa
Barbara, protestai. Ma lui insistette: se
mi laureavo presto, potevo tornare a casa e stare un po' con lui prima che
diventasse troppo vecchio. Ricordo ancora quel momento di intimità: io
appoggiata sul gomito, lui seduto in fondo al letto, le tende tirate, la luce
tenue dell'abat-jour. Così restai alla University of Oklahoma. Non me ne pento.
Tra
i vecchi amici c'era chi mi vedeva come un pericolo e cercava di tenermi
lontana dalla moglie; anche i ragazzi americani, sapendomi divorziata mi consideravano
una che ci stava.
«Nezhat è sempre alla ricerca del suo io sconosciuto
e invisibile» aveva scritto nel diario poco prima di essere scarcerato. «Qualcosa che ha perso fin dal primo
giorno, e non riesce a trovare. Potevo essere io quella cosa, ma non è stato
così. Potevano essere i figli, ma non è stato così. Potevano essere una buona
posizione, la ricchezza, la fama, non lo so. E' sempre ansiosa, tesa, inquieta.
Si crede il centro dell'universo! Cosa dovrei fare?».
«Vorrei un amore,» scrisse
quell'autunno «un luogo dove essere solo io e lei, fedeli l'uno all'altra, felici
di stare insieme. Ma purtroppo gli anni passano, mi resta poco tempo e non avrò
mai la felicità che sogno da sempre».
Mio
padre provò qualche volta ad andarsene, riuscendo quasi a convincere mia madre
a divorziare; ma poi lei, all'ultimo momento, si tirava indietro, e lui
tornava. «Mia moglie dice che non darà mai il suo consenso alla separazione
definitiva,» scrive nel diario «perché questo mi renderebbe felice e lei non
vuole che io sia felice! »
I
miei genitori restarono insieme per altri dieci anni.
Le
manifestazioni
Leggeva Beckett e mi fece
conoscere Nabokov.
La
sera bevevamo vino e andavamo a vedere i film di Bergman e Fellini.
Quando ci lasciammo io ero
ormai giunta alla convinzione che i rapporti non possono, o forse non
dovrebbero, durare.
Mi
invitarono a partecipare a gruppi di lettura in cui si leggevano testi di Marx,
Engels, Lenin. Nel frattempo però divoravo libri completamente diversi, come Tom Jones, Tristram Shandy, Persuasione.
La Confederazione comprendeva numerosi gruppi di diverse ideologie, ma al suo
interno, soprattutto negli Stati Uniti, si imposero rapidamente quelli più
militanti e radicali. Eravamo tutti
convinti di avere una risposta per ogni domanda, e di riuscire a cambiare il
mondo. Da una parte c'erano i dittatori, dall'altra i buoni, come noi, i
difensori di tutti gli oppressi. Eravamo
imbevuti delle ideologie radicali allora in auge, che trasformavano gli
insegnamenti di Che Guevara, Mao, Lenin e Stalin in romantici sogni
rivoluzionari.
Come
sembrava lontana la poesia liberatrice di Forugh Farrokhzad!
Poiché non si vive di sola
ideologia, anch'io, come altri, avevo le mie relazioni, e anch'io, come loro,
le tenevo nascoste - per il bene della causa, dicevo a me
stessa.
Mio
fratello invece, dopo un anno alla University of Oklahoma, si era laureato alla
University of Kent, ed era poi tornato negli Stati Uniti per specializzarsi
alla New School for Social Research.
Andavo
a leggere un libro - avevo una vasta scelta: Fielding, Lenin, Wharton.
Dopo
un breve fidanzamento, annunciammo la data del mio secondo matrimonio, il 9 settembre 1979. Arrivarono i miei
genitori, e mio fratello con la sua ragazza. Mia madre si buttò nei preparativi
con una foga e un entusiasmo come se si trattasse del suo matrimonio. Voleva
tutte le cose che io non volevo: l'anello di fidanzamento, l'abito da sposa,
una sontuosa cerimonia.
Emissarie di pace: Azi cara, dice in tono gentile, e dietro
di lei vedo spuntare la sorella, che mi sorride. «Tutte le madri sono fatte
così!». «Dai, andiamo a vedere se troviamo un bel vestito e non pensiamoci
più!»
La
cerimonia risultò allegra e intima.
La rivoluzione
Andai
a stare con mia madre e con mio fratello, con l'intenzione di scrivere la mia tesi su Mike Gold e gli scrittori proletari
degli anni Trenta. New York, che in quegli anni era stato teatro degli
eventi più radicali, era sicuramente il luogo ideale.
Effetti
della “ Jimocracy “si riferisce alla
presidenza di Jimmy Carter, e ai cambiamenti nella politica estera americana
che avrebbero avuto una forte influenza in Iran e all'estero. Fine nota.
Alcuni
nazionalisti scrissero una lettera allo scià invitandolo a rispettare la
Costituzione e a limitare il potere della monarchia. A Teheran si formò un comitato per i diritti civili e nelle carceri
migliorarono le condizioni dei detenuti.
Noi,
che eravamo troppo arroganti per considerarlo una minaccia e ignoravamo i suoi
piani, lo appoggiammo. Eppure era già tutto chiaro fin dall'inizio: nel suo
libro The Rule of Jurisprudence, Khomeini auspicava uno stato teocratico governato da un “rappresentante di Dio” .
Aveva fatto innumerevoli
dichiarazioni contro le minoranze. Noi applaudivamo i suoi violenti attacchi
contro gli imperialisti e lo scià, dimenticando che non venivano da un esempio
di libertà. D'altronde
Khomeini, in modo astuto, non aveva divulgato apertamente i suoi piani e nei
discorsi pubblici aveva fatto intendere che, una volta rientrato in Iran, si
sarebbe ritirato nella città santa di Qpm, lasciando ai politici il compito di
governare.
Noi giovani rivoluzionari
eravamo obnubilati dalle passioni e dall'euforia del momento.
Ci
vollero alcuni mesi prima di ammettere il crollo
di tutte le nostre illusioni. Né potevamo immaginare quanto fosse
precipitata la situazione in Iran, dove centinaia di migliaia di sostenitori
gli si erano rivoltati contro.
Nell'agosto
del 1978, il cinema Rex di Abadan, un porto vicino ai pozzi di petrolio, bruciò
in un incendio doloso in cui morirono oltre quattrocento persone. Il governo
dello scià dichiarò la propria estraneità alla tragedia e accusò i dissidenti
religiosi. Questi, come anche i dissidenti laici, a loro volta diedero la colpa
al regime. L'incendio fu appiccato durante il mese santo del Ramadan. Pochi
credettero alla versione ufficiale, e quell'atrocità
divenne il simbolo delle menzogne del governo per mantenere il potere. Questo
evento fu per tanti la prova che nessun dialogo, nessun compromesso, era
possibile con un regime così brutale. Dopo la rivoluzione, le famiglie delle vittime di quel rogo
chiesero giustizia. Ma vennero ignorate dal nuovo governo islamico.
Sotto la pressione
dell'opinione pubblica, molti, colpevoli e innocenti insieme, furono arrestati
e giustiziati. Vi furono casi eclatanti di accuse infondate, come quello di un
uomo che, pur non trovandosi sul luogo della tragedia, venne ugualmente
giustiziato.
La rabbia e il fanatismo
generale oscurarono la verità e la gente credette quello che volle credere.
La verità emerse in modo
frammentario.
Le
fiamme però si erano già propagate all'interno dell'edificio ed erano bruciati
quasi tutti. Dov'ero io quando lessi sui
giornali la verità? E cosa feci dopo? Chiamai gli amici per sfogare con loro la
mia rabbia, per poi andare a mangiare tranquillamente un bel gelato? Fu il
giorno che tornai a casa tutta soddisfatta della mia lezione su Tom Jones?
Purtroppo in queste
situazioni nessuno è innocente: siamo tutti implicati, anche gli spettatori
come me.
Più approfondivo l'argomento, che riguardava uno scrittore
proletario degli anni Trenta e la sua ideologia, e più mi sentivo disillusa. Cominciai a leggere Richard Wright,
Arthur Koestler e Ignazio Silone, la cui esperienza comunista rifletteva la mia
attività nel movimento studentesco. Fu
allora che cominciai a chiedermi: come si può restare fedeli ai propri ideali
progressisti senza attaccarsi a un'ideologia distruttiva?
Il paradosso dell'uomo di
Dio che gira la schiena al mondo e intanto complotta e progetta di
impossessarsene incantava milioni di ammiratori.
Venne
pubblicato un articolo: «Imperialismo
nero e imperialismo rosso», che individuava i due nemici della democrazia nei
comunisti - l'imperialismo rosso - e nel clero radicale guidato da Khomeini -
l'imperialismo nero.
Sentii
entusiasta mio padre dei cambiamenti in corso nel paese. Per secoli, mi spiegò, l'Iran aveva sofferto per colpa di monarchi
assolutisti e di un clero reazionario, e adesso aveva l'occasione di
sbarazzarsi di entrambi. «Mi dispiace un po' per lo scià,» mi confessò «con
tutti quegli adulatori che gli fanno credere di essere l'ombra di Dio sulla
terra».
Fu
allora che ebbi il mio primo scontro serio con mio marito. Circa un mese prima
avevamo avuto un'accesa discussione - non ricordo a proposito di cosa - e da quel momento non mi aveva più rivolto la
parola. Si era chiuso in se stesso, in ogni senso; io continuavo a rimuginare,
anche di notte, e la mattina mi sentivo sfinita. Tornammo a casa senza
scambiarci una parola, poi io non ce la feci più. «Voglio il divorzio!» gridai.
Mio marito rimase a bocca aperta, era l'ultima cosa che si aspettava. «Ma come
ti salta in mente? Tra noi c'è un ottimo rapporto!». «Ma se nell'ultimo mese
non ci siamo neanche parlati!» risposi. A questo punto lui cercò di convincermi
che mi amava, mi disse che, sì, era arrabbiato con me - e quando era arrabbiato
non riusciva a parlare - ma non era successo niente di così serio da fargli
pensare al divorzio, nemmeno per un istante. «Ci sono altri modi di esprimersi,
sai, non solo le parole» concluse in tono disperato.
Per
noi, con i nostri sogni romantici di rivoluzione, la luna era un futuro dove
avremmo conquistato la libertà insieme al proletariato e vissuto per sempre
felici e contenti. Eppure sembrava esserci qualcosa di terribile nel modo in
cui quel sogno si stava realizzando.
Da
piccolo aveva sorpreso tutti con le sue poesie, era diventato il giovane leader
di un influente gruppo di intellettuali di Isfahan. Era sempre stato un
ribelle, e aveva ripudiato la fede e il modo di vivere dei genitori.
«Cos'hai
fatto tu per la rivoluzione?» mi chiedeva a volte, in tono serio, ancor prima
che se ne intravedesse una all'orizzonte. Leggere, studiare, erano tutte cose
borghesi e antirivoluzionarie.
Si
dedicava alla politica anima e corpo, come aveva fatto prima con la poesia.
Il
momento della rivolta è giunto» scrive. «Amore e rivoluzione: che c'è di più
romantico?».
Vidi che il potere non è un
dono divino. La magia era svanita. Le roccaforti del potere, le carceri, i
presidi, i palazzi reali erano degli edifici vuoti, senza difese. Lo scià, i
ministri, gli agenti della SAVAK, i generali dell'esercito erano esseri umani,
senza sangue blu nelle vene. Nelle strade si scatenò il caos. L'unica forza in grado di riportare
l'ordine era l'esercito, adesso diviso. Alcune caserme furono prese d'assalto
da gruppi di militanti e da migliaia di cittadini in preda allo zelo
rivoluzionario. L'8 febbraio Khomeini
annunciò un governo provvisorio che presto avrebbe rivelato la sua natura
dispotica e umanamente decadente.
Khomeini parlò di se stesso
come di una persona che riceveva la sua autorità dal «santo legislatore», il
Profeta. Disse che il governo provvisorio doveva essere rispettato e che
«ribellarsi contro il governo di Dio è come ribellarsi contro Dio. E ribellarsi
contro Dio è un atto blasfemo». Per
consolidare il proprio potere, Khomeini decise di creare i comitati
rivoluzionari e la milizia rivoluzionaria, che avevano un potere illimitato e non ben specificato. Nel giro di poco tempo i
comitati divennero i paladini della nostra morale e iniziarono ad arrestare i
cittadini per i crimini più lievi e svariati, dalla blasfemia al possesso
di bevande alcoliche o di musica occidentale.
Alcune
donne urlavano lo slogan: La libertà non
è né orientale né occidentale, la libertà è globale. Le
donne senza velo continuarono a essere aggredite dai miliziani, con l'acido, le
forbici, i coltelli. La legge per la Tutela della famiglia venne presto
abrogata, e la legge religiosa estesa a tutto il paese. Venne abbassata l'età
legale del matrimonio per le donne da diciotto a nove anni, furono legalizzati
la poligamia e «i matrimoni provvisori», furono rimosse le donne che facevano i
giudici, e fu introdotta la lapidazione per le adultere e le prostitute.
Un’altra amante
Mio
padre nutriva ancora grandi speranze nella rivoluzione. Secondo lui, se fossimo
riusciti a sbarazzarci delle due grandi forze di oppressione, la monarchia
assoluta e l'ortodossia religiosa, e a rafforzare le forze moderate laiche e
religiose, avremmo imboccato la strada giusta. La volontà di raccogliere i
gruppi e gli individui favorevoli al processo
democratico, ma presto capì che la sua era solo un'illusione. Ben presto tutte le nostre speranze di
cambiamento vennero travolte dalle atrocità del nuovo regime.
In seguito vennero
giustiziate persone comuni, per aver criticato Khomeini o l'Islam. Venne data la caccia agli omosessuali, alle adultere, alle donne
ritenute prostitute, e alle minoranze.
Non
c'è niente come due coniugi infelici per creare una congiura degli affetti.
Sentirsi più a casa
So
dire con esattezza che la guerra con l'Iraq iniziò il 22 settembre 1980 e finì
il 20 agosto 1988, e che il numero delle vittime fu molto alto; ma non so
descrivere i sottili cambiamenti che
trasformarono le nostre vite al punto da farmi sentire un'estranea nelle strade
della mia infanzia.
In
un diario iniziato nell'autunno del 1980, in mezzo agli appunti delle lezioni
su Huckleberry Finn, Il grande Gatsby e La madre di Gor'kij, scrissi: «Non mi sento più a casa mia». Non fu
solo la catastrofe della guerra e la carneficina: un altro tipo di violenza,
quasi impercettibile, si insinuò nella nostra vita di tutti i giorni.
Ma
quello che veramente desideravo era tornare a casa, alle mie montagne, al cielo
notturno della mia infanzia, a Via Naderi col suo profumo di pesce, di cuoio,
di caffè e di cioccolato, ai cinema e ai ristoranti, ai caffè con la musica, a
mio padre che mi teneva per mano lungo il viale alberato e mi diceva: «La poesia di poeti come Rumi e Firdusi è
una buona ragione per credere in Dio». Niente
è terribile quanto le speranze infrante; ero tornata con la speranza che la
rivoluzione avrebbe cambiato il paese, dandoci una maggiore libertà, facendoci
sentire a casa nostra. Adesso niente era più come prima, era cambiato tutto.
E' importante ricordare che
la guerra tra Iran e Iraq fu una guerra tra due paesi che al contempo stavano
brutalmente combattendo contro la loro gente.
Durante
gli otto anni di guerra Teheran venne bombardata più volte, anche se non
pesantemente come le città di confine. Mi
sentivo molto vicina agli iracheni, costretti a esserci nemici ma in realtà
così simili a noi nella disgrazia.
Il
primo giorno, quando entrai nell'enorme atrio della facoltà di Persiano e di
Lingue e Letterature Straniere, mi trovai immersa in un brusio di mille voci:
una folla si aggirava attorno a tavoli ingombri di pamphlet, libri, volantini.
Ciascun gruppo politico aveva un suo tavolo. Mi abituai presto al rumore, alle
onde di gente avanti e indietro, in continuo movimento, e divenni anch'io parte
di quel flusso: correvo da un'assemblea all'altra.
Ero sempre concentrata sulle
lezioni e appena mettevo piede in aula, tutta affannata, e scrivevo sulla
lavagna Le avventure di Huckleberry Finn mi sentivo finalmente a casa, e
dimenticavo l'atmosfera pesante che regnava tutt'attorno. Mi dava un senso di
calma pensare che quei libri erano sopravvissuti a guerre, rivoluzioni,
carestie, che erano lì da molto prima di noi e sarebbero rimasti dopo di noi.
Io non morirò,» diceva
Firdusi «questi semi che ho seminato, salveranno il mio nome e la mia
reputazione dall'oblio». Così, i romanzi di George Eliot, Jane
Austen, Flaubert e Tolstoj divennero un modo per educare il nostro bisogno di
democrazia. Tom Jones ci insegnava il valore dell'umorismo, Tristram Shandy
quello dell'ironia, e ogni romanzo che
leggevamo ci offriva una riflessione sulle nostre scelte etiche, sulle nostre
responsabilità individuali. Ogni romanzo sembrava alludere, in modo profondo,
insistente, alla nostra realtà.
Il regime teocratico tuonò
contro le università: «Noi non abbiamo paura di sanzioni economiche né di
interventi militari. Abbiamo paura delle università occidentali, e che i nostri
giovani vengano educati negli interessi dell'Oriente o dell'Occidente». Fu
questo il segnale che annunciò la Rivoluzione Culturale: il progetto di
islamizzare le università, cambiando i piani di studio e ripulendole da
professori, studenti e materie indesiderabili. Studenti e docenti
non si arresero senza lottare. Ricordo gli accesi dibattiti, le
dimostrazioni. I miliziani arrivarono
all’improvviso armati. Ogni giorno sentivamo di studenti assassinati, dei
loro corpi portati via di nascosto dai funzionari del regime. Ancora oggi
queste scene saltano fuori dal nulla, disturbando il mio sonno. Tutti i movimenti, tranne quelli islamici,
sarebbero stati vietati - non senza sanguinose proteste, sit-in, ulteriori
arresti e esecuzioni.
Insieme a due colleghe della mia facoltà, mi
rifiutai di portare il velo obbligatorio, e di lì a poco venni cacciata
dall'insegnamento, insieme a tanti altri docenti. Col tempo, molti studenti che reclamavano l'islamizzazione delle
università si sarebbero ricreduti e avrebbero cominciato a criticare il regime
organizzando proteste e manifestazioni.
Chi avrebbe detto che alcuni
si sarebbero innamorati di Jane Austen, F. Scott Fitzgerald, Spinoza e Hannah
Arendt cominciando a contestare i dogmi del regime che avevano sostenuto con
ardore? E che avrebbero chiesto a gran voce una democrazia laica e per questo
sarebbero stati arrestati, incarcerati, giustiziati?
Sentii
una voce alle mie spalle: «Professoressa!». «Posso parlarle?» mi chiese.
«Certo» risposi. «Quel giorno, quando parlava con la signorina Bagheri di Cime
tempestose, c'ero anch'io». La signorina Bagheri, che si era sentita
profondamente offesa dal romanzo, era un'accanita paladina della Moralità nel
campus. Un giorno mi aveva avvicinato dopo la lezione per protestare contro
l'immoralità di quel libro: il perdono dell'adulterio era di cattivo esempio,
mi disse. «I romanzi parlano della vita,
in tutti i suoi aspetti» le spiegai.
«Ma
questo è un caso diverso,» mi rispose la signorina «l'adulterio è un peccato».
«Ma è proprio questo il punto: l'unica
sacrosanta verità di un romanzo è la sua natura profana. Cime tempestose è una
grande storia d'amore. Sa dirmi una storia d'amore che rispetti le regole?».
Alla fine del semestre la signorina mi confessò entusiasta di essersi così
innamorata di Catherine e Heathcliff che le sue compagne la prendevano in giro.
«Volevo
chiederle» continuò la mia interlocutrice «cosa vuol dire esattamente che l'unica sacrosanta verità di un romanzo
è la sua natura profana». Portava un chador nero che lasciava scoperto solo
l'ovale del viso, secondo il decreto sull'abbigliamento decoroso. Aveva
un'espressione seria negli occhi che, diversamente da molti miei studenti, ti
puntava dritti in viso. Lei non avrebbe di certo cambiato parere su Cime
tempestose in pochi mesi.
C'era
in lei una tenacia, una caparbietà che mi piacevano e non derivavano solo dalle
convinzioni religiose. Mentre parlava sembrava assorta in un suo mondo
interiore, come se dovesse risolvere un enigma.
A
volte tardava così tanto a rispondermi da sembrare di essersi dimenticata di
cosa stavamo parlando. Era così seria che al suo confronto mi sentivo frivola,
mi veniva voglia di scherzare e di farla ridere. «Forse, se esaminassimo
insieme uno di questi romanzi giudicati immorali, capirebbe meglio cosa intendo
dire». Allora mi chiese di consigliarle una lista di libri. Disse di aver letto
Forugh Farrokhzad, e le ricordai che le sue poesie erano state messe al bando. «Tutto è lecito, credo, se è allo scopo di
sapere» osservò lei. Allo scopo di sapere: ben detto! «Comunque, Forugh
Farrokhzad era più occidentale,» aggiunse «non seguiva le nostre tradizioni».
Io le suggerii di rileggersi Il libro dei Re e altri testi classici; l'adulterio non è un'invenzione
occidentale, come non lo è l'amore. «Ma
visto che stiamo parlando di adulterio e romanzo, perché non partiamo da Madame
Bovary e Anna Karenina.» le proposi alla fine. Nei due mesi seguenti ci
incontrammo una volta alla settimana, sedendoci sul prato o camminando su e giù
per il viale alberato del campus. Portai dei bignè alla crema e lei, la volta
dopo, arrivò con una grossa scatola di pasticcini. Dopo aver letto Madame Bovary e una parte di Anna Karenina, osservò che
alla fine si erano entrambe pentite. «Non erano pentite, erano disperate» le
spiegai. «Anna aveva il cuore spezzato, Emma non aveva più forza». «Lei dice
che è un romanzo sull'amore; è vero, ma solo in parte. Parla soprattutto delle
illusioni di Emma, del suo sogno di cambiare la scialba, dura realtà. Si sposa
per un sogno e per la stessa ragione tradisce il marito. Aveva letto troppe
storie romantiche e si vedeva come un'eroina romantica. Aveva fatto un
contratto, e anziché rispettarlo decise di romperlo» precisò lei. «E' vero, ma
anche Charles Bovary aveva delle illusioni romantiche. Più che Emma, amava
l'idea che aveva di Emma. Non riusciva a vedere chi era veramente Emma, né cosa
desiderava da lui». A un certo punto le chiesi: «Perché non considerare
adultere anche le donne che si sposano senza amore? Anzi, mi paiono peggiori».
«Ma loro vi sono costrette, non mentono» mi rispose lei. «Ci sono tanti modi di
mentire. Conosco una donna, una donna di saldi princìpi morali, che non si
sognerebbe mai di commettere adulterio, e che però ha tradito suo marito
restando affettivamente legata al primo marito, morto da tempo» (una volta
chiesi a mia madre perché non aveva più ballato dopo quella volta con Saifi e
lei rispose: Perché non avevo nessuno con cui ballare). «Mi dispiace per questa
donna e per tutte le donne che hanno sofferto per la privazione di amore» lo
disse come se la privazione di amore fosse una specie di malattia. Non
dimenticai quella frase, mi tornava in mente quando pensavo a mia madre, alla
poetessa Alam Taj e a tante altre donne che sentivano di avere sprecato la vita
non solo perché non avevano realizzato le loro ambizioni ma anche perché
avevano sofferto per la privazione di amore.
Da lì
passammo a parlare di cosa significa fedeltà e rispetto di se stessi, e,
inevitabilmente, tornammo a parlare di donne: delle donne in Europa, in
America, in Egitto, in Turchia, che avevano combattuto le stesse battaglie,
sofferto le stesse umiliazioni. «Ma perché a scuola non si parla mai di queste
cose?» osservò lei alla fine. Infine parlammo delle donne nel nostro paese, a
cui era concesso di studiare, di leggere libri come Cime tempestose, ma era
negato il diritto di scegliere chi sposare, come vestirsi, dove lavorare. A
questo punto i suoi occhi intelligenti si illuminarono. «E' buffo adesso che ci
penso!» esclamò.
«Prima della rivoluzione probabilmente avrei
acconsentito a un matrimonio combinato pur di fare dispetto al vecchio governo,
ma adesso non sono più così sicura. A questo serve un romanzo, credo, a farci
riflettere su queste cose... o qualcosa del genere». Da un giorno all'altro non
venne più a lezione, il
semestre finì, e io mi buttai a capofitto nelle battaglie che esplosero nell'Università,
Ogni tanto la pensavo, chiedendomi che fine avesse fatto: aveva sposato un uomo
che amava? Ne aveva mai desiderato un altro, o una nuova vita?
Ovunque nel paese, capi
religiosi cominciarono a lasciar trapelare il loro malcontento. Il più influente
di questi cominciò a criticare apertamente il regime. Ribadiva la separazione
tra Stato e religione come uno dei princìpi fondamentali dell'Islam sciita. Le
proteste furono represse con la violenza. Egli venne arrestato e poi
incarcerato.
Ricordatevi» ci diceva
spesso mio padre con un sorriso ironico «che quando Khomeini era nei guai con
lo scià, colui che fu incarcerato per volontà dello stesso Khomeini stava
seduto sotto un albero a piangere in segno di protesta. Il nuovo imam sa
davvero dimostrare la propria gratitudine!»
Sosteneva che nessuna
potenza straniera avrebbe potuto distruggere l'Islam come ha fatto questa
gente.
Il regime teocratico di
Khomeini aveva trasformato le università, baluardi del sapere, in luoghi di
tortura!
Durante
il caffè del venerdì mattina mia madre si scagliava contro chiunque
disapprovava le mie battaglie contro le violazioni dei diritti delle donne.
Molti sostenevano che non era il momento di lottare per cose così
insignificanti quando erano in gioco l'indipendenza e la lotta
all'imperialismo.
Leggere e resistere
Quando
poi era venuta a mancare la ragione di questi incontri, quando fummo tutti licenziati o espulsi,
continuammo a frequentarci e il gruppo si allargò ai familiari. Parlavamo
di noi stesse con molta franchezza, passando con naturalezza dalla sfera
personale a quella politica o intellettuale. A volte sembrava che, nonostante
avessimo maggiori opportunità e libertà rispetto alle nostre madri, i nostri
problemi fossero fondamentalmente gli stessi: mariti violenti, amori infelici,
il senso di colpa che nasceva dal conflitto tra il lavoro e la famiglia,
problemi sessuali e rancori irrisolti. Questi
gruppi divennero la nostra famiglia, con i problemi, i vantaggi e le
contraddizioni tipici di ogni famiglia. Si intrecciavano legami, amori e
tradimenti.
Avevo un disperato bisogno
di conversazioni che non fossero soltanto ideologiche o politiche.
Avevo cominciato a
riflettere sulla relazione tra la democrazia e il romanzo, partendo dalla
riflessione che in Iran il romanzo era nato contemporaneamente alle richieste
di libertà e democrazia.
Il
paese va a rotoli e mia figlia perde la testa per queste perle, dei romanzi,
neanche potessero risolvere i nostri problemi!
Mio padre, quando mi insegnò
a capire la storia e la cultura del mio paese attraverso le storie di Firdusi,
mi presentò la letteratura non solo come un passatempo ma come un mezzo per
percepire e interpretare il mondo, per stare al mondo. E anche adesso che il
mondo era diventato un luogo inquietante e ostile, mio padre si ostinava a
tornare al passato, al Libro dei Re, che secondo lui rappresentava l'unica
testimonianza di quello splendido Impero persiano che popolava i nostri sogni e
i nostri incubi.
La civetta cieca di Sadeq
Hedayat, del 1936, e Il principe di Golshiri, del 1969:
Avevo
letto La civetta cieca attorno ai quindici anni, nel periodo in cui leggevo La
nausea di Jean-Paul Sartre e Lo straniero di Camus. Come altri ragazzi della
mia età mi sentivo attratta da quei testi carichi di angoscia, di alienazione. La civetta cieca era il
classico libro che i genitori vietavano ai figli. Hedayat si era suicidato a
Parigi nel 1951, e molti consideravano il suo libro un pericoloso incitamento
al suicidio, all'oppio e a ogni forma di trasgressione; fu così che divenne
oggetto di culto. I critici lo accostavano all'espressionismo europeo, e vi
vedevano l'influenza di Novalis, di Nerval e Kafka. Quando lo rilessi, rimasi
colpita non tanto dal famigerato pessimismo o dalle somiglianze con il pensiero
modernista occidentale, quanto dalle sue affinità con i nostri classici. E lo
stesso accadde con Il principe.
Entrambi
i libri sembravano una replica angosciosa delle storie classiche di amanti
infelici - come Vis e Ramin, o Layla e Majnun in quanto ricomponevano il solido
passato attraverso una serie di immagini mutilate. Se Gorgani e Firdusi e altri
poeti classici celebrano i piaceri terreni, e i poeti mistici le gioie dello
spirito, in Hedayat e Golshiri il cielo
e terra sono mondi ormai in rovina: il mondo spirituale è crollato, la realtà è
svuotata di ogni letizia e carica di minaccia. In entrambi i romanzi la trama
ruota attorno al rapporto, o non-rapporto, del protagonista - un uomo debole e
frustrato - con due donne: l'una, «eterea», rappresenta la donna ideale e
inaccessibile, mentre l'altra, la «puttana», la donna carnale, erotica. Il
desiderio frustrato del protagonista di possedere entrambe le donne porta alla
sua e alla loro distruzione. I romanzi sono pervasi da un senso di impotenza e
di disperazione per un passato che non c'è più e un presente incomprensibile e
quindi pericoloso e ostile. Nel Principe e nella Civetta cieca non c'è più
comunicazione tra il narratore uomo e le protagoniste dei romanzi: ogni forma
di dialogo si è interrotta, al suo posto c'è solo paura, risentimento, e la
crudeltà di cui solo i deboli sono capaci. Dov'erano finite le donne del
Libro dei Re, o di Vis e Ramin, con i loro seni come melagrane, e le labbra di
rubino? Cos'era successo a quelle donne
fiere della propria identità, che non avevano paura di pronunciare il nome
dell'amato?
Non potevo fare a meno di
notare una certa somiglianza tra gli impotenti aguzzini dei due romanzi e quei
miliziani che frustavano le donne perché mostravano qualche ciocca di capelli.
Non volevano forse fiaccare quelle donne forti e imprevedibili per mascherare
la propria impotenza?
Leggendo quei due romanzi mi
sembrava di riuscire a comprendere meglio la psicologia degli eventi politici
che stavo vivendo. Dove saremmo andati a finire? Avevamo bisogno di una voce
nuova. Avevamo bisogno di una rivoluzione culturale vera, non fasulla come
quella impostaci dal regime.
Quando agli inizi degli anni Ottanta fui espulsa dall'Università di Teheran,
Golshiri mi suggerì di tenere un breve corso sulla Civetta cieca. Non molto
tempo fa, uno studente che lo frequentò mi ha mandato una copia dei suoi
appunti, trentasette pagine scritte a mano: «Buf-e kur, un romanzo sulla
coscienza - Prof.ssa Azar Nafisi»
Dopo
quel corso scrissi numerosi articoli sulla narrativa
persiana contemporanea e mi unii al gruppo letterario di Golshiri. Ogni
settimana incontravamo uno scrittore e poi analizzavamo le sue opere. A volte
gli scrittori si offendevano per le aspre critiche, e spesso nascevano accesi
scontri, soprattutto tra Golshiri e il suo ospite, e allora ci fermavamo a
riflettere sulle profonde rivalità che esistevano anche tra noi, nonostante
fossimo uniti contro le costanti minacce e vessazioni del regime.
In quel momento di grande
instabilità, quando ogni certezza era messa in discussione, la letteratura ci
offriva un certo conforto. Leggevamo i classici - Hafez, Saadi, Firdusi - ma
sconfinavamo spesso in altri temi, spesso fino a tarda notte.
Il critico letterario Terry
Eagleton ha scritto che la grande narrativa urta sempre contro i confini della
realtà esistente.
I classici persiani aprivano
una crepa nei muri della nostra realtà, e un po' di luce riusciva a filtrare
dallo splendido mondo dell'immaginazione dei nostri poeti. Poiché ogni aspetto della vita pubblica
era stato limitato o messo al bando, il nostro spazio privato divenne una
specie di tribuna pubblica. Le nostre case divennero ristoranti, bar, cinema,
teatri, sale da concerto, luoghi di dibattito su letteratura, arte, politica.
Certo, c'era il rischio costante di improvvise irruzioni da parte delle guardie
rivoluzionarie che ci avrebbero confiscato gli alcolici, le carte da gioco, i
libri e i video vietati, e ci avrebbero arrestato con l'accusa di immoralità; e
tuttavia in quei giorni serpeggiava un'eccitazione trattenuta, che celava
l'ansia e la paura. Mentre il paese era lacerato dalla guerra e schiacciato da
leggi repressive, arresti ed esecuzioni, sotto ferveva la ribellione, la
resistenza continuava. Una cosa normale come un ritrovo tra amici, con musica,
drink, magari un film come Una notte all'Opera o Fanny e Alexander, richiedeva
una certa prudenza e diventava qualcosa di molto speciale, come un bignè
rubato. Come un gruppo di esuli in un paese di cui non capivamo bene la lingua
e la cultura, cercavamo di crearci i
nostri spazi, di sentirci a casa, provando una forte nostalgia per il passato.
Quei nostri incontri mi ricordavano vagamente quelli tra la fine dell'Ottocento
e gli inizi del Novecento, di cui avevo letto o sentito parlare, quando gli
spettacoli teatrali si rappresentavano nelle case private e le donne non
potevano mostrarsi in pubblico. A quei tempi c'erano ancora i marciapiedi
separati, per gli uomini e per le donne, che erano obbligate a portare una
tunica nera. Noi cercavamo
disperatamente di conservare qualcosa che ci era stato sottratto. Avevamo tanto
lottato per i nostri diritti, e la nostra rivoluzione ce li aveva tolti.
Sogni infranti
Se l'affetto della parentela
non era bastato a farci andare d'accordo, ci riuscì la rivoluzione: ci
ritrovammo se non dalla stessa parte, almeno contro lo stesso nemico.
Quelli erano tempi in cui
potevi trovare rifugio e solidarietà presso persone magari di idee contrarie ma
disposte a rischiare la vita per salvarti.
Ci salutammo stringendoci la
mano, nonostante il divieto di toccare una persona dell'altro sesso, loro due cominciarono a scendere la
scala e io restai in cima a guardarli scomparire e riapparire a ogni giro. Poi
sentii chiudersi la porta d'ingresso e li vidi là fuori, come due orfanelli di
una favola triste, che si allontanavano l'uno vicino all'altra, lui con la
camicia color avorio, lei con il foulard colorato. Non li rivedemmo più.
“Gli oggetti hanno dentro
lacrime” dice l'Enea di Virgilio. Quali lacrime sono nascoste dentro queste
pagine?
Testamento di una donna
giustiziata all’età di 24 anni.
Ciao, la vita è
meravigliosa. L'ho amata anch'io, come altri. Ma viene il momento di dire addio
alla vita. Per me quel momento è giunto e mi sento pronta. Non faccio nessun
lascito; voglio solo dire che le bellezze della vita non si dimenticano mai.
Chi vive dovrebbe cercare di trarre il meglio dalla vita. Cari papà e mamma,
avete fatto molti sacrifici per me. Fino all'ultimo momento non dimenticherò le
mani callose di mio padre e il volto sciupato dal lavoro di mia madre. So che
avete fatto tutto il possibile per me. Ma viene il momento della separazione.
E' inevitabile. Vi amo con tutta me stessa, e vi bacio anche se qui non posso
vedervi. Salutatemi le sorelle e i fratelli e dategli un bacio e tutto il mio
affetto. Non soffrite per me quando non ci sarò più, e abbiate cura di voi.
Cercate di continuare a vivere con l'amore e la tenerezza di sempre. Salutate
chi vi chiede di me.
Mio caro marito, la mia vita
è stata breve, e ancor più breve la nostra vita insieme. Avrei voluto vivere
più a lungo con te. Ma ormai non è più possibile. Ti stringo la mano, insieme a
tutti quelli che ho amato, amo, e amerò. Addio.!
Mentre scrivo di quegli anni, mi torna alla
mente mio padre quando leggeva dal Libro dei Re i brani sulla conquista
dell'Impero persiano da parte dell'esercito arabo nel settimo secolo. Il
guerriero Rostam, figlio del re sasanide Hormizd, tiene un discorso molto
toccante, in cui predice l'esito della battaglia di Qadisiyya. Chi dice che il presente non è già scritto
nel nostro passato? domandava mio padre. Trascrivo alcuni passaggi, che
ancora ricordo, tra quelli da lui sottolineati: Ma quando il pulpito e il trono uguali saranno e Abu Bakr e Omar fama
avranno il nostro lungo patire a nulla servirà e tutta la nostra gloria
svanirà... Gli uomini senza onta ruberanno. Bestemmie e benedizioni uguali
diverranno. Ciò che è nascosto sarà peggio di ciò che tutti sanno e re dal
cuore di pietra sul trono saliranno... Addio piaceri, musica, e bellezze: solo
bugie, trappole e nefandezze. Latte acido berremo, tela ruvida vestiremo, la
brama di denaro seguiremo.». Gli uomini tra loro si tradiranno, mentre di avere
fede fingeranno. Inverno e primavera inosservati passeranno, per festeggiare il
vino nessuno porterà e il sangue del fratello a fiumi scorrerà.
Mio padre se ne va
Un rapporto, quando è
finito, ci tiene intrappolati in uno stato di immaturità permanente; per
crescere dobbiamo uscirne, passare alla fase successiva.
Ogni
volta che aveva deciso di andarsene, scrive nei diari, qualcosa lo aveva
trattenuto. All'inizio il pensiero di noi bambini, ancora troppo piccoli;
divenuto un uomo pubblico, non se la sentì di abbandonare la donna che gli era
stata accanto negli anni più difficili; quand'era in prigione non era il
momento per divorziare. Infine, uscito dal carcere, gli sembrò una cosa ingrata
lasciarla dopo che aveva sofferto tanto anche lei. Prima della rivoluzione,
divorziare da mia madre avrebbe significato isolarsi dall'ambiente sociale a
cui entrambi appartenevano, e che per mio padre contava molto.
Per
trent'anni avevo solidarizzato con la causa di mio padre, sperando che un
giorno potesse avere una vita felice accanto a una donna che lo stimava. Non
avevo mai pensato a mia madre, a cosa le sarebbe successo.
Ma adesso che era rimasta
sola, provavo per lei qualcosa che non avevo mai provato.
Mi
permise di notare un aspetto di mia madre che avevo colto raramente. «Tu non sai apprezzare l'onestà di tua madre».
E' sempre stata trascurata, o
imbrogliata da tutti, fin da quando era piccola.
Tua madre mi fa tenerezza.
Improvvisamente mia madre fu completamente sola. Adesso non aveva più neanche
quell'uomo che per anni le era stato padre, amico, consigliere, non aveva nessuno
a occuparsi di lei. Era rimasta sola, con il suo orgoglio e la sua rabbia e un
profondo senso di ingiustizia. Noi figli l'avevamo mai difesa? Avevamo mai
solidarizzato con lei?
Nel gennaio del 1984, nacque
mia figlia. La sdraiai
sul mio letto dopo averla allattata, e mentre mi guardava con un'espressione a
metà tra il serio e il malizioso mi resi
conto di quanto mi fosse preziosa, perché aprendomi a lei riuscivo ad aprirmi
anche a me stessa. Non sono poi così cattiva, mi dissi, se questa meravigliosa
creatura si affida a me e mi vuole tanto bene! Quando nacque mio figlio, il
15 settembre 1985, a Teheran erano ripresi i bombardamenti. Avevo passato tutta
la gravidanza con la paura che potesse succedere qualcosa al mio bambino.
Giravano voci di bambini nati paralizzati a causa dell'eccessiva ansia delle
madri durante la gravidanza. Così divenni
ansiosa riguardo alla mia ansia. Di notte, quando c'era l'oscuramento, stavo alzata a leggere al lume di candela,
con una mano sulla pancia, come per impedire al mio bambino di vedere o sentire
quello che succedeva fuori. Una notte non riuscivo a respirare, e temetti
di avere un attacco cardiaco. Anziché chiedere aiuto a mio marito, che dormiva
lì accanto a me, sentii il bisogno di andare da mia madre. Lei chiamò subito un
cardiochirurgo suo lontano parente, e gli spiegò i miei sintomi. «Su da brava
che andrà tutto bene» mi disse poi sedendosi accanto a me e massaggiandomi la
schiena. «Adesso prendi questa pillola... stai tranquilla, non fa male al
bambino, e ti sentirai subito bene». «Mamma, e se questo bambino ha qualcosa...
se magari è morto?» le chiesi. Lei mi guardò sorridendo. «Non succede niente al bambino se la mamma sta bene. Quindi adesso pensa
solo a stare bene». Quella notte mi fece dormire nel suo letto, mentre lei
dormì sul materassino ai piedi del letto. La nascita di Darà pose fine a tutte
le mie paure.
La
guerra continuò per altri tre anni con incessanti bombardamenti, soprattutto
nell'ultimo anno, quando molti decisero di andarsene.
Nemmeno
una volta provai, sotto i bombardamenti, l'angoscia e la paura provate in
gravidanza. Contrariamente ai miei tragici presentimenti, Darà non solo era
perfettamente sano ma anche tranquillo e pacifico.
Che bravo bambino! Quando non aveva ancora due
anni, ogni volta che guardava un libro illustrato voleva entrarci dentro, per
prendere qualcosa dalla pagina, in particolare la luna. Quando vedeva la luna,
ci puntava sopra il ditino e non mi lasciava voltare la pagina. I miei figli
non sono molto cambiati: Negar è sempre curiosa di tutto, e Darà vuole ancora
prendere la luna.
I nostri sogni possono
trasformarsi in vere e proprie ossessioni alle quali finiamo per sacrificare
quel senso di dignità e integrità a cui prima anelavamo.
Mio padre era molto presente. Ci chiamava quasi ogni giorno e nei
week-end veniva spesso al parco con i bambini. Quando Negar compì tre anni
ricevette in regalo da mio padre un canarino; una mattina lo trovò morto dentro
la gabbia e non smise di piangere per tutto il giorno. Allora mio padre la
portò in giardino e lì seppellirono il canarino sotto un cespuglio di rose; poi
le promise di regalargliene un altro. Quella notte Negar venne a svegliarmi e
mi disse: «Non lo voglio un altro canarino e nemmeno un altro animale, perché
poi muoiono!
Darà è un bambino molto
pacifico, che regala a tutti i suoi giocattoli, ma ogni tanto si fissa su una
cosa: un pallone, un paio di stivaletti rossi, la pipa del papà, la luna, e la
vuole a tutti i costi.
Tutti abbiamo sofferto, abbiamo
conosciuto momenti difficili e momenti buoni, ma non abbiamo mai voltato le
spalle al nostro paese. Questo regime può toglierci le nostre proprietà, ma non
la nostra cultura, e la nostra fede!
Gli eventi si succedevano
sconnesso, ed era fondamentale aggrapparsi alla continuità, alla routine. Nel 1987 ripresi a insegnare.
Gli ultimi due mesi prima
del trattato di pace, l'Iraq intensificò i bombardamenti, soprattutto a
Teheran, arrivando fino a sei attacchi missilistici al giorno. La gente si
arrangiava come poteva, c'era chi si costruiva un rifugio nel seminterrato, e
chi faceva finta di niente, come se fosse tutto normale. Ricordo i blackout,
gli amici e i parenti venuti in visita che si fermavano a dormire in una stanza
se non potevano tornare a casa; ricordo le coperte fissate alle finestre con il
cerotto per trattenere i vetri rotti, gli allarmi delle sirene, di solito
quando l'attacco era finito. Sembrerà strano, ma a volte c'era quasi un'aria di
festa; tra un blackout e l'altro, gli amici e i vicini si radunavano a bere
vodka di contrabbando o vino fatto in casa, o a guardare un film, cercando di
rinfrancarsi e di darsi sicurezza. Finalmente, un bel giorno, i bombardamenti
cessarono, cessarono le sirene, i blackout, e le candele vennero riposte nei cassetti.
Però la paura era rimasta; c'era qualcosa di sospetto in quel senso di
sicurezza ritrovato. Il silenzio che la pace aveva riportato era pesante come
quello dopo i bombardamenti. La guerra era durata otto anni e aveva fatto quasi
un milione di vittime. La guerra finì il 20 agosto 1988. E adesso?
Cosa
sarebbe successo? A questo punto ci sentivamo tutti profondamente disillusi: la
rivoluzione non si era mai realizzata, i suoi leader corrotti non avevano
portato né libertà né benessere al paese, e la guerra era persa. Il trattato di
pace con l'Iraq aveva distrutto le speranze di chi aveva sinceramente creduto
nella vittoria del regime islamico. A sentirsi traditi non furono tanto i
laici, ma quelli che avevano partecipato alla Rivoluzione. Di chi era la colpa?
Non si poteva più dare agli imperialisti e ai loro agenti che volevano
modernizzare il paese. Eppure, dopo la delusione, rinacque la fiducia. Tra gli
ex rivoluzionari si cominciò ad aprirsi a nuove idee, ad abbracciare teorie
prima considerate eretiche, a citare Popper e Spinoza, criticando le dottrine
religiose più regressive, e avvicinandosi alla laicità. E prese corpo quello
che fu poi denominato «il movimento religioso riformista. Alcuni intellettuali
laici si interrogarono sulla loro rigidità ideologica, aprendosi al dialogo e
al confronto.
Pubblicarono alcuni scritti
di intellettuali laici, tra cui dei miei articoli sul modernismo, il
formalismo, e su Vladimir Nabokov; pubblicarono anche molte opere di pensatori
liberali dell'Occidente.
Stilai una lista di tutte le
cose per cui dovevamo ringraziare la Repubblica islamica: la sensazione del
sole e del vento fra i capelli e sulla pelle, la libertà di leggere Virginia
Woolf o Forugh Farrokhzad, la gioia di camminare per strada con un vestito
estivo a fiori, ascoltando la musica. Cose mai apprezzate fino in fondo, che
non avremmo più dato per scontate. Ma non solo.
Se la chioma di una donna,
un film di Fellini o di Bahram Beizal, un libro della Farrokhzad, erano
ritenuti a tal punto destabilizzanti da essere vietati, questo dimostrava da un
lato la loro forza e dall'altro la fragilità e l'insicurezza del regime. Paradossalmente
dovevamo ringraziare il regime anche per aver disilluso i giovani del nostro
paese e i vecchi rivoluzionari, e per il fatto che le barriere ideologiche tra
Est e Ovest stessero crollando.
Furono avvalorati gli
scritti di Hannah Arendt per illustrare la Repubblica islamica.
Mi spiegò il suo nuovo modo
di vedere le cose: «L'arte, creando molteplici prospettive, ci permette di
vivere molte vite, anziché una sola.
Ogni volta che penso a
queste sue parole ringrazio la Repubblica islamica dell'Iran perché privandoci
del piacere dell'immaginazione, dell'amore, e della cultura ci aveva spinto a
cercare proprio quelle cose.
Mio
padre, come faceva quando ero piccola, continuò a fermarsi ogni volta che
vedeva un particolare fiore selvatico. Fu un viaggio spensierato e triste allo
stesso tempo. Spensierato perché la guerra era finita, e triste perché ci
ricordava i bei tempi prima della rivoluzione.
Scrive
nel suo ultimo diario, qualche mese prima di morire: «Se accetti la realtà così com'è, farai meno errori. Tu
scambi i tuoi sogni e i tuoi
desideri con la realtà e poi ti senti delusa: è questo il tuo problema».
Parole, queste, che avrebbe potuto rivolgere a se stesso.
Nella
vita privata come in politica o si accettano le regole o ci si ribella
apertamente, e in entrambi i casi c'è sempre un prezzo da pagare. Mio padre non
scelse nessuna delle due possibilità, e alla fine pagò un prezzo doppio: non
assaporò né le comodità di una vita convenzionale né la soddisfazione che si
prova nell'uscire dai canoni. Nei suoi diari emerge questo continuo oscillare
tra il desiderio di andarsene, di vivere la vita che sognava, e la paura di cosa
sarebbe successo se lo avesse fatto.
A volte ero contenta di
vivere così vicino a mia madre.
Quando Darà e Negar erano piccoli spesso gli raccontava delle storie prima del
sonnellino pomeridiano. Stendeva sul pavimento una grande coperta, con tre
cuscini, e si sdraiavano sopra tutti e tre. Quando passavo davanti alla loro
stanza, attraverso lo spiraglio della porta vedevo Negar supina, gli occhi fissi al soffitto, che ascoltava
con quell'aria assente dei bambini quando sono in un altro mondo, fuori dalla
realtà. Darà, come sempre, cercava di afferrare le cose che vedeva sul libro
illustrato.
Faceva sempre in modo di
perdere e per premio dava ai bambini qualche monetina e dei cioccolatini. Quando
tornavo dalla casa di amici o da qualche riunione, li trovavo seduti attorno al
tavolo di cucina che ridevano allegramente. Faceva loro molti doni, - di solito
un piccolo gioiello per Negar, e un giocattolo per Darà; faceva per loro calze
dai colori vivaci, oppure sciarpe, e ogni mattina saliva a metà scala e li chiamava:
«Scendete che andiamo a dar da mangiare agli uccellini!
Quando nel 1997 ci
trasferimmo negli Stati Uniti, ogni volta che la chiamavo, mi diceva commossa:
«Di' loro che ci penso io agli uccellini!». Voleva un gran bene a tutti e due.
A
volte saliva da noi mentre non c'eravamo per prendere i loro «giocattoli buoni»
e nasconderli così non li avrebbero rotti. Mentre
lo scrivo, mi sorprende ancora quanto fossero estranei a mia madre i concetti
del gioco e del piacere; quasi fossero una minaccia, portatori inevitabilmente
di perdita o dolore.
Si fidava di chi le dava
ragione. Io e mio fratello siamo stati bravi a contrastare questo suo
atteggiamento, anche se a volte ci è costato caro.
«Tua
madre è un tipo davvero strano» cominciò, andando a prendere l'album delle
fotografie. «Ti accusa dei misfatti più orrendi, non si fa più sentire, e dopo
qualche settimana si aspetta che tu faccia finta di niente. A volte penso che
si diverta a fare scenate e a scaldare gli animi. Il guaio è che passa da un
estremo all'altro. Prima ti ricopre di premure e attenzioni che non sai come
ricambiare, e di punto in bianco diventa dispotica e piena di pretese.»
«Non ritrovò più la sua vitalità». Privazione di amore, così l'aveva definita
la mia studentessa. Forse era questa la malattia di mia madre. «Quell'uomo era un dio per lei, e nessun
uomo si merita tanto! Spero tu abbia imparato qualcosa da tua madre.
Tutti l'avevano dimenticata,
era questa l'unica cosa che riuscii a scoprire. Una volta un amico mi chiese
perché la verità fosse così importante per me. «La verità» mi disse «non dà
conforto. Non quanto mentire, o dimenticare.
Mia
madre non fece niente per riallacciare la vecchia amicizia con la sorella, e la
ignorò anche quando stava morendo. Mia madre diceva spesso e con nerezza di
«esserci sempre» per gli amici o i parenti nei momenti di dolore.
Affrontare il mondo
Mia
madre aveva sempre avuto a disposizione mio padre come un intermediario tra lei
e il mondo. Per qualsiasi problema pretendeva il suo intervento immediato. Per
una donna che aveva fatto dell'indipendenza la sua bandiera, il bisogno di
sentirsi difesa e protetta fu lasciato a mio padre, e il compito, quando lui se
ne andò, passò a noi.
«Spero
di non dover mai dipendere da nessuno!» disse. E quando provai a insistere, mi
rispose in tono gelido e altezzoso: «Non ti devi disturbare, sono perfettamente
in grado di badare a me stessa, come ho sempre fatto per tutta la vita. E' il
mio destino!».
La carità verso il prossimo.
Ero
diventata una critica letteraria affermata nel mio paese. Per quasi vent'anni,
dagli inizi degli anni Ottanta fino alla mia partenza per gli Stati Uniti, avevo studiato la letteratura persiana e
scritto saggi e articoli. Avevo fatto mio il metodo di mio padre, che a partire
dal Libro dei Re e dai classici persiani mi aveva spiegato il mio paese; avevo
cercato di indagare attraverso la narrativa e la poesia contemporanea il nostro
modo di rapportarci alla realtà, di comprendere come la nostra storia sociale e
politica si trasferisse sul piano della finzione. A un certo punto però mi
resi conto che fare critica letteraria non era sufficiente. Era facile - dato
il clima politico - scrivere bei saggi accademici e venire apprezzati dai
colleghi. Ma era la forma che non andava; quella sobrietà era artificiosa,
toglieva forza alle idee e smorzava la verità.
Quando cominciai a scrivere
di Nabokov, non fu solo per l'entusiasmo dei miei studenti, ma anche perché
condividevo molte sue idee e ossessioni: l'esilio, la fede incrollabile nel
mondo dell'immaginazione e nel potere sovversivo della letteratura, che è in
grado di trasformare l'angoscia in qualcosa di meraviglioso e di duraturo.
Alcuni studenti di altre
università cominciarono a presentarsi alle mie lezioni e io non obiettai,
perché c'era poco spazio in quel momento a Teheran per un dibattito aperto
sulla letteratura. Come avrei potuto dire di no a chi aveva voglia di dedicare
il suo tempo libero a parlare di Tom Jones o di Cime tempestose? Ma il preside
della facoltà non fu altrettanto magnanimo e non solo decise di escludere gli
studenti esterni, ma anche che da quel momento, chiunque volesse parlare con me
doveva prima richiedere la sua autorizzazione. Ogni giorno saltavano fuori nuove regole,
nuove restrizioni. Dopo avermi corteggiato, adesso volevano limitare le mie
attività. A un certo punto mi accorsi che passavo più tempo a battagliare che a
fare l'insegnante, e così diedi le dimissioni. Ma per due anni queste non
vennero accettate: chi credevo di essere io, per dare le dimissioni?
Nei
due anni seguenti tenni un corso privato a un gruppetto composto da sette tra
le mie studentesse preferite, oltre a uno studente a cui non potei negare il
diritto di partecipare.
Per
mesi io e mio marito parlammo del nostro futuro, del futuro dei nostri figli, e
di come aiutare il paese, - argomenti di grande dibattito fra molti amici e
parenti. Io volevo dare ai miei figli le stesse opportunità di conoscere il
mondo e di decidere che avevamo avuto noi, e volevo anche poter continuare a
scrivere e a insegnare, perché era di vitale importanza per me.
Io apprezzavo quegli atti di
insubordinazione, ma con qualche riserva, perché se da un lato rappresentavano
una forma di disobbedienza, dall'altro implicavano un silenzioso assenso. Non è
sufficiente disubbidire alle regole, bisogna
poterlo fare apertamente,
perché è un nostro diritto.
«Mia madre ci vietava di fare molte cose,» spiegavo «e noi le facevamo lo
stesso. Eravamo convinti di essere nel giusto, e non ci sentivamo in colpa a
mentire perché lei era dispotica. Questo giustificava le nostre bugie? E un
male interno alla nostra società, le vittime finiscono per diventare complici.
Questa abitudine di fingere
di cedere al regime aveva creato un certo lassismo, una forma di pigrizia
morale in tutti noi. Lo
notavo per esempio quando un uomo,
riferendosi al velo, diceva in tono beffardo: «Quanto chiasso per un pezzetto
di stoffa!». Non capiva che, in primo luogo, il velo era carico di significato
spirituale per molti uomini e donne, ma che soprattutto, indipendentemente
dalla mia opinione, era in gioco la libertà di scegliere. Nessun regime,
nessuna autorità aveva il diritto di dire a una donna come rapportarsi, o non
rapportarsi, con Dio.
Io
me ne andai di casa a soli diciotto anni, così va il mondo. Devi pensare alla
tua vita, a te stessa». Anche lui per un po' aveva pensato di andarsene,
diceva. Quando finalmente prendemmo la decisione di partire, la mattina andai
da mia madre.
In
quale università sei stata accettata?» mi chiedeva con orgoglio davanti agli amici.
Alla Johns Hopkins.
Tra due anni tornerete,
no?». «Sì, mamma» le rispondevo disperata. Una volta scoppiai in lacrime.
«Perché piangi?» mi disse. «La mia povera Azi, sempre in giro per il mondo,
senza una vera casa!»
La
partenza si avvicinava e io cercavo di stare il più possibile con mia madre.
Passavamo
ore sedute nel suo soggiorno, a raccontare. Giravo per la stanza guardando le
fotografie e le facevo un sacco di domande. La portafinestra era aperta e si
sentivano Darà e Negar fuori sul balcone che ridevano mentre facevano dei
giochi con le parole. Ogni tanto uno diceva qualcosa di particolarmente
strampalato e allora scoppiavano a ridere e non smettevano più.
«Negar, Darà!» li chiamò ad
un tratto lei entrando con un vassoio. «Vi ho portato il caffè e
cioccolatini!». Mamma, stavo per dirle, non dargli il caffè, sono ancora troppo
piccoli! Ma sapevo che lei avrebbe detto: Tu sei l'ultima persona che può dirmi
cosa fa bene e cosa fa male ai bambini! Ultimamente ero come ossessionata dal
suo passato. Volevo poterla conoscere meglio, capire perché l'avevamo sempre
sentita così distante da noi, eppure così vicina e vulnerabile. Facevo fatica a
comunicare con lei, a parlarle. Non trovavo mai le parole giuste. Non riuscivo
a dirle: Mamma, capisco perché ti senti così, e ti sono grata per essere venuta
con me a Lancaster, ma voglio bene anche a papà. Non ce la facevo a dirle che
volevo sentirmi amata da lei, volevo farmi accarezzare. Mamma, cos'è veramente
che vuoi?, avrei voluto chiederle. Ma furono tante le cose che non ci dicemmo
mai. Gli ultimi mesi
prima di lasciare Teheran furono pieni di nostalgia, come se il presente fosse
già scivolato nel passato. Mentre mia madre arrivava con il caffè, notai sul
comodino due libri presi dalla mia biblioteca. Erano due libri d'infanzia tra i
miei preferiti. Uno, Désirée, un regalo di Layla per il mio compleanno, l'avevo
letto una decina di volte, tanto mi piaceva.
Scritto in forma di diario, era la versione
romanzata della vita di Bernardine Eugénie Désirée Clary. Le confidai il mio progetto di scrivere un libro e dedicarlo a lei.
«Quale sarà il titolo?» mi chiese.
Shameless Women». «E secondo
te dovrebbe piacermi un libro con un simile titolo, che parla di donne senza
vergogna?». «Be', ecco, si riferisce a una cosa che dicevate spesso tu e zia
Mina. E cioè che tanti temevano che le donne imparando a leggere e a scrivere
sarebbero diventate smaliziate, non avrebbero più avuto vergogna di niente,
nemmeno di scrivere le lettere d'amore ai loro innamorati. Voglio scrivere della
paura che incutono donne istruite, ancora comune a tanti.
Voglio
raccontare le donne come te, e tante altre che hanno lottato per poter
studiare. Voglio scrivere di loro, e anche delle eroine della nostra
letteratura.
Non le dissi che volevo
anche scrivere di donne come Rudabeh, Vis, Forugh, e Alam Taj, che avevano
avuto il coraggio di esprimere anche la loro sensualità. Pensavo anche di chiederle se c'era
un'incompatibilità tra l'essere una donna istruita, per esempio un medico, e
una donna che amava danzare. Ma non lo feci, perché intanto lei stava seguendo
i suoi pensieri. «Ho sempre desiderato
che tu studiassi, così da renderti utile al tuo paese, e ci sono riuscita. Ma
per far questo ho dovuto insegnarvi la disciplina, e questo mi è costato, perché
i figli preferiscono il genitore più indulgente». Avrei dovuto dirle: Sì, è
vero, e se sono arrivata fino a qui, lo devo a te.
Hai voluto che almeno io
riuscissi a realizzare i tuoi sogni. Avrei dovuto ammetterlo in quel momento,
ma ormai era troppo tardi. Quanto desideravo che il nostro rapporto potesse
restare così, com'era in quel momento! Ma già dal giorno dopo riprendemmo a
litigare.
Sono felice che tu possa
fare quello che vuoi. Questo è il mio contributo. Non ho più soldi da lasciare
ai miei figli, però sono felice di potervi lasciare qualcosa che nessuno potrà
mai portarvi via.
Ma di quell'addio m'è
rimasto solo il ricordo della sua espressione amareggiata e ferita. Mentre la
macchina si allontanava provai a immaginarla diversamente, come facevo spesso
da piccola: chiusi gli occhi, la immaginai diversa, poi riaprii gli occhi e la
guardai di nuovo.
Mi parve sola e vulnerabile
e provai pena per lei, che adesso non aveva più niente da perdere e da poter
dare.
In
quel lungo momento prima di salutarlo temetti che non l'avrei più rivisto. Mio padre mi aveva regalato qualcosa che
avrei portato sempre con me: tutte le storie che mi aveva raccontato. Ma,
paradossalmente, avevo finito col diventare quello che mia madre aveva sempre
desiderato per me, oltre che per lei: una donna felice della sua famiglia e del
suo lavoro.
Le persone dovrebbero essere
viste e amate così come sono, nel bene e nel male.
Di mio padre riuscivamo a
cogliere le qualità e insieme i difetti, e quindi a volergli bene ma anche ad arrabbiarci
con lui, mentre con mia madre questo non era possibile. Era come se lei,
guardandosi allo specchio, vedesse un vuoto. Così ripiegava su di noi, sperando
disperatamente che noi le restituissimo quell'immagine che lei non riusciva a
vedere. A volte, guardandomi allo specchio, vedevo il viso di mia madre. Non avevo mai pensato di somigliare a
lei, e quando qualcuno me lo diceva lo negavo quasi con rabbia: Io somiglio a
mio padre! Eppure col passare degli anni me lo sentivo dire sempre più spesso,
anche da mia figlia, che a detta degli amici somiglia a me. Non erano solo la
carnagione o gli occhi a mandorla che avevo preso da mia madre, era qualcosa di
molto più profondo, - un'espressione seria, quasi spettrale, come se un'ombra
mi fosse passata sul viso.
Mia madre non aveva mai
dimenticato quel primo ballo, così come non aveva mai dimenticato lui.
L’ultimo ballo
Mia
madre morì il 2 gennaio 2003
Come potevo ringraziarla, e
cosa potevo dire di lei in tutta sincerità?
Passavo lunghe ore seduta
sul letto, a guardare con la lente di ingrandimento le fotografie di mia madre.
E' così che ci piomba addosso il passato, come una coltellata alla schiena.
Arriva in tanti frammenti che non riusciamo più a ricomporre.
Subito
dopo la nostra partenza dimenticò il rancore e l'amarezza, e al telefono mi diceva un sacco di cose
affettuose, che non mi aveva mai detto quando vivevamo insieme. «Anche se mi
sento sola,» mi diceva «e mi mancano tanto i miei figli e i miei nipoti, sono
orgogliosa di avere due figli in gamba e onesti!»
Ti
ho sentita alla radio l'altra sera!» diceva con entusiasmo dopo una mia
intervista alla BBC, poi, abbassando la voce, aggiungeva in tono d'intesa: «Le
tue parole le hanno sentite tutti, capisci?». «Sì, mamma». «Ricordati di dire sempre la verità! Ai miei figli ho insegnato a non
dire mai, mai, bugie!». «Presto avrò altre notizie da darti... ti ricordi di
quella persona?». «Sì, certo» ed ero sicura che, se qualcuno ci stava
ascoltando, avrebbe sicuramente capito che «quella persona» era il regime. «Sai
di chi sto parlando, vero?».
«Sì, mamma». «Bene, quella persona è molto
malata, molto, molto malata!». «Davvero?». «Sì, i miei amici dicono che non ci
sono più speranze!». «Come
stanno i bambini?» mi chiedeva poi cambiando di colpo tono.
«Dì loro che do sempre da mangiare agli
uccellini!». E poi concludeva sempre così: «Cosa devo mandarvi? Le noci? Vi
serve qualcosa? Non fatelo piangere quel povero bambino, è così solo... nessuno
di voi lo apprezza veramente... io mi sento sola, ma sono orgogliosa di avere
due figli così istruiti e con dei sani princìpi. Tu hai sempre tenuto duro, e
questo mi rende felice». «Per favore mamma, mandami le ciliegie secche!». «E
anche le noci?». «Sì, anche le noci!». Quando la chiamai l'ultima volta, mi
sembrò più debole, ma così felice di sentirmi. «Azi, sei tu?». «Sì, mamma, sono
io. Ci manchi molto, mamma! Mamma, ti devo ringraziare per tante cose... per
essere venuta con me a Lancaster, per avermi vegliato tante notti...» ma non
sembrava ascoltarmi. «Cosa devo mandarvi? Ne avete ancora di noci?» mi chiese.
«Sì, mamma, sì... ti prego mamma...». Volevo dirle: Mamma ti prego, non morire!
Ma la linea si interruppe.
Doveva essersi sentita così sola, e adesso non aveva più bisogno di noi. Il
giorno che seppi della sua morte nevicava. Ero sola in casa e aspettavo
un'amica che doveva passare a prendermi per andare all'università, quando il
telefono squillò. Poi riappesi, e restai lì senza fare niente. Avevo immaginato
la sua morte per tutti quei mesi, e adesso non riuscivo ad accettarla. Non ci
consola pensare che tutti dobbiamo morire, diceva Désirée, l'eroina del mio
libro d'infanzia preferito. Anche mio padre presto morirà, pensai.
Perché non prestiamo più attenzione
a coloro che amiamo? Perché non gli chiediamo della loro infanzia, dei loro
sogni? E perché non insistiamo per incontrarli e farli raccontare anche quando
dicono di essere troppo stanchi? Perché non conserviamo ogni loro fotografia,
non prendiamo appunti, perché non chiediamo a chi c'era prima di noi e sa cose
che noi non sappiamo? Non so perché, ma avevo paura di dire agli altri che mia
madre era morta. Non
volevo chiamare mio fratello a Londra e neppure dirlo a mio marito e ai miei
figli. C'erano delle cose che dovevo sapere prima di poter accettare la sua
morte. C'erano i fantasmi di quella vita passata che si era costruita, e della
cui perdita ci aveva in qualche modo fatti responsabili. Era inevitabile che
adesso uscissero allo scoperto, ognuno con la sua storia.»
Tutto si sistemerà, la
tranquillizzavano, come hai sempre detto tu. Fino alla fine si era rifiutata di
accettare tutto quello che non le piaceva.
I pericoli dell’amore
Quando
lasciammo Teheran, cercai di trattenere l'immagine di mio padre all'aeroporto
che ci guardava partire. Non lo vedrò più, avevo pensato.
In America non lo chiamavo
quasi mai, anche se mi mancava; era sempre lui a farsi vivo, o a lasciare un
messaggio sulla segreteria telefonica, e capivo dal suo tono che si sentiva
ferito. «Volevo solo sentire la tua voce» diceva. «Oggi è il compleanno di
Negar!». «Ti sento spesso alla BBC ma non riesco mai a parlarti per telefono!».
Ho sentito del tuo libro» mi lasciò detto sulla segreteria telefonica. «La
gente mi chiede, ma non so cosa rispondere. A quanto pare tuo padre è l'ultimo
a sapere le cose». Mi spezzava il cuore sentirlo, ma ancora non sapevo bene
cosa dire. Ogni tanto lo richiamavo nel suo ufficio, e appena sentivo la sua
voce capivo quanto mi mancava e ci mettevamo a parlare a lungo e alla fine gli
promettevo di scrivergli, e di mandargli qualche recensione sul mio libro.
Allora lo chiamavo. «Sei davvero felice?» gli chiedevo con una certa ansia. Lo
rividi per l'ultima volta a Londra nell'estate del 2003.
Quando lo vidi, mio padre,
pur sempre elegante e azzimato, mi sembrò fragile e vulnerabile, e
nell'abbracciarci scoppiamo tutti e due in lacrime.
Continuava a ripetermi di
essere felice, ma io non ero convinta, sembrava così inquieto.
Tua madre era una brava
donna, per questo è stato così difficile lasciarla. Ho cercato in tutti i modi,
ma non c'è stato niente da fare. Tutto quello che per lei era importante era
già successo prima del nostro incontro.
Ciao papà! Sono Azi». «Oh
Azi! Stavo giusto leggendo il tuo libro! Sono arrivato a pagina
centocinquanta!». Poi mi disse che stava meglio, che presto sarebbe tornato a
casa. «Ci vediamo presto!» furono le sue ultime parole.
Due
giorni dopo mio padre aveva avuto un infarto. Per tutta la vita avevo avuto
paura di perdere mio padre, avevo sempre desiderato che vivesse per sempre, e
adesso mi sembrava che quel mio desiderio potesse in qualche modo fare una
magia e salvarlo dalla morte.
In una pagina del suo ultimo
diario scrive dei vuoti di memoria.
Tutti
mi dicono che non devo incolpare me se non c'ero quando morirono i miei
genitori, ma la situazione politica del mio paese; tuttavia questo non mi
consola affatto.
Le disgrazie altrui non
consolano, questo l'ho imparato bene durante la rivoluzione. Il dolore e la
perdita, come la gioia e l'amore, sono unici e personali, e non si attenuano
paragonandoli a quelli degli altri.
Io e mio fratello pregammo
affinché l’ultima donna di nostro padre ci consegnasse una copia delle poesie
di nostro padre, perché non le avevamo tutte, soprattutto quelle dedicate a
nostra madre, e anche alcuni suoi quadri, tra questi c'erano i ritratti di mia
madre, di mio fratello e miei, che gli erano stati restituiti dopo la morte di
mia madre. Lei quando la incontrammo ci rassicurò che ce le avrebbe inviate.
Non fu così. Ci inviò presto due sue cravatte. La meschinità del suo
comportamento troncò per sempre il nostro già debole legame.
Mio padre mi aveva insegnato
a rifugiarmi in quell'altro mondo che nessuno poteva portarmi via. Durante la
Rivoluzione avevo capito quanto fosse fragile la nostra esistenza, e con quanta
facilità tutto ciò che chiamiamo casa, che ci dà un senso di identità e di
appartenenza, può esserci portato via. E ho capito che quello che mio padre mi
aveva insegnato con l'immaginazione era un modo per costruirmi una casa oltre i
confini geografici e le nazionalità, che nessuno potrà mai portarmi via. Quelle
storie non hanno potuto ripagarmi o consolarmi della perdita dei miei genitori;
ho però una casa che posso portare ovunque con me, una casa dove posso
conservare la memoria e resistere alla tirannia degli uomini e del tempo.