metaphysique du bonheur réel
metafisica della felicitÀ reale
Alain
Badiou
Internazionalmente
riconosciuto come uno dei filosofi contemporanei più importanti.
frammento
di lettura
“Ogni felicità è una
vittoria contro la finitudine. Ogni felicità è un godimento finito
dell’infinito.”
Alain Badiou
Alain Badiou
Internazionalmente
riconosciuto come uno dei filosofi contemporanei più importanti.
Tra
i suoi libri più importanti :
L’
essere e l’evento (Il Melangolo, 199)
L’ipertraduzione
della Repubblica di Platone (Ponte
alle Grazie, 2013)
indice
p.
C A P I T O L O
P R I M O 5
C A P I T O L O S E C O N D O 13
C A P I T O L O T E R Z O
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C O N C L U S I O N E 31
b i b l i o g r a f i a 31
Che cos’è per il filosofo
francese Alain Badiou la felicità reale? Quell’effetto prodotto dalla verità nell’esperienza di ciascuno. Non la ricompensa della virtù, ma la virtù
stessa.
L’affetto della vera vita.
L’affetto della democrazia. Il
godimento di nuove forme di vita.
A tornare in questo libro sono i
grandi temi della ricerca di Alain Badiou sviluppati in libri importanti quali
L’essere e l’evento e riproposti in una chiave semplice e vitale.
Poeti: Mallarmé, Pessoa, Wallace
Stevens, Paul Celan.
L’amore
vero, del quale da sempre i moralisti e i prudenti osservano che le sofferenze
da esso indotte e la banale constatazione della sua fragilità spingono a
dubitare della sua vocazione alla felicità. Senza contare che alcuni
dei miei principali maestri, ad
esempio Descartes o Pascal, Hegel o
Kierkegaard, difficilmente possono passare per allegri . Davvero non si vede quale sia il rapporto
tra tutto questo e una vita tranquilla, l’abbondanza di piccole soddisfazioni
quotidiane, un lavoro interessante, un salario come si deve, una salute di
ferro, una coppia serena, vacanze delle quali conservare a lungo il ricordo,
amici simpatici, una casa ben fornita, una comoda automobile, un animale
domestico fedele, dei bambini deliziosi, che non danno problemi e vanno bene a
scuola, insomma con ciò che di solito e a ogni latitudine si intende per
«felicità».
Per dare legittimità a questo
paradosso potrei ripararmi dietro maestri, spesso considerati indiscutibili,
Platone e Spinoza per esempio.
Il primo, nella sua Repubblica,
fa di una lunga educazione matematica e dei costanti esercizi di logica dialettica una condizione
imperativa per qualunque accesso alle
verità. Dopodiché dimostra che solo colui che, abbandonando l’obbedienza alle opinioni dominanti, si affida unicamente
alle verità delle quali il suo pensiero «partecipa» (è la parola di Platone)
può raggiungere la felicità.
Il secondo, nell’Etica, comincia
con l’affermare che se non vi fosse stata la matematica, l’animale umano sarebbe rimasto per sempre
nell’ignoranza, la qual cosa significa che esso non si sarebbe aperto alcun
accesso alle «idee adeguate» (è il
lessico di Spinoza), di alcun tipo. Ma la partecipazione immanente
dell’intelletto umano a un’idea adeguata può avvenire secondo due regimi, che
Spinoza chiama conoscenza di «secondo genere» e di «terzo genere». La
conoscenza di secondo genere procede attraverso l’arduo cammino delle dimostrazioni, il quale chiama in causa la logica, mentre il terzo genere
procede attraverso un’«intuizione intellettuale»,
che è come la concentrazione in un punto di tutte le tappe di un ragionamento,
la cattura immediata, in Dio stesso, ovvero nel Tutto, di una verità per altri
versi deducibile. Spinoza chiama «virtù»
(forse Platone direbbe «giustizia») la condizione di un soggetto umano che
perviene alla conoscenza compiuta di una
idea adeguata, poiché è riuscito ad accedervi attraverso la conoscenza di terzo
genere. Infine, la felicità
(Spinoza utilizza la parola latina beatitudo, che è più forte) non è nient’altro
dall’esercizio del vero pensiero,
cioè la virtù:
«La
felicità non è la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa».
Detto altrimenti, la felicità è l’affetto del vero, il quale
non sarebbe esistito senza la matematica e non avrebbe potuto concentrarsi in
una intuizione se anzitutto non lo si fosse dimostrato. Di nuovo, matematica e logica formano insieme all’intuizione
intellettuale ciò che senza difficoltà potremmo chiamare una metafisica della
felicità.
Insomma, ogni filosofia, anche e
soprattutto quando si dispiega attraverso saperi
scientifici complessi, nuove opere
d’arte, politiche rivoluzionarie,
amori intensi, è una metafisica della felicità, altrimenti non
varrebbe un’ora di sforzo. Perché, infatti, imporre al pensiero e alla vita
le faticose prove della dimostrazione, della logica generale dei pensieri,
dell’intelligenza dei formalismi, dell’attenta lettura di poesie, del rischioso
impegno nelle manifestazioni di massa, degli amori privi di garanzia, se non fosse perché tutto questo è necessario
all’esistenza della vera vita? Quella che Rimbaud dice essere assente, e della quale noialtri filosofi
sosteniamo che essa ripugna a tutte le forme dello scetticismo, del cinismo,
del relativismo e della vana ironia del non-dupe e che, assente la vera vita, non può esserlo mai totalmente. Ciò che segue
è la mia versione di questa certezza, in quattro tempi.
Innanzitutto procedo a un
chiarimento generale di ciò che oggi può rappresentare il vantaggio della
filosofia, quando riesce a rispondere alle ingiunzioni della nostra epoca.
Detto altrimenti, chiarisco le ragioni per le quali un soggetto umano può (in realtà deve, ma questa è un’altra faccenda)
nutrire in sé un desiderio singolare, che semplicemente chiamo desiderio di
filosofia. Passando per l’analisi delle coazioni contemporanee mostrerò che
la filosofia è oggi in una situazione difensiva e che proprio per questo
abbiamo una ragione supplementare per sostenerne il desiderio. Traccerò così un abbozzo delle ragioni per
le quali tale supporto è in relazione alla possibilità di una felicità reale.
In un secondo tempo, per
chiarire ciò che ci spinge nella direzione di una tale felicità e del suo
legame col desiderio di filosofia, parlerò dell’anti-filosofia,
rappresentata da un’intera costellazione di scrittori brillanti, quali Pascal, Rousseau, Kierkegaard, Nietzsche,
Wittgenstein, Lacan. La mia tesi è che questi anti-filosofi, generalmente
scettici sulla possibilità di essere allo stesso tempo nel vero e nella
beatitudine, inclini all’idea del grande valore del sacrificio, persino
inutile, sono comunque necessari affinché il classicismo, che è il mio, non si
trasformi in accademismo, il quale è il principale
nemico della filosofia e dunque della felicità : l’affetto a partire dal quale riconoscere infallibilmente il discorso
accademico è infatti la noia. E sono loro, i grandi anti-filosofi, a
insegnarci che tutto ciò che possiede un
vero valore si ottiene non attraverso il sentiero degli usi ordinari e
l’assunzione delle idee dominanti, bensì attraverso l’effetto, esistenzialmente
provato, di una rottura con il corso del mondo.
Nel terzo capitolo, affronterò
di petto la domanda che l’uomo moderno al pari del marxista convinto sempre
rivolgono al filosofo: «A che servi te,
con i tuoi raziocini astratti? Te ne stai seduto nella tua camera, c’è poco da
interpretare il mondo ma da cambiarlo». A questo punto mi chiedo cosa
voglia dire «cambiare il mondo» e,
anche a supporre che si possa farlo, quali siano gli strumenti necessari.
Questo pezzo di analisi stabilirà che esiste un legame tra una risposta alla domanda «come cambiare il mondo?» e la
felicità reale. Un legame stabilito facendo valere il senso profondo delle
parole «mondo», «cambiare» e «come», impresa che tra l’altro dimostra come
nella faccenda presa in esame non vi sia niente che possa sconcertare o
invalidare la filosofia, ben al contrario.
Il quarto e ultimo tempo è più
soggettivo. Si tratta di fornire un esempio locale delle strategie e degli
affetti della filosofia: il momento in corso della mia scrittura, del mio
pensiero filosofico. Dunque ricapitolerò, senza perdere di vista il legame tra verità e felicità, le tappe
precedenti del mio lavoro, tra Teoria del Soggetto (1982) e Logiche dei mondi
(2006) passando per L’essere e l’evento (1988), e dunque l’operatività di
categorie fondamentali come l’essere-molteplice,
l’evento, le verità e il soggetto. Poi, indicherò i problemi ancora in sospeso,
singolarmente legati alla questione del «soggetto
di verità» colto nell’immanenza del suo atto, in un certo senso
dall’«interno», e dunque in ciò che costituisce la sua felicità singolare. Senza mascherare l’estrema difficoltà di ciò
che sarà il cuore del nuovo libro, L’immanenza delle verità, indicherò la pista
che intendo seguirvi e che in sostanza è quella di una nuova dialettica tra il
finito e l’infinito. La felicità può
esservi definita come l’esperienza affermativa di una interruzione della
finitudine.
In questo libretto si tratta di
sgomberare la strada perché lo stratega di filosofia possa dire a chiunque: «Ecco di che convincerti che pensare contro
le opinioni e al servizio delle verità, lungi dall’essere l’esercizio ingrato e
inutile che tu t’immagini, è la strada più breve per la vera vita, la quale,
quando esiste, si esprime attraverso una felicità priva di paragoni».
C A P I
T O L O P R I M O
Come molti lettori sanno,
Rimbaud utilizza una strana espressione, «le
rivolte logiche», che fu anche titolo di una bella rivista fondata da
Jacques Rancière. La filosofia è
qualcosa dello stesso ordine: una rivolta
logica. È la combinazione tra un
desiderio di rivoluzione — la felicità reale impone che ci si sollevi contro il
mondo per com’è e la dittatura delle opinioni prefissate — e un’esigenza di
razionalità — la pulsione in rivolta da sola non basta a raggiungere gli
obiettivi che si prefigge.
Il desiderio di filosofia è
appunto, in un modo estremamente generale, il desiderio di una rivoluzione nel pensiero e nella vita, tanto
collettiva che personale, e ciò in vista di una felicità reale distinta dalla
parvenza di felicità qual è la soddisfazione. La vera filosofia non è un
esercizio astratto. Da sempre, fin da Platone, essa si erige contro l’ingiustizia del mondo. Contro lo Stato miserabile del mondo e della
vita umana. Ma lo fa in un movimento che sempre protegge i diritti dell’argomentazione e che in ultima istanza
propone una nuova logica all’interno dello stesso movimento con il quale essa
libera il reale della felicità dal suo sembiante.
Mallarmé, dal canto suo, ci
propone questo aforisma: «Ogni pensiero
emette un lancio di dadi». Credo che questa formula enigmatica indichi
anche la filosofia. Il desiderio fondamentale della filosofia è quello di
pensare e realizzare l’universale, tra l’altro perché una felicità che non sia universale, che escluda la possibilità di
essere condivisa da qualunque altra persona capace di diventarne il soggetto,
non è una felicità reale. Ma tale desiderio non è il risultato di una
necessità. Esso esiste all’interno di un movimento che è sempre una scommessa,
un investimento arrischiato. E in questo investimento del pensiero la parte del
caso non è cancellabile.
È dunque dalla poesia che ricaviamo l’idea che vi sono
quattro dimensioni fondamentali del desiderio che caratterizzano la filosofia,
in quanto singolarmente orientata verso l’universalità della felicità: la
dimensione della rivolta, quella
della logica, quella dell’universalità e quella del rischio.
Non si tratta forse della formula basilare di un desiderio di
rivoluzione? Il rivoluzionario
desidera che il popolo si sollevi; che lo faccia in modo efficace e razionale e
non nella barbarie e la furia; che la sua sollevazione abbia un valore
internazionale, universale e non sia richiusa su una identità nazionale,
razziale o religiosa; infine il rivoluzionario assume il rischio, il caso, la
circostanza favorevole che spesso si dà solo una volta. Rivolta, logica,
universalità, rischio: sono le componenti del desiderio di rivoluzione, sono le
componenti del desiderio di filosofia.
Ebbene, io penso che il mondo
contemporaneo, il nostro mondo, talvolta chiamato il mondo «occidentale», eserciti una forte pressione negativa sulle
quattro dimensioni di un tale desiderio.
Anzitutto il nostro mondo è un mondo
in parte inappropriato alla rivolta,
o da essa non appropriabile. Non che non ve ne siano di rivolte, ma perché ciò che esso insegna o ha la pretesa di
insegnare, è di essere nella sua forma realizzata già un mondo libero, un mondo
nel quale la libertà è il valore organizzatore o un mondo tale per cui non
occorre volerne o auspicarne uno migliore (in un senso radicale). Dunque,
questo mondo dichiara di essere giunto, con delle imperfezioni (cosa che ci si
sforzerà di correggere), alla soglia
della propria liberazione interna, intima. E che insomma, in materia di
felicità, è il mondo dal quale potersi aspettare le migliori proposte e le
migliori garanzie. Ma poiché questo mondo
nello stesso tempo standardizza e commercializza le poste in gioco di tale
libertà, la libertà che esso propone
è una libertà di cattività, catturata da ciò cui è destinata nella rete della
circolazione delle merci. Cosicché, in fondo, esso non è appropriato né all’idea di una rivolta che lo renda libero
(vecchio tema, antiquato, della significazione stessa di ogni rivolta), poiché
in un certo modo la libertà viene
proposta dal mondo stesso, né è più appropriato a ciò che potremmo chiamare un
uso libero di questa libertà, poiché la libertà è codificata o precodificata
dall’infinito bagliore della produzione di merci e da ciò che a partire da essa
l’astrazione monetaria istituisce.
Ecco perché questo mondo ha nei confronti delle rivolte o della possibilità
della rivolta una disposizione che
potremmo definire insidiosamente
oppressiva. In virtù della quale ciò che propone in merito alla felicità è già sospetto
di corruzione latente.
Secondariamente, questo mondo è inappropriato alla logica e
questo principalmente perché è sottomesso alla dimensione illogica della comunicazione. La comunicazione e la sua organizzazione materiale trasmettono
immagini, enunciati, parole e commenti il cui principio assunto è l’incoerenza.
La comunicazione, fissata dal regno
della sua circolazione, giorno dopo giorno disfa
qualunque legame e qualunque principio, in una specie di giustapposizione
inaccettabile e sconnessa di tutti gli elementi che trascina con sé.
Possiamo dire, inoltre, che la comunicazione
ci propone in forma istantanea uno spettacolo senza memoria e che da questo
punto di vista ciò che sostanzialmente disfa è una logica del tempo.
Ecco perché sostengo che il
nostro mondo è un mondo che esercita
una forte pressione sul pensiero nel suo principio di consistenza e in un certo
senso essa propone al pensiero una specie
di dispersione immaginaria. Ma si può mostrare — e lo farò anche se in
realtà lo sanno tutti — che una felicità
reale è dell’ordine della concentrazione, dell’intensificazione, e non può
tollerare ciò che Mallarmé chiamava «quei paraggi del vago in cui ogni realtà
si dissolve».
In terzo luogo, questo mondo è inappropriato all’universale per
due ragioni correlate. Anzitutto la vera forma
materiale del suo universalismo è l’astrazione monetaria o l’equivalente
generale. Nel denaro risiede l’unico segno effettivo di ciò che circola e
universalmente si scambia. Poi, come sappiamo, perché questo mondo è allo
stesso tempo un mondo specializzato e
frammentario, organizzato da una
logica generale delle specializzazioni produttive e da una tale enciclopedia dei saperi da poterne
padroneggiare solo un esile frammento.
Proponendoci simultaneamente una
forma astratta e monetaria dell’universale e seppellendo sotto questa forma una
realtà specializzata e frammentaria, questo mondo esercita una forte pressione
sul tema stesso dell’universale nel senso in cui lo intende la filosofia. Tanto
vale dire che la sua «felicità» è
riservata a gruppi definiti e a individui concorrenti, i quali non mancheranno
di difenderla come un privilegio ereditato contro la massa di coloro che non ne
godono in alcun modo.
Infine, questo mondo è inappropriato alla scommessa, alla decisione azzardata, perché è un
mondo nel quale nessuno ha più modo di
lasciare la propria esistenza al caso. Il
mondo, qual è ora, è un mondo dove regna la necessità di un calcolo di
sicurezza. Niente è più sorprendente a questo proposito del fatto che
l’insegnamento, ad esempio, sia organizzato in modo tale che risalga sempre più
in alto la necessità del suo ordinamento al calcolo della sicurezza
professionale e del suo adeguamento alle disposizione del mercato labile del
lavoro. E che venga insegnato quanto prima che la decisione azzardata è figura
da revocare e sospendere a vantaggio di un calcolo sempre più prematuro di una
sicurezza che nel reale peraltro si rivela piuttosto incerta. Il nostro mondo consegna la vita al calcolo
minuzioso e obbligato di questa dubbia sicurezza e ordina le successive
sequenze esistenziali a partire da questo calcolo.
C’è qualcuno
che non sa che la felicità reale non è calcolabile?
Direi allora che il desiderio
filosofico di una rivoluzione dell’esistenza, se lo concepiamo come il nodo
della rivolta, della logica, dell’universalità e della scommessa, incontra nel
mondo contemporaneo quattro ostacoli
principali, quattro pressioni
obbligate, che sono il regno della
merce, il regno della comunicazione, l’universalismo monetario e la
specializzazione produttiva e tecnica, il tutto legato soggettivamente
attraverso il calcolo della sicurezza personale. Questi ostacoli tendono a fare in modo che l’idea ineluttabile della
vera vita, della felicità, sia ridotta alla sembianza di una soddisfazione
consumatrice.
Come la filosofia coglie questa
sfida? Può coglierla? Ne è capace?
Per abbozzare una risposta,
procedo a semplificare radicalmente la situazione filosofica mondiale, nella
quale distingueremo tre correnti principali.
In primo luogo, c’è la filosofia fenomenologica ed ermeneutica,
corrente che risale al romanticismo tedesco e i cui principali nomi
contemporanei, in senso largo, sono Heidegger
e Gadamer. Il secondo luogo, c’è la corrente
analitica, che ha per origine il circolo
di Vienna con Wittgenstein e Carnap e che oggi domina l’intera filosofia
universitaria inglese e americana. In terzo luogo, c’è la corrente postmoderna che attinge dalle altre due e che senz’altro
in Francia è stata la più attiva, alla quale possiamo ricondurre Jacques Derrida e Jean-François Lyotard. Beninteso vi sono all’interno di questi tre
orientamenti di fondo innumerevoli intersezioni, nodi e parti comuni, ma credo
che così abbiano il merito di indicare una sorta di cartografia decente dello
stato di cose. Ciò che qui mi interessa è
come ogni corrente indichi o identifichi il desiderio di filosofia e i suoi
possibili effetti creatori nel mondo reale. Dunque quale sia per ciascuna corrente la definizione, esplicita o
latente, della vera vita, il cui affetto è la felicità reale.
La corrente ermeneutica assegna come fine alla filosofia quello di
decifrare il senso dell’esistenza e del
pensiero, e possiamo dire che il suo concetto centrale sia quello di
interpretazione. Vi sono delle
parole, delle azioni, delle configurazioni, dei destini storici il cui senso è
oscuro, latente, nascosto, velato, non rivelato. Un metodo interpretativo andrà
in cerca di una schiarita di questa oscurità e tenterà di far capitare un senso
primordiale, che sarà una figura del nostro destino nel suo nesso al destino
dell’essere stesso. Se l’operatore fondamentale è l’interpretazione, è
evidente che si tratterà di svelare o di aprire a un senso non apparente. L’ultima grande opposizione della filosofia
di filiazione ermeneutica è quella tra il chiuso e l’aperto. Il destino della
filosofia è quello di tenersi nell’apertura in senso latente e, di conseguenza,
di sgomberare o disoccupare il pensiero dal suo affossamento nella chiusura,
nella latenza e nell’oscuro del suo senso. Il desiderio rivoluzionario, per il
pensiero, è quello di una schiarita. E la felicità reale è una figura
soggettiva dell’ Aperto.
La corrente analitica, da parte sua, assegna alla filosofia il fine di
una rigida delimitazione tra gli
enunciati che hanno senso, o sono provvisti di senso, e gli enunciati che non
ne hanno, tra ciò che si ha il diritto di dire e ciò che è impossibile a dirsi,
tra ciò che può fare consenso intorno a un senso condiviso e ciò che ne è
incapace. Lo strumento
imprescindibile non è qui l’interpretazione, ma l’analisi grammaticale e logica
degli enunciati in quanto tali ; è del resto la ragione per cui questa
corrente ha attinto massicciamente all’eredità
della logica, ivi inclusa quella matematica.
Si tratta di uno studio delle leggi e
delle risorse del linguaggio, dove il concetto centrale è stavolta quello di
regola. Individuare la regola che autorizza l’accordo sul senso, questa in ultima istanza è la
posta in gioco dell’attività filosofica.
E si dirà che l’opposizione maggiore stavolta non è tra il
chiuso e l’aperto, ma quella tra regolato e sregolato, tra ciò che è conforme a
una legge riconosciuta e ciò che, sottratto a qualunque legge non
identificabile a partire da una regola, è necessariamente illusione e
discordanza. In questa ottica l’obiettivo
della filosofia è terapeutico e critico. Si tratta di levare le illusioni che ci dividono, i nonsensi che creano
divisione e opposizione. Il desiderio
rivoluzionario, per il pensiero, è quello di una condivisione democratica del senso. E la felicità reale è l ’affetto
della democrazia.
Infine, la corrente postmoderna assegna alla filosofia il fine di decostruire le evidenze recepite dalla nostra
modernità. Stavolta non si tratta di
dischiudere un senso latente, né di delimitare il senso dal nonsenso. Bensì di
mostrare che il problema stesso del senso andrà disposto altrimenti e con
questo di decostruire la sua figura precedente, di dissolvere le grandi
costruzioni che furono, in particolare nel XIX secolo e poco prima, quella del
soggetto storico, dell’idea di progresso, dell’idea di rivoluzione, dell’idea
di umanità, mostrando che vi è una irriducibile pluralità di registri dei
linguaggi tanto nel pensiero quanto nell’azione, pluralità che non si lascia
riassorbire o unificare all’interno di una problematica totalizzante del senso.
In sostanza, l’obiettivo del pensiero postmoderno è quello di decostruire l’idea di totalità; per la qual
cosa la filosofia stessa si trova rimessa in causa, destabilizzata. Cosicché
la filosofia postmoderna attiverà quelle che potremmo chiamare pratiche miste o
impure. Andrà a mettere del pensiero su dei confini o su dei margini, dentro
degli incisi. E soprattutto la corrente postmoderna insedierà l’eredità del
pensiero filosofico in un gioco che la lega al destino dell’arte. Il desiderio
rivoluzionario è alla fine quello di inventare nuove forme di vita. E la
felicità reale non è altro che il godimento di queste forme.
Ciò che ora ci interessa è
chiederci se vi siano tratti comuni a
questi tre orientamenti dominanti. Chiederci se, nel modo in cui esse
accettano la sfida che il mondo oppone al desiderio di filosofia, intraprendano
su tal punto o tal altro percorsi paralleli o paragonabili.
Vi è anzitutto un tratto negativo molto importante. Le tre correnti dichiarano la fine della
metafisica e dunque in un certo senso la fine della filosofia stessa, perlomeno nel suo senso classico o, come
direbbe Heidegger, nel suo senso destinale. Per Heidegger vi è chiusura
della storia della metafisica. La filosofia è incapace di procedere oltre
nell’elemento della metafisica. E questa chiusura è anche la chiusura di
un’intera epoca della storia dell’essere e del pensiero. Possiamo dire, così,
che all’ideale della verità, che
organizzava la filosofia classica a partire dalla definizione tradizionale di
«ricerca della verità», viene sostituita l’idea di una pluralità del senso.
Sono profondamente convinto che il movimento attuale della filosofia si
organizzi intorno all’opposizione decisiva tra verità, categoria centrale della
filosofia classica (o se vogliamo della metafisica), e questione del senso,
supposto essere la questione che precipita nella modernità nel momento in cui
si chiude il problema classico della verità.
Per
l’ermeneutica, la verità è una categoria della metafisica che
deve essere ripresa nella direzione di un senso destinale dell’essere. Il mondo si compone di un intreccio di
interpretazioni che nessun ente trascendente può vedere dall’alto. Il regno a
venire dell’aperto ci libera dall’univocità astratta rappresentata dall’idea
vera.
Per la
filosofia analitica è chiaro che occorre abbandonare il grande disegno di una
«ricerca della verità». Il senso stesso è relativo alla grammatica di
riferimento. Quando vogliamo distinguere il senso dal non-senso, occorre sempre
riferirsi all’universo di regole nel quale ci si trova a operare. Vi sono di
conseguenza diversi sensi o diversi regimi del senso che sono incomparabili, ed
è appunto ciò che Wittgenstein chiama i giochi linguistici. La pluralità dei
giochi linguistici si oppone espressamente all’idea di un raccoglimento trasparente
sotto il segno della verità.
Infine, la corrente postmoderna decostruisce il supporto tradizionale delle
verità o ciò in virtù di cui vi è verità, al quale per tradizione la
filosofia ha dato il nome di soggetto. Possiamo dire che si tratta di un asse
fondamentale della filosofia postmoderna, quello di proporsi di decostruire, nella misura in cui si
tratta di un prodotto della metafisica, la
categoria di soggetto. Non vi è
allora soggetto per il quale o perché, a partire dal quale o a partire dal che,
vi sarebbe verità. Vi sono solo delle occorrenze, dei casi, degli avventi
disparati, e vi sono dei generi di discorso a loro volta eterogenei che accolgono
questi casi disparati.
Alla fine ermeneutica, analitica
e postmodernità organizzano una triplice
opposizione tra il senso, aperto e plurale, simbolo della modernità, e l’idea
di verità univoca, considerata una metafisica arcaica o persino «totalitaria». Ecco
il comune tratto negativo.
Sul
fronte positivo, vi è un tratto comune molto evidente: l’importanza centrale del linguaggio. È
attraverso queste tre correnti e la loro diffusione che si è prodotta ciò che
potremmo chiamare la grande svolta linguistica della filosofia occidentale.
Centralità del linguaggio che, ancora una volta, avrà un’organizzazione o una
diffusione differenziata all’interno delle tre correnti, ma che è il loro
tratto comune probabilmente più visibile.
Per
l’ermeneutica, ovviamente, è l’interpretazione, l’attività interpretante, a operare
principalmente a partire dagli atti di parola,
dagli atti di significazione, e il linguaggio è in ultima istanza il luogo
stesso all’interno del quale si gioca la questione dell’aperto. È unicamente in
questo luogo, «nell’incamminarsi verso la parola» — dove «parola» va
intesa nel regime dell’interpretazione
—, che si compie la nostra disposizione al pensiero. Per la corrente analitica,
la materia prima sono gli enunciati e
alla fin fine la filosofia è una specie
di grammatica generale all’insegna della forza della regola; non vi sono
altro che frasi, frammenti o generi di discorso. Infine, la decostruzione postmoderna è un’azione
linguistica e scritturale rivolta contro
la stabilità delle astrazioni metafisiche. Così, le tre correnti pongono la
questione del linguaggio al centro assoluto della filosofia in quanto tale e,
che si tratti dell’interpretazione, della regola o della decostruzione nella
forma dell’opposizione tra parola e scrittura, alla fine abbiamo un’assunzione
del linguaggio a ciò che potremmo chiamare il grande trascendentale storico del
nostro tempo. Diremo di conseguenza che la
filosofia contemporanea nelle sue principali tendenze sostiene due assiomi, che
questa è la sua logica costitutiva:
v primo
assioma: la metafisica della verità è
diventata impossibile;
v secondo
assioma: il linguaggio è il luogo
cruciale del pensiero, perché lì è in gioco la questione del senso.
Tali due assiomi organizzano a
modo loro l’opposizione che è il passaggio centrale della questione filosofica
oggi, ovvero il rapporto tra senso e
verità.
Per arrivare alla mia posizione,
dico che in questi due assiomi—impossibilità della metafisica della verità e
carattere costitutivo della questione del linguaggio —vi è un grande pericolo, quello dell’incapacità della filosofia a sostenere, partendo da questi due assiomi,
il proprio desiderio specifico, a fronte della pressione esercitata nei
confronti di questo desiderio dal mondo contemporaneo. Il pericolo, insomma, di
perdere qualunque virtù rivoluzionaria e con questo di abbandonare il motivo
della vera vita e dunque della felicità, a mero vantaggio della dottrina,
individualista e identitaria, della soddisfazione.
Se la filosofia è nella sua
centralità una meditazione del linguaggio, se è insediata nella pluralità dei
giochi linguistici e delle loro codificazioni grammaticali, essa non riuscirà a rimuovere l’ostacolo che il
mondo oppone all’universalità, tanto per la sua specializzazione quanto per la sua frammentazione e astrazione.
Poiché vi sono altrettanti linguaggi che comunità e attività. I giochi
linguistici sono in effetti la regola del mondo, e sappiamo fino a che punto la
circolazione tra questi giochi sia difficile. Ma che i giochi linguistici siano
la legge del nostro mondo impedisce appunto — anche se la filosofia propone,
contro la legge del mondo, una rivoluzione nel pensiero — che questi giochi
siano il luogo in cui possa formarsi l’imperativo filosofico. Oppure, ed è
forse peggio, accettando di insediarsi all’interno di questo primato del
linguaggio, la filosofia dovrà indicare il linguaggio come ciò che solo potrà
salvarla.
Fin da
Platone, nel Cratilo, si è detto che la filosofia aveva per compito quello di
partire non dalle parole ma, per quanto ne fosse capace, dalle cose stesse. Credo
che si tratti di un imperativo transtemporale della filosofia e che tutto il problema sia appunto di sapere come
partire non dal linguaggio, ma dalle cose stesse. La filosofia analitica ha privilegiato in modo unilaterale i linguaggi di tipo scientifico, ovvero quelli
più immediatamente appropriati a regole logiche. E ha fatto di questi
linguaggi dei paradigmi della delimitazione del senso, perché come sappiamo nei linguaggi scientifici la
regola è esplicita, mentre nella maggior parte degli altri linguaggi rimane
implicita. Ma, ancora una volta, il privilegio unilaterale e paradigmatico
delle lingue in cui la regola è esplicita non può consentirci di sostenere la
sfida lanciata contro l’universalità, perché niente indica a priori che
l’universalità vada necessariamente di pari passo con il carattere esplicito
delle regole. Cosa che dovrebbe essere provata per conto suo, e non lo è nel
momento in cui solo la regola fa legge nei confronti della delimitazione del
senso.
Se, d’altra parte, la categoria
di verità viene abbandonata o invalidata, la
filosofia non potrà raccogliere la sfida di un’esistenza asservita alla
circolazione delle merci o all’illogicità della comunicazione. Poiché, si
tratta qui di un punto difficile ma del quale sono profondamente convinto,
all’infinita cangianza che la circolazione delle merci, a quella specie di
pluralità flessibile alla quale il desiderio si trova incatenato, possiamo
opporre solo il punto fermo di una esigenza incondizionale. Tutto ciò che in
questo mondo è sottoposto a condizione ricade sotto la legge della circolazione
delle cose, delle monete e delle immagini.
Interrompere
questo principio di circolazione — a mio avviso è un’esigenza radicale della
filosofia contemporanea e prima condizione per una strada verso la felicità
reale —
Questo è possibile essendo in
grado di enunciare o di assumere che vi è un punto fermo incondizionale, ovvero
un’idea strategica assolutamente in
antagonismo rispetto a tale circolazione e a una soggettività insieme egoista e
ignorante.
Penso che all’inconsistenza mediatica o comunicante delle immagini e dei commenti
non si possa che opporre la tesi per cui esistono almeno alcune verità non
labili e che la loro paziente ricerca e assimilazione, al di sotto della
superficie cangiante di ciò che si dà e circola, è l’imperativo al quale la
filosofia deve sottoporsi, se non vuole a sua volta finire investita e
smembrata dall’inconsistenza della comunicazione.
Pongo dunque la seguente
domanda:
Quale
sarebbe il senso di scommettere l’esistenza, sottraendola all’imperativo di un
calcolo di sicurezza personale, di gettare i dadi contro la routine, di esporsi
a un azzardo qualunque, se non nel nome minimo di un punto fisso, di una
verità, di un’idea, di un valore capace di prescriverci questo rischio?
E senza
questo punto di sostegno, come immaginare la forma generica della felicità di
un soggetto quale che sia?
Confrontato
alla scommessa e al frangente del caso attraverso il quale l’esistenza si
investe nella propria novità, è allora necessario e ineludibile avere un centro
fisso, struttura non labile che sostenga la persona in equilibrio, rettitudine
ed integrità.
Per
preservare le quattro dimensioni del desiderio filosofico (rivolta, logica,
universalità e scommessa) contro i quattro ostacoli che il mondo contemporaneo
gli oppone (merce, comunicazione, astrazione monetaria e ossessione
securitaria), occorre superare le tre dimensioni filosofiche dominanti:
l’analitica, l’ermeneutica, la postmoderna. Vi è in effetti in queste tre
opzioni qualcosa di troppo appropriato al mondo qual è, qualcosa che riflette
esageratamente la fisionomia del mondo stesso. E, investita in queste opzioni, da esse
organizzata, la filosofia finirà per sopportare, accettare la legge di questo
mondo senza rendersi conto che negli ultimi tempi questa legge impone la
scomparsa del suo desiderio.
Propongo
allora di rompere queste cornici di pensiero per ritrovare o costituire
all’interno di configurazioni rinnovate uno stile o una via filosofica che non
sia né quella dell’interpretazione, né quella dell’analisi grammaticale, né
quella della frammentarietà, degli equivoci e della decostruzione.
Si tratta di ritrovare uno stile
filosofico fondatore, deciso, alla scuola di quello che è stato lo stile
filosofico e classico fondatore, di un Cartesio per esempio. Beninteso non è
questione di fornire in questa introduzione anche solo un primo scorcio di
quello che potrebbe essere il dispiegamento di una filosofia capace di
sostenere la sfida del mondo preservando la radicalità del proprio desiderio.
Per questo rimandiamo alla lettura dei miei trattati filosofici: L’essere e
l’evento e Logiche dei mondi ai loro riassunti, Manifesto per la filosofia e
Secondo manifesto per la filosofia. Ma vorrei comunque indicare due
orientamenti o due temi.
Innanzitutto, affermo che il linguaggio non è l’orizzonte
assoluto del pensiero. Certo il
linguaggio, la lingua, o una lingua, è sempre il corpo storico di una filosofia.
C’è una figura specifica di incarnazione, una tonalità, un colore, che riflette
l’orizzonte della lingua. Ma l’organizzazione in pensiero della filosofia non è
immediatamente debitrice della regola linguistica nella quale essa si trova a
operare. E a questo proposito occorre ripristinare l’idea che la filosofia è universalmente trasmissibile.
Questa idea della trasmissibilità universale Jacques Lacan l’ha chiamata l’idea
del matema. Adattiamola a quanto stiamo dicendo. Una volta preservato
l’ideale della trasmissione universale, affermiamo che l’ideale della filosofia
dovrà essere in effetti il matema. Il matema
si rivolge a tutti, è universalmente trasmissibile, attraversa le comunità
linguistiche e l’eterogeneità dei giochi linguistici, senza privilegiarne
alcuno e ammettendo la pluralità dei loro esercizi, ma senza che a sua volta
percorra questa molteplicità o si insedi nella molteplicità. Ancor meno è
allineato sull’ideale formale del linguaggio scientifico, poiché costruisce
nell’elemento che è il suo la propria specifica figura di universalità.
In secondo luogo, affermo che il ruolo specifico, irriducibile,
singolare della filosofia è quello di stabilire all’interno di un discorso un
punto fisso, o più esattamente quello di trovare o di proporre un nome o una
categoria per tale punto fisso. Nella mia disposizione filosofica ho ripreso la
vecchia parola di «verità», ma poco importa la parola perché quel che conta è
la capacità di una proposizione filosofica qualunque di stabilire un
incondizionato di questo genere.
Il
nostro mondo è segnato da velocità e incoerenza. La
filosofia deve essere ciò che ci consente di dire — viene sempre il momento in
cui occorre poter dire —, attraverso una sorta di interruzione o di cesura della velocità o dell’incoerenza, che questa
cosa è bene e quell’altra non lo è.
Fissare un punto centrale a
partire dal quale poter parlare in questo modo, tale è la posta in gioco più
che mai necessaria per la filosofia. Occorre allora a mio avviso ricostruire
filosoficamente, senza restaurazioni e senza arcaismi, al vaglio
dell’evenemenzialità moderna, la categoria di verità e di conseguenza la
categoria di soggetto. Bisognerà farlo di modo tale che non si tratti di una
restaurazione della metafisica, ma di una ridefinizione
o di un ridispiegamento della filosofia stessa all’interno di un elemento
categoriale che autorizzi il pensiero del punto fisso.
Compito importante è che a
queste condizioni la filosofia abbia per vocazione
la saggezza di rallentare il pensiero, fissando il proprio tempo specifico.
Nelle tendenze contemporanee la filosofia
si esaurisce a forza di seguire il corso del mondo. È prigioniera di un tempo
moderno che è insieme rovinosamente frammentato, segmentato e accelerato. La vocazione della filosofia, per quanto ne
è capace, è quella di stabilire un tempo che si dia il tempo, ovvero un pensiero
che si dia il tempo della lentezza dell’investigazione e dell’architettonica.
Questa costruzione di un tempo proprio è a mio parere il principio
direttore dello stile che dobbiamo esigere dalla filosofia oggi. Anche in
questo caso l’esperienza più comune ci viene in aiuto:
Essere
padroni del proprio tempo non è da sempre una condizione della felicità?
Non è
proprio ciò che i padroni da sempre rifiutano alla massa dei dominati? Il lavoro salariato, del quale il comunismo
propone di sbarazzare l’umanità, non è sempre stato rappresentato come una
condizione infelice di ciò che appunto era la violenta imposizione di un tempo
eterogeneo? Le rivolte operaie non
hanno regolarmente messo in discussione l’obliteratrice e l’obliteratore, il
controllore, le cadenze?
Qualunque
felicità reale presuppone una liberazione del tempo.
In molte
correnti contemporanee, in special modo nella filosofia ermeneutica e a e ancor
di più nella filosofia postmoderna, vi è una promozione o un elogio della
disposizione frammentaria del discorso filosofico. Questa promozione si radica soprattutto in
un modello nietzschiano. Penso che per ragioni di circostanza o di opportunità,
semplicemente perché è il mondo a imporcelo, occorra restituire alla filosofia
un principio di ordine unitario e continuità. Poiché il frammento è in fondo
una modalità con la quale il discorso filosofico si sottopone ciecamente alla
frammentazione del mondo stesso e attraverso il quale in un certo senso esso
consente, con la propria segmentazione frammentaria, all’astrazione monetaria e
mercantile di rappresentare l’unico principio di continuità. È allora
indispensabile che la filosofia sviluppi la propria lentezza intrinseca e
restauri la continuità del pensiero, ovvero contemporaneamente il principio di
decisione che la fonda e il tempo razionale che la annoda.
È il momento di chiedersi se a
queste condizioni vi sia una chance di vedere la filosofia, all’evidenza in
pericolo, arrivare a sostenere la sfida della quale parlavamo all’inizio, a
sostenere il proprio desiderio. La
filosofia è ammalata, su questo non vi è alcun dubbio, e i colpi che le sono
inferti sono il correlato delle sue difficoltà interne. Ho l’impressione —
e sono le ragioni di ottimismo che mi sento di avanzare — che a questo malato che
in un certo senso non smette di dire di sé che è più malato di quanto non si
dica, a questo malato che annuncia la
propria morte imminente e persino la propria morte già realizzata, a questo
malato il mondo contemporaneo — il mondo o almeno una parte di questo mondo —,
mentre su di lui continua a esercitare una pressione indistinta per spezzarne
il desiderio, la vita ; chiede paradossalmente di continuare a vivere. Come
sempre la significazione del mondo è equivoca. Da un lato il sistema generale della circolazione, della comunicazione,
della sicurezza è orientato all’indebolimento del desiderio di filosofia.
Dall’altro, per paradosso esso crea, organizza contraddittoriamente al proprio
interno una domanda che si rivolge in modo vago e vuoto alla possibilità di
filosofia. Perché?
Anzitutto vi è la crescente
convinzione, comunque crescente in coloro che cercano di essere nell’autonomia
del proprio pensiero, che le scienze
umane non sono, né saranno in condizione di sostituire la filosofia, sia per la
sua disposizione disciplinare sia per la natura specifica del suo desiderio. C’è
stato un momento in cui era diffusa l’idea — una delle incarnazioni del tema
della fine della filosofia — che una specie di antropologia generale, normata
dall’ideale della scienza, sussumendo sociologia, economia, politologia,
linguistica, psicologia «scientifica», persino psicanalisi, avrebbe potuto
sostituire la filosofia: un altro modo di dire che avevamo raggiunto la fine
della filosofia. Io credo, invece, che oggi le scienze umane si dispieghino
come sede delle medie statistiche, delle configurazioni generali, e che esse
non consentano di trattare o di affrontare il singolare, la singolarità nella
forma del pensiero.
La
singolarità: se ci pensiamo bene, è precisamente sempre lì che viene a trovarsi
il nocciolo della decisione e ogni decisione in ultima istanza, in quanto
decisione vera e propria, è una decisione singolare.
A dir vero non vi è alcuna
decisione generale e per quanto ciò che induce una verità, o ciò a cui una verità
induce, o ciò che si sostiene su un punto fisso, sia dell’ordine della
decisione, esso è sempre anche dell’ordine della singolarità. Diremo allora che
occorre chiedersi se oggi sia possibile formulare una filosofia della
singolarità che sia con ciò stesso capace di essere ancora filosofia della
decisione e della scommessa.
In secondo luogo, tutti hanno in effetti preso coscienza della
rovina dei grandi soggetti collettivi, anche in questo caso è il pensiero a
pensarli in rovina. Non si tratta tanto di sapere se questi soggetti siano
esistiti, esistano o esisteranno, si tratta del fatto che le grandi categorie
che consentono di capire il soggetto collettivo oggi appaiono sature e incapaci
di animare il pensiero, che si tratti di figure del genere progresso storico
dell’umanità o dei grandi soggetti di classe — quali il proletariato —, intesi
come realtà oggettive.
Il che
richiama ciascuno a quello che definirei la necessità di decidere di parlare a
nome proprio, anche e soprattutto quando si tratta di rispondere a ciò che il
sorgere di una verità nuova esige da ciascuno. Ma è evidente che la necessità di decidere di
parlare a nome proprio, anche quando la questione è politica, esige per tale decisione un punto fisso, un
principio incondizionale, un’Idea in condivisione che sostenga e universalizzi
la decisione primordiale. Occorre che
ciascuno, in nome proprio ma aperto alla condivisione organizzata con altri
della propria parola, possa pronunciare che questo è vero e quello è falso, che
questo è bene e quello è male o che questo è sensato e quello è insensato. Se allora la richiesta è una filosofia della
singolarità, contemporaneamente è anche quella di una filosofia della verità.
In terzo luogo, siamo i contemporanei di una espansione
delle passioni comunitarie, religiose, razziste e nazionaliste. Una espansione
che in tutta evidenza è il rovescio della distruzione delle grandi
configurazioni razionali del soggetto collettivo. Dallo smembramento e il
crollo di queste grandi configurazioni, dall’assenza
provvisoria ma dolorosa dell’Idea di comunismo, deriva la risalita in
superficie di una specie di oscuro annichilimento della volontà individuale che
sovente si traduce nel silenzio dell’azione e della parola; il tacito conformismo,
il quale si figura totalità di ricambio per evitare appunto di doversi
pronunciare o dover decidere a nome proprio e, a partire da protocolli di
delimitazione, di esclusione e di antagonismo, si affida a soggetti arcaici il
cui ritorno è sempre più minaccioso. A questo proposito è assolutamente
certo che alla filosofia viene chiesto di
conferire al punto fisso o all’incondizionato sul quale si sostiene una figura
razionale, mostrando che benché vi sia stata una defezione delle configurazioni
razionali anteriori del destino storico collettivo ciò non significa che si
debba abbandonare la virtù della consistenza razionale del pensiero. Alla
filosofia viene allora chiesto cosa ne resta della sua capacità a proporre una
figura rinnovata, una figura fondatrice della razionalità che sia omogenea al
mondo contemporaneo.
Infine, ultima cosa, il mondo per come lo conosciamo, ciascuno ha
una sorda coscienza che si tratta di un mondo straordinariamente precario,
incerto, frammentario, insensato.
Resta
tuttavia un paradosso: perché esso si presenta come il migliore dei mondi
possibili, facendo intendere che qualunque altro mondo, tentato nel paradigma
della rivoluzione o dell’emancipazione, si è rivelato insieme criminale e
disastroso. Ma allo stesso tempo questo mondo che si dà come il migliore dei
mondi possibili è un mondo che sa di essere incredibilmente vulnerabile. È un
mondo esposto. Non è affatto un mondo stabilito all’interno della stabilità
durevole del proprio essere. È un
mondo che a sua volta conosce poco se stesso e che si affida a leggi troppo
astratte per non essere esposto alla catastrofe di eventi che non può fare a
meno di accettare o accogliere. Del resto la guerra devasta interi paesi senza
interruzione da cinquant’anni ed essa erode sempre di più gli immediati paraggi
dell’egoismo «occidentale».
Nei
confronti di questa pericolosa vulnerabilità del mondo, che fa sì che esso
proponga a ogni istante, oltre che la propria legge generale di circolazione e
di comunicazione, delle estraneità innominabili, delle mostruosità disperse, nei
confronti di questo mondo a sua volta preda di una eclatante cecità che può
rovesciarsi da un momento all’altro, qui, là, ovunque, nella violenza, nella
guerra o nell’oppressione, verso questo mondo ritengo che alla filosofia sia
richiesto di riuscire a vedere, criticare e ricordare l’evento stesso
riconoscendone le originarie labilità fonti di tali innominabili mostruosità.
Ecco perché, e al costo di una
rottura con l’ermeneutica, la filosofia analitica e il pensiero postmoderno,
ritengo che ciò che è richiesto alla filosofia, dall’interno dell’infinita precarietà di questo mondo,
sia di fare la scommessa di una filosofia decisa, fondatrice,
contemporaneamente una filosofia della singolarità, una filosofia della verità,
una filosofia razionale e una filosofia dell’evento.
Le è allora richiesto di
proporre, come riparo o involucro del desiderio di filosofia, ciò che potremmo
chiamare un nodo razionale della
singolarità, dell’evento e della
verità. Questo nodo deve inventare una nuova figura della razionalità,
poiché tutti sanno che annodare singolarità ed evento a verità è nella
tradizione classica di per sé un paradosso. Ed
è appunto di questo paradosso che deve
occuparsi la filosofia contemporanea nella sua centralità, se intende
proteggere il proprio desiderio e riformulare in modo costruttivo e
generalizzabile all’umanità intera il famoso aforisma di Saint-Just «la felicità
è un’idea nuova in Europa».
Ciò che da parte mia ho tentato
di mostrare altrove è che questo nodo
razionale della singolarità, dell’evento e della verità costituisce in
quanto tale una nuova dottrina possibile
del soggetto. Contro l’idea che il soggetto coappartenga alla metafisica e
in quanto tale debba essere decostruito, io affermo che concependo il soggetto come l’ultima differenziale in cui si annodano
razionalmente singolarità, evento e verità, possiamo e dobbiamo proporre al
pensiero e al mondo una nuova figura del soggetto, la cui massima è in sostanza
la seguente:
Un
soggetto è singolare, perché è sempre un evento a costituirlo in una verità.
Oppure :
Un
soggetto è contemporaneamente un luogo di razionalità possibile e ciò che
potremmo chiamare il punto di verità dell’evento.
E infine :
Non vi è
felicità se non per un soggetto, per ciò che di un individuo accetta di
diventare soggetto.
Queste tesi non sono altro che
la diagonale formale dell’impresa filosofica della quale provo a formulare le
aspettative o il programma.
Se guardiamo le cose del
pensiero e del mondo a partire da una filosofia così costituita — filosofia che
dichiara che la singolarità del soggetto
risiede nel fatto che è un evento a costituirlo in una verità —, possiamo
dire che in un certo senso la metafisica è effettivamente in rovina o finita,
ma non che le categorie della metafisica siano del tutto obsolete. Allora
diremo anche, sempre a partire da una tale filosofia, che certamente la
metafisica è in rovina ma che la decostruzione della metafisica è altrettanto
rovinata e che il mondo ha bisogno di una
proposta filosofica fondatrice, fondata sulle rovine sovrapposte o unificate
della metafisica e della figura dominante della critica della metafisica.
Per
tutte queste ragioni credo che il mondo contemporaneo necessiti di filosofia
più di quanto la filosofia non creda. Tutto ciò non è sorprendente se
si parte dalla diagnosi che le correnti
dominanti della filosofia contemporanea sono troppo appropriate alla legge del
mondo e che in quanto appropriate
alla legge del mondo hanno fallito nel dirci ciò che può essere la vera vita.
Così che alla fine ciò che questo stesso
mondo chiede alla filosofia è, per queste correnti, parzialmente invisibile.
Per renderlo visibile, occorre una interruzione nella filosofia stessa, ovvero
un’interruzione su ciò che essa dice a proposito del proprio compito.
La massima potrebbe essere: farla finita con la fine. E farla finita con
la fine presuppone la presa di una decisione. Nessuna fine finisce da sola, la
fine non finisce, la fine è interminabile. Per farla finita con la fine, per
finire la fine, occorre una decisione presa e di questa decisione provo appunto
a indicarne i punti di sostegno e gli elementi di convalida in ciò che è
richiesto alla filosofia dal mondo stesso.
Non nego affatto che la
filosofia sia ammalata, vista l’ampiezza del programma e la difficoltà nel
sostenerlo, può darsi benissimo che stia morendo. Ma il mondo le dice, il mondo
dice a questa moribonda, senza che serva tirare in ballo un salvatore o un
miracolo — questa è almeno la mia ipotesi—, il
mondo dice alla moribonda filosofia: «Alzati e cammina!». Procedere dietro
l’imperativo di un’Idea vera ci destina alla felicità.
C A P I
T O L O S E C O N D O
Chiamo «anti-filosofia» quella specie particolare di filosofia che oppone
il dramma della propria esistenza alle costruzioni concettuali, per la quale la verità esiste, non c’è alcun dubbio, ma
la si dovrà incontrare, sperimentare, piuttosto che pensare o costruire. È in
questo senso che dobbiamo intendere Kierkegaard quando dice che ogni verità è
«interiorità» o che «la soggettività stessa è la verità».
Ma
attenzione! L’anti-filosofo non è in alcun modo uno scettico o un relativista,
oggi lo si chiamerebbe un democratico, un partigiano della diversità culturale, della varietà delle opinioni, il quale come
mi scriveva Deleuze poco prima della sua morte «non ha bisogno» dell’idea di
verità. Al contrario l’anti-filosofo è il più duro, il più intollerante dei
credenti. Si guardi a Pascal, a Rousseau, a Nietzsche, a Wittgenstein:
personalità imperiose, implacabili, impegnate contro i «filosofi» in una lotta
senza risparmio di colpi. Cartesio per Pascal? «Inutile e confuso». Voltaire,
Diderot, Hume, per Rousseau? Dei corrotti, dei complottisti. Il filosofo, per
Nietzsche? Il «criminale dei criminali», da fucilare seduta stante. Le
concezioni della metafisica razionale per Wittgenstein? Puri e semplici
non-sensi. E per Kierkegaard, la maestosa costruzione hegeliana? Lo spaesamento
di un vecchio: «Il filosofo è uscito di scena, non è più della partita, si è
seduto e invecchia ascoltando i canti del passato e le armonie della mediazione».
Questo furore del pensiero,
imperniato su una visione inflessibile della vita personale, è coadiuvato in
tutti i grandi anti-filosofi da uno
stile che non è possibile separare dalla loro visione. Non basta dire che sono grandi scrittori! Pascal e Rousseau hanno
rivoluzionato la prosa francese. Nietzsche ha estratto dalla lingua tedesca
accenti sconosciuti. Il Tractatus di Wittgenstein è paragonabile solo al lancio
di dadi di Mallarmé e Lacan, che ho dimostrato essere per il momento l’ultimo
anti-filosofo davvero degno di nota, apparenta la psicanalisi a una lingua
inventata.
Il
filosofo che sono — concettuale, sistematico, innamorato del matema —
evidentemente non può cedere al richiamo di queste sirene meravigliose quali
sono gli anti-filosofi. Per questo ho il dovere di pensare all’altezza delle sfide da loro lanciate.
Al pari di Ulisse, incatenato al solido albero di quel che accade nel pensiero
dell’Assoluto dal tempo di Platone, dovrà starli a sentire, capirli e imporsi
doveri la cui acrimonia gli ricorda che in loro assenza lui diventerebbe un
consensuale democratico, un commerciante della felicità spicciola e perbene e
un adepto dell’imperativo «Vita senza Idea».
Ciò che
mi appassiona in questi violenti e straordinari avversari è questo: contro la
moderazione contrattuale e deliberante che oggi ci si vuole infliggere come
norma, ci ricordano che il soggetto se ha una possibilità di starsene
all’altezza dell’Assoluto è solo nell’elemento teso e paradossale della scelta. Occorre scommettere, dice Pascal. Occorre
incontrare dentro di sé, dice Rousseau, la voce della coscienza. E Kierkegaard:
« Con la scelta il singolo si pianta in quello che è stato scelto, e se non
sceglie deperisce ». Quanto alla felicità reale, essa è subordinata agli
incontri casuali che ci impongono di scegliere. Lì compare la vera vita o,
quando cediamo, essa scompare appena intravista.
Questione
di vita o di morte, scommessa, scelta, decisione imperiosa. Il soggetto esiste
solo dentro questa prova e nessuna felicità è immaginabile se l’individuo non
va oltre il tessuto delle mediocri soddisfazioni nelle quali sguazza la sua
oggettività animale, per diventare il Soggetto di cui è capace: ogni individuo
dispone, più o meno segretamente, della capacità di diventare Soggetto.
Da qui un tratto affascinante:
che ogni episodio della vita, per quanto
triviale o infimo, può essere l’occasione di sperimentare l’Assoluto, e dunque
la felicità reale, nella misura in cui esso chiama a una scelta pura, priva di
un concetto preventivo, senza una legge ragionevole, una scelta che è secondo
Kierkegaard «quel battesimo della volontà che le dà carattere etico».
Quando Kierkegaard fa dei suoi amori con Régine la prova suprema nella quale si
gioca il passaggio dallo stadio estetico (la seduzione di Don Giovanni) allo
stadio etico (la serietà esistenziale del matrimonio), poi allo stadio religioso
(il sé purificato e assolutizzato, il sé
diviene attraverso la scelta, oltre la disperazione), egli esprime un tratto tipico dell’anti-filosofia, che è
che l’esistenza qualunque, l’individuo anonimo, può realizzare la possibilità
dell’Assoluto. Per la qual cosa
l’anti-filosofo è un profondo democratico. Non si preoccupa degli statuti, delle qualifiche, dei contratti. Il
dibattito, la libertà delle opinioni, il rispetto dell’altro, il suffragio, di
tutto questo afferma che sono solo cazzate. Invece, chiunque equivale a
chiunque altro in relazione alla possibilità di diventare un soggetto
mobilitato dall’Assoluto. L’uguaglianza
è in questo senso radicale, senza condizioni. Kierkegaard glorifica l’individuo
qualunque che sa praticare questa rassegnazione, questa suprema passività,
grazie alla quale «il soggetto non può avere una vera vita nella vita
immediata, ma si vede significare ciò che potrebbe davvero incontrare nella
vita».
La
parola «incontro» è essenziale. Un amore, un tumulto, un poema: tutto questo non si deduce, non si
distribuisce nella serenità autorizzata delle assegnazioni, questo lo si
incontra, e dal violento rovesciamento della vita immediata deriva un accesso
singolare e universale all’Assoluto. Ogni
felicità reale avviene nell’incontro contingente, non vi è alcuna necessità
nell’essere felici. Solo gli
individui «democratici» del mondo contemporaneo, atomi desolati, si immaginano
che si possa vivere nella pace delle leggi, dei contratti, del
multiculturalismo e delle discussioni tra amici. Non vedono che vivere è vivere
assolutamente, e che dunque nessuna confortevole oggettività può assicurare
questa vita. Bisogna corrervi il rischio di diventare-soggetto. Occorre, come
ci insegna Kierkegaard, «l’incertezza oggettiva tenuta ferma nell’appropriazione
della più appassionata interiorità».
Preservare
«l’incertezza oggettiva»: questa contestazione anti-filosofica dei poteri
dell’oggettività è una massima salutare. Perché chinarsi di fronte a ciò che è, per la sola ragione che questo
è? Apprestandosi ad evitare le possibilità della libertà, Rousseau dichiara, è
il suo discorso del metodo: «Tralasciamo i fatti». Ha ragione. Il «realismo»
economico e politico è una grande scuola di sottomissione. L’individuo può
sguazzarci e il soggetto non vi può accadere. Poiché un soggetto nasce
dall’incontro non calcolabile di un possibile ignorato, al quale si annoda un
divenire-soggetto, l’unico punto dal quale si possa dire, come Pascal, «gioia,
piango di gioia».
Non
passa giorno in cui non ci vengono spiegati i vincoli della globalizzazione e della modernizzazione, senza contare le
regole inamovibili della democrazia conviviale, ragionevolmente obbligati a
consentire a questo o a quell’altro. I
grandi anti-filosofi perlomeno servono a slacciare questi tranelli del consenso.
Anche a supporre che voltare la schiena a
tutto questo sia disperante o assurdo, è altamente probabile che questa sia
l’unica via del soggetto, dell’unica capacità irriducibile che è la sua
propria: muoversi nell’elemento della verità. Se anche, come constata Kierkegaard, «scegliendo nel senso
assoluto», ovvero contro l’ingiunzione della ragionevolezza e della legalità,
«scelgo la disperazione», resta il fatto che «nella disperazione ho scelto
l’Assoluto, poiché io stesso sono l’assoluto». In questo senso, una buona dose di disperazione — ed è la ragione per
cui per questi grandi tormentati di anti-filosofi l’assenza di allegria è la
condizione della felicità reale.
Queste formule suggestive ci
ricordano che diventare soggetto di una verità,
e dunque partecipare in minima parte
all’Assoluto, è una possibilità che
l’esistenza ci propone nella forma di un incontro. Se in genere attenersi inflessibilmente alle conseguenze di questo
incontro è, agli occhi del mondo per come si presenta, assurdo ed esecrabile,
se questa condanna anticonformista ci getta nella disperazione, in gioco c’è
comunque il nostro accesso a ciò che possiamo essere e la strada soggettiva è
senz’altro quella dell’ostinazione, della scelta pura di farsi carico delle
conseguenze della nostra déroute. All’evidenza è l’istanza della déroute
che Sartre riscontrava già in Kierkegaard, per mettere in dialettica ciò che
comunque lo affascinava: la grande strada della Storia aperta per noi dai
cantieri monumentali di Hegel e Marx.
È che non potremmo parlare di
soggetto di una verità (amorosa, politica, artistica, scientifica...) senza
introdurre l’idea di una creazione, quand’anche il contesto di questa creazione
fosse determinato e ripetitivo (Kierkegaard è del resto il maggior filosofo
della ripetizione). E la creazione
esige lo scarto da sé a sé, l’esistenza paradossale di una differenza
nell’identico, senza le risorse della mediazione hegeliana. Che Kierkegaard
sintetizza in questo modo:
«Questo
sé non è esistito prima, poiché esso è diventato con la scelta, eppure esso è
esistito poiché è certamente “lui stesso”».
È la testimonianza, per noi
filosofi esemplare, dei grandi anti-filosofi, questi risentiti sacrificati del
concetto: l’esistenza può ben di più
della sua perpetuazione. È capace,
nell’elemento della verità, di effetti soggetti. E l’affetto di questo effetto,
sia esso l’entusiasmo politico, la beatitudine scientifica, il piacere estetico
o la gioia amorosa, è sempre ciò che merita, al di là di ogni soddisfazione dei
bisogni, il nome di felicità.
Certo,
per contenere la loro violenza, o il loro fantasma, a questi liquidatori del
concetto servono la religione, Dio, delle vite miserabili, degli odi,
dell’assurdo... Ma la loro lezione permane. Se vuoi diventare altro da ciò che ti è comandato di essere puoi
affidarti solo agli incontri, vota la tua fedeltà a ciò che è ufficialmente
bandito, ostinati lungo i sentieri dell’impossibile. Vai fuori strada. Allora
potrai, come dicono le ultime parole di quel magnifico testo di Beckett che è
Mal visto mal detto, «conoscere la felicità».
C A P I
T O L O T E R Z O
Per
essere felici occorre cambiare il mondo ?
Una
grande tradizione di immemoriale saggezza persevera nel dire che l’uomo deve
adattare i suoi desideri alle realtà piuttosto che voler adattare le realtà al
suo desiderio. In questa
prospettiva il reale è un fatum, e la maggiore felicità della quale l’umanità è
capace risiede nella serena accettazione dell’inevitabile. La filosofia
stoica ha dato forma a questa «saggezza» costantemente dominante, ivi oggi
quando si dà nella seguente formulazione: la
piccola felicità domestica, consumistica, cablata e vacanziera che il
capitalismo e la sua «democrazia» offrono ai privilegiati cittadini
dell’Occidente non sarà di intensità eccezionale, ma desiderare altro — il
comunismo ad esempio — porta immancabilmente al peggio.
Quando Saint-Just, in piena Rivoluzione francese, scrive che «la felicità è un’idea nuova in Europa»,
è a tutt’altra visione delle cose che chiama il soggetto umano. La Rivoluzione deve sradicare il vecchio
mondo e stabilire un legame essenziale tra la virtù (il cui contrario è la
corruzione, invariante risorsa del potere dei ricchi) e la felicità. Il che
significa che un totale cambiamento del mondo, un’emancipazione dell’umanità intera rispetto alle forme oligarchiche
che immancabilmente la opprimono, dalla schiavitù antica al capitalismo, è
la condizione preventiva perché una
felicità reale possa offrirsi a tutti come possibilità vitale.
Per
tutto il XIX e buona parte del XX secolo, sul piano mondiale continua a
circolare la concezione per la quale per essere felici occorre cambiare il
mondo. La questione da discutere all’interno dell’irresistibile
corso di natura rivoluzionaria è allora: Come
cambiare il mondo?
Ci si accorge alla svelta che la
domanda non è semplice affatto, contenendo tre parole piuttosto difficili,
ovvero il sostantivo «mondo», il verbo
«cambiare» e l’avverbio interrogativo «come». Già da subito ci troviamo di
fronte a un sintagma grammaticale complesso.
Cominciamo dalla parola «mondo». Cos’è esattamente un mondo o,
come ci viene detto spesso, che cos’è il
«nostro mondo», il mondo contemporaneo? Se non chiariamo da subito cosa
intendiamo per «mondo», il titolo del presente capitolo rischia di diventare
molto oscuro.
Prendiamo un esempio dei giorni
nostri: il famoso movimento del 2012 di
una frazione della gioventù americana, movimento che si è dato il nome di
Occupy Wall Street. Qual è il mondo che questa rivolta, questa sollevazione
vorrebbe cambiare? È Wall Street in quanto simbolo del capitalismo finanziario?
Chi protestava diceva: «Rappresentiamo il 99% della popolazione, mentre Wall
Street rappresenta solo l’1%». Questo forse significa che il mondo contro il
quale protestavano era, al di là della mera economia, il simulacro politico
della democrazia, nella quale un piccolo gruppo di gente ricca e potente, mossa
dai propri interessi privati, controlla le vite di milioni e milioni di altra
gente? Affermavano che la felicità
collettiva ha per condizione il porre fine a una «democrazia» nella quale
questo piccolo gruppo, l’1%, può decretare la miseria assoluta di milioni di
persone che vivono lontani dalle metropoli occidentali, ovvero in Africa o in
Asia? Eppure, è anche possibile osservare che gli occupanti di Wall Street
erano principalmente giovani uomini e giovani donne della classe media. Stavano
forse protestando contro una vita triste, precaria, una vita priva di un futuro
radioso, che è quella di tanti giovani uomini e giovani donne delle metropoli
del nostro mondo occidentale? E in
questo caso la loro richiesta non era tanto di «cambiare» il mondo, piuttosto
quella di testimoniare attivamente, per qualche giorno o qualche settimana, di
qualcosa di falso e di infelice nella nostra esistenza collettiva. Ed è allora
probabile, come ha dimostrato il seguito, che dietro questa condizione di
spirito disperatamente soggettiva non vi fosse alcuna chiara rappresentazione
del mondo oggettivo e dei principi del suo cambiamento in una direzione di emancipazione
della felicità, della felicità in quanto idea nuova. In verità, ciò che il
mondo doveva realmente essere e diventare restava velato da una gioia
momentanea del movimento.
Perché
«mondo» non è affatto una parola semplice. A partire da quale scala possiamo
cominciare a parlare di mondo? È chiaro che occorre definire diversi livelli di
generalità, o di esistenza, per capire che cos’è un mondo. Propongo quindi di
distinguerne cinque.
Anzitutto, c’è il nostro mondo interiore di rappresentazioni, di
passioni, di opinioni, di ricordi: il mondo degli individui con il loro corpo e
la loro anima. In secondo luogo, possiamo definire i mondi collettivi costituiti da gruppi formati: quello della mia
famiglia, della mia professione, della mia lingua, della mia religione, della
mia cultura o della mia nazione. Si tratta di mondi dipendenti da un’identità
fissa. Possiamo anche considerare la
storia globale dell’umanità come un mondo. Non si tratta né di un gruppo
chiuso né di un’identità fissa, è un processo aperto che include svariate e
importanti differenze. Dobbiamo anche considerare il contesto naturale,
l’essere inclusi in una natura che abbiamo in condivisione con le pietre, le
piante, gli animali, gli oceani... Questo
mondo è il nostro pianetino Terra. E alla fine, al quinto livello, vi sono
l’universo, le stelle, le galassie, i buchi neri... Abbiamo insomma il mondo
degli individui, che è quello della psicologia; il mondo dei gruppi chiusi,
della sociologia; il mondo del processo aperto, che è l’esistenza dell’umanità,
o della storia; il mondo naturale, quello della biologia e dell’ecologia; e
infine l’universo, il mondo della fisica e della cosmologia.
Passiamo adesso alla seconda
difficoltà, il verbo «cambiare». È
chiaro che la nostra potenzialità o la
nostra capacità di cambiare un mondo è del tutto legata al livello di
definizione di questo mondo. Se sono sposato e mi innamoro di un’altra donna,
questo può anche definire un cambiamento molto importante dei due primi
livelli: il mio mondo individuale — le mie passioni, le mie rappresentazioni
ecc. — e il mio mondo familiare chiuso. E senz’altro ciò influisce non poco
sulla mia rappresentazione della felicità personale.
A un
secondo livello, vi sono molte forme di cambiamento: la rivoluzione, le
riforme, le guerre civili, la creazione di nuovi Stati, la scomparsa di una
lingua, il colonialismo o persino ciò che Nietzsche chiama «la morte di Dio». A ciascuno di questi cambiamenti
corrispondono evidentemente nuove dialettiche della felicità e dell’infelicità.
A un
terzo livello, quello della storia, vi sono da un lato i concetti contrastanti
di progresso, internazionalismo o comunismo e dall’altro di capitalismo come
fine della storia, democrazia come universale oggettivo e, dietro questi
termini prestigiosi, l’imperialismo oggettivo e il nichilismo soggettivo. Sono —
l’ho già detto — altrettante possibili
cornici di una filosofia della felicità, tanto storica e rassegnata che
rivoluzionaria e militante. A un quarto livello, abbiamo l’attuale grande
dibattito sui problemi ecologici, i cambiamenti climatici e il futuro del
nostro pianeta. Una risorsa per una concezione millenarista della felicità
della specie umana. Al quinto livello non possiamo fare granché: siamo solo una
piccola parte, un frammento insignificante dell’universo globale. Eppure,
cerchiamo segni di vita al di là del nostro miserabile pianeta forse con la
speranza di incontrare un giorno forme del tutto inedite di beatitudine.
Qual è l’esatto significato del
verbo «cambiare» in tutto questo? Ritengo infatti che le distinzioni e le
definizioni che abbiamo siano troppo imprecise per fornirci un significato
chiaro dell’espressione «cambiare il mondo». Dopo tutto non è vero che un mondo
può cambiare in quanto totalità. Occorre
vedere le cose in funzione dei diversi livelli semantici della parola «mondo».
Un individuo può cambiare per tutta la vita, ma alcune parti delle suo mondo
soggettivo sono invarianti, così come alcuni tratti del suo corpo o alcune
formazioni psichiche fondamentali determinate dall’esperienza dell’infanzia.
Possiamo superare i limiti dei nostri gruppi chiusi, ma non possiamo evitare
del tutto di essere determinati da un’origine, una lingua e un retroscena culturale
della nostra nazionalità. La stessa cosa vale per un’azione compiuta in una
storia aperta o per gli sforzi nel modificare o preservare l’ambiente naturale.
In
qualunque circostanza geografica o storica, si può osservare la possibilità di
un cambiamento locale in modo determinato, possono poi esserci conseguenze di
questo cambiamento locale, talvolta conseguenze a lungo raggio con successivi
rimaneggiamenti tanto della rappresentazione quanto nel reale della felicità.
Un cambiamento non compare mai immediatamente in modo chiaro come «cambiamento
del mondo». È ritenuto grande o piccolo relativamente a questo mondo,
unicamente in forma retroattiva, attraverso le conseguenze che ha suscitato.
Prendiamo il famoso esempio
della rivoluzione bolscevica in Russia nell’ottobre
1917. Il grande giornalista americano John
Reed ha scritto un racconto di questa rivoluzione al quale ha dato il
titolo I dieci giorni che sconvolsero il
mondo. Ma di che mondo si tratta?
Certamente non era un completo rovesciamento del mondo capitalistico, come Marx
o Lenin sognavano (Lenin era convinto che la rivoluzione russa fosse solo
il principio di un processo globale del quale la seconda tappa sarebbe stata la
rivoluzione in Germania). Sia come sia, questo
evento locale ha avuto conseguenze di lunga portata. Ha assunto il ruolo di
riferimento di base per qualunque attività rivoluzionaria e ha rappresentato
una parte importante — dall’Unione sovietica alla Cina comunista passando per
la guerra del Vietnam o per Cuba — del «mondo del XX secolo». Ma durante la seconda metà di questo secolo
abbiamo di fatto assistito al crollo di tutti gli «Stati socialisti» che si
erano sviluppati sull’onda della rivoluzione bolscevica del 17. È dunque solo
oggi che possiamo capire il titolo del libro di John Reed. Certamente una parte
del mondo è stato scrollato dalla rivoluzione russa. Certamente le sue
conseguenze a lungo raggio permettono di definire questo evento un cambiamento
reale, un considerevole cambiamento. Ma
in fin dei conti il mondo globale di oggi è dominato dal capitalismo quasi in
modo identico rispetto al mondo che ha preceduto questo evento. Possiamo allora
concluderne che il maggiore cambiamento politico del XX secolo non ha «cambiato
il mondo».
Di
conseguenza, anche per capire l’avverbio «come», propongo di sostituire all’idea di «cambiare il mondo» un
complesso di tre parole, di tre concetti: l’evento, il reale, le conseguenze.
Provo ora a spiegare nel modo più chiaro possibile questa terminologia
filosofica e il suo legame con il problema più generale della felicità.
L’evento
è il nome di qualcosa che si produce localmente in un mondo e che non può
essere dedotto dalle leggi di questo mondo. È una rottura locale nell’ordinario
divenire del mondo. Sappiamo che in
genere le regole del mondo producono una specie di ripetizione dello stesso
processo. Ad esempio, nel mondo capitalistico, Marx proponeva di spiegare
integralmente la ripetizione dei cicli dell’investimento della moneta, della
sua trasformazione in beni e del ritorno alla moneta, o ancora il rapporto
ripetitivo tra salari, prezzo e profitto. Più in generale descriveva il
processo globale del capitale che mette in relazione la produzione e la
circolazione. Ha ugualmente proposto una spiegazione chiara di come le crisi
cicliche non siano rotture nel divenire del capitalismo, bensì elementi
razionali del suo sviluppo. Ed è precisamente per questo che un evento non
è in alcun modo una crisi classica. Ad esempio, la crisi economica attuale in Europa non è un evento, è parte
costitutiva del mondo capitalistico globalizzato. Un evento è qualcosa che si
produce localmente nel mondo capitalistico globalizzato, ma che non può essere
compreso nella sua interezza se ci si accontenta di ricorrere alla logica
ripetitiva del capitale, incluse le leggi delle crisi sistemiche.
La forza
di un evento risiede nel fatto che esso espone qualcosa del mondo che restava
nascosto, o invisibile, perché mascherato dalle leggi di quel mondo. Un evento è la rivelazione di una parte del
mondo che non esisteva precedentemente, se non in forma di un vincolo negativo.
E la correlazione tra questa rivelazione
e il problema della felicità è chiara: poiché si tratta della rimozione di un
vincolo, all’istante per tutti coloro che subivano quel vincolo senza
riconoscerlo emergono chiaramente possibilità inedite di pensiero e azione.
Ecco una
definizione possibile di felicità: scoprire in se stessi una capacità attiva
che si ignorava di possedere.
Ne fornisco due esempi.
Perché
il maggio ’68 è stato un evento reale in Francia? E perché, al di là di una
certa disillusione, per quello che comunemente viene chiamato il «fallimento»
rivoluzionario, questo evento ha lasciato ai suoi attori, perlomeno a quelli
che la corruzione degli anni Ottanta non ha trasformato in morti viventi, il
ricordo di un momento intenso, trasfigurato, assolutamente felice — anche se
angosciato — della loro esistenza? La ragione sta nel fatto che l’occorrenza simultanea di una rivolta
massiccia degli studenti e del più grande sciopero generale mai visto degli
operai delle fabbriche ha rivelato, all’interno del mondo «Francia anni
Sessanta», che la rigida separazione tra giovani intellettuali e giovani
lavoratori in quanto legge di quel mondo era una necessità ormai desueta. L’evento ha rivelato precisamente che questa
legge poteva, e in ultima istanza doveva, essere sostituita dal suo contrario:
Una nuova corrente politica
risultato dell’unione diretta tra giovani intellettuali e operai. Se in questa
vicenda il partito comunista francese non è stato un attore positivo, piuttosto
un bersaglio del movimento, è perché era a sua volta organizzato a partire
dalla legge di tale separazione: qualunque relazione diretta tra i comparti
intellettuali e i comparti comunisti delle fabbriche era rigorosamente vietata.
Ed è la ragione per cui questo partito era anch’esso parte del vecchio mondo. Il reale del «nuovo» mondo, nella cornice
del vecchio mondo rivelato dall’evento, consisteva nell’affermazione che una
forma di unità politica, vietata da tutte le componenti del mondo precedente,
era possibile. E la scoperta che
fosse assolutamente possibile tracciare nella società il percorso di questa
unità, rompere le barriere sociali, diventare gli uguali di una politica che si
andava inventando mentre si metteva in pratica, tutto questo era fonte di
un’illuminazione soggettiva senza precedenti.
Altra illustrazione della forza
reale di un evento è la famosa piazza
Tahrir durante la primavera araba in
Egitto. Un rapporto nel migliore dei casi di indifferenza, e nel peggiore di antagonismo,
tra musulmani e cristiani era la legge comunemente accettata nel mondo
nazionale «Egitto». Ma durante
l’occupazione della piazza da parte delle masse popolari si osserva a una
stretta unità tra le due comunità, in quanto nuova legge possibile del mondo.
Dei cristiani proteggevano dei musulmani
durante le preghiere e più in generale identici erano gli slogan politici di
entrambe le comunità. E anche in questo caso, benché il divenire storico
sia stato segnato da una circolarità mortifera — la rottura tra la piccola
borghesia educata e gli islamisti con il risultato di riportare i militari al
potere —, la traccia soggettiva di questo
tempo unitario resta come ciò che inevitabilmente illuminerà il futuro.
In entrambi i casi il nuovo reale rivelato dall’evento assume la forma
di una nuova unità che va al di là delle differenze stabilite fino a quel
momento. Ma queste differenze erano
«stabilite» nel mondo in quanto leggi di quello stesso mondo. Leggi che, al
pari di tutte le leggi, prescrivevano ciò che è possibile e ciò che è
impossibile. Ad esempio che intellettuali e normali operai dovessero essere
separati nella vita quotidiana, così come nell’azione collettiva o nel
pensiero. Ma nei fatti il maggio ’68 ha affermato la possibilità politica di
un’unità diretta del pensiero, dell’azione e dell’organizzazione tra i due
gruppi. La stessa cosa vale per il rapporto tra musulmani e cristiani in
Egitto.
Tutto
questo ci consente un’osservazione fondamentale: grazie alla forza di un
evento, non sono poche le persone che scoprono che il reale del mondo può
collocarsi dentro qualcosa che è semplicemente impossibile dal punto di vista
dominante di quello stesso mondo. Ritroviamo qui il significato profondo di uno degli slogan del maggio
’68 francese: «Siate realisti, chiedete l’impossibile!». A partire dal quale è
possibile intendere la frase un po’ misteriosa di Lacan: «Il reale è
l’impossibile».
La nuova
affermazione, il grande «sì» che il reale del mondo dichiara dietro pressione
di un evento è sempre la promessa della possibilità che sia possibile qualcosa
che anteriormente era impossibile. E in questo senso possiamo dire che la
felicità è sempre godimento dell’impossibile.
Ciò che chiamo «conseguenze
dell’evento» è allora un processo concreto nel mondo che sviluppa le diverse
forme di possibilità di quanto era impossibile. È dunque anche qualcosa
dell’ordine della potenza esecutiva della felicità.
Ho proposto di chiamare questo
genere di processo «fedeltà» all’evento; in altri termini quelle azioni,
creazioni, organizzazioni e pensieri che accettano la nuova possibilità
radicale di ciò la cui impossibilità era legge del mondo. Allora possiamo dire:
ogni felicità reale è una fedeltà.
Essere
fedeli significa diventare il soggetto del cambiamento, accettando le conseguenze
di un evento. Possiamo
dire anche che la novità ha sempre le sembianze di un nuovo soggetto, la cui
legge è la realizzazione nel mondo di un nuovo reale rivelato — in quanto punto
di impossibilità—come una possibilità vietata dal «vecchio» mondo.
Allora diciamo: la felicità è l’accadimento, in un
individuo, del Soggetto che scopre di poter diventare diversamente.
Il nuovo
soggetto esiste quando persone si accorpano all’organizzazione, alla
stabilizzazione e alle forme capaci di tollerare le conseguenze dell’evento.
D’altro lato, il soggetto non è del tutto soggetto alle leggi del mondo. Dunque
il nuovo soggetto è contemporaneamente dentro e fuori il vecchio mondo.
Possiamo dire che è immanente al mondo, ma nella forma di un’eccezione.
Proponiamo
allora che la felicità è l ’affetto del Soggetto in quanto eccezione immanente.
Riterremo allora tre tratti fondamentali del nuovo soggetto,
che possiamo appunto intendere come soggetto della felicità.
Anzitutto, la libertà di questo soggetto consiste nel creare qualcosa nel mondo,
ma in quanto eccezione.
Una
creazione di quest’ordine assume le conseguenze del fatto che il reale che è
stato rivelato dall’evento si oppone ad alcune costrizioni negative del mondo. Così,
la vera essenza della libertà per
questo soggetto non è fare quel ha voglia di fare, poiché quel «che gli va di fare» in quanto tale è
parte dell’adattamento al mondo così com’è. Se il mondo
fornisce gli strumenti per fare quel che si ha voglia di fare, è perché ci si
trova a obbedire alle leggi di questo mondo così com’è. Nel caso di una
creazione reale, si dovranno anche produrre alcuni, per non dire tutti, degli
strumenti della nostra creazione. La vera
libertà è sempre un modo di fare ciò che è prescritto dal reale in quanto
conseguenza eccezionale nel mondo. Di conseguenza, la vera essenza della
libertà, condizione essenziale della felicità reale, è la disciplina. Ecco perché la creazione artistica può
servire da paradigma. Tutti sanno che
un artista obbedisce alla severa legge dell’innovazione, del lavoro paziente e
spesso estenuante per poter riuscire giorno dopo giorno a trovare le forme di
una nuova rappresentazione del reale. È
certamente anche il caso dell’innovazione scientifica. Più in generale
dobbiamo affermare che un soggetto esiste in quel punto in cui è impossibile distinguere tra disciplina e
libertà. L’esistenza di un tale punto è segnalata da una felicità intensa,
della quale testimonia in particolare l’espressione poetica, che è
indivisibilmente la lingua «in libertà» e una rigida disciplina formale.
In
secondo luogo, il soggetto non può essere chiuso da un’identità. In
quanto eccezione immanente, il processo emancipativo è aperto e
infinito. Poiché, l’opera di un soggetto, collocandosi in una certa misura al
di fuori delle limitate costrizioni del mondo, è sempre universale e non può
essere ridotta alle leggi di questa o quest’altra identità. Un’opera d’arte, una scoperta scientifica,
una rivoluzione politica, un vero amore tutti interessano l’umanità in quanto
tale.
È appunto
per questo che gli operai, che non possiedono niente e che sono ridotti alle
loro rispettive capacità corporee, sono agli occhi di Marx la parte generica
dell’umanità. L’assenza di identità, la negazione generica delle identità,
spiega ugualmente la famosa dichiarazione del Manifesto del partito comunista:
«I lavoratori non hanno patria».
Dal punto di vista oggettivo del
mondo, un soggetto, in quanto immanente a un mondo, ha sempre una patria. Ma dal punto di vista del processo di
emancipazione, un soggetto, in quanto eccezione immanente, è generico e senza
patria. E la felicità, lo sappiamo,
con la propria potenza soggettiva sfianca ogni ostacolo identitario.
È
appunto il senso della formula «gli innamorati sono soli al mondo», la quale
significa che la loro opera specifica — l’amore — disidentifica tutto ciò che
potrebbe distinguerli, separarli.
In terzo
luogo, l’essere felice del soggetto, l’ho già detto, risiede nella scoperta
all’interno di se stesso della capacità di fare qualcosa di cui non si sapeva
capace. Tutto sta nel superamento
— nel
senso hegeliano, Aufhebung —, ovvero nel passare oltre il limite apparente,
scoprendo che è in esso che sta la risorsa del suo superamento. In questo
senso, ogni felicità è una vittoria contro la finitudine.
A questo punto occorre
introdurre una distinzione radicale tra
«felicità» e «soddisfazione». Sono
soddisfatto quando vedo che i miei interessi individuali sono in conformità con
quanto il mondo mi offre. La soddisfazione è allora determinata delle leggi del
mondo e dall’armonia tra il mio io e queste leggi. In ultima istanza, sono
soddisfatto quando posso sentirmi sicuro di essere ben integrato nel mondo.
Ma si può obiettare che la soddisfazione
sia in realtà una forma di morte soggettiva, perché l’individuo, ridotto alla
sua conformità al mondo così com’è, è incapace di diventare il soggetto
generico che può essere.
In un
processo di emancipazione sperimentiamo il fatto che la felicità è la negazione
dialettica della soddisfazione. La felicità sta sul fronte dell’affermazione,
della creazione, della novità e della genericità. La soddisfazione sta sul
fronte di ciò che Freud chiamava la pulsione di morte, la riduzione della
soggettività all’oggettività. La soddisfazione è la passione di cercare e
trovare «il buon posto» che il mondo offre all’individuo, per poi restarci.
Ed è la
ragione per cui questo testo parla della stretta relazione tra felicità e
soggettivazione di un processo post-evenemenziale di emancipazione (politica),
di creazione (artistica), di invenzione (scientifica) o di alterazione, nel
senso di divenire-altro-in-se-stessi (l’amore).
Giunti a questo punto possiamo
tornare all’interrogativo rappresentato dal titolo del capitolo «Come cambiare il mondo?».
La risposta potrebbe essere: diventando una parte soggettiva delle
conseguenze di un evento locale. Potremmo dire altrimenti: restando fedeli a un
evento, creando un’equivalenza tra libertà e disciplina, inventando una nuova
forma di felicità che sia una vittoria sulla dittatura della soddisfazione e il
potere della pulsione di morte. Sappiamo che qualcosa in un mondo sta
cambiando, quando sperimentiamo il fatto che la felicità non è l’oggetto
predeterminato del processo del cambiamento, ma la soggettivazione creatrice
del processo stesso. Il mondo sta cambiando quando possiamo dichiarare, come fa
Saint-Just, che la felicità è un’idea nuova.
Questa
visione era fondamentale nella concezione della rivoluzione di Marx. Come
sappiamo, il nome della nuova possibilità di giustizia collettiva era per lui
«comunismo». La costrizione negativa del capitalismo, rivelata dall’evento
rivoluzionario, è chiara: per il capitalismo l’uguaglianza è impossibile. Di
conseguenza «comunismo» è il nome della possibilità politica di tale
impossibilità: la possibilità dell’uguaglianza. Ma, come vediamo nei
Manoscritti del 1844 e nel suo famoso Manifesto, Marx non pensa che comunismo
sia il programma di una nuova società o un’idea astratta della giustizia.
Comunismo è il nome del processo storico di distruzione della vecchia società.
Per questo cambiare non è ottenere un risultato. Il risultato risiede nel
cambiamento stesso.
Questa visione può forse essere
riportata su un piano più generale:
La
felicità non è la possibilità della soddisfazione di ciascuno. La felicità non
è l’idea astratta di una buona società nella quale tutti siano soddisfatti. La
felicità è la soggettività di un compito difficile: trovarsi alle prese con le
conseguenze di un evento e scoprire, dietro l’esistenza sbiadita e fiacca del
nostro mondo, le luminose possibilità offerte dal reale affermativo, del quale
la legge di questo mondo era la negazione nascosta. La felicità è godere dell’esistenza potente
e creatrice di qualcosa che dal punto di vista di questo mondo era impossibile.
Come cambiare il mondo? La risposta è in realtà esilarante: essendo felici. Ma
si dovrà pagarne il prezzo, che è quello di esserne a tratti davvero
insoddisfatti. È una scelta, la vera scelta delle nostre vite. È la vera scelta
riguardante la vera vita.
Il poeta
francese Arthur Rimbaud scriveva: «La vera vita è assente». Ciò che qui provo
ad affermare si riassume a questo: a voi decidere che la vera vita sia
presente. Scegliete la nuova felicità e pagatene il prezzo!
C A P I
T O L O Q U A R T O
Come abbiamo visto nei capitoli
precedenti, «felicità» è una parola sintetica che vale per molti risvolti di
procedure di verità differenti. Nel mio libro Logiche dei mondi (2006), per la
prima volta in modo esplicito, affermo che la partecipazione di un individuo a
una verità viene espressa da un affetto e che per ogni tipo di verità vi è un
affetto diverso. Nel libro in questione alla fine mi soffermo sulle seguenti
definizioni: parlo di entusiasmo per l’azione politica, di beatitudine per la
scoperta scientifica, di piacere per la creazione artistica e di gioia per il
travaglio amoroso. È vero che questi affetti non li ho veramente descritti. Non
sono entrato in una fenomenologia del loro specifico valore individuale. Potrò
porvi rimedio, almeno in parte, se riesco a scrivere il terzo volume della
serie il cui titolo generale è L’essere e l ’evento dedicato all’immanenza
delle verità.
Un libro che tra l’altro verterà
sull’insieme di ciò che accade per un individuo
determinato quando egli si incorpora
a una procedura di verità, quando è preso nell’Idea. Dovrò allora
affrontare punti nuovi, nello specifico quello della differenza tra questi affetti: la beatitudine non è il piacere, il
piacere non è la gioia e l’entusiasmo differisce dagli altri tre.
Ma qual è la necessità
complessiva di un terzo libro, dopo L’essere e l’evento e Logiche dei mondi? E
in che misura tale necessità porta per la precisione sulla natura degli affetti
e dunque sul nesso tra filosofia e idea
della felicità?
Anzitutto mettiamo le cose in
prospettiva. Lo si può fare in modo abbastanza semplice. L’essere e l’evento
può essere considerato come la prima parte di una costruzione in più tempi,
parte che concerne specificatamente il problema dell’essere. Che ne è
dell’essere, dell’«essere in quanto essere» come lo chiama Aristotele? Che ne è
dei percorsi e degli strumenti per conoscerlo? La mia affermazione ontologica è che l’essere in quanto essere è
molteplicità pura, ovvero molteplicità non composta di atomi.
L’essere
è evidentemente composto da elementi, ma questi elementi sono molteplicità a
loro volta composte da molteplicità. Arriviamo comunque a un punto di arresto, che non è in alcun modo l’Uno
— poiché l’Uno non può essere altro che un atomo — bensì il vuoto. Ecco allora la mia affermazione sull’essere.
Quanto alla conoscenza dell’essere,
la mia proposta è quella di identificare l’ontologia — il discorso sull’essere
— alla matematica, a sua volta
considerata come scienza del puro
molteplice, del molteplice «senza qualità» e senza Uno. D’altra parte, L’essere
e l’evento sviluppa, come in contrappunto, una teoria delle verità che è una
teoria formale delle verità: le verità sono come ogni altra cosa delle
molteplicità. La loro singolarità è che esse dipendono da un evento, il quale è
a sua volta una molteplicità evanescente, una molteplicità che non trova nella
situazione in cui ha luogo l’evento alcun fondamento. Una verità è una molteplicità che si compone di conseguenze di un
evento e che è dunque sospesa a un essere infondato. Si tratta allora di sapere di che specie sia questa
molteplicità, paradossale e piuttosto rara, che chiameremo una verità. Il
libro si occupa dunque contemporaneamente di una teoria dell’essere e di una
teoria delle verità, tutto questo nel contesto di una teoria del molteplice
puro affettata di tanto in tanto da un sorgere infondato. Da questo punto di
vista, l’affetto che soggiace all’impresa — all’impresa ontologica — è
principalmente la beatitudine generata dalla comprensione scientifica (nella
fattispecie la matematica delle molteplicità). Chiunque abbia fatto esperienza
della condizione in cui ci si viene a trovare quando, nel cuore della notte,
dopo sforzi inutili e pagine e pagine di ipotesi, all’improvviso si illuminano
l’architettura di una dimostrazione e il senso che essa conferisce a una
teoria, sa di cosa sto parlando. La
beatitudine è il nome della felicità prodigata dall’essere in quanto essere,
colto nella scrittura della sua purezza.
La seconda parte di questa
costruzione, il libro Logiche dei mondi, si aggancia al problema dell’apparire. Si tratta di una teoria di ciò che, dell’essere, appare in mondi
determinati e forma relazioni tra gli oggetti di questi mondi. Ciò che propongo
è che questa parte della costruzione di insieme sia una logica. Si tratta di
una logica nella misura in cui essa non verte più sulla composizione di ciò che
è, ma sulle relazioni che si tessono tra le cose che compaiono localmente nei
mondi. Insomma dopo una teoria dell’essere, una teoria dell’essere - là —
per usare un vocabolario non troppo lontano da quello di Hegel—, ovvero dell’essere per come è collocato e disposto
all’interno delle relazioni di un mondo singolare. Gli affetti soggiacenti
sono probabilmente, in forma prioritaria, il piacere dell’opera d’arte e la
gioia dell’amore, nella misura in cui sia l’uno che l’altro sono profondamente
legati al godimento di una o più relazioni. Nel
caso dell’arte: la relazione con il sensibile in tutte le sue forme, i diversi momenti della sua «divisione», per
riprendere Jacques Rancière. Nel caso
dell’amore: l’intima esperienza dialettica della differenza e del suo potere
magico di attraversare un mondo liberato dalla solitudine.
In Logiche dei mondi il problema
della verità è ovviamente ripreso. L’essere e l’evento si occupava dell’essere
delle verità in quanto molteplicità speciali, che alla stregua del matematico
Paul Cohen ho chiamato molteplicità
generiche. Con Logiche dei mondi entriamo nella questione dei corpi reali, della logica delle loro relazioni e nello
specifico in quella dell’apparire delle verità. Se tutto ciò che in un
mondo compare è un corpo, occorre affrontare la questione del corpo di una
verità. Questo secondo volume ha dunque l’intenzione di una teoria dei corpi
che possa essere una teoria del corpo delle verità. Laddove il primo volume ha
per obiettivo una teoria delle molteplicità che possa essere anche una teoria
delle verità come molteplicità: delle molteplicità generiche.
Che il
problema del corpo delle verità sia centrale getta evidentemente luce sul fatto
che il piacere (del sensibile formalizzato) e la gioia (dell’altro, del due
sessuato come sovrano del mondo) siano a questo livello le forme più
chiaramente esplorate della felicità.
Il progetto del terzo volume è
quello di esaminare le cose, e dunque
l’essere e l’apparire, dal punto di vista delle verità. Il primo volume si
chiede: che ne è delle verità rispetto all’essere? Il secondo: che ne è delle
verità rispetto all’apparire? Il terzo si chiederà: che ne è dell’essere e
dell’apparire dal punto di vista delle verità? Così avrò chiuso il giro della
questione.
Il problema è che per arrivare a
questo terzo momento sono presupposte lunghe deviazioni e domande difficili. Una verità, dal punto di vista umano, dal
punto di vista antropologico, si compone di incorporazioni individuali
all’interno di insiemi più vasti. Vorrei allora sapere come si presentano il
mondo e gli individui del mondo, come si dispongono, quando li si esamina
all’interno del processo delle verità stesso. È un problema che in un certo
senso rovescia la prospettiva dei due primi volumi. Ci si chiedeva cosa fossero
le verità dal punto di vista dell’essere e dal punto di vista del mondo, adesso
ci si chiede che ne è dell’essere e del mondo dal punto di vista delle verità.
Ci si scontra allora con problemi di scala: le verità, come l’essere, sono
essenzialmente infinite, mentre i corpi, nella misura in cui compaiono nei
mondi, sembrano irrimediabilmente segnati dalla finitudine. Come presentare
oggi questa dialettica del finito e
dell’infinito che tormenta la filosofia almeno fin dalla sua epoca moderna,
già da Cartesio per il quale enigmaticamente l’infinito era un’idea «più
chiara» di quella di finito?
La
felicità ha evidentemente qualcosa a che fare con questa questione, benché una
semplice definizione potrebbe esserne la seguente: ogni felicità è un godimento
finito dell’infinito.
Naturalmente troviamo traccia di
questa difficoltà nelle due opere precedenti. L ’essere e l’evento, in
particolare, contiene una teoria assai complicata dell’effetto di ritorno delle verità infinite sul mondo nel quale, dopo
l’evento che ha dato loro la nascita, esse hanno lavorato. Questo effetto risiede nella figura del
sapere. La tesi è che chiameremo sapere, nuovo sapere, creazione di un sapere,
il modo in cui una verità illumina in modo diverso la situazione ontologica. È
come in Platone: si arriva all’Idea uscendo dalla caverna delle apparenze, ma
occorre tornare giù nella caverna per chiarire ciò che esiste a partire
dall’Idea. E bisogna farlo anche al costo di correre un po’ di rischi. È in effetti nel momento in cui si torna
nella caverna che il rischio è maggiore, nel momento in cui ci si pronuncia,
dal punto di vista di ciò che si ritiene siano delle verità, sul mondo per come
appare e dunque sulle ideologie dominanti. Fin da Platone solo questo rischio
porta a compimento l’idea e dunque la felicità legata alla verità. Perché colui
che si rifiuta di ridiscendere nella caverna, che si sottrae al dovere di
condividere l’universalità del vero, può certo dirsi soddisfatto di essersi impadronito
dell’Idea, ma ignora la felicità che solo la sua condivisione procura.
Il
problema del ritorno l’ho affrontato una prima volta Nell’essere e
l’evento, chiamandolo teoria della
forzatura: si forza una trasformazione del sapere ordinario a partire dalla
verità nuova. È una teoria piuttosto complessa, come già lo è a ben vedere
la teoria del ritorno nella caverna di Platone. In fin dei conti Platone non
dice granché, se non che il ritorno è arrischiato, difficile, incerto per
quanto necessario. Platone ci dice che a
questo ritorno bisogna esserci forzati, altrimenti si resterebbe nel tranquillo
ambito della contemplazione delle verità, ci si accontenterebbe della
soddisfazione e non ci si innalzerebbe fino alla felicità. Qui la parola
forzatura, utilizzata ne L’essere e l’evento in relazione al rapporto tra una
verità e i saperi, sta al posto giusto. Non
si tratta di una procedura naturale, spontanea. Ogni felicità è in un certo
senso ricavata dalla forza del volere.
Quanto a Logiche dei mondi, il
libro non comprende alcuna teoria della forzatura, bensì una teoria delle
intime relazioni tra la singolarità del mondo e l’universalità di una verità,
attraverso il fenomeno delle condizioni concrete, appariscenti, empiriche,
della costruzione del corpo delle verità. Sostengo
che la verità è un corpo. A questo titolo essa è fatta di quel che c’è, ovvero
di altri corpi individuali ed è questo che chiamo incorporazione.
L’incorporazione getta luce sulla modalità attraverso la quale una verità
procede all’interno di un mondo e sulla sua relazione con i materiali di questo
stesso mondo, ovvero i corpi e il linguaggio. In Logiche dei mondi parto
dall’affermazione: «In un mondo non vi è
altro che corpi e linguaggi, se non fosse che vi sono delle verità». Mi
sono allora avventurato in un primo esame materialista di questo «se non che»: le verità sono a loro volta corpi e
linguaggio, corpi soggettivabili. Per chiarire il rapporto delle verità con i
corpi e i linguaggi, ho usato un concetto che è l’equivalente della forzatura
de L’essere e l’evento, ovvero quello di compatibilità. Un corpo di verità è
composto di elementi compatibili, in un senso sia tecnico che elementare: si
lasciano dominare da uno stesso elemento.
Una
verità in fondo è sempre una molteplicità unificata, dominata o organizzata da
qualcosa che rende compatibile ciò che non lo era necessariamente. Per fare un esempio semplice, buona parte
della concezione di cosa fosse un partito rivoluzionario consisteva nel creare
una teoria della compatibilità tra intellettuali e operai, grazie alla quale la
politica avrebbe reso compatibili differenze di classe che normalmente non lo
sono. La teoria di Gramsci dell’intellettuale organico e altre teorie simili corrispondono a questo.
Non si
limitano semplicemente ad affrontare le differenze di classe in quanto
conflitto, ma creano delle compatibilità tra classi che prima non esistevano,
dalle quali deriva ad esempio una teoria delle alleanze di classe. In estetica abbiamo una situazione dello
stesso genere. Un’opera d’arte — considerata come soggetto — crea delle
compatibilità tra cose considerate non compatibili, assolutamente separate. Un
quadro ne crea tra colori che non sembrano destinati ad andare insieme, tra
forme che restavano disparate. Così integra forme e colori dentro una
compatibilità di tipo superiore.
Insomma
il concetto di forzatura, al livello ontologico, e il concetto di
compatibilità, al livello fenomenologico, già affrontano la relazione tra la
verità e la situazione dalla quale la verità procede, dunque in modo implicito
anche la nuova dialettica tra il finito e l’infinito, che tra l’altro è la
chiave della felicità reale. Il terzo volume darà un aspetto
sistematico a tutto questo. Andrà a collocarsi nei diversi tipi di verità per
chiedersi: che succede quando un intero mondo è affrontato dal punto di vista
della verità? Che succede, ontologicamente, quando si assume il punto di vista
delle molteplicità generiche sulle molteplicità ordinarie, qualunque, che
compongono ontologicamente una situazione? In questo contesto, tratterò degli
affetti singolari che segnalano a un livello individuale il processo di
incorporazione. Che cos’è la gioia amorosa? Che cos’è il piacere estetico? Che
cos’è l’entusiasmo politico? Che cos’è la beatitudine scientifica? Nel volume
sull’immanenza delle verità mi occuperò in modo sistematico di tutto questo.
Spero così di riuscire ad arrivare, con l’ausilio delle teorie contemporanee
sul finito e l’infinito, a una sorta di consapevolezza
della felicità.
La costruzione di questo libro a
venire sarà insomma piuttosto semplice. Prevedo un grosso svolgimento di
apertura, più tecnico e più preciso, del problema che ho velocemente presentato
poco sopra: il problema della relazione
tra gli individui incorporati a una verità e le molteplicità ordinarie, pensate
nel loro essere e nel loro apparire mondano. Questa introduzione partirà da
un’idea semplice: l’incorporazione a una
verità è immancabilmente un nuovo modo di articolare la dimensione finita degli
individui e la dimensione infinita di ogni processo di verità. Il
formalismo soggiacente sarà allora per necessità una nuova dialettica tra
molteplicità finite e molteplicità infinite, con il supporto matematico della teoria «dei grandi infiniti». Questa teoria è a mio parere una condizione
capitale per ogni filosofia contemporanea della felicità, tra l’altro perché
riesce a distinguere gli infiniti deboli, che nel migliore dei casi possono
prodigare solo soddisfazione, dagli infiniti forti, dall’emergere dei quali
dipende la felicità reale. Prevedo poi una seconda parte nella quale
sviscerare le leggi generali, i dispositivi formali, che organizzano le relazioni al mondo a partire dal punto
di vista delle verità. Avremo così una teoria generale dell’incorporazione
individuale e degli affetti che la indicano. Ci si chiederà: che cos’è l’illuminazione del mondo dal
punto di vista delle verità? Che cos’è un ostacolo? Una vittoria? Un
fallimento? Una creazione? La terza parte riprenderà le cose procedura di
verità per procedura di verità, proponendo una teoria sistematica dell’arte,
della scienza, dell’amore e della politica. Una tale teoria, benché sia
abbozzata in molte sedi del mio lavoro, non l’ho mai presentata. Ecco il
sommario ideale del volume sull’immanenza delle verità nel suo stato attuale di
lavoro in itinere.
Vorrei insistere sul fatto che
nella seconda parte intendo proporre una teoria di quel che vi è di comune tra
le quattro procedure di verità e la loro unità virtualmente possibile. Questa
parte comporterà in effetti la ripresa di una teoria delle verità, ma stavolta
dal punto di vista delle verità stesse. Si tratterà di chiedersi cosa le
identifica in quanto tali, non più ciò che le differenzia dall’essere anonimo o
dagli oggetti del mondo. Ma si tratterà anche di continuare la mia
interrogazione sulla filosofia. Nel
Manifesto per la filosofia ho chiamato filosofia ciò che produce un luogo di
compossibilità, un luogo di coesistenza, oltre alle quattro condizioni. Resta da esaminare se la filosofia non poggi
tra l’altro su una figura di vita che integrerebbe queste procedure. È una
domanda che mi si pone spesso e ho intenzione di affrontarla di petto. È da
subito evidente che si tratta di quello che anche qui ho chiamato la vera vita,
ma non solo. Poiché dal momento che si tratta di prendere insieme le quattro
procedure di verità, la questione è piuttosto: che cos’è una vita completa? La domanda sulla vera vita è quella che
affronto alla fine del libro Logiche dei mondi. Che cos’è la vera vita che Rimbaud dice essere assente, ma che sostengo
possa essere presente? La mia
risposta è: vivere all’insegna dell’Idea, ovvero vivere all’insegna
dell’incorporazione effettiva. Il problema ultimo, nel libro sull’immanenza
delle verità, non sarà troppo distante benché diverso: vi è un’idea delle idee, ovvero un’Idea della vita completa? Torniamo
così all’ambizione della saggezza antica. Ritroviamo l’ispirazione iniziale di
una vita, non solo segnata dall’idea e dalla verità, ma dall’idea di una vita
compiuta, una vita nella quale si sarà fatta l’esperienza in materia di verità
di tutto ciò che può esserlo.
Questa domanda si spingerà fino
al punto di supporre che può esistere un soggetto filosofico? Un soggetto il
cui affetto sarebbe precisamente la felicità, capace di sussumere nella propria
potenza il piacere, la gioia, la beatitudine e l’entusiasmo?
L’obiezione evidente è che ciò
che sta per così dire nel mezzo delle quattro condizioni, ciò che articola
concettualmente l’arte alla scienza passando per la politica e l’amore è la
filosofia stessa e non un soggetto filosofico, la cui esistenza è alquanto
dubbia. La questione del soggetto assillerà comunque questo terzo volume. Mi sono sempre difeso contro la tesi che la
filosofia fosse una procedura di verità come le altre. Non può essere come le
altre, poiché essa dipende dalla loro esistenza, mentre né l’arte, né la
scienza, né l’amore, né la politica dipendono dall’esistenza della filosofia.
È allora evidente che la filosofia è
sfasata rispetto alle altre quattro tipologie di procedure di verità.
Eppure resta aperta la domanda se si possa indicare il posto di un soggetto
filosofico. Se c’è un soggetto filosofico, di che si tratta? Che cosa significa avere accesso alla
filosofia? Che cos’è l’essere nella filosofia? Di certo non c’è un’incorporazione
filosofica, nel senso in cui la troviamo nel militante politico, nell’artista,
nello scienziato o nell’amante. Eppure nella
filosofia abbiamo accesso a un pensiero consistente, e non a niente. La domanda
resta aperta. Se supponiamo l’esistenza di un soggetto della filosofia, qual è
il suo posto? È forse, come suggeriscono alcune delle mie metafore, un centro
assente? È chiaro che la filosofia propone una dottrina generale di cosa
sia un soggetto di verità. Ma come si entra in questa proposizione filosofica,
come ci si alimenta? In che modo essa consente di tornare sulle procedure di
verità? Come, infine, può aprire la
strada alla vera vita o alla vita completa? Sono le domande che intendo porre.
È chiaro che il mio approccio a queste domande è sempre stato in un certo senso esitante. Mi trovo di fronte a un
problema non risolto. Che la mia filosofia sia sistematica non significa che
abbia la pretesa di aver risolto tutti i problemi!
C’è da
dire che fino a oggi ho avuto la tendenza ad affrontare alcuni problemi in modo
negativo, rifiutando anziché proponendo. Ho così respinto la tesi sofistica in
virtù della quale la filosofia è una unificazione generale delle cose solo nel
suo essere una retorica generale. La svolta linguistica del XX secolo è di fatto
sfociata in una dottrina che assimila la filosofia a una retorica generale.
Fino ad arrivare alla tesi di Barbara Cassin: non c’è alcuna ontologia, solo
una logologia. È il
linguaggio a ritagliare e a costituire tutto ciò che si è proposto come forma
dell’essere. Il XX secolo ha conosciuto una tendenza, insieme accademica,
critica, antidogmatica, che si è progressivamente centrata sulla potenza
creatrice del linguaggio. Derrida è stato il raffinato maestro di questa
tendenza. Ai miei occhi questo ha fatto della filosofia una retorica generale,
retorica inventiva, moderna. Ma, come
ho detto diverse volte, non sono in questo registro. Nella discussione tra
Platone e i sofisti, mi schiero senza esitare al fianco di Platone, del Platone
del Cratilo, per il quale come abbiamo visto il filosofo parte dalle cose e non
dalle parole. Aggiungo qui che la
dottrina dei sofisti è una teoria della soddisfazione, affatto una teoria della
felicità. E questo perché essa si rassegna alla finitezza, ignorando del tutto
l’infinito.
Dunque, in forma negativa, ho
già preso una serie di posizioni sull’accesso
alla filosofia e sul ruolo di questo
accesso nella questione ultima della felicità. In modo più affermativo, ho
indicato ciò che chiamo delle operazioni filosofiche: ho allora parlato non di
eventi, ma di operazioni. Due di queste mi sono sembrate impossibili da
contestare. In primo luogo, le operazioni di identificazione: la filosofia
reperisce delle verità, in particolare delle verità del suo tempo, attraverso
la costruzione di un concetto rinnovato di ciò che è una verità. Seconda
operazione: attraverso la categoria di verità, la filosofia rende compossibili
dei registri diversi ed eterogenei di verità. Si tratta di una funzione di
discernimento e di una funzione di unificazione. La filosofia si è sempre
venuta a trovare tra le due. Il discernimento sfocia in una concezione critica,
distinzione di ciò che è vero da ciò che non è vero, l’unificazione sfocia nei
diversi usi della categoria di totalità e di sistema. (teoria dei sistemi
complessi.)
Conservo
queste due funzioni classiche della filosofia, perché del resto ho sempre
affermato di essere un classico. Cerco di mostrare che la filosofia elabora,
contemporaneamente alle proprie condizioni, delle categorie di verità che le consentono
di discernere queste condizioni, di isolarle, di mettere in evidenza il fatto
che non sono riducibili al normale corso del mondo. D’altra parte essa cerca in
un certo senso di pensare un concetto del contemporaneo, indicando come le
condizioni compongano un’epoca, una dinamica del pensiero, all’interno della
quale ogni soggetto si inscrive. In questo senso la filosofia indica
l’orizzonte possibile di ogni felicità reale. Ma occorre andare più lontano e
chiedersi quale sia il rapporto della filosofia con la vita. È una domanda
fondamentale. Se non si può dire a cosa serva la filosofia dal punto di vista
della vita vera, essa si troverà ridotta a una delle tante discipline
accademiche. È per questo che il terzo volume proverà a
creare le condizioni di un approccio frontale a questo problema. Si tratterà
allora di riprendere il problema
platonico del rapporto tra filosofia e felicità. Insomma, occorre passare da
una dottrina negativa della singolarità universale delle verità a una dottrina
immanente e affermativa. Sono a mia volta colpito dal fatto di non essere
fin qui riuscito a trattare delle verità, e di conseguenza del soggetto — il soggetto è il protocollo di orientamento
di una verità, verità e soggetto sono assolutamente legati —, se non in
modo differenziale.
Mi sono
chiesto quale tipo di molteplicità sia una verità. Che cosa la differenzia da
una molteplicità qualunque? Era l’intento fondamentale dell’Essere e
l’evento. Già a in quest’epoca ero
nell’eccezione. Se una verità è
un’eccezione alle leggi del mondo, dobbiamo poter spiegare in cosa consiste
questa eccezione. Se restiamo nell’ambito dell’ontologia, della teoria
dell’essere, della teoria matematica dell’essere, dobbiamo poter spiegare matematicamente quale sia il tipo di
molteplicità che singolarizza le verità. Appoggiandomi sulla teoria degli
insiemi e i teoremi di Cohen, ho mostrato che questa molteplicità è generica. In altri termini, si tratta di una molteplicità che non si
lascia pensare attraverso i saperi disponibili. Nessun predicato del sapere
disponibile consente di identificarla. È a questo che serve la tecnica di
Cohen: a mostrare che può esistere una molteplicità indiscernibile, che non si
lascia discernere dai predicati che circolano nei saperi. In questo modo, la verità sfugge al sapere
al livello del suo stesso essere. E ciò sembra una determinazione positiva
delle verità: sono delle molteplicità generiche. Ma se la guardiamo da vicino,
si tratta di una determinazione negativa: sono delle molteplicità che non sono
riducibili a un sapere disponibile. La mia definizione di verità passa allora
da una pratica differenziale e non da una costruzione intrinseca o immanente.
In Logiche dei mondi la verità viene definita come corpo
soggettivabile. Quali sono le caratteristiche specifiche? Ve ne sono
diverse, ma una è centrale: il protocollo
di costruzione di questo corpo è tale che tutto ciò che lo compone è
compatibile. Tuttavia, tale compatibilità non è altro che una caratteristica
relazionale di ciò che è una verità.
All’interno
di una verità ritroviamo una relazione di compatibilità tra tutti i suoi
elementi.
È una caratteristica oggettiva.
In entrambi i casi sono dunque riuscito ad arrivare a una determinazione oggettiva precisa, rispettivamente dell’essere di una
verità e dell’apparire di una verità, grazie ai concetti di genericità e di compatibilità.
Ma ciò che manca è appunto una
determinazione soggettiva. Poiché
tutto questo non ci dice che cos’è la verità vissuta dall’interno della
procedura di verità, ovvero che cos’è per il soggetto di verità stesso.
Le mie risposte a queste domande
restano per me troppo funzionali. Dico
che il soggetto è un punto a livello ontologico, un momento locale della verità.
A livello fenomenologico, dico che è una
funzione di orientamento della costruzione di un corpo soggettivabile. Sono
definizioni funzionali che restano a loro volta oggettive. Ormai è arrivato
il momento di arrivare a qualcosa che materializzi, scriva, organizzi il
protocollo di verità, considerato stavolta in modo immanente, ovvero
soggettivato in quanto tale.
In Teoria del Soggetto
distinguevo il «processo soggettivo» dalla «soggettivazione». Per utilizzare
questa distinzione, direi che L’essere e l’evento e Logiche dei mondi
contengono cose decisive sul «processo
soggettivo», ma che la
«soggettivazione» resta oscura, trattata negativamente e in modo meramente
differenziale. La soggettivazione è il
modo in cui si soggettiva dall’interno il protocollo di verità. Ma manca
l’intuizione di cosa sia una soggettivazione. E l’ho detto numerose volte in
questo libro, la felicità è fondamentalmente legata alla soggettivazione.
Ma come trattare in modo
convincente della soggettivazione? E quali sono i protocolli formali di un
simile trattamento? Per il momento so comunque una cosa: ciò presuppone una trasformazione formale della categoria di negazione.
In particolare presuppone che si possa
avere simultaneamente una negazione «forte» (nella tradizione politica
marxista si dice: una contraddizione
antagonista o «irriconciliabile») e una negazione «debole», che consente contraddizioni
non distruttive, contraddizioni che non presuppongono l’annientamento di uno
dei due termini.
È lungo
il solco di tale concetto che occorre arrivare all’uso di nuove
formalizzazioni. Se i protocolli soggettivi di una verità si compongono di riallineamenti
o di incorporazioni degli individui al divenire di una verità, il punto è
allora sapere come funzioni la differenza individuata all’interno del
protocollo di verità. Questione che mi ha sempre interessato, basta
prendere un semplice esempio. Due persone
guardano un quadro: avremo un frammento di incorporazione, frammento segnalato
da un certo affetto, da un lavoro dell’intelligenza, dall’immobilizzazione
dello sguardo sul quadro. Mi situo piuttosto dal punto di vista dello
spettatore che del creatore, per indicare che una verità è costantemente
disponibile all’incorporazione. L’atto di soggettivazione che è
l’incorporazione è identico in entrambi gli spettatori? Si tratta di identità o
di compatibilità? Non si può comunque dire che il dualismo all’interno di
questa esperienza — del resto vi possono essere milioni di persone in questa
stessa esperienza—rompa l’unità del soggetto. Com’è possibile? Gran parte dello
scetticismo verso ciò che attiene alle verità si radica in questo tipo di
esperienza. A ciascuno la sua verità, diceva Pirandello. «A ciascuno la sua
verità» comporta che non vi sia verità alcuna. Nel caso di un quadro, vi sarà un oggetto unico che andrà dislocandosi
a seconda delle percezioni degli uni e degli altri. Potremmo dire che il
piacere, forma sintetica della felicità nella contemplazione artistica, si
propaghi in altrettante soddisfazioni disgiunte.
Ma
perché questo problema della dispersione soggettivante riguarda la negazione?
Perché la difficoltà è sapere quale sia il tipo di negazione al quale tale
dispersione rimanda. Ognuno vede il quadro a proprio modo, la percezione
dell’uno non è la percezione dell’altro. Ma cosa significa «non è»? Ciò che
disloca la percezione e porta allo scetticismo è l’idea che questo «non è» sia
una negazione classica, ovvero che una delle percezioni possa e debba essere in
contraddizione con l’altra.
Su quale
teoria della negazione è allora possibile appoggiarsi per evitare la conseguenza
scettica della negazione? La risposta è che dobbiamo fondarci sulla teoria della negazione paraconsistente scoperta
dal brasiliano Da Costa, per la quale non vale il principio di
non-contraddizione. Oltre all’utilizzo minuto della teoria degli infiniti, il
nuovo formalismo introdotto in grande scala in questo terzo volume è quello
della negazione paraconsistente, la quale esplicitamente contraddice il
principio di non-contraddizione. Quando si tratta di una verità, questo
formalismo consente che percezioni contraddittorie possano coesistere senza
interrompere l’unità di tale verità. Ciò mi interessa tanto più che al centro
dell’amore si pone un problema di questo genere, quando ammettiamo, ed è la mia
tesi, che per capirlo in toto dobbiamo partire dalla coesistenza di una
posizione femminile e di una posizione maschile, posizioni per certi aspetti
interamente disgiunte.
Se dunque il formalismo maggiore
dell’Essere e l’evento era la teoria degli insiemi e il teorema di Cohen, se il
maggior formalismo di Logiche dei mondi sta nella teoria dei fasci, la
topologia e dunque in sostanza nella logica
intuizionista, il formalismo del
terzo volume sarà la messa in relazione
della teoria moderna degli infiniti e della logica paraconsistente, con
tutta una mediazione sui limiti del
principio di non-contraddizione.
Si dirà
che
la felicità è simultaneamente una
soggettivazione intra-finita dell’infinito e che essa è condivisa nella misura
in cui la mia soggettivazione «non è» quella dell’altro senza che per questo la
contraddica, poiché la negazione è qui paraconsistente.
Ciò detto, non vi sono solo i formalismi. I quali, di fatto, altro non sono che impalcature per la costruzione
di concetti e presuppongono una buona dose di intuizione. Possiamo
sostenere che ogni filosofo parta da un
contatto soggettivo con la verità, in un certo senso dal suo punto personale di
incontro con la verità. È questo punto che il filosofo cerca di trasmettere
attraverso la propria filosofia. Ma contemporaneamente
egli sa, in fondo a se stesso, che questo punto non è trasmissibile, poiché si
tratta del suo contatto assolutamente specifico con la verità. Non è questo a spiegare, ad esempio, la
difficoltà di Platone nel definire l’Idea del Bene? In questo punto, non si
rischia forse di toccare l’ineffabile? È ciò che accade in molte disposizioni
filosofiche. Si giunge a un punto che è l’ultimo punto reale. Il quale, proprio
come dice Lacan, non si lascia simbolizzare. Spinoza ad esempio indica un punto
ultimo che è l’intuizione intellettuale di Dio, ma non ne fornisce l’intuizione
reale. Ne è la prova il fatto che la migliore approssimazione risiede nella
beatitudine esperita nel sapere matematico. Ma il sapere matematico è una
conoscenza del secondo genere, non del terzo. Così sfugge l’intuizione del
punto ultimo. Quanto a Platone, nella Repubblica dichiara espressamente che del
Bene può dare solo un’immagine e nient’altro.
L’immanenza
delle verità sarà, parzialmente, il tentativo di circoscrivere al massimo
questo punto, con la speranza di ridurne l’ineffabilità. Si tratterà di
renderlo il meno ineffabile possibile e dunque anche il più trasmissibile
possibile. Ciononostante al momento ancora non so fin dove
procedere in questa direzione. Benché sappia che qui, con mio grande rammarico, dovrò separarmi da Platone.
Platone parte da un’esperienza
filosofica dell’Idea, ma la necessità di trasmettere questa esperienza resta in
lui in gran parte esterna al contenuto dell’esperienza stessa. È la ragione per
cui afferma che si dovranno obbligare i filosofi a diventare politici e
pedagoghi. Quando li si sarà condotti all’Idea del Bene, non avranno altra idea
se non quella di restarvi! Questa
necessità di trasmettere, che viene dall’esterno dell’esperienza stessa della
verità, è per Platone un’esigenza sociale e politica. Occorre che
quest’esperienza possa essere condivisa al livello dell’organizzazione generale
della società. Se non la si trasmette, la gente finirà per rimanere sotto
l’impero delle opinioni dominanti. Per questo occorre «corrompere» la gioventù,
nel senso di Socrate, ovvero trasmettere gli strumenti per non restare asserviti
alle opinioni dominanti.
Condivido
in toto questa visione della filosofia. E si sa quanto io tenga alla sua
didattica. Ma occorre riconoscere che in Platone c’è oscurità sulla questione
della natura della verità. Questa verità, non l’ha mai detta davvero. Sappiamo
che vi sono interpretazioni assolutamente contraddittorie di Platone. Da
Galilei e diversi altri è stato visto come l’esempio stesso del razionalismo
scientifico. Ma tra i neoplatonici è stato considerato l’esempio della teologia
trascendente. Divergenze che si spiegano con il fatto che Platone non ha mai
detto granché della verità di cui parla. In un certo senso l’ha riservata
all’esperienza. E forse
difettava, per andare più lontano, di una razionalizzazione del concetto di
infinito, della sua realizzazione matematica che l’umanità avrà dovuto
aspettare per oltre due millenni tra Eudosso e Cantor. Poiché è molto difficile pensare cosa sia una
verità, senza poter dire chiaramente che essa appartiene a un tipo di infinito
differente da quello all’interno della quale essa opera o si costruisce, e che
l’infinito-vero non è l’infinito-che-è. Ed
è la ragione per cui la teoria platonica della felicità, giusta nel suo
principio (la felicità è la soggettivazione del vero), resta astratta in merito
alla propria possibilità.
Per me
le verità esistono, le caratterizzo, ho detto e continuo a dire esplicitamente
come e perché esse esistono. È vero che la trasmissione è in questo caso
difficile. Ciò che occorre trasmettere è che le verità, per quanto esistano,
sono anzitutto a eccezione del resto e secondariamente esistono in quanto
opere, a partire da una dialettica serrata tra più tipi di infinità. Del
resto Platone presenta a sua volta l’Idea
del Bene come eccezionale. L’Idea del
Bene non è un’Idea! Stando a un passaggio della Repubblica spesso commentato,
essa supera di gran lunga l’Idea per prestigio e per potenza. Cosa potrà mai
essere? La teologia negativa dirà che si tratta di Dio e di Dio non si può dire
niente. Sul fronte del razionalismo c’è l’interpretazione di Monique
Dixsaut e di molti altri, tra i quali la mia. Quest’ultima consiste nel
mostrare che c’è un principio di
intelligibilità che non è riducibile all’Idea stessa. Il fatto che l’Idea sia
principio di intelligibilità va naturalmente al di là dell’Idea come principio
regionale dell’azione o della creazione. Forse Platone ancora non avevi mezzi —
infiniti di tipo superiore e logica paraconsistente — per concettualizzare
questo «al di là».
Platone
è per me una figura fondativa e di grande importanza. Ma dobbiamo riconoscere
che è sfuggente. Mostra una obliquità, d’altra parte favorita dal dialogo,
nella quale non si sa mai esattamente chi parli e chi dica la verità. Scorre come un torrente e alla fine si è
certamente colto il problema, ma non la soluzione. E finiamo per non sapere
esattamente in quale senso si sia pronunciato Platone. È un po’ come una
disillusione organizzata. Ad esempio gli interlocutori di Socrate nella
Repubblica gli fanno osservare che sarebbe ora che lui definisse quest’idea del
bene con la quale li intrattiene ormai da tempo. A quel punto vediamo Socrate
farsi pregare e grossomodo proferire: «Beh, adesso chiedete troppo!».
Non è il
mio genere. Provo al contrario a dire il massimo di ciò che posso dire. Sono
un platonico più affermativo e meno sfuggente di Platone. O quantomeno ci
provo! È il modo in cui intendo la filosofia:
un esercizio di trasmissione di qualcosa che potremmo accontentarci di
dichiarare intrasmissibile. In questo
senso è questo lo specifico impossibile della filosofia, il suo fine, il suo
punto di arresto. Per questo mi sono investito nella lotta contro lo
scetticismo contemporaneo, il relativismo culturale, la retorica generalizzata,
esattamente come Platone era impegnato nella lotta contro i sofisti. Poiché per me si tratta di affermare la
posizione di eccezione della verità senza per questo dichiararla
intrasmissibile, il che significherebbe mostrare una considerevole debolezza
rispetto al nichilismo dominante.
Lascio tuttavia aperta la possibilità che il concetto di verità, e a maggior
ragione ciò che chiamo la sua ideazione,
ovvero l’incorporazione di un individuo al divenire di una verità, sia, come
effettivamente sembra essere il caso in Platone, assai difficilmente trasmissibile. A questo proposito è interessante
osservare il programma di apprendimento della filosofia nella Repubblica: 1.
Aritmetica; 2. Geometria; 3. Geometria spaziale; 4. Astronomia; 5. Dialettica.
Ma nel passaggio sulla dialettica, chiunque potrà vederlo, non c’è quasi
niente! Ci si accontenta di prendere nota del fatto che l’apprendimento filosofico è a base della matematica, dunque
esplicitamente riferito a una condizione scientifica. Saremmo allora tentati di ridurre la felicità alla beatitudine
matematica? Non riesco a rassegnarmi a tale idea.
Dovremmo
allora allinearci sulla famosa tesi di Bergson per la quale ogni filosofo trova
nella propria coscienza un punto inafferrabile? Come dice lui: «In questo punto
c’è qualcosa di semplice, di infinitamente semplice, di così straordinariamente
semplice che il filosofo non è mai riuscito a dirlo. Ed è la ragione per cui ha
parlato tutta la vita».
Se
all’interno della mia filosofia scorgo un punto di questo genere, è in ultima
istanza quello della felicità. L’ho circoscritto, identificandolo con il fatto
che esso consiste nel pensare fino in fondo la soggettivazione del vero, e non
solo l’esistenza del processo di verità. È ciò che chiamo l’incorporazione, non colta nella sua logica oggettiva
ma riaffermata dal punto di vista dell’individuo stesso nell’istante in cui
prende parte all’attività di un Soggetto, perché è incorporato al
divenire-corpo del vero. L’intuizione di tale incorporazione è generalmente
accompagnata da un affetto singolare, che forse non è nient’altro da questo sentimento di difficoltà di trasmissione del
quale parlavamo. Un problema che sarà
oggetto dell’opera, forse ultima, alla quale lavorerò.
Tuttavia esito a dire che l’ostacolo stia nella semplicità. Questa semplicità è evidentemente tipica
dell’ontologia bergsoniana, un’ontologia non matematica ma vitalista. Il punto
radicale di un’ontologia vitalista consiste nel collocarsi nel differenziale
puro del movimento o della durata. Qui in effetti, per Bergson, è possibile fare l’esperienza della semplicità assoluta e
contemporaneamente trovare il fondamento del pensiero.
Ma
quando l’ontologia è matematica, come lo è per me, si parte da una complessità
intrinseca, da una molteplicità pura che non rimanda a una semplicità
originaria diversa dal vuoto. D’altra parte che del vuoto non si possa dire
niente va da sé.
Posso
concedere a Bergson che vi sia un punto originario dell’esperienza, un punto
che la didattica filosofica cerca di raggiungere e di trasmettere. Ma credo che
l’esperienza di questo punto sia l’esperienza concentrata di una complessità e
non l’esperienza di una semplicità. Perché in fondo sono piuttosto d’accordo
con Spinoza.
L’esempio
da lui proposto per il terzo genere di conoscenza, conoscenza intuitiva e
assoluta, è quello di una dimostrazione matematica raccolta in un punto. Mi sta
bene. Quando si ha davvero capito una dimostrazione matematica, non sono più
necessarie altre tappe: si è capito qualcosa che si raccoglie in un punto.
Tuttavia la didattica è costretta a riprendere le tappe, poiché c’è una
complessità di questo punto, una complessità nascosta proprio perché siamo alle
prese con un punto. Non è l’equivalente di una complessità contratta e una
semplicità pura come in Bergson. E da qui, la felicità non è come per un
vitalista nella semplicità dello slancio, ma nella segreta complessità del
punto ideale che guida la nostra incorporazione al vero, che si tratti della
folla politica, del dualismo amoroso, degli algoritmi matematici o dei formalismi
del sensibile.
Più che
vitalista, credo di essere
contemporaneamente matematico e platonico. Parto da un fatto che mi ha molto segnato. Louis Althusser da parte sua ha sostenuto, con particolare vigore,
l’idea che la contraddizione principale della filosofia fosse tra materialismo
e idealismo. Prolungando questa tesi nelle condizioni del materialismo moderno,
tenuto conto della matematica, della scienza moderna, del bilancio complessivo
del materialismo, si è visto costretto a introdurre il concetto di materialismo
aleatorio. Per molte ragioni, era
ineludibile far posto al problema del caso nel materialismo contemporaneo, e la
più straordinaria di queste ragioni era stata lo sviluppo della meccanica
quantistica. Nel piano unitario materialista che porto avanti, l’esistenza
oggettiva della molteplicità è affrontata, se posso dire, attraverso la possibilità dell’aleatorio, attraverso la
possibilità che qualcosa possa accadere che non si lascia né prevedere, né
calcolare, né incorporare a partire dallo stato di cose esistente. È ciò
che chiamo un evento. Vi è qualcosa come un punto assoluto
azzardato, azzardato nel senso in cui non si lascia organizzare da ciò che lo
precede. Non ho bisogno di nient’altro che di questo punto azzardato. Mi è
sufficiente un evento per dispiegare l’eccezione del vero. E con questo non
finisco fuori dal materialismo, che nessuna ragione intrinseca costringe
infatti a essere organicamente legato al determinismo. Il determinismo è stata
solo una delle possibili concezioni del materialismo.
Come sappiamo fin dalle origini
del materialismo, il determinismo non è
sufficiente, poiché già dall’atomismo primitivo, il clinamen, quella improvvisa
deviazione degli atomi senza luogo né causa, introduce un evento sottratto a
ogni determinazione: ne ho parlato a lungo in Teoria del Soggetto. Ho
particolare ammirazione per i primi materialisti, conseguenti, eroici,
Democrito, Epicuro, Lucrezio, i quali in un mondo popolato da dèi e
superstizioni introducono la tesi radicale che non vi sia altro se non atomi e
vuoto. Eppure hanno dovuto arrendersi all’evidenza che non era possibile
dedurre l’evento del mondo dai soli atomi e dal vuoto. Occorre un termine
terzo, che abbia la forma del mero caso. In sostanza quando dico «non vi
sono altro che corpi e linguaggi se non fosse che vi sono delle verità», compio
un gesto epicureo. Dico che c’è
un’eccezione. Ma questa eccezione è a sua volta fondata solo sull’esistenza
dell’evento. E l’evento non è nient’altro se non la possibilità dell’aleatorio
nella struttura del mondo. Per questo
non credo di uscire dal materialismo introducendo degli eventi. C’è chi ha
sostenuto che in questo vi fosse di nuovo un dualismo e mi si è detto: «Con
l’introduzione dell’eccezione non è più materialismo». Il fatto è che le
conseguenze di una eccezione sono interamente situate in un mondo. Non vi è un
piano sensibile e un piano intelligibile, un piano dell’evento e un piano del
mondo che siano distinti. D’altra parte sostengo che è possibile
interpretare Platone facendo a meno di questo dualismo tra sensibile e
intelligibile, ricavato di un platonismo piuttosto rozzo. È pur vero che spesso
Platone si esprime in questo modo, ma non dimentichiamo il suo risvolto
sfuggente, contorto e l’utilizzo molto frequente delle immagini.
Per tornare all’evento, all’aleatorio, occorre insistere sull’esistenza di una rottura. C’è
il prima e c’è il dopo. Questa
rottura non fa passare da un mondo inferiore a un mondo superiore, continuiamo
a restare nello stesso mondo.
Le
conseguenze della rottura hanno certamente lo statuto di un’eccezione rispetto
a ciò che non dipende dalla rottura. Ma occorrerà dimostrare che queste
conseguenze sono organizzate secondo la logica generale del mondo stesso. È una dimostrazione, uno sforzo che mi impongo ogni volta. I miei vecchi amici marxisti,
come il così rimpianto Daniel Bensaid, che mi accusano di introdurre un
elemento miracoloso, sono semplicemente dei materialisti meccanicisti. Già Marx
e persino Lucrezio sfoderavano la spada contro di loro.
Aggiungiamo che quando si è un materialista non meccanicista
è perché si è dialettici. In effetti credo
che si possa considerare la mia impresa filosofica come una lunga traversata
della dialettica. Ho conservato dall’inizio alla fine l’idea che lo statuto ontologico delle verità sia uno statuto di
eccezione: eccezione del generico rispetto a ciò che è costruibile, eccezione
del corpo soggettivabile rispetto al corpo ordinario, eccezione del mio
materialismo rispetto al materialismo semplicista per il quale non vi sono
altro che corpi e linguaggi. Ma la categoria di eccezione è una categoria
dialettica, poiché il pensiero dell’eccezione è sempre accaduto su due versanti
contraddittori. Occorre pensare
un’eccezione come una negazione, poiché essa non è riducibile all’ordinario, ma
occorre anche non pensarla nei termini del miracolo. Occorre allora
pensarla come interna al processo di
verità — non miracolosa — e pensarla nonostante tutto come eccezione. Questo è
dopotutto l’evidenza della felicità. Da un lato è come un regalo che ci fa il
mondo, a noi, individui che stanno diventando soggetti. Ma dall’altro, questo
regalo è soprannumerario, improbabile, eccezionale, benché fatto di nient’altro
se non della stoffa del mondo. Si tratta dell’infinità latente finalmente
sperimentata di ogni finitudine, senza che questa infinità sia trascendente. Al
contrario, è la più profonda immanenza.
È forse
ciò che Lacan voleva significare con extime: contemporaneamente intimo ed
esterno all’intimo.
Siamo
appunto al nocciolo della dialettica. In Hegel, ad esempio, la negazione di una cosa è immanente a questa
cosa, ma allo stesso tempo la supera. Il nocciolo della dialettica è questo
statuto della negazione, in quanto operatore che contemporaneamente supera e
include. In questo senso direi che sono continuativamente dentro la dialettica,
in particolare con Teoria del Soggetto, un libro ancora molto legato al
marxismo classico e ai suoi sviluppi dall’eco maoista. In Teoria del
Soggetto non vi è una teoria generale delle quattro condizioni della filosofia,
non più di quanto vi sia del resto una teoria generale dell’evento. Le
categorie fondamentali de L’essere e l’evento vi figurano solo nel concavo,
come ciò che consentirebbe di riunire quanto ancora restava in un certo senso
frammentario. Ma si può dire che da un estremo all’altro della mia impresa
filosofica — da Teoria del Soggetto di trentadue anni fa a L’immanenza delle
verità — continuo a perseguire una
mediazione sulla negazione. Cerco semplicemente di rendere conto della possibilità
del cambiamento, della possibilità di passare da un certo regime delle leggi di
ciò che è dato a un altro regime, attraverso la mediazione del protocollo di
una verità e del suo soggetto. Sono allora all’interno del pensiero dialettico
e dentro una teoria dialettica della felicità, che è negazione paraconsistente
della finitudine attraverso un infinito completo. Ma poiché il mio pensiero dialettico comprende il caso, esso non è
determinista. Ricordo che la dialettica hegeliana è implacabilmente determinista.
In questo si tratta di un grande pensiero tipico del XIX secolo. È lo
spettacolo dell’autosviluppo dell’assoluto all’interno della necessità
immanente di tale sviluppo. È evidente che sono molto lontano da tutto questo
ed è la ragione per la quale ho con Hegel un rapporto insieme ravvicinato e
complesso. Non dobbiamo scordare che nei miei tre grandi libri già pubblicati,
Hegel è un autore che discuto con minuzia: in Teoria del Soggetto, a proposito
del processo dialettico stesso, ne L’essere e l’evento a proposito
dell’infinito, in Logiche dei mondi, a proposito dell’essere-là, delle
categoria dell’essere-là. Nel libro sull’immanenza delle verità affronterò di
petto il concetto hegeliano dell’Assoluto, poiché in ultima istanza per me,
come per Hegel o per Platone, ogni
felicità reale è una sorta di accesso provvisorio all’Assoluto. È solo che
le nostre idee sul problema non sono le stesse. Per questo ho sempre avuto
un’intima discussione con Hegel, ma anche con Marx, Lenin, Mao, i grandi
rivoluzionari dialettici, a proposito della condizione politica. Semplicemente, con la presenza di un
elemento aleatorio, introduco un principio di rottura che non è esattamente
omogeneo ai principi classici della negazione ed è la ragione per cui alla fine
userò tre logiche diverse e intrecciate: la logica classica, la logica
intuizionista e la logica paraconsistente. Allo stesso tempo porterò
all’assoluto il referenziale ontologico — il pensiero delle puro molteplice —
attraverso la mediazione della teoria davvero sensazionale «dei grandi
infiniti».
Triplicità
logica e infinità degli infiniti saranno la chiave di una teoria generale della
felicità, la quale è il fine di ogni filosofia.
La filosofia per me è questa
disciplina di pensiero, questa disciplina singolare, che parte dalla convinzione che esistano delle verità.
Da qui è portata verso un imperativo, una
visione della vita. Qual è questa visione?
Ciò che per un individuo umano ha valore,
ciò che lo consegna a una vita vera e
orienta la sua esistenza è l’essere parte di queste verità. E questo
presuppone la costruzione, molto complessa, di un sistema per discernere le verità, che consenta a esse di circolare
e che le renda compossibili. Nel modo
della contemporaneità.
La filosofia è questo tragitto,
va dunque dalla vita, la quale propone l’esistenza delle verità, alla vita che
fa di tale esistenza un principio, una norma, un’esperienza. Cosa ci dà l’epoca nella quale viviamo? Che
cos’è? Quali sono le cose che vi hanno un valore? Quali sono le cose che non
hanno alcun valore? La filosofia propone un discrimine nella confusione
dell’esperienza, dalla quale ricava un orientamento. L’elevazione dalla
confusione all’orientamento è l’operazione filosofica per eccellenza ed è la
sua saggezza propria.
Ciò presuppone un concetto della
verità. «Verità» che certamente potrà ricevere altri nomi.
Così, in tutta una parte dell’opera di Gilles
Deleuze ciò che qui chiamo «verità»
si chiama «senso». In qualunque filosofia riesco a identificare ciò che io
avrei chiamato «verità». Può avere il nome di «bene», «spirito», «forza
attiva», «noumeno»... Ho scelto «verità» perché ho fatto mio il classicismo.
Serve un discrimine e per questo
serve un metodo per discriminare, ovvero un concetto
di verità. Occorre mostrare che
questa verità esiste sul serio, ma che non per questo c’è un miracolo e non è
necessario disporre di dispositivi trascendenti. Ci sono filosofie che sono legate a questi dispositivi trascendenti, ma
non è affatto la mia strada. Così
torniamo alla semplice domanda, alla domanda iniziale: che cos’è vivere? Che
cos’è una vita degna e intensa, non riducibile ai meri parametri animali? Una
vita che segnali l’affetto del quale qui è questione, l’affetto della felicità
reale?
Penso
che la filosofia debba includere, tanto nella sua concezione che nella sua
proposta, la convinzione che la vera vita possa essere sperimentata
nell’immanenza. Qualcosa deve segnalare la vera vita dal suo stesso interno,
non solo come un imperativo esterno, dunque come un imperativo kantiano. E
questo viene da un affetto che segnala, che indica, nell’immanenza, che la vita
vale la pena di essere vissuta. C’è in Aristotele un’espressione che amo molto
e che riprendo volentieri: «Vivere da immortali». Esistono altri nomi per
questo affetto: «beatitudine» per Spinoza, «gioia» per Pascal, «superuomo» per
Nietzsche, «santità» per Bergson, «rispetto» per Kant... Io credo che vi sia un
affetto della vera vita, al quale do il nome più semplice: quello di felicità.
Un affetto privo di qualunque componente sacrificale. Niente di negativo è
richiesto. Non vi è come nelle religioni un sacrificio la cui ricompensa sia
rimandata al domani e all’altrove. Questo affetto è il sentimento affermativo
di una dilatazione dell’individuo, nel momento in cui egli co-appartiene al
soggetto di una verità.
È
piuttosto di recente che ho capito l’incredibile ostinazione di Platone nel
dimostrare che il filosofo è felice. Il filosofo è più felice di tutti coloro
che si credono più felici di lui, i ricchi, i gaudenti, i tiranni... Platone lo
ripete continuamente, consegnandoci innumerevoli dimostrazioni di questo punto:
davvero felice è solo colui che vive all’insegna dell’Idea, è il più felice di
tutti. Cosa significhi è piuttosto chiaro: il filosofo sperimenterà
dall’interno della propria vita cos’è la vera vita.
La
filosofia e allora tre cose. È una diagnosi dell’epoca: cosa ci propone
quest’epoca? È la costruzione a partire da questa affermazione contemporanea di
un concetto di verità. Ed è infine un’esperienza esistenziale relativa alla
vera vita. L’unità di questi tre elementi è la filosofia. Ma in un dato momento
la filosofia è una filosofia. Quando avrò ultimato il libro sull’immanenza
della verità, quindi dopo aver proposto l’unità delle tre componenti di ogni
filosofia, potrò dire: la filosofia c’est moi. E dunque, da uguali, c’est vous.
Poiché mi leggete e nel farlo pensate insieme a me o contro di me. Poiché se vi
è pensiero vi è anche l’eternità di un’esperienza terrestre, quella di
un’immanenza alla vera vita. A quel punto tutti noi, amici e nemici, divideremo
la felicità di questa immanenza.
C O N C
L U S I O N E
Nel libro sono state proposte,
contestate, testate, rifiutate, accettate diverse definizioni della felicità...
Elenco ora ventuno di queste
definizioni, insieme alla pagina in cui esse figurano sicché sia possibile
collocarle nel relativo contesto discorsivo.
p.
1. La
felicità è il segnale infallibile di qualunque accesso alle verità.
2. La
felicità non è la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa.
4
3. La
felicità è l’esperienza affermativa di un’interruzione della finitudine. 5
4. La
felicità è l’affetto della vera vita.
4
5. La
felicità reale è una figura soggettiva dell’Aperto.
7
6. La
felicità reale è l’affetto della democrazia.
4
7. La
felicità reale è il godimento di nuove forme di vita.
4
8.
Qualunque felicità reale presuppone una liberazione del tempo.
11
9. Vi è
felicità solo per ciò che, di un individuo, accetta di diventare soggetto.
13
10.
Procedere dietro l’imperativo di un’Idea vera ci destina alla felicità.
13
11. Ogni felicità reale si gioca in un
incontro contingente, non vi è alcuna necessità
nell’essere felici. 14
12. Una
certa dose di disperazione è la condizione della felicità reale.
15
13. L’affetto dell’effetto di soggetto, che
sia l’entusiasmo politico, la beatitudine 15
scientifica,
il piacere estetico o la gioia amorosa, è sempre ciò che merita ,
al
di là di ogni soddisfazione dei bisogni, il nome di felicità.
14. La
felicità è sempre godimento dell’impossibile.
18
15. Ogni
felicità reale è una fedeltà.
19
16. La
felicità è l’accadimento, in un individuo, del Soggetto che scopre di poter
diventare diversamente. 19
17. La
felicità è l’affetto del Soggetto in quanto eccezione immanente.
19
18. La
vera essenza della libertà, condizione essenziale della felicità reale, è la disciplina. 19
19. Ogni
felicità è una vittoria contro la finitudine.
19
20. Ogni
felicità è un godimento finito dell’infinito.
22
21. Ogni
felicità è in un certo senso ricavata dalla forza del volere.
22
B
i b l i o g r a f i a
Alain
Badiou , metafisica della felicità reale,
DeriveApprodi, 2015