LINK

           

READERS

sabato 31 marzo 2018

metaphysique du bonheur réel Alain Badiou

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

metaphysique du bonheur réel

metafisica della felicitÀ reale

 

 

Alain Badiou

Internazionalmente riconosciuto come uno dei filosofi contemporanei più importanti.

 

 

 

frammento di lettura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ogni felicità è una vittoria contro la finitudine. Ogni felicità è un godimento finito dell’infinito.”

Alain Badiou

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alain Badiou

 

Internazionalmente riconosciuto come uno dei filosofi contemporanei più importanti.

 

Tra i suoi libri più importanti :

L’ essere e l’evento (Il Melangolo, 199)

L’ipertraduzione della Repubblica di Platone (Ponte alle Grazie, 2013)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

indice

 

 

p.

 

C A P I T O L O  P R I M O                                                                                                                                                  5

 

C A P I T O L O  S E C O N D O                                                                                                                                           13

 

C A P I T O L O  T E R Z O                                                                                                                                                     15

 

C A P I T O L O  Q U A R T O                                                                                                                                                20

 

C O N C L U S I O N E                                                                                                                                                           31

 

b i b l i o g r a f i a                                                                                                                                               31

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cos’è per il filosofo francese Alain Badiou la felicità reale? Quell’effetto prodotto dalla verità nell’esperienza di ciascuno. Non la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa.

L’affetto della vera vita. L’affetto della democrazia. Il godimento di nuove forme di vita.

A tornare in questo libro sono i grandi temi della ricerca di Alain Badiou sviluppati in libri importanti quali L’essere e l’evento e riproposti in una chiave semplice e vitale.

Poeti: Mallarmé, Pessoa, Wallace Stevens, Paul Celan.

L’amore vero, del quale da sempre i moralisti e i prudenti osservano che le sofferenze da esso indotte e la banale constatazione della sua fragilità spingono a dubitare della sua vocazione alla felicità. Senza contare che alcuni dei miei principali maestri, ad esempio Descartes o Pascal, Hegel o Kierkegaard, difficilmente possono passare per allegri . Davvero non si vede quale sia il rapporto tra tutto questo e una vita tranquilla, l’abbondanza di piccole soddisfazioni quotidiane, un lavoro interessante, un salario come si deve, una salute di ferro, una coppia serena, vacanze delle quali conservare a lungo il ricordo, amici simpatici, una casa ben fornita, una comoda automobile, un animale domestico fedele, dei bambini deliziosi, che non danno problemi e vanno bene a scuola, insomma con ciò che di solito e a ogni latitudine si intende per «felicità».

Per dare legittimità a questo paradosso potrei ripararmi dietro maestri, spesso considerati indiscutibili, Platone e Spinoza per esempio.

Il primo, nella sua Repubblica, fa di una lunga educazione matematica e dei costanti esercizi di logica dialettica una condizione imperativa per qualunque accesso alle verità. Dopodiché dimostra che solo colui che, abbandonando l’obbedienza alle opinioni dominanti, si affida unicamente alle verità delle quali il suo pensiero «partecipa» (è la parola di Platone) può raggiungere la felicità.

Il secondo, nell’Etica, comincia con l’affermare che se non vi fosse stata la matematica, l’animale umano sarebbe rimasto per sempre nell’ignoranza, la qual cosa significa che esso non si sarebbe aperto alcun accesso alle «idee adeguate» (è il lessico di Spinoza), di alcun tipo. Ma la partecipazione immanente dell’intelletto umano a un’idea adeguata può avvenire secondo due regimi, che Spinoza chiama conoscenza di «secondo genere» e di «terzo genere». La conoscenza di secondo genere procede attraverso l’arduo cammino delle dimostrazioni, il quale chiama in causa la logica, mentre il terzo genere procede attraverso un’«intuizione intellettuale», che è come la concentrazione in un punto di tutte le tappe di un ragionamento, la cattura immediata, in Dio stesso, ovvero nel Tutto, di una verità per altri versi deducibile. Spinoza chiama «virtù» (forse Platone direbbe «giustizia») la condizione di un soggetto umano che perviene alla conoscenza compiuta di una idea adeguata, poiché è riuscito ad accedervi attraverso la conoscenza di terzo genere. Infine, la felicità (Spinoza utilizza la parola latina beatitudo, che è più forte) non è nient’altro dall’esercizio del vero pensiero, cioè la virtù:

«La felicità non è la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa».

Detto altrimenti, la felicità è l’affetto del vero, il quale non sarebbe esistito senza la matematica e non avrebbe potuto concentrarsi in una intuizione se anzitutto non lo si fosse dimostrato. Di nuovo, matematica e logica formano insieme all’intuizione intellettuale ciò che senza difficoltà potremmo chiamare una metafisica della felicità.

Insomma, ogni filosofia, anche e soprattutto quando si dispiega attraverso saperi scientifici complessi, nuove opere d’arte, politiche rivoluzionarie, amori intensi, è una metafisica della felicità, altrimenti non varrebbe un’ora di sforzo. Perché, infatti, imporre al pensiero e alla vita le faticose prove della dimostrazione, della logica generale dei pensieri, dell’intelligenza dei formalismi, dell’attenta lettura di poesie, del rischioso impegno nelle manifestazioni di massa, degli amori privi di garanzia, se non fosse perché tutto questo è necessario all’esistenza della vera vita? Quella che Rimbaud dice essere assente, e della quale noialtri filosofi sosteniamo che essa ripugna a tutte le forme dello scetticismo, del cinismo, del relativismo e della vana ironia del non-dupe e che, assente la vera vita, non può esserlo mai totalmente. Ciò che segue è la mia versione di questa certezza, in quattro tempi.

 

 

 

Innanzitutto procedo a un chiarimento generale di ciò che oggi può rappresentare il vantaggio della filosofia, quando riesce a rispondere alle ingiunzioni della nostra epoca. Detto altrimenti, chiarisco le ragioni per le quali un soggetto umano può (in realtà deve, ma questa è un’altra faccenda) nutrire in sé un desiderio singolare, che semplicemente chiamo desiderio di filosofia. Passando per l’analisi delle coazioni contemporanee mostrerò che la filosofia è oggi in una situazione difensiva e che proprio per questo abbiamo una ragione supplementare per sostenerne il desiderio. Traccerò così un abbozzo delle ragioni per le quali tale supporto è in relazione alla possibilità di una felicità reale.

In un secondo tempo, per chiarire ciò che ci spinge nella direzione di una tale felicità e del suo legame col desiderio di filosofia, parlerò dell’anti-filosofia, rappresentata da un’intera costellazione di scrittori brillanti, quali Pascal, Rousseau, Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein, Lacan. La mia tesi è che questi anti-filosofi, generalmente scettici sulla possibilità di essere allo stesso tempo nel vero e nella beatitudine, inclini all’idea del grande valore del sacrificio, persino inutile, sono comunque necessari affinché il classicismo, che è il mio, non si trasformi in accademismo, il quale è il principale nemico della filosofia e dunque della felicità : l’affetto a partire dal quale riconoscere infallibilmente il discorso accademico è infatti la noia. E sono loro, i grandi anti-filosofi, a insegnarci che tutto ciò che possiede un vero valore si ottiene non attraverso il sentiero degli usi ordinari e l’assunzione delle idee dominanti, bensì attraverso l’effetto, esistenzialmente provato, di una rottura con il corso del mondo.

Nel terzo capitolo, affronterò di petto la domanda che l’uomo moderno al pari del marxista convinto sempre rivolgono al filosofo: «A che servi te, con i tuoi raziocini astratti? Te ne stai seduto nella tua camera, c’è poco da interpretare il mondo ma da cambiarlo». A questo punto mi chiedo cosa voglia dire «cambiare il mondo» e, anche a supporre che si possa farlo, quali siano gli strumenti necessari. Questo pezzo di analisi stabilirà che esiste un legame tra una risposta alla domanda «come cambiare il mondo?» e la felicità reale. Un legame stabilito facendo valere il senso profondo delle parole «mondo», «cambiare» e «come», impresa che tra l’altro dimostra come nella faccenda presa in esame non vi sia niente che possa sconcertare o invalidare la filosofia, ben al contrario.

Il quarto e ultimo tempo è più soggettivo. Si tratta di fornire un esempio locale delle strategie e degli affetti della filosofia: il momento in corso della mia scrittura, del mio pensiero filosofico. Dunque ricapitolerò, senza perdere di vista il legame tra verità e felicità, le tappe precedenti del mio lavoro, tra Teoria del Soggetto (1982) e Logiche dei mondi (2006) passando per L’essere e l’evento (1988), e dunque l’operatività di categorie fondamentali come l’essere-molteplice, l’evento, le verità e il soggetto. Poi, indicherò i problemi ancora in sospeso, singolarmente legati alla questione del «soggetto di verità» colto nell’immanenza del suo atto, in un certo senso dall’«interno», e dunque in ciò che costituisce la sua felicità singolare. Senza mascherare l’estrema difficoltà di ciò che sarà il cuore del nuovo libro, L’immanenza delle verità, indicherò la pista che intendo seguirvi e che in sostanza è quella di una nuova dialettica tra il finito e l’infinito. La felicità può esservi definita come l’esperienza affermativa di una interruzione della finitudine.

In questo libretto si tratta di sgomberare la strada perché lo stratega di filosofia possa dire a chiunque: «Ecco di che convincerti che pensare contro le opinioni e al servizio delle verità, lungi dall’essere l’esercizio ingrato e inutile che tu t’immagini, è la strada più breve per la vera vita, la quale, quando esiste, si esprime attraverso una felicità priva di paragoni».

 

C A P I T O L O  P R I M O

 

Come molti lettori sanno, Rimbaud utilizza una strana espressione, «le rivolte logiche», che fu anche titolo di una bella rivista fondata da Jacques Rancière. La filosofia è qualcosa dello stesso ordine: una rivolta logica. È la combinazione tra un desiderio di rivoluzione — la felicità reale impone che ci si sollevi contro il mondo per com’è e la dittatura delle opinioni prefissate — e un’esigenza di razionalità — la pulsione in rivolta da sola non basta a raggiungere gli obiettivi che si prefigge.

Il desiderio di filosofia è appunto, in un modo estremamente generale, il desiderio di una rivoluzione nel pensiero e nella vita, tanto collettiva che personale, e ciò in vista di una felicità reale distinta dalla parvenza di felicità qual è la soddisfazione. La vera filosofia non è un esercizio astratto. Da sempre, fin da Platone, essa si erige contro l’ingiustizia del mondo. Contro lo Stato miserabile del mondo e della vita umana. Ma lo fa in un movimento che sempre protegge i diritti dell’argomentazione e che in ultima istanza propone una nuova logica all’interno dello stesso movimento con il quale essa libera il reale della felicità dal suo sembiante.

Mallarmé, dal canto suo, ci propone questo aforisma: «Ogni pensiero emette un lancio di dadi». Credo che questa formula enigmatica indichi anche la filosofia. Il desiderio fondamentale della filosofia è quello di pensare e realizzare l’universale, tra l’altro perché una felicità che non sia universale, che escluda la possibilità di essere condivisa da qualunque altra persona capace di diventarne il soggetto, non è una felicità reale. Ma tale desiderio non è il risultato di una necessità. Esso esiste all’interno di un movimento che è sempre una scommessa, un investimento arrischiato. E in questo investimento del pensiero la parte del caso non è cancellabile.

È dunque dalla poesia che ricaviamo l’idea che vi sono quattro dimensioni fondamentali del desiderio che caratterizzano la filosofia, in quanto singolarmente orientata verso l’universalità della felicità: la dimensione della rivolta, quella della logica, quella dell’universalità e quella del rischio.

Non si tratta forse della formula basilare di un desiderio di rivoluzione? Il rivoluzionario desidera che il popolo si sollevi; che lo faccia in modo efficace e razionale e non nella barbarie e la furia; che la sua sollevazione abbia un valore internazionale, universale e non sia richiusa su una identità nazionale, razziale o religiosa; infine il rivoluzionario assume il rischio, il caso, la circostanza favorevole che spesso si dà solo una volta. Rivolta, logica, universalità, rischio: sono le componenti del desiderio di rivoluzione, sono le componenti del desiderio di filosofia.

Ebbene, io penso che il mondo contemporaneo, il nostro mondo, talvolta chiamato il mondo «occidentale», eserciti una forte pressione negativa sulle quattro dimensioni di un tale desiderio.

Anzitutto il nostro mondo è un mondo in parte inappropriato alla rivolta, o da essa non appropriabile. Non che non ve ne siano di rivolte, ma perché ciò che esso insegna o ha la pretesa di insegnare, è di essere nella sua forma realizzata già un mondo libero, un mondo nel quale la libertà è il valore organizzatore o un mondo tale per cui non occorre volerne o auspicarne uno migliore (in un senso radicale). Dunque, questo mondo dichiara di essere giunto, con delle imperfezioni (cosa che ci si sforzerà di correggere), alla soglia della propria liberazione interna, intima. E che insomma, in materia di felicità, è il mondo dal quale potersi aspettare le migliori proposte e le migliori garanzie. Ma poiché questo mondo nello stesso tempo standardizza e commercializza le poste in gioco di tale libertà, la libertà che esso propone è una libertà di cattività, catturata da ciò cui è destinata nella rete della circolazione delle merci. Cosicché, in fondo, esso non è appropriato né all’idea di una rivolta che lo renda libero (vecchio tema, antiquato, della significazione stessa di ogni rivolta), poiché in un certo modo la libertà viene proposta dal mondo stesso, né è più appropriato a ciò che potremmo chiamare un uso libero di questa libertà, poiché la libertà è codificata o precodificata dall’infinito bagliore della produzione di merci e da ciò che a partire da essa l’astrazione monetaria istituisce.

Ecco perché questo mondo ha nei confronti delle rivolte o della possibilità della rivolta una disposizione che potremmo definire insidiosamente oppressiva. In virtù della quale ciò che propone in merito alla felicità è già sospetto di corruzione latente.

Secondariamente, questo mondo è inappropriato alla logica e questo principalmente perché è sottomesso alla dimensione illogica della comunicazione. La comunicazione e la sua organizzazione materiale trasmettono immagini, enunciati, parole e commenti il cui principio assunto è l’incoerenza. La comunicazione, fissata dal regno della sua circolazione, giorno dopo giorno disfa qualunque legame e qualunque principio, in una specie di giustapposizione inaccettabile e sconnessa di tutti gli elementi che trascina con sé. Possiamo dire, inoltre, che la comunicazione ci propone in forma istantanea uno spettacolo senza memoria e che da questo punto di vista ciò che sostanzialmente disfa è una logica del tempo.

Ecco perché sostengo che il nostro mondo è un mondo che esercita una forte pressione sul pensiero nel suo principio di consistenza e in un certo senso essa propone al pensiero una specie di dispersione immaginaria. Ma si può mostrare — e lo farò anche se in realtà lo sanno tutti — che una felicità reale è dell’ordine della concentrazione, dell’intensificazione, e non può tollerare ciò che Mallarmé chiamava «quei paraggi del vago in cui ogni realtà si dissolve».

In terzo luogo, questo mondo è inappropriato all’universale per due ragioni correlate. Anzitutto la vera forma materiale del suo universalismo è l’astrazione monetaria o l’equivalente generale. Nel denaro risiede l’unico segno effettivo di ciò che circola e universalmente si scambia. Poi, come sappiamo, perché questo mondo è allo stesso tempo un mondo specializzato e frammentario, organizzato da una logica generale delle specializzazioni produttive e da una tale enciclopedia dei saperi da poterne padroneggiare solo un esile frammento.

Proponendoci simultaneamente una forma astratta e monetaria dell’universale e seppellendo sotto questa forma una realtà specializzata e frammentaria, questo mondo esercita una forte pressione sul tema stesso dell’universale nel senso in cui lo intende la filosofia. Tanto vale dire che la sua «felicità» è riservata a gruppi definiti e a individui concorrenti, i quali non mancheranno di difenderla come un privilegio ereditato contro la massa di coloro che non ne godono in alcun modo.

Infine, questo mondo è inappropriato alla scommessa, alla decisione azzardata, perché è un mondo nel quale nessuno ha più modo di lasciare la propria esistenza al caso. Il mondo, qual è ora, è un mondo dove regna la necessità di un calcolo di sicurezza. Niente è più sorprendente a questo proposito del fatto che l’insegnamento, ad esempio, sia organizzato in modo tale che risalga sempre più in alto la necessità del suo ordinamento al calcolo della sicurezza professionale e del suo adeguamento alle disposizione del mercato labile del lavoro. E che venga insegnato quanto prima che la decisione azzardata è figura da revocare e sospendere a vantaggio di un calcolo sempre più prematuro di una sicurezza che nel reale peraltro si rivela piuttosto incerta. Il nostro mondo consegna la vita al calcolo minuzioso e obbligato di questa dubbia sicurezza e ordina le successive sequenze esistenziali a partire da questo calcolo.

C’è qualcuno che non sa che la felicità reale non è calcolabile?

Direi allora che il desiderio filosofico di una rivoluzione dell’esistenza, se lo concepiamo come il nodo della rivolta, della logica, dell’universalità e della scommessa, incontra nel mondo contemporaneo quattro ostacoli principali, quattro pressioni obbligate, che sono il regno della merce, il regno della comunicazione, l’universalismo monetario e la specializzazione produttiva e tecnica, il tutto legato soggettivamente attraverso il calcolo della sicurezza personale. Questi ostacoli tendono a fare in modo che l’idea ineluttabile della vera vita, della felicità, sia ridotta alla sembianza di una soddisfazione consumatrice.

Come la filosofia coglie questa sfida? Può coglierla? Ne è capace?

Per abbozzare una risposta, procedo a semplificare radicalmente la situazione filosofica mondiale, nella quale distingueremo tre correnti principali.

In primo luogo, c’è la filosofia fenomenologica ed ermeneutica, corrente che risale al romanticismo tedesco e i cui principali nomi contemporanei, in senso largo, sono Heidegger e Gadamer. Il secondo luogo, c’è la corrente analitica, che ha per origine il circolo di Vienna con Wittgenstein e Carnap e che oggi domina l’intera filosofia universitaria inglese e americana. In terzo luogo, c’è la corrente postmoderna che attinge dalle altre due e che senz’altro in Francia è stata la più attiva, alla quale possiamo ricondurre Jacques Derrida e Jean-François Lyotard. Beninteso vi sono all’interno di questi tre orientamenti di fondo innumerevoli intersezioni, nodi e parti comuni, ma credo che così abbiano il merito di indicare una sorta di cartografia decente dello stato di cose. Ciò che qui mi interessa è come ogni corrente indichi o identifichi il desiderio di filosofia e i suoi possibili effetti creatori nel mondo reale. Dunque quale sia per ciascuna corrente la definizione, esplicita o latente, della vera vita, il cui affetto è la felicità reale.

La corrente ermeneutica assegna come fine alla filosofia quello di decifrare il senso dell’esistenza e del pensiero, e possiamo dire che il suo concetto centrale sia quello di interpretazione. Vi sono delle parole, delle azioni, delle configurazioni, dei destini storici il cui senso è oscuro, latente, nascosto, velato, non rivelato. Un metodo interpretativo andrà in cerca di una schiarita di questa oscurità e tenterà di far capitare un senso primordiale, che sarà una figura del nostro destino nel suo nesso al destino dell’essere stesso. Se l’operatore fondamentale è l’interpretazione, è evidente che si tratterà di svelare o di aprire a un senso non apparente. L’ultima grande opposizione della filosofia di filiazione ermeneutica è quella tra il chiuso e l’aperto. Il destino della filosofia è quello di tenersi nell’apertura in senso latente e, di conseguenza, di sgomberare o disoccupare il pensiero dal suo affossamento nella chiusura, nella latenza e nell’oscuro del suo senso. Il desiderio rivoluzionario, per il pensiero, è quello di una schiarita. E la felicità reale è una figura soggettiva dell’ Aperto.

La corrente analitica, da parte sua, assegna alla filosofia il fine di una rigida delimitazione tra gli enunciati che hanno senso, o sono provvisti di senso, e gli enunciati che non ne hanno, tra ciò che si ha il diritto di dire e ciò che è impossibile a dirsi, tra ciò che può fare consenso intorno a un senso condiviso e ciò che ne è incapace. Lo strumento imprescindibile non è qui l’interpretazione, ma l’analisi grammaticale e logica degli enunciati in quanto tali ; è del resto la ragione per cui questa corrente ha attinto massicciamente all’eredità della logica, ivi inclusa quella matematica. Si tratta di uno studio delle leggi e delle risorse del linguaggio, dove il concetto centrale è stavolta quello di regola. Individuare la regola che autorizza l’accordo sul senso, questa in ultima istanza è la posta in gioco dell’attività filosofica.

E si dirà che l’opposizione maggiore stavolta non è tra il chiuso e l’aperto, ma quella tra regolato e sregolato, tra ciò che è conforme a una legge riconosciuta e ciò che, sottratto a qualunque legge non identificabile a partire da una regola, è necessariamente illusione e discordanza. In questa ottica l’obiettivo della filosofia è terapeutico e critico. Si tratta di levare le illusioni che ci dividono, i nonsensi che creano divisione e opposizione. Il desiderio rivoluzionario, per il pensiero, è quello di una condivisione democratica del senso. E la felicità reale è l ’affetto della democrazia.

Infine, la corrente postmoderna assegna alla filosofia il fine di decostruire le evidenze recepite dalla nostra modernità. Stavolta non si tratta di dischiudere un senso latente, né di delimitare il senso dal nonsenso. Bensì di mostrare che il problema stesso del senso andrà disposto altrimenti e con questo di decostruire la sua figura precedente, di dissolvere le grandi costruzioni che furono, in particolare nel XIX secolo e poco prima, quella del soggetto storico, dell’idea di progresso, dell’idea di rivoluzione, dell’idea di umanità, mostrando che vi è una irriducibile pluralità di registri dei linguaggi tanto nel pensiero quanto nell’azione, pluralità che non si lascia riassorbire o unificare all’interno di una problematica totalizzante del senso. In sostanza, l’obiettivo del pensiero postmoderno è quello di decostruire l’idea di totalità; per la qual cosa la filosofia stessa si trova rimessa in causa, destabilizzata. Cosicché la filosofia postmoderna attiverà quelle che potremmo chiamare pratiche miste o impure. Andrà a mettere del pensiero su dei confini o su dei margini, dentro degli incisi. E soprattutto la corrente postmoderna insedierà l’eredità del pensiero filosofico in un gioco che la lega al destino dell’arte. Il desiderio rivoluzionario è alla fine quello di inventare nuove forme di vita. E la felicità reale non è altro che il godimento di queste forme.

Ciò che ora ci interessa è chiederci se vi siano tratti comuni a questi tre orientamenti dominanti. Chiederci se, nel modo in cui esse accettano la sfida che il mondo oppone al desiderio di filosofia, intraprendano su tal punto o tal altro percorsi paralleli o paragonabili.

Vi è anzitutto un tratto negativo molto importante. Le tre correnti dichiarano la fine della metafisica e dunque in un certo senso la fine della filosofia stessa, perlomeno nel suo senso classico o, come direbbe Heidegger, nel suo senso destinale. Per Heidegger vi è chiusura della storia della metafisica. La filosofia è incapace di procedere oltre nell’elemento della metafisica. E questa chiusura è anche la chiusura di un’intera epoca della storia dell’essere e del pensiero. Possiamo dire, così, che all’ideale della verità, che organizzava la filosofia classica a partire dalla definizione tradizionale di «ricerca della verità», viene sostituita l’idea di una pluralità del senso. Sono profondamente convinto che il movimento attuale della filosofia si organizzi intorno all’opposizione decisiva tra verità, categoria centrale della filosofia classica (o se vogliamo della metafisica), e questione del senso, supposto essere la questione che precipita nella modernità nel momento in cui si chiude il problema classico della verità.

Per l’ermeneutica, la verità è una categoria della metafisica che deve essere ripresa nella direzione di un senso destinale dell’essere. Il mondo si compone di un intreccio di interpretazioni che nessun ente trascendente può vedere dall’alto. Il regno a venire dell’aperto ci libera dall’univocità astratta rappresentata dall’idea vera.

Per la filosofia analitica è chiaro che occorre abbandonare il grande disegno di una «ricerca della verità». Il senso stesso è relativo alla grammatica di riferimento. Quando vogliamo distinguere il senso dal non-senso, occorre sempre riferirsi all’universo di regole nel quale ci si trova a operare. Vi sono di conseguenza diversi sensi o diversi regimi del senso che sono incomparabili, ed è appunto ciò che Wittgenstein chiama i giochi linguistici. La pluralità dei giochi linguistici si oppone espressamente all’idea di un raccoglimento trasparente sotto il segno della verità.

Infine, la corrente postmoderna decostruisce il supporto tradizionale delle verità o ciò in virtù di cui vi è verità, al quale per tradizione la filosofia ha dato il nome di soggetto. Possiamo dire che si tratta di un asse fondamentale della filosofia postmoderna, quello di proporsi di decostruire, nella misura in cui si tratta di un prodotto della metafisica, la categoria di soggetto. Non vi è allora soggetto per il quale o perché, a partire dal quale o a partire dal che, vi sarebbe verità. Vi sono solo delle occorrenze, dei casi, degli avventi disparati, e vi sono dei generi di discorso a loro volta eterogenei che accolgono questi casi disparati.

Alla fine ermeneutica, analitica e postmodernità organizzano una triplice opposizione tra il senso, aperto e plurale, simbolo della modernità, e l’idea di verità univoca, considerata una metafisica arcaica o persino «totalitaria». Ecco il comune tratto negativo.

Sul fronte positivo, vi è un tratto comune molto evidente: l’importanza centrale del linguaggio. È attraverso queste tre correnti e la loro diffusione che si è prodotta ciò che potremmo chiamare la grande svolta linguistica della filosofia occidentale. Centralità del linguaggio che, ancora una volta, avrà un’organizzazione o una diffusione differenziata all’interno delle tre correnti, ma che è il loro tratto comune probabilmente più visibile.

Per l’ermeneutica, ovviamente, è l’interpretazione, l’attività interpretante, a operare principalmente a partire dagli atti di parola, dagli atti di significazione, e il linguaggio è in ultima istanza il luogo stesso all’interno del quale si gioca la questione dell’aperto. È unicamente in questo luogo, «nell’incamminarsi verso la parola» — dove «parola» va intesa nel regime dell’interpretazione —, che si compie la nostra disposizione al pensiero. Per la corrente analitica, la materia prima sono gli enunciati e alla fin fine la filosofia è una specie di grammatica generale all’insegna della forza della regola; non vi sono altro che frasi, frammenti o generi di discorso. Infine, la decostruzione postmoderna è un’azione linguistica e scritturale rivolta contro la stabilità delle astrazioni metafisiche. Così, le tre correnti pongono la questione del linguaggio al centro assoluto della filosofia in quanto tale e, che si tratti dell’interpretazione, della regola o della decostruzione nella forma dell’opposizione tra parola e scrittura, alla fine abbiamo un’assunzione del linguaggio a ciò che potremmo chiamare il grande trascendentale storico del nostro tempo. Diremo di conseguenza che la filosofia contemporanea nelle sue principali tendenze sostiene due assiomi, che questa è la sua logica costitutiva:

v  primo assioma: la metafisica della verità è diventata impossibile;

v  secondo assioma: il linguaggio è il luogo cruciale del pensiero, perché lì è in gioco la questione del senso.

 

Tali due assiomi organizzano a modo loro l’opposizione che è il passaggio centrale della questione filosofica oggi, ovvero il rapporto tra senso e verità.

Per arrivare alla mia posizione, dico che in questi due assiomi—impossibilità della metafisica della verità e carattere costitutivo della questione del linguaggio —vi è un grande pericolo, quello dell’incapacità della filosofia a sostenere, partendo da questi due assiomi, il proprio desiderio specifico, a fronte della pressione esercitata nei confronti di questo desiderio dal mondo contemporaneo. Il pericolo, insomma, di perdere qualunque virtù rivoluzionaria e con questo di abbandonare il motivo della vera vita e dunque della felicità, a mero vantaggio della dottrina, individualista e identitaria, della soddisfazione.

Se la filosofia è nella sua centralità una meditazione del linguaggio, se è insediata nella pluralità dei giochi linguistici e delle loro codificazioni grammaticali, essa non riuscirà a rimuovere l’ostacolo che il mondo oppone all’universalità, tanto per la sua specializzazione quanto per la sua frammentazione e astrazione. Poiché vi sono altrettanti linguaggi che comunità e attività. I giochi linguistici sono in effetti la regola del mondo, e sappiamo fino a che punto la circolazione tra questi giochi sia difficile. Ma che i giochi linguistici siano la legge del nostro mondo impedisce appunto — anche se la filosofia propone, contro la legge del mondo, una rivoluzione nel pensiero — che questi giochi siano il luogo in cui possa formarsi l’imperativo filosofico. Oppure, ed è forse peggio, accettando di insediarsi all’interno di questo primato del linguaggio, la filosofia dovrà indicare il linguaggio come ciò che solo potrà salvarla.

Fin da Platone, nel Cratilo, si è detto che la filosofia aveva per compito quello di partire non dalle parole ma, per quanto ne fosse capace, dalle cose stesse. Credo che si tratti di un imperativo transtemporale della filosofia e che tutto il problema sia appunto di sapere come partire non dal linguaggio, ma dalle cose stesse. La filosofia analitica ha privilegiato in modo unilaterale i linguaggi di tipo scientifico, ovvero quelli più immediatamente appropriati a regole logiche. E ha fatto di questi linguaggi dei paradigmi della delimitazione del senso, perché come sappiamo nei linguaggi scientifici la regola è esplicita, mentre nella maggior parte degli altri linguaggi rimane implicita. Ma, ancora una volta, il privilegio unilaterale e paradigmatico delle lingue in cui la regola è esplicita non può consentirci di sostenere la sfida lanciata contro l’universalità, perché niente indica a priori che l’universalità vada necessariamente di pari passo con il carattere esplicito delle regole. Cosa che dovrebbe essere provata per conto suo, e non lo è nel momento in cui solo la regola fa legge nei confronti della delimitazione del senso.

Se, d’altra parte, la categoria di verità viene abbandonata o invalidata, la filosofia non potrà raccogliere la sfida di un’esistenza asservita alla circolazione delle merci o all’illogicità della comunicazione. Poiché, si tratta qui di un punto difficile ma del quale sono profondamente convinto, all’infinita cangianza che la circolazione delle merci, a quella specie di pluralità flessibile alla quale il desiderio si trova incatenato, possiamo opporre solo il punto fermo di una esigenza incondizionale. Tutto ciò che in questo mondo è sottoposto a condizione ricade sotto la legge della circolazione delle cose, delle monete e delle immagini.

Interrompere questo principio di circolazione — a mio avviso è un’esigenza radicale della filosofia contemporanea e prima condizione per una strada verso la felicità reale —

Questo è possibile essendo in grado di enunciare o di assumere che vi è un punto fermo incondizionale, ovvero un’idea strategica assolutamente in antagonismo rispetto a tale circolazione e a una soggettività insieme egoista e ignorante.

Penso che all’inconsistenza mediatica o comunicante delle immagini e dei commenti non si possa che opporre la tesi per cui esistono almeno alcune verità non labili e che la loro paziente ricerca e assimilazione, al di sotto della superficie cangiante di ciò che si dà e circola, è l’imperativo al quale la filosofia deve sottoporsi, se non vuole a sua volta finire investita e smembrata dall’inconsistenza della comunicazione.

Pongo dunque la seguente domanda:

Quale sarebbe il senso di scommettere l’esistenza, sottraendola all’imperativo di un calcolo di sicurezza personale, di gettare i dadi contro la routine, di esporsi a un azzardo qualunque, se non nel nome minimo di un punto fisso, di una verità, di un’idea, di un valore capace di prescriverci questo rischio?

E senza questo punto di sostegno, come immaginare la forma generica della felicità di un soggetto quale che sia?

Confrontato alla scommessa e al frangente del caso attraverso il quale l’esistenza si investe nella propria novità, è allora necessario e ineludibile avere un centro fisso, struttura non labile che sostenga la persona in equilibrio, rettitudine ed integrità.

Per preservare le quattro dimensioni del desiderio filosofico (rivolta, logica, universalità e scommessa) contro i quattro ostacoli che il mondo contemporaneo gli oppone (merce, comunicazione, astrazione monetaria e ossessione securitaria), occorre superare le tre dimensioni filosofiche dominanti: l’analitica, l’ermeneutica, la postmoderna. Vi è in effetti in queste tre opzioni qualcosa di troppo appropriato al mondo qual è, qualcosa che riflette esageratamente la fisionomia del mondo stesso. E, investita in queste opzioni, da esse organizzata, la filosofia finirà per sopportare, accettare la legge di questo mondo senza rendersi conto che negli ultimi tempi questa legge impone la scomparsa del suo desiderio.

Propongo allora di rompere queste cornici di pensiero per ritrovare o costituire all’interno di configurazioni rinnovate uno stile o una via filosofica che non sia né quella dell’interpretazione, né quella dell’analisi grammaticale, né quella della frammentarietà, degli equivoci e della decostruzione.

Si tratta di ritrovare uno stile filosofico fondatore, deciso, alla scuola di quello che è stato lo stile filosofico e classico fondatore, di un Cartesio per esempio. Beninteso non è questione di fornire in questa introduzione anche solo un primo scorcio di quello che potrebbe essere il dispiegamento di una filosofia capace di sostenere la sfida del mondo preservando la radicalità del proprio desiderio. Per questo rimandiamo alla lettura dei miei trattati filosofici: L’essere e l’evento e Logiche dei mondi ai loro riassunti, Manifesto per la filosofia e Secondo manifesto per la filosofia. Ma vorrei comunque indicare due orientamenti o due temi.

Innanzitutto, affermo che il linguaggio non è l’orizzonte assoluto del pensiero. Certo il linguaggio, la lingua, o una lingua, è sempre il corpo storico di una filosofia. C’è una figura specifica di incarnazione, una tonalità, un colore, che riflette l’orizzonte della lingua. Ma l’organizzazione in pensiero della filosofia non è immediatamente debitrice della regola linguistica nella quale essa si trova a operare. E a questo proposito occorre ripristinare l’idea che la filosofia è universalmente trasmissibile. Questa idea della trasmissibilità universale Jacques Lacan l’ha chiamata l’idea del matema. Adattiamola a quanto stiamo dicendo. Una volta preservato l’ideale della trasmissione universale, affermiamo che l’ideale della filosofia dovrà essere in effetti il matema. Il matema si rivolge a tutti, è universalmente trasmissibile, attraversa le comunità linguistiche e l’eterogeneità dei giochi linguistici, senza privilegiarne alcuno e ammettendo la pluralità dei loro esercizi, ma senza che a sua volta percorra questa molteplicità o si insedi nella molteplicità. Ancor meno è allineato sull’ideale formale del linguaggio scientifico, poiché costruisce nell’elemento che è il suo la propria specifica figura di universalità.

In secondo luogo, affermo che il ruolo specifico, irriducibile, singolare della filosofia è quello di stabilire all’interno di un discorso un punto fisso, o più esattamente quello di trovare o di proporre un nome o una categoria per tale punto fisso. Nella mia disposizione filosofica ho ripreso la vecchia parola di «verità», ma poco importa la parola perché quel che conta è la capacità di una proposizione filosofica qualunque di stabilire un incondizionato di questo genere.

Il nostro mondo è segnato da velocità e incoerenza. La filosofia deve essere ciò che ci consente di dire — viene sempre il momento in cui occorre poter dire —, attraverso una sorta di interruzione o di cesura della velocità o dell’incoerenza, che questa cosa è bene e quell’altra non lo è.

Fissare un punto centrale a partire dal quale poter parlare in questo modo, tale è la posta in gioco più che mai necessaria per la filosofia. Occorre allora a mio avviso ricostruire filosoficamente, senza restaurazioni e senza arcaismi, al vaglio dell’evenemenzialità moderna, la categoria di verità e di conseguenza la categoria di soggetto. Bisognerà farlo di modo tale che non si tratti di una restaurazione della metafisica, ma di una ridefinizione o di un ridispiegamento della filosofia stessa all’interno di un elemento categoriale che autorizzi il pensiero del punto fisso.

Compito importante è che a queste condizioni la filosofia abbia per vocazione la saggezza di rallentare il pensiero, fissando il proprio tempo specifico. Nelle tendenze contemporanee la filosofia si esaurisce a forza di seguire il corso del mondo. È prigioniera di un tempo moderno che è insieme rovinosamente frammentato, segmentato e accelerato. La vocazione della filosofia, per quanto ne è capace, è quella di stabilire un tempo che si dia il tempo, ovvero un pensiero che si dia il tempo della lentezza dell’investigazione e dell’architettonica.

Questa costruzione di un tempo proprio è a mio parere il principio direttore dello stile che dobbiamo esigere dalla filosofia oggi. Anche in questo caso l’esperienza più comune ci viene in aiuto:

Essere padroni del proprio tempo non è da sempre una condizione della felicità?

Non è proprio ciò che i padroni da sempre rifiutano alla massa dei dominati? Il lavoro salariato, del quale il comunismo propone di sbarazzare l’umanità, non è sempre stato rappresentato come una condizione infelice di ciò che appunto era la violenta imposizione di un tempo eterogeneo? Le rivolte operaie non hanno regolarmente messo in discussione l’obliteratrice e l’obliteratore, il controllore, le cadenze?

Qualunque felicità reale presuppone una liberazione del tempo.

In molte correnti contemporanee, in special modo nella filosofia ermeneutica e a e ancor di più nella filosofia postmoderna, vi è una promozione o un elogio della disposizione frammentaria del discorso filosofico. Questa promozione si radica soprattutto in un modello nietzschiano. Penso che per ragioni di circostanza o di opportunità, semplicemente perché è il mondo a imporcelo, occorra restituire alla filosofia un principio di ordine unitario e continuità. Poiché il frammento è in fondo una modalità con la quale il discorso filosofico si sottopone ciecamente alla frammentazione del mondo stesso e attraverso il quale in un certo senso esso consente, con la propria segmentazione frammentaria, all’astrazione monetaria e mercantile di rappresentare l’unico principio di continuità. È allora indispensabile che la filosofia sviluppi la propria lentezza intrinseca e restauri la continuità del pensiero, ovvero contemporaneamente il principio di decisione che la fonda e il tempo razionale che la annoda.

È il momento di chiedersi se a queste condizioni vi sia una chance di vedere la filosofia, all’evidenza in pericolo, arrivare a sostenere la sfida della quale parlavamo all’inizio, a sostenere il proprio desiderio. La filosofia è ammalata, su questo non vi è alcun dubbio, e i colpi che le sono inferti sono il correlato delle sue difficoltà interne. Ho l’impressione — e sono le ragioni di ottimismo che mi sento di avanzare — che a questo malato che in un certo senso non smette di dire di sé che è più malato di quanto non si dica, a questo malato che annuncia la propria morte imminente e persino la propria morte già realizzata, a questo malato il mondo contemporaneo — il mondo o almeno una parte di questo mondo —, mentre su di lui continua a esercitare una pressione indistinta per spezzarne il desiderio, la vita ; chiede paradossalmente di continuare a vivere. Come sempre la significazione del mondo è equivoca. Da un lato il sistema generale della circolazione, della comunicazione, della sicurezza è orientato all’indebolimento del desiderio di filosofia. Dall’altro, per paradosso esso crea, organizza contraddittoriamente al proprio interno una domanda che si rivolge in modo vago e vuoto alla possibilità di filosofia. Perché?

Anzitutto vi è la crescente convinzione, comunque crescente in coloro che cercano di essere nell’autonomia del proprio pensiero, che le scienze umane non sono, né saranno in condizione di sostituire la filosofia, sia per la sua disposizione disciplinare sia per la natura specifica del suo desiderio. C’è stato un momento in cui era diffusa l’idea — una delle incarnazioni del tema della fine della filosofia — che una specie di antropologia generale, normata dall’ideale della scienza, sussumendo sociologia, economia, politologia, linguistica, psicologia «scientifica», persino psicanalisi, avrebbe potuto sostituire la filosofia: un altro modo di dire che avevamo raggiunto la fine della filosofia. Io credo, invece, che oggi le scienze umane si dispieghino come sede delle medie statistiche, delle configurazioni generali, e che esse non consentano di trattare o di affrontare il singolare, la singolarità nella forma del pensiero.

La singolarità: se ci pensiamo bene, è precisamente sempre lì che viene a trovarsi il nocciolo della decisione e ogni decisione in ultima istanza, in quanto decisione vera e propria, è una decisione singolare.

A dir vero non vi è alcuna decisione generale e per quanto ciò che induce una verità, o ciò a cui una verità induce, o ciò che si sostiene su un punto fisso, sia dell’ordine della decisione, esso è sempre anche dell’ordine della singolarità. Diremo allora che occorre chiedersi se oggi sia possibile formulare una filosofia della singolarità che sia con ciò stesso capace di essere ancora filosofia della decisione e della scommessa.

In secondo luogo, tutti hanno in effetti preso coscienza della rovina dei grandi soggetti collettivi, anche in questo caso è il pensiero a pensarli in rovina. Non si tratta tanto di sapere se questi soggetti siano esistiti, esistano o esisteranno, si tratta del fatto che le grandi categorie che consentono di capire il soggetto collettivo oggi appaiono sature e incapaci di animare il pensiero, che si tratti di figure del genere progresso storico dell’umanità o dei grandi soggetti di classe — quali il proletariato —, intesi come realtà oggettive.

Il che richiama ciascuno a quello che definirei la necessità di decidere di parlare a nome proprio, anche e soprattutto quando si tratta di rispondere a ciò che il sorgere di una verità nuova esige da ciascuno. Ma è evidente che la necessità di decidere di parlare a nome proprio, anche quando la questione è politica, esige per tale decisione un punto fisso, un principio incondizionale, un’Idea in condivisione che sostenga e universalizzi la decisione primordiale. Occorre che ciascuno, in nome proprio ma aperto alla condivisione organizzata con altri della propria parola, possa pronunciare che questo è vero e quello è falso, che questo è bene e quello è male o che questo è sensato e quello è insensato. Se allora la richiesta è una filosofia della singolarità, contemporaneamente è anche quella di una filosofia della verità.

In terzo luogo, siamo i contemporanei di una espansione delle passioni comunitarie, religiose, razziste e nazionaliste. Una espansione che in tutta evidenza è il rovescio della distruzione delle grandi configurazioni razionali del soggetto collettivo. Dallo smembramento e il crollo di queste grandi configurazioni, dall’assenza provvisoria ma dolorosa dell’Idea di comunismo, deriva la risalita in superficie di una specie di oscuro annichilimento della volontà individuale che sovente si traduce nel silenzio dell’azione e della parola; il tacito conformismo, il quale si figura totalità di ricambio per evitare appunto di doversi pronunciare o dover decidere a nome proprio e, a partire da protocolli di delimitazione, di esclusione e di antagonismo, si affida a soggetti arcaici il cui ritorno è sempre più minaccioso. A questo proposito è assolutamente certo che alla filosofia viene chiesto di conferire al punto fisso o all’incondizionato sul quale si sostiene una figura razionale, mostrando che benché vi sia stata una defezione delle configurazioni razionali anteriori del destino storico collettivo ciò non significa che si debba abbandonare la virtù della consistenza razionale del pensiero. Alla filosofia viene allora chiesto cosa ne resta della sua capacità a proporre una figura rinnovata, una figura fondatrice della razionalità che sia omogenea al mondo contemporaneo.

Infine, ultima cosa, il mondo per come lo conosciamo, ciascuno ha una sorda coscienza che si tratta di un mondo straordinariamente precario, incerto, frammentario, insensato.

Resta tuttavia un paradosso: perché esso si presenta come il migliore dei mondi possibili, facendo intendere che qualunque altro mondo, tentato nel paradigma della rivoluzione o dell’emancipazione, si è rivelato insieme criminale e disastroso. Ma allo stesso tempo questo mondo che si dà come il migliore dei mondi possibili è un mondo che sa di essere incredibilmente vulnerabile. È un mondo esposto. Non è affatto un mondo stabilito all’interno della stabilità durevole del proprio essere. È un mondo che a sua volta conosce poco se stesso e che si affida a leggi troppo astratte per non essere esposto alla catastrofe di eventi che non può fare a meno di accettare o accogliere. Del resto la guerra devasta interi paesi senza interruzione da cinquant’anni ed essa erode sempre di più gli immediati paraggi dell’egoismo «occidentale».

Nei confronti di questa pericolosa vulnerabilità del mondo, che fa sì che esso proponga a ogni istante, oltre che la propria legge generale di circolazione e di comunicazione, delle estraneità innominabili, delle mostruosità disperse, nei confronti di questo mondo a sua volta preda di una eclatante cecità che può rovesciarsi da un momento all’altro, qui, là, ovunque, nella violenza, nella guerra o nell’oppressione, verso questo mondo ritengo che alla filosofia sia richiesto di riuscire a vedere, criticare e ricordare l’evento stesso riconoscendone le originarie labilità fonti di tali innominabili mostruosità.

Ecco perché, e al costo di una rottura con l’ermeneutica, la filosofia analitica e il pensiero postmoderno, ritengo che ciò che è richiesto alla filosofia, dall’interno dell’infinita precarietà di questo mondo, sia di fare la scommessa di una filosofia decisa, fondatrice, contemporaneamente una filosofia della singolarità, una filosofia della verità, una filosofia razionale e una filosofia dell’evento.

Le è allora richiesto di proporre, come riparo o involucro del desiderio di filosofia, ciò che potremmo chiamare un nodo razionale della singolarità, dell’evento e della verità. Questo nodo deve inventare una nuova figura della razionalità, poiché tutti sanno che annodare singolarità ed evento a verità è nella tradizione classica di per sé un paradosso. Ed è appunto di questo paradosso che deve occuparsi la filosofia contemporanea nella sua centralità, se intende proteggere il proprio desiderio e riformulare in modo costruttivo e generalizzabile all’umanità intera il famoso aforisma di Saint-Just «la felicità è un’idea nuova in Europa».

Ciò che da parte mia ho tentato di mostrare altrove è che questo nodo razionale della singolarità, dell’evento e della verità costituisce in quanto tale una nuova dottrina possibile del soggetto. Contro l’idea che il soggetto coappartenga alla metafisica e in quanto tale debba essere decostruito, io affermo che concependo il soggetto come l’ultima differenziale in cui si annodano razionalmente singolarità, evento e verità, possiamo e dobbiamo proporre al pensiero e al mondo una nuova figura del soggetto, la cui massima è in sostanza la seguente:

Un soggetto è singolare, perché è sempre un evento a costituirlo in una verità.

Oppure :

Un soggetto è contemporaneamente un luogo di razionalità possibile e ciò che potremmo chiamare il punto di verità dell’evento.

E infine :

Non vi è felicità se non per un soggetto, per ciò che di un individuo accetta di diventare soggetto.

Queste tesi non sono altro che la diagonale formale dell’impresa filosofica della quale provo a formulare le aspettative o il programma.

Se guardiamo le cose del pensiero e del mondo a partire da una filosofia così costituita — filosofia che dichiara che la singolarità del soggetto risiede nel fatto che è un evento a costituirlo in una verità —, possiamo dire che in un certo senso la metafisica è effettivamente in rovina o finita, ma non che le categorie della metafisica siano del tutto obsolete. Allora diremo anche, sempre a partire da una tale filosofia, che certamente la metafisica è in rovina ma che la decostruzione della metafisica è altrettanto rovinata e che il mondo ha bisogno di una proposta filosofica fondatrice, fondata sulle rovine sovrapposte o unificate della metafisica e della figura dominante della critica della metafisica.

Per tutte queste ragioni credo che il mondo contemporaneo necessiti di filosofia più di quanto la filosofia non creda. Tutto ciò non è sorprendente se si parte dalla diagnosi che le correnti dominanti della filosofia contemporanea sono troppo appropriate alla legge del mondo e che in quanto appropriate alla legge del mondo hanno fallito nel dirci ciò che può essere la vera vita. Così che alla fine ciò che questo stesso mondo chiede alla filosofia è, per queste correnti, parzialmente invisibile. Per renderlo visibile, occorre una interruzione nella filosofia stessa, ovvero un’interruzione su ciò che essa dice a proposito del proprio compito.

La massima potrebbe essere: farla finita con la fine. E farla finita con la fine presuppone la presa di una decisione. Nessuna fine finisce da sola, la fine non finisce, la fine è interminabile. Per farla finita con la fine, per finire la fine, occorre una decisione presa e di questa decisione provo appunto a indicarne i punti di sostegno e gli elementi di convalida in ciò che è richiesto alla filosofia dal mondo stesso.

Non nego affatto che la filosofia sia ammalata, vista l’ampiezza del programma e la difficoltà nel sostenerlo, può darsi benissimo che stia morendo. Ma il mondo le dice, il mondo dice a questa moribonda, senza che serva tirare in ballo un salvatore o un miracolo — questa è almeno la mia ipotesi—, il mondo dice alla moribonda filosofia: «Alzati e cammina!». Procedere dietro l’imperativo di un’Idea vera ci destina alla felicità.

 

C A P I T O L O  S E C O N D O

 

Chiamo «anti-filosofia» quella specie particolare di filosofia che oppone il dramma della propria esistenza alle costruzioni concettuali, per la quale la verità esiste, non c’è alcun dubbio, ma la si dovrà incontrare, sperimentare, piuttosto che pensare o costruire. È in questo senso che dobbiamo intendere Kierkegaard quando dice che ogni verità è «interiorità» o che «la soggettività stessa è la verità».

Ma attenzione! L’anti-filosofo non è in alcun modo uno scettico o un relativista, oggi lo si chiamerebbe un democratico, un partigiano della diversità culturale, della varietà delle opinioni, il quale come mi scriveva Deleuze poco prima della sua morte «non ha bisogno» dell’idea di verità. Al contrario l’anti-filosofo è il più duro, il più intollerante dei credenti. Si guardi a Pascal, a Rousseau, a Nietzsche, a Wittgenstein: personalità imperiose, implacabili, impegnate contro i «filosofi» in una lotta senza risparmio di colpi. Cartesio per Pascal? «Inutile e confuso». Voltaire, Diderot, Hume, per Rousseau? Dei corrotti, dei complottisti. Il filosofo, per Nietzsche? Il «criminale dei criminali», da fucilare seduta stante. Le concezioni della metafisica razionale per Wittgenstein? Puri e semplici non-sensi. E per Kierkegaard, la maestosa costruzione hegeliana? Lo spaesamento di un vecchio: «Il filosofo è uscito di scena, non è più della partita, si è seduto e invecchia ascoltando i canti del passato e le armonie della mediazione».

Questo furore del pensiero, imperniato su una visione inflessibile della vita personale, è coadiuvato in tutti i grandi anti-filosofi da uno stile che non è possibile separare dalla loro visione. Non basta dire che sono grandi scrittori! Pascal e Rousseau hanno rivoluzionato la prosa francese. Nietzsche ha estratto dalla lingua tedesca accenti sconosciuti. Il Tractatus di Wittgenstein è paragonabile solo al lancio di dadi di Mallarmé e Lacan, che ho dimostrato essere per il momento l’ultimo anti-filosofo davvero degno di nota, apparenta la psicanalisi a una lingua inventata.

Il filosofo che sono — concettuale, sistematico, innamorato del matema — evidentemente non può cedere al richiamo di queste sirene meravigliose quali sono gli anti-filosofi. Per questo ho il dovere di pensare all’altezza delle sfide da loro lanciate. Al pari di Ulisse, incatenato al solido albero di quel che accade nel pensiero dell’Assoluto dal tempo di Platone, dovrà starli a sentire, capirli e imporsi doveri la cui acrimonia gli ricorda che in loro assenza lui diventerebbe un consensuale democratico, un commerciante della felicità spicciola e perbene e un adepto dell’imperativo «Vita senza Idea».

Ciò che mi appassiona in questi violenti e straordinari avversari è questo: contro la moderazione contrattuale e deliberante che oggi ci si vuole infliggere come norma, ci ricordano che il soggetto se ha una possibilità di starsene all’altezza dell’Assoluto è solo nell’elemento teso e paradossale della scelta. Occorre scommettere, dice Pascal. Occorre incontrare dentro di sé, dice Rousseau, la voce della coscienza. E Kierkegaard: « Con la scelta il singolo si pianta in quello che è stato scelto, e se non sceglie deperisce ». Quanto alla felicità reale, essa è subordinata agli incontri casuali che ci impongono di scegliere. Lì compare la vera vita o, quando cediamo, essa scompare appena intravista.

Questione di vita o di morte, scommessa, scelta, decisione imperiosa. Il soggetto esiste solo dentro questa prova e nessuna felicità è immaginabile se l’individuo non va oltre il tessuto delle mediocri soddisfazioni nelle quali sguazza la sua oggettività animale, per diventare il Soggetto di cui è capace: ogni individuo dispone, più o meno segretamente, della capacità di diventare Soggetto.

Da qui un tratto affascinante: che ogni episodio della vita, per quanto triviale o infimo, può essere l’occasione di sperimentare l’Assoluto, e dunque la felicità reale, nella misura in cui esso chiama a una scelta pura, priva di un concetto preventivo, senza una legge ragionevole, una scelta che è secondo Kierkegaard «quel battesimo della volontà che le dà carattere etico». Quando Kierkegaard fa dei suoi amori con Régine la prova suprema nella quale si gioca il passaggio dallo stadio estetico (la seduzione di Don Giovanni) allo stadio etico (la serietà esistenziale del matrimonio), poi allo stadio religioso (il sé purificato e assolutizzato, il sé diviene attraverso la scelta, oltre la disperazione), egli esprime un tratto tipico dell’anti-filosofia, che è che l’esistenza qualunque, l’individuo anonimo, può realizzare la possibilità dell’Assoluto. Per la qual cosa l’anti-filosofo è un profondo democratico. Non si preoccupa degli statuti, delle qualifiche, dei contratti. Il dibattito, la libertà delle opinioni, il rispetto dell’altro, il suffragio, di tutto questo afferma che sono solo cazzate. Invece, chiunque equivale a chiunque altro in relazione alla possibilità di diventare un soggetto mobilitato dall’Assoluto. L’uguaglianza è in questo senso radicale, senza condizioni. Kierkegaard glorifica l’individuo qualunque che sa praticare questa rassegnazione, questa suprema passività, grazie alla quale «il soggetto non può avere una vera vita nella vita immediata, ma si vede significare ciò che potrebbe davvero incontrare nella vita».

La parola «incontro» è essenziale. Un amore, un tumulto, un poema: tutto questo non si deduce, non si distribuisce nella serenità autorizzata delle assegnazioni, questo lo si incontra, e dal violento rovesciamento della vita immediata deriva un accesso singolare e universale all’Assoluto. Ogni felicità reale avviene nell’incontro contingente, non vi è alcuna necessità nell’essere felici. Solo gli individui «democratici» del mondo contemporaneo, atomi desolati, si immaginano che si possa vivere nella pace delle leggi, dei contratti, del multiculturalismo e delle discussioni tra amici. Non vedono che vivere è vivere assolutamente, e che dunque nessuna confortevole oggettività può assicurare questa vita. Bisogna corrervi il rischio di diventare-soggetto. Occorre, come ci insegna Kierkegaard, «l’incertezza oggettiva tenuta ferma nell’appropriazione della più appassionata interiorità».

Preservare «l’incertezza oggettiva»: questa contestazione anti-filosofica dei poteri dell’oggettività è una massima salutare. Perché chinarsi di fronte a ciò che è, per la sola ragione che questo è? Apprestandosi ad evitare le possibilità della libertà, Rousseau dichiara, è il suo discorso del metodo: «Tralasciamo i fatti». Ha ragione. Il «realismo» economico e politico è una grande scuola di sottomissione. L’individuo può sguazzarci e il soggetto non vi può accadere. Poiché un soggetto nasce dall’incontro non calcolabile di un possibile ignorato, al quale si annoda un divenire-soggetto, l’unico punto dal quale si possa dire, come Pascal, «gioia, piango di gioia».

Non passa giorno in cui non ci vengono spiegati i vincoli della globalizzazione e della modernizzazione, senza contare le regole inamovibili della democrazia conviviale, ragionevolmente obbligati a consentire a questo o a quell’altro. I grandi anti-filosofi perlomeno servono a slacciare questi tranelli del consenso. Anche a supporre che voltare la schiena a tutto questo sia disperante o assurdo, è altamente probabile che questa sia l’unica via del soggetto, dell’unica capacità irriducibile che è la sua propria: muoversi nell’elemento della verità. Se anche, come constata Kierkegaard, «scegliendo nel senso assoluto», ovvero contro l’ingiunzione della ragionevolezza e della legalità, «scelgo la disperazione», resta il fatto che «nella disperazione ho scelto l’Assoluto, poiché io stesso sono l’assoluto». In questo senso, una buona dose di disperazione — ed è la ragione per cui per questi grandi tormentati di anti-filosofi l’assenza di allegria è la condizione della felicità reale.

Queste formule suggestive ci ricordano che diventare soggetto di una verità, e dunque partecipare in minima parte all’Assoluto, è una possibilità che l’esistenza ci propone nella forma di un incontro. Se in genere attenersi inflessibilmente alle conseguenze di questo incontro è, agli occhi del mondo per come si presenta, assurdo ed esecrabile, se questa condanna anticonformista ci getta nella disperazione, in gioco c’è comunque il nostro accesso a ciò che possiamo essere e la strada soggettiva è senz’altro quella dell’ostinazione, della scelta pura di farsi carico delle conseguenze della nostra déroute. All’evidenza è l’istanza della déroute che Sartre riscontrava già in Kierkegaard, per mettere in dialettica ciò che comunque lo affascinava: la grande strada della Storia aperta per noi dai cantieri monumentali di Hegel e Marx.

È che non potremmo parlare di soggetto di una verità (amorosa, politica, artistica, scientifica...) senza introdurre l’idea di una creazione, quand’anche il contesto di questa creazione fosse determinato e ripetitivo (Kierkegaard è del resto il maggior filosofo della ripetizione). E la creazione esige lo scarto da sé a sé, l’esistenza paradossale di una differenza nell’identico, senza le risorse della mediazione hegeliana. Che Kierkegaard sintetizza in questo modo:

«Questo sé non è esistito prima, poiché esso è diventato con la scelta, eppure esso è esistito poiché è certamente “lui stesso”».

È la testimonianza, per noi filosofi esemplare, dei grandi anti-filosofi, questi risentiti sacrificati del concetto: l’esistenza può ben di più della sua perpetuazione. È capace, nell’elemento della verità, di effetti soggetti. E l’affetto di questo effetto, sia esso l’entusiasmo politico, la beatitudine scientifica, il piacere estetico o la gioia amorosa, è sempre ciò che merita, al di là di ogni soddisfazione dei bisogni, il nome di felicità.

Certo, per contenere la loro violenza, o il loro fantasma, a questi liquidatori del concetto servono la religione, Dio, delle vite miserabili, degli odi, dell’assurdo... Ma la loro lezione permane. Se vuoi diventare altro da ciò che ti è comandato di essere puoi affidarti solo agli incontri, vota la tua fedeltà a ciò che è ufficialmente bandito, ostinati lungo i sentieri dell’impossibile. Vai fuori strada. Allora potrai, come dicono le ultime parole di quel magnifico testo di Beckett che è Mal visto mal detto, «conoscere la felicità».

 

C A P I T O L O  T E R Z O

Per essere felici occorre cambiare il mondo ?

 

Una grande tradizione di immemoriale saggezza persevera nel dire che l’uomo deve adattare i suoi desideri alle realtà piuttosto che voler adattare le realtà al suo desiderio. In questa prospettiva il reale è un fatum, e la maggiore felicità della quale l’umanità è capace risiede nella serena accettazione dell’inevitabile. La filosofia stoica ha dato forma a questa «saggezza» costantemente dominante, ivi oggi quando si dà nella seguente formulazione: la piccola felicità domestica, consumistica, cablata e vacanziera che il capitalismo e la sua «democrazia» offrono ai privilegiati cittadini dell’Occidente non sarà di intensità eccezionale, ma desiderare altro — il comunismo ad esempio — porta immancabilmente al peggio.

Quando Saint-Just, in piena Rivoluzione francese, scrive che «la felicità è un’idea nuova in Europa», è a tutt’altra visione delle cose che chiama il soggetto umano. La Rivoluzione deve sradicare il vecchio mondo e stabilire un legame essenziale tra la virtù (il cui contrario è la corruzione, invariante risorsa del potere dei ricchi) e la felicità. Il che significa che un totale cambiamento del mondo, un’emancipazione dell’umanità intera rispetto alle forme oligarchiche che immancabilmente la opprimono, dalla schiavitù antica al capitalismo, è la condizione preventiva perché una felicità reale possa offrirsi a tutti come possibilità vitale.

Per tutto il XIX e buona parte del XX secolo, sul piano mondiale continua a circolare la concezione per la quale per essere felici occorre cambiare il mondo. La questione da discutere all’interno dell’irresistibile corso di natura rivoluzionaria è allora: Come cambiare il mondo?

Ci si accorge alla svelta che la domanda non è semplice affatto, contenendo tre parole piuttosto difficili, ovvero il sostantivo «mondo», il verbo «cambiare» e l’avverbio interrogativo «come». Già da subito ci troviamo di fronte a un sintagma grammaticale complesso.

Cominciamo dalla parola «mondo». Cos’è esattamente un mondo o, come ci viene detto spesso, che cos’è il «nostro mondo», il mondo contemporaneo? Se non chiariamo da subito cosa intendiamo per «mondo», il titolo del presente capitolo rischia di diventare molto oscuro.

Prendiamo un esempio dei giorni nostri: il famoso movimento del 2012 di una frazione della gioventù americana, movimento che si è dato il nome di Occupy Wall Street. Qual è il mondo che questa rivolta, questa sollevazione vorrebbe cambiare? È Wall Street in quanto simbolo del capitalismo finanziario? Chi protestava diceva: «Rappresentiamo il 99% della popolazione, mentre Wall Street rappresenta solo l’1%». Questo forse significa che il mondo contro il quale protestavano era, al di là della mera economia, il simulacro politico della democrazia, nella quale un piccolo gruppo di gente ricca e potente, mossa dai propri interessi privati, controlla le vite di milioni e milioni di altra gente? Affermavano che la felicità collettiva ha per condizione il porre fine a una «democrazia» nella quale questo piccolo gruppo, l’1%, può decretare la miseria assoluta di milioni di persone che vivono lontani dalle metropoli occidentali, ovvero in Africa o in Asia? Eppure, è anche possibile osservare che gli occupanti di Wall Street erano principalmente giovani uomini e giovani donne della classe media. Stavano forse protestando contro una vita triste, precaria, una vita priva di un futuro radioso, che è quella di tanti giovani uomini e giovani donne delle metropoli del nostro mondo occidentale? E in questo caso la loro richiesta non era tanto di «cambiare» il mondo, piuttosto quella di testimoniare attivamente, per qualche giorno o qualche settimana, di qualcosa di falso e di infelice nella nostra esistenza collettiva. Ed è allora probabile, come ha dimostrato il seguito, che dietro questa condizione di spirito disperatamente soggettiva non vi fosse alcuna chiara rappresentazione del mondo oggettivo e dei principi del suo cambiamento in una direzione di emancipazione della felicità, della felicità in quanto idea nuova. In verità, ciò che il mondo doveva realmente essere e diventare restava velato da una gioia momentanea del movimento.

Perché «mondo» non è affatto una parola semplice. A partire da quale scala possiamo cominciare a parlare di mondo? È chiaro che occorre definire diversi livelli di generalità, o di esistenza, per capire che cos’è un mondo. Propongo quindi di distinguerne cinque.

Anzitutto, c’è il nostro mondo interiore di rappresentazioni, di passioni, di opinioni, di ricordi: il mondo degli individui con il loro corpo e la loro anima. In secondo luogo, possiamo definire i mondi collettivi costituiti da gruppi formati: quello della mia famiglia, della mia professione, della mia lingua, della mia religione, della mia cultura o della mia nazione. Si tratta di mondi dipendenti da un’identità fissa. Possiamo anche considerare la storia globale dell’umanità come un mondo. Non si tratta né di un gruppo chiuso né di un’identità fissa, è un processo aperto che include svariate e importanti differenze. Dobbiamo anche considerare il contesto naturale, l’essere inclusi in una natura che abbiamo in condivisione con le pietre, le piante, gli animali, gli oceani... Questo mondo è il nostro pianetino Terra. E alla fine, al quinto livello, vi sono l’universo, le stelle, le galassie, i buchi neri... Abbiamo insomma il mondo degli individui, che è quello della psicologia; il mondo dei gruppi chiusi, della sociologia; il mondo del processo aperto, che è l’esistenza dell’umanità, o della storia; il mondo naturale, quello della biologia e dell’ecologia; e infine l’universo, il mondo della fisica e della cosmologia.

Passiamo adesso alla seconda difficoltà, il verbo «cambiare». È chiaro che la nostra potenzialità o la nostra capacità di cambiare un mondo è del tutto legata al livello di definizione di questo mondo. Se sono sposato e mi innamoro di un’altra donna, questo può anche definire un cambiamento molto importante dei due primi livelli: il mio mondo individuale — le mie passioni, le mie rappresentazioni ecc. — e il mio mondo familiare chiuso. E senz’altro ciò influisce non poco sulla mia rappresentazione della felicità personale.

A un secondo livello, vi sono molte forme di cambiamento: la rivoluzione, le riforme, le guerre civili, la creazione di nuovi Stati, la scomparsa di una lingua, il colonialismo o persino ciò che Nietzsche chiama «la morte di Dio». A ciascuno di questi cambiamenti corrispondono evidentemente nuove dialettiche della felicità e dell’infelicità.

A un terzo livello, quello della storia, vi sono da un lato i concetti contrastanti di progresso, internazionalismo o comunismo e dall’altro di capitalismo come fine della storia, democrazia come universale oggettivo e, dietro questi termini prestigiosi, l’imperialismo oggettivo e il nichilismo soggettivo. Sono — l’ho già detto — altrettante possibili cornici di una filosofia della felicità, tanto storica e rassegnata che rivoluzionaria e militante. A un quarto livello, abbiamo l’attuale grande dibattito sui problemi ecologici, i cambiamenti climatici e il futuro del nostro pianeta. Una risorsa per una concezione millenarista della felicità della specie umana. Al quinto livello non possiamo fare granché: siamo solo una piccola parte, un frammento insignificante dell’universo globale. Eppure, cerchiamo segni di vita al di là del nostro miserabile pianeta forse con la speranza di incontrare un giorno forme del tutto inedite di beatitudine.

Qual è l’esatto significato del verbo «cambiare» in tutto questo? Ritengo infatti che le distinzioni e le definizioni che abbiamo siano troppo imprecise per fornirci un significato chiaro dell’espressione «cambiare il mondo». Dopo tutto non è vero che un mondo può cambiare in quanto totalità. Occorre vedere le cose in funzione dei diversi livelli semantici della parola «mondo». Un individuo può cambiare per tutta la vita, ma alcune parti delle suo mondo soggettivo sono invarianti, così come alcuni tratti del suo corpo o alcune formazioni psichiche fondamentali determinate dall’esperienza dell’infanzia. Possiamo superare i limiti dei nostri gruppi chiusi, ma non possiamo evitare del tutto di essere determinati da un’origine, una lingua e un retroscena culturale della nostra nazionalità. La stessa cosa vale per un’azione compiuta in una storia aperta o per gli sforzi nel modificare o preservare l’ambiente naturale.

In qualunque circostanza geografica o storica, si può osservare la possibilità di un cambiamento locale in modo determinato, possono poi esserci conseguenze di questo cambiamento locale, talvolta conseguenze a lungo raggio con successivi rimaneggiamenti tanto della rappresentazione quanto nel reale della felicità. Un cambiamento non compare mai immediatamente in modo chiaro come «cambiamento del mondo». È ritenuto grande o piccolo relativamente a questo mondo, unicamente in forma retroattiva, attraverso le conseguenze che ha suscitato.

Prendiamo il famoso esempio della rivoluzione bolscevica in Russia nell’ottobre 1917. Il grande giornalista americano John Reed ha scritto un racconto di questa rivoluzione al quale ha dato il titolo I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Ma di che mondo si tratta? Certamente non era un completo rovesciamento del mondo capitalistico, come Marx o Lenin sognavano (Lenin era convinto che la rivoluzione russa fosse solo il principio di un processo globale del quale la seconda tappa sarebbe stata la rivoluzione in Germania). Sia come sia, questo evento locale ha avuto conseguenze di lunga portata. Ha assunto il ruolo di riferimento di base per qualunque attività rivoluzionaria e ha rappresentato una parte importante — dall’Unione sovietica alla Cina comunista passando per la guerra del Vietnam o per Cuba — del «mondo del XX secolo». Ma durante la seconda metà di questo secolo abbiamo di fatto assistito al crollo di tutti gli «Stati socialisti» che si erano sviluppati sull’onda della rivoluzione bolscevica del 17. È dunque solo oggi che possiamo capire il titolo del libro di John Reed. Certamente una parte del mondo è stato scrollato dalla rivoluzione russa. Certamente le sue conseguenze a lungo raggio permettono di definire questo evento un cambiamento reale, un considerevole cambiamento. Ma in fin dei conti il mondo globale di oggi è dominato dal capitalismo quasi in modo identico rispetto al mondo che ha preceduto questo evento. Possiamo allora concluderne che il maggiore cambiamento politico del XX secolo non ha «cambiato il mondo».

Di conseguenza, anche per capire l’avverbio «come», propongo di sostituire all’idea di «cambiare il mondo» un complesso di tre parole, di tre concetti: l’evento, il reale, le conseguenze. Provo ora a spiegare nel modo più chiaro possibile questa terminologia filosofica e il suo legame con il problema più generale della felicità.

L’evento è il nome di qualcosa che si produce localmente in un mondo e che non può essere dedotto dalle leggi di questo mondo. È una rottura locale nell’ordinario divenire del mondo. Sappiamo che in genere le regole del mondo producono una specie di ripetizione dello stesso processo. Ad esempio, nel mondo capitalistico, Marx proponeva di spiegare integralmente la ripetizione dei cicli dell’investimento della moneta, della sua trasformazione in beni e del ritorno alla moneta, o ancora il rapporto ripetitivo tra salari, prezzo e profitto. Più in generale descriveva il processo globale del capitale che mette in relazione la produzione e la circolazione. Ha ugualmente proposto una spiegazione chiara di come le crisi cicliche non siano rotture nel divenire del capitalismo, bensì elementi razionali del suo sviluppo. Ed è precisamente per questo che un evento non è in alcun modo una crisi classica. Ad esempio, la crisi economica attuale in Europa non è un evento, è parte costitutiva del mondo capitalistico globalizzato. Un evento è qualcosa che si produce localmente nel mondo capitalistico globalizzato, ma che non può essere compreso nella sua interezza se ci si accontenta di ricorrere alla logica ripetitiva del capitale, incluse le leggi delle crisi sistemiche.

La forza di un evento risiede nel fatto che esso espone qualcosa del mondo che restava nascosto, o invisibile, perché mascherato dalle leggi di quel mondo. Un evento è la rivelazione di una parte del mondo che non esisteva precedentemente, se non in forma di un vincolo negativo. E la correlazione tra questa rivelazione e il problema della felicità è chiara: poiché si tratta della rimozione di un vincolo, all’istante per tutti coloro che subivano quel vincolo senza riconoscerlo emergono chiaramente possibilità inedite di pensiero e azione.

Ecco una definizione possibile di felicità: scoprire in se stessi una capacità attiva che si ignorava di possedere.

Ne fornisco due esempi.

Perché il maggio ’68 è stato un evento reale in Francia? E perché, al di là di una certa disillusione, per quello che comunemente viene chiamato il «fallimento» rivoluzionario, questo evento ha lasciato ai suoi attori, perlomeno a quelli che la corruzione degli anni Ottanta non ha trasformato in morti viventi, il ricordo di un momento intenso, trasfigurato, assolutamente felice — anche se angosciato — della loro esistenza? La ragione sta nel fatto che l’occorrenza simultanea di una rivolta massiccia degli studenti e del più grande sciopero generale mai visto degli operai delle fabbriche ha rivelato, all’interno del mondo «Francia anni Sessanta», che la rigida separazione tra giovani intellettuali e giovani lavoratori in quanto legge di quel mondo era una necessità ormai desueta. L’evento ha rivelato precisamente che questa legge poteva, e in ultima istanza doveva, essere sostituita dal suo contrario:

Una nuova corrente politica risultato dell’unione diretta tra giovani intellettuali e operai. Se in questa vicenda il partito comunista francese non è stato un attore positivo, piuttosto un bersaglio del movimento, è perché era a sua volta organizzato a partire dalla legge di tale separazione: qualunque relazione diretta tra i comparti intellettuali e i comparti comunisti delle fabbriche era rigorosamente vietata. Ed è la ragione per cui questo partito era anch’esso parte del vecchio mondo. Il reale del «nuovo» mondo, nella cornice del vecchio mondo rivelato dall’evento, consisteva nell’affermazione che una forma di unità politica, vietata da tutte le componenti del mondo precedente, era possibile. E la scoperta che fosse assolutamente possibile tracciare nella società il percorso di questa unità, rompere le barriere sociali, diventare gli uguali di una politica che si andava inventando mentre si metteva in pratica, tutto questo era fonte di un’illuminazione soggettiva senza precedenti.

Altra illustrazione della forza reale di un evento è la famosa piazza Tahrir durante la primavera araba in Egitto. Un rapporto nel migliore dei casi di indifferenza, e nel peggiore di antagonismo, tra musulmani e cristiani era la legge comunemente accettata nel mondo nazionale «Egitto». Ma durante l’occupazione della piazza da parte delle masse popolari si osserva a una stretta unità tra le due comunità, in quanto nuova legge possibile del mondo. Dei cristiani proteggevano dei musulmani durante le preghiere e più in generale identici erano gli slogan politici di entrambe le comunità. E anche in questo caso, benché il divenire storico sia stato segnato da una circolarità mortifera — la rottura tra la piccola borghesia educata e gli islamisti con il risultato di riportare i militari al potere —, la traccia soggettiva di questo tempo unitario resta come ciò che inevitabilmente illuminerà il futuro.

In entrambi i casi il nuovo reale rivelato dall’evento assume la forma di una nuova unità che va al di là delle differenze stabilite fino a quel momento. Ma queste differenze erano «stabilite» nel mondo in quanto leggi di quello stesso mondo. Leggi che, al pari di tutte le leggi, prescrivevano ciò che è possibile e ciò che è impossibile. Ad esempio che intellettuali e normali operai dovessero essere separati nella vita quotidiana, così come nell’azione collettiva o nel pensiero. Ma nei fatti il maggio ’68 ha affermato la possibilità politica di un’unità diretta del pensiero, dell’azione e dell’organizzazione tra i due gruppi. La stessa cosa vale per il rapporto tra musulmani e cristiani in Egitto.

Tutto questo ci consente un’osservazione fondamentale: grazie alla forza di un evento, non sono poche le persone che scoprono che il reale del mondo può collocarsi dentro qualcosa che è semplicemente impossibile dal punto di vista dominante di quello stesso mondo. Ritroviamo qui il significato profondo di uno degli slogan del maggio ’68 francese: «Siate realisti, chiedete l’impossibile!». A partire dal quale è possibile intendere la frase un po’ misteriosa di Lacan: «Il reale è l’impossibile».

La nuova affermazione, il grande «sì» che il reale del mondo dichiara dietro pressione di un evento è sempre la promessa della possibilità che sia possibile qualcosa che anteriormente era impossibile. E in questo senso possiamo dire che la felicità è sempre godimento dell’impossibile.

Ciò che chiamo «conseguenze dell’evento» è allora un processo concreto nel mondo che sviluppa le diverse forme di possibilità di quanto era impossibile. È dunque anche qualcosa dell’ordine della potenza esecutiva della felicità.

Ho proposto di chiamare questo genere di processo «fedeltà» all’evento; in altri termini quelle azioni, creazioni, organizzazioni e pensieri che accettano la nuova possibilità radicale di ciò la cui impossibilità era legge del mondo. Allora possiamo dire: ogni felicità reale è una fedeltà.

Essere fedeli significa diventare il soggetto del cambiamento, accettando le conseguenze di un evento. Possiamo dire anche che la novità ha sempre le sembianze di un nuovo soggetto, la cui legge è la realizzazione nel mondo di un nuovo reale rivelato — in quanto punto di impossibilità—come una possibilità vietata dal «vecchio» mondo.

Allora diciamo: la felicità è l’accadimento, in un individuo, del Soggetto che scopre di poter diventare diversamente.

Il nuovo soggetto esiste quando persone si accorpano all’organizzazione, alla stabilizzazione e alle forme capaci di tollerare le conseguenze dell’evento. D’altro lato, il soggetto non è del tutto soggetto alle leggi del mondo. Dunque il nuovo soggetto è contemporaneamente dentro e fuori il vecchio mondo. Possiamo dire che è immanente al mondo, ma nella forma di un’eccezione.

Proponiamo allora che la felicità è l ’affetto del Soggetto in quanto eccezione immanente.

Riterremo allora tre tratti fondamentali del nuovo soggetto, che possiamo appunto intendere come soggetto della felicità.

Anzitutto, la libertà di questo soggetto consiste nel creare qualcosa nel mondo, ma in quanto eccezione.

Una creazione di quest’ordine assume le conseguenze del fatto che il reale che è stato rivelato dall’evento si oppone ad alcune costrizioni negative del mondo. Così, la vera essenza della libertà per questo soggetto non è fare quel ha voglia di fare, poiché quel «che gli va di fare» in quanto tale è parte dell’adattamento al mondo così com’è. Se il mondo fornisce gli strumenti per fare quel che si ha voglia di fare, è perché ci si trova a obbedire alle leggi di questo mondo così com’è. Nel caso di una creazione reale, si dovranno anche produrre alcuni, per non dire tutti, degli strumenti della nostra creazione. La vera libertà è sempre un modo di fare ciò che è prescritto dal reale in quanto conseguenza eccezionale nel mondo. Di conseguenza, la vera essenza della libertà, condizione essenziale della felicità reale, è la disciplina. Ecco perché la creazione artistica può servire da paradigma. Tutti sanno che un artista obbedisce alla severa legge dell’innovazione, del lavoro paziente e spesso estenuante per poter riuscire giorno dopo giorno a trovare le forme di una nuova rappresentazione del reale. È certamente anche il caso dell’innovazione scientifica. Più in generale dobbiamo affermare che un soggetto esiste in quel punto in cui è impossibile distinguere tra disciplina e libertà. L’esistenza di un tale punto è segnalata da una felicità intensa, della quale testimonia in particolare l’espressione poetica, che è indivisibilmente la lingua «in libertà» e una rigida disciplina formale.

In secondo luogo, il soggetto non può essere chiuso da un’identità. In quanto eccezione immanente, il processo emancipativo è aperto e infinito. Poiché, l’opera di un soggetto, collocandosi in una certa misura al di fuori delle limitate costrizioni del mondo, è sempre universale e non può essere ridotta alle leggi di questa o quest’altra identità. Un’opera d’arte, una scoperta scientifica, una rivoluzione politica, un vero amore tutti interessano l’umanità in quanto tale.

È appunto per questo che gli operai, che non possiedono niente e che sono ridotti alle loro rispettive capacità corporee, sono agli occhi di Marx la parte generica dell’umanità. L’assenza di identità, la negazione generica delle identità, spiega ugualmente la famosa dichiarazione del Manifesto del partito comunista: «I lavoratori non hanno patria».

Dal punto di vista oggettivo del mondo, un soggetto, in quanto immanente a un mondo, ha sempre una patria. Ma dal punto di vista del processo di emancipazione, un soggetto, in quanto eccezione immanente, è generico e senza patria. E la felicità, lo sappiamo, con la propria potenza soggettiva sfianca ogni ostacolo identitario.

È appunto il senso della formula «gli innamorati sono soli al mondo», la quale significa che la loro opera specifica — l’amore — disidentifica tutto ciò che potrebbe distinguerli, separarli.

In terzo luogo, l’essere felice del soggetto, l’ho già detto, risiede nella scoperta all’interno di se stesso della capacità di fare qualcosa di cui non si sapeva capace. Tutto sta nel superamento

— nel senso hegeliano, Aufhebung —, ovvero nel passare oltre il limite apparente, scoprendo che è in esso che sta la risorsa del suo superamento. In questo senso, ogni felicità è una vittoria contro la finitudine.

 

A questo punto occorre introdurre una distinzione radicale tra «felicità» e «soddisfazione». Sono soddisfatto quando vedo che i miei interessi individuali sono in conformità con quanto il mondo mi offre. La soddisfazione è allora determinata delle leggi del mondo e dall’armonia tra il mio io e queste leggi. In ultima istanza, sono soddisfatto quando posso sentirmi sicuro di essere ben integrato nel mondo. Ma si può obiettare che la soddisfazione sia in realtà una forma di morte soggettiva, perché l’individuo, ridotto alla sua conformità al mondo così com’è, è incapace di diventare il soggetto generico che può essere.

In un processo di emancipazione sperimentiamo il fatto che la felicità è la negazione dialettica della soddisfazione. La felicità sta sul fronte dell’affermazione, della creazione, della novità e della genericità. La soddisfazione sta sul fronte di ciò che Freud chiamava la pulsione di morte, la riduzione della soggettività all’oggettività. La soddisfazione è la passione di cercare e trovare «il buon posto» che il mondo offre all’individuo, per poi restarci.

Ed è la ragione per cui questo testo parla della stretta relazione tra felicità e soggettivazione di un processo post-evenemenziale di emancipazione (politica), di creazione (artistica), di invenzione (scientifica) o di alterazione, nel senso di divenire-altro-in-se-stessi (l’amore).

Giunti a questo punto possiamo tornare all’interrogativo rappresentato dal titolo del capitolo «Come cambiare il mondo?».

La risposta potrebbe essere: diventando una parte soggettiva delle conseguenze di un evento locale. Potremmo dire altrimenti: restando fedeli a un evento, creando un’equivalenza tra libertà e disciplina, inventando una nuova forma di felicità che sia una vittoria sulla dittatura della soddisfazione e il potere della pulsione di morte. Sappiamo che qualcosa in un mondo sta cambiando, quando sperimentiamo il fatto che la felicità non è l’oggetto predeterminato del processo del cambiamento, ma la soggettivazione creatrice del processo stesso. Il mondo sta cambiando quando possiamo dichiarare, come fa Saint-Just, che la felicità è un’idea nuova.

Questa visione era fondamentale nella concezione della rivoluzione di Marx. Come sappiamo, il nome della nuova possibilità di giustizia collettiva era per lui «comunismo». La costrizione negativa del capitalismo, rivelata dall’evento rivoluzionario, è chiara: per il capitalismo l’uguaglianza è impossibile. Di conseguenza «comunismo» è il nome della possibilità politica di tale impossibilità: la possibilità dell’uguaglianza. Ma, come vediamo nei Manoscritti del 1844 e nel suo famoso Manifesto, Marx non pensa che comunismo sia il programma di una nuova società o un’idea astratta della giustizia. Comunismo è il nome del processo storico di distruzione della vecchia società. Per questo cambiare non è ottenere un risultato. Il risultato risiede nel cambiamento stesso.

Questa visione può forse essere riportata su un piano più generale:

La felicità non è la possibilità della soddisfazione di ciascuno. La felicità non è l’idea astratta di una buona società nella quale tutti siano soddisfatti. La felicità è la soggettività di un compito difficile: trovarsi alle prese con le conseguenze di un evento e scoprire, dietro l’esistenza sbiadita e fiacca del nostro mondo, le luminose possibilità offerte dal reale affermativo, del quale la legge di questo mondo era la negazione nascosta. La felicità è godere dell’esistenza potente e creatrice di qualcosa che dal punto di vista di questo mondo era impossibile. Come cambiare il mondo? La risposta è in realtà esilarante: essendo felici. Ma si dovrà pagarne il prezzo, che è quello di esserne a tratti davvero insoddisfatti. È una scelta, la vera scelta delle nostre vite. È la vera scelta riguardante la vera vita.

Il poeta francese Arthur Rimbaud scriveva: «La vera vita è assente». Ciò che qui provo ad affermare si riassume a questo: a voi decidere che la vera vita sia presente. Scegliete la nuova felicità e pagatene il prezzo!

 

C A P I T O L O  Q U A R T O

 

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, «felicità» è una parola sintetica che vale per molti risvolti di procedure di verità differenti. Nel mio libro Logiche dei mondi (2006), per la prima volta in modo esplicito, affermo che la partecipazione di un individuo a una verità viene espressa da un affetto e che per ogni tipo di verità vi è un affetto diverso. Nel libro in questione alla fine mi soffermo sulle seguenti definizioni: parlo di entusiasmo per l’azione politica, di beatitudine per la scoperta scientifica, di piacere per la creazione artistica e di gioia per il travaglio amoroso. È vero che questi affetti non li ho veramente descritti. Non sono entrato in una fenomenologia del loro specifico valore individuale. Potrò porvi rimedio, almeno in parte, se riesco a scrivere il terzo volume della serie il cui titolo generale è L’essere e l ’evento dedicato all’immanenza delle verità.

Un libro che tra l’altro verterà sull’insieme di ciò che accade per un individuo determinato quando egli si incorpora a una procedura di verità, quando è preso nell’Idea. Dovrò allora affrontare punti nuovi, nello specifico quello della differenza tra questi affetti: la beatitudine non è il piacere, il piacere non è la gioia e l’entusiasmo differisce dagli altri tre.

Ma qual è la necessità complessiva di un terzo libro, dopo L’essere e l’evento e Logiche dei mondi? E in che misura tale necessità porta per la precisione sulla natura degli affetti e dunque sul nesso tra filosofia e idea della felicità?

Anzitutto mettiamo le cose in prospettiva. Lo si può fare in modo abbastanza semplice. L’essere e l’evento può essere considerato come la prima parte di una costruzione in più tempi, parte che concerne specificatamente il problema dell’essere. Che ne è dell’essere, dell’«essere in quanto essere» come lo chiama Aristotele? Che ne è dei percorsi e degli strumenti per conoscerlo? La mia affermazione ontologica è che l’essere in quanto essere è molteplicità pura, ovvero molteplicità non composta di atomi.

L’essere è evidentemente composto da elementi, ma questi elementi sono molteplicità a loro volta composte da molteplicità. Arriviamo comunque a un punto di arresto, che non è in alcun modo l’Uno — poiché l’Uno non può essere altro che un atomo — bensì il vuoto. Ecco allora la mia affermazione sull’essere. Quanto alla conoscenza dell’essere, la mia proposta è quella di identificare l’ontologia — il discorso sull’essere — alla matematica, a sua volta considerata come scienza del puro molteplice, del molteplice «senza qualità» e senza Uno. D’altra parte, L’essere e l’evento sviluppa, come in contrappunto, una teoria delle verità che è una teoria formale delle verità: le verità sono come ogni altra cosa delle molteplicità. La loro singolarità è che esse dipendono da un evento, il quale è a sua volta una molteplicità evanescente, una molteplicità che non trova nella situazione in cui ha luogo l’evento alcun fondamento. Una verità è una molteplicità che si compone di conseguenze di un evento e che è dunque sospesa a un essere infondato. Si tratta allora di sapere di che specie sia questa molteplicità, paradossale e piuttosto rara, che chiameremo una verità. Il libro si occupa dunque contemporaneamente di una teoria dell’essere e di una teoria delle verità, tutto questo nel contesto di una teoria del molteplice puro affettata di tanto in tanto da un sorgere infondato. Da questo punto di vista, l’affetto che soggiace all’impresa — all’impresa ontologica — è principalmente la beatitudine generata dalla comprensione scientifica (nella fattispecie la matematica delle molteplicità). Chiunque abbia fatto esperienza della condizione in cui ci si viene a trovare quando, nel cuore della notte, dopo sforzi inutili e pagine e pagine di ipotesi, all’improvviso si illuminano l’architettura di una dimostrazione e il senso che essa conferisce a una teoria, sa di cosa sto parlando. La beatitudine è il nome della felicità prodigata dall’essere in quanto essere, colto nella scrittura della sua purezza.

La seconda parte di questa costruzione, il libro Logiche dei mondi, si aggancia al problema dell’apparire. Si tratta di una teoria di ciò che, dell’essere, appare in mondi determinati e forma relazioni tra gli oggetti di questi mondi. Ciò che propongo è che questa parte della costruzione di insieme sia una logica. Si tratta di una logica nella misura in cui essa non verte più sulla composizione di ciò che è, ma sulle relazioni che si tessono tra le cose che compaiono localmente nei mondi. Insomma dopo una teoria dell’essere, una teoria dell’essere - là — per usare un vocabolario non troppo lontano da quello di Hegel—, ovvero dell’essere per come è collocato e disposto all’interno delle relazioni di un mondo singolare. Gli affetti soggiacenti sono probabilmente, in forma prioritaria, il piacere dell’opera d’arte e la gioia dell’amore, nella misura in cui sia l’uno che l’altro sono profondamente legati al godimento di una o più relazioni. Nel caso dell’arte: la relazione con il sensibile in tutte le sue forme, i diversi momenti della sua «divisione», per riprendere Jacques Rancière. Nel caso dell’amore: l’intima esperienza dialettica della differenza e del suo potere magico di attraversare un mondo liberato dalla solitudine.

In Logiche dei mondi il problema della verità è ovviamente ripreso. L’essere e l’evento si occupava dell’essere delle verità in quanto molteplicità speciali, che alla stregua del matematico Paul Cohen ho chiamato molteplicità generiche. Con Logiche dei mondi entriamo nella questione dei corpi reali, della logica delle loro relazioni e nello specifico in quella dell’apparire delle verità. Se tutto ciò che in un mondo compare è un corpo, occorre affrontare la questione del corpo di una verità. Questo secondo volume ha dunque l’intenzione di una teoria dei corpi che possa essere una teoria del corpo delle verità. Laddove il primo volume ha per obiettivo una teoria delle molteplicità che possa essere anche una teoria delle verità come molteplicità: delle molteplicità generiche.

Che il problema del corpo delle verità sia centrale getta evidentemente luce sul fatto che il piacere (del sensibile formalizzato) e la gioia (dell’altro, del due sessuato come sovrano del mondo) siano a questo livello le forme più chiaramente esplorate della felicità.

Il progetto del terzo volume è quello di esaminare le cose, e dunque l’essere e l’apparire, dal punto di vista delle verità. Il primo volume si chiede: che ne è delle verità rispetto all’essere? Il secondo: che ne è delle verità rispetto all’apparire? Il terzo si chiederà: che ne è dell’essere e dell’apparire dal punto di vista delle verità? Così avrò chiuso il giro della questione.

Il problema è che per arrivare a questo terzo momento sono presupposte lunghe deviazioni e domande difficili. Una verità, dal punto di vista umano, dal punto di vista antropologico, si compone di incorporazioni individuali all’interno di insiemi più vasti. Vorrei allora sapere come si presentano il mondo e gli individui del mondo, come si dispongono, quando li si esamina all’interno del processo delle verità stesso. È un problema che in un certo senso rovescia la prospettiva dei due primi volumi. Ci si chiedeva cosa fossero le verità dal punto di vista dell’essere e dal punto di vista del mondo, adesso ci si chiede che ne è dell’essere e del mondo dal punto di vista delle verità. Ci si scontra allora con problemi di scala: le verità, come l’essere, sono essenzialmente infinite, mentre i corpi, nella misura in cui compaiono nei mondi, sembrano irrimediabilmente segnati dalla finitudine. Come presentare oggi questa dialettica del finito e dell’infinito che tormenta la filosofia almeno fin dalla sua epoca moderna, già da Cartesio per il quale enigmaticamente l’infinito era un’idea «più chiara» di quella di finito?

La felicità ha evidentemente qualcosa a che fare con questa questione, benché una semplice definizione potrebbe esserne la seguente: ogni felicità è un godimento finito dell’infinito.

Naturalmente troviamo traccia di questa difficoltà nelle due opere precedenti. L ’essere e l’evento, in particolare, contiene una teoria assai complicata dell’effetto di ritorno delle verità infinite sul mondo nel quale, dopo l’evento che ha dato loro la nascita, esse hanno lavorato. Questo effetto risiede nella figura del sapere. La tesi è che chiameremo sapere, nuovo sapere, creazione di un sapere, il modo in cui una verità illumina in modo diverso la situazione ontologica. È come in Platone: si arriva all’Idea uscendo dalla caverna delle apparenze, ma occorre tornare giù nella caverna per chiarire ciò che esiste a partire dall’Idea. E bisogna farlo anche al costo di correre un po’ di rischi. È in effetti nel momento in cui si torna nella caverna che il rischio è maggiore, nel momento in cui ci si pronuncia, dal punto di vista di ciò che si ritiene siano delle verità, sul mondo per come appare e dunque sulle ideologie dominanti. Fin da Platone solo questo rischio porta a compimento l’idea e dunque la felicità legata alla verità. Perché colui che si rifiuta di ridiscendere nella caverna, che si sottrae al dovere di condividere l’universalità del vero, può certo dirsi soddisfatto di essersi impadronito dell’Idea, ma ignora la felicità che solo la sua condivisione procura.

Il problema del ritorno l’ho affrontato una prima volta Nell’essere e l’evento, chiamandolo teoria della forzatura: si forza una trasformazione del sapere ordinario a partire dalla verità nuova. È una teoria piuttosto complessa, come già lo è a ben vedere la teoria del ritorno nella caverna di Platone. In fin dei conti Platone non dice granché, se non che il ritorno è arrischiato, difficile, incerto per quanto necessario. Platone ci dice che a questo ritorno bisogna esserci forzati, altrimenti si resterebbe nel tranquillo ambito della contemplazione delle verità, ci si accontenterebbe della soddisfazione e non ci si innalzerebbe fino alla felicità. Qui la parola forzatura, utilizzata ne L’essere e l’evento in relazione al rapporto tra una verità e i saperi, sta al posto giusto. Non si tratta di una procedura naturale, spontanea. Ogni felicità è in un certo senso ricavata dalla forza del volere.

Quanto a Logiche dei mondi, il libro non comprende alcuna teoria della forzatura, bensì una teoria delle intime relazioni tra la singolarità del mondo e l’universalità di una verità, attraverso il fenomeno delle condizioni concrete, appariscenti, empiriche, della costruzione del corpo delle verità. Sostengo che la verità è un corpo. A questo titolo essa è fatta di quel che c’è, ovvero di altri corpi individuali ed è questo che chiamo incorporazione. L’incorporazione getta luce sulla modalità attraverso la quale una verità procede all’interno di un mondo e sulla sua relazione con i materiali di questo stesso mondo, ovvero i corpi e il linguaggio. In Logiche dei mondi parto dall’affermazione: «In un mondo non vi è altro che corpi e linguaggi, se non fosse che vi sono delle verità». Mi sono allora avventurato in un primo esame materialista di questo «se non che»: le verità sono a loro volta corpi e linguaggio, corpi soggettivabili. Per chiarire il rapporto delle verità con i corpi e i linguaggi, ho usato un concetto che è l’equivalente della forzatura de L’essere e l’evento, ovvero quello di compatibilità. Un corpo di verità è composto di elementi compatibili, in un senso sia tecnico che elementare: si lasciano dominare da uno stesso elemento.

Una verità in fondo è sempre una molteplicità unificata, dominata o organizzata da qualcosa che rende compatibile ciò che non lo era necessariamente. Per fare un esempio semplice, buona parte della concezione di cosa fosse un partito rivoluzionario consisteva nel creare una teoria della compatibilità tra intellettuali e operai, grazie alla quale la politica avrebbe reso compatibili differenze di classe che normalmente non lo sono. La teoria di Gramsci dell’intellettuale organico e altre teorie simili corrispondono a questo.

Non si limitano semplicemente ad affrontare le differenze di classe in quanto conflitto, ma creano delle compatibilità tra classi che prima non esistevano, dalle quali deriva ad esempio una teoria delle alleanze di classe. In estetica abbiamo una situazione dello stesso genere. Un’opera d’arte — considerata come soggetto — crea delle compatibilità tra cose considerate non compatibili, assolutamente separate. Un quadro ne crea tra colori che non sembrano destinati ad andare insieme, tra forme che restavano disparate. Così integra forme e colori dentro una compatibilità di tipo superiore.

Insomma il concetto di forzatura, al livello ontologico, e il concetto di compatibilità, al livello fenomenologico, già affrontano la relazione tra la verità e la situazione dalla quale la verità procede, dunque in modo implicito anche la nuova dialettica tra il finito e l’infinito, che tra l’altro è la chiave della felicità reale. Il terzo volume darà un aspetto sistematico a tutto questo. Andrà a collocarsi nei diversi tipi di verità per chiedersi: che succede quando un intero mondo è affrontato dal punto di vista della verità? Che succede, ontologicamente, quando si assume il punto di vista delle molteplicità generiche sulle molteplicità ordinarie, qualunque, che compongono ontologicamente una situazione? In questo contesto, tratterò degli affetti singolari che segnalano a un livello individuale il processo di incorporazione. Che cos’è la gioia amorosa? Che cos’è il piacere estetico? Che cos’è l’entusiasmo politico? Che cos’è la beatitudine scientifica? Nel volume sull’immanenza delle verità mi occuperò in modo sistematico di tutto questo. Spero così di riuscire ad arrivare, con l’ausilio delle teorie contemporanee sul finito e l’infinito, a una sorta di consapevolezza della felicità.

La costruzione di questo libro a venire sarà insomma piuttosto semplice. Prevedo un grosso svolgimento di apertura, più tecnico e più preciso, del problema che ho velocemente presentato poco sopra: il problema della relazione tra gli individui incorporati a una verità e le molteplicità ordinarie, pensate nel loro essere e nel loro apparire mondano. Questa introduzione partirà da un’idea semplice: l’incorporazione a una verità è immancabilmente un nuovo modo di articolare la dimensione finita degli individui e la dimensione infinita di ogni processo di verità. Il formalismo soggiacente sarà allora per necessità una nuova dialettica tra molteplicità finite e molteplicità infinite, con il supporto matematico della teoria «dei grandi infiniti». Questa teoria è a mio parere una condizione capitale per ogni filosofia contemporanea della felicità, tra l’altro perché riesce a distinguere gli infiniti deboli, che nel migliore dei casi possono prodigare solo soddisfazione, dagli infiniti forti, dall’emergere dei quali dipende la felicità reale. Prevedo poi una seconda parte nella quale sviscerare le leggi generali, i dispositivi formali, che organizzano le relazioni al mondo a partire dal punto di vista delle verità. Avremo così una teoria generale dell’incorporazione individuale e degli affetti che la indicano. Ci si chiederà: che cos’è l’illuminazione del mondo dal punto di vista delle verità? Che cos’è un ostacolo? Una vittoria? Un fallimento? Una creazione? La terza parte riprenderà le cose procedura di verità per procedura di verità, proponendo una teoria sistematica dell’arte, della scienza, dell’amore e della politica. Una tale teoria, benché sia abbozzata in molte sedi del mio lavoro, non l’ho mai presentata. Ecco il sommario ideale del volume sull’immanenza delle verità nel suo stato attuale di lavoro in itinere.

Vorrei insistere sul fatto che nella seconda parte intendo proporre una teoria di quel che vi è di comune tra le quattro procedure di verità e la loro unità virtualmente possibile. Questa parte comporterà in effetti la ripresa di una teoria delle verità, ma stavolta dal punto di vista delle verità stesse. Si tratterà di chiedersi cosa le identifica in quanto tali, non più ciò che le differenzia dall’essere anonimo o dagli oggetti del mondo. Ma si tratterà anche di continuare la mia interrogazione sulla filosofia. Nel Manifesto per la filosofia ho chiamato filosofia ciò che produce un luogo di compossibilità, un luogo di coesistenza, oltre alle quattro condizioni. Resta da esaminare se la filosofia non poggi tra l’altro su una figura di vita che integrerebbe queste procedure. È una domanda che mi si pone spesso e ho intenzione di affrontarla di petto. È da subito evidente che si tratta di quello che anche qui ho chiamato la vera vita, ma non solo. Poiché dal momento che si tratta di prendere insieme le quattro procedure di verità, la questione è piuttosto: che cos’è una vita completa? La domanda sulla vera vita è quella che affronto alla fine del libro Logiche dei mondi. Che cos’è la vera vita che Rimbaud dice essere assente, ma che sostengo possa essere presente? La mia risposta è: vivere all’insegna dell’Idea, ovvero vivere all’insegna dell’incorporazione effettiva. Il problema ultimo, nel libro sull’immanenza delle verità, non sarà troppo distante benché diverso: vi è un’idea delle idee, ovvero un’Idea della vita completa? Torniamo così all’ambizione della saggezza antica. Ritroviamo l’ispirazione iniziale di una vita, non solo segnata dall’idea e dalla verità, ma dall’idea di una vita compiuta, una vita nella quale si sarà fatta l’esperienza in materia di verità di tutto ciò che può esserlo.

 

Questa domanda si spingerà fino al punto di supporre che può esistere un soggetto filosofico? Un soggetto il cui affetto sarebbe precisamente la felicità, capace di sussumere nella propria potenza il piacere, la gioia, la beatitudine e l’entusiasmo?

L’obiezione evidente è che ciò che sta per così dire nel mezzo delle quattro condizioni, ciò che articola concettualmente l’arte alla scienza passando per la politica e l’amore è la filosofia stessa e non un soggetto filosofico, la cui esistenza è alquanto dubbia. La questione del soggetto assillerà comunque questo terzo volume. Mi sono sempre difeso contro la tesi che la filosofia fosse una procedura di verità come le altre. Non può essere come le altre, poiché essa dipende dalla loro esistenza, mentre né l’arte, né la scienza, né l’amore, né la politica dipendono dall’esistenza della filosofia. È allora evidente che la filosofia è sfasata rispetto alle altre quattro tipologie di procedure di verità. Eppure resta aperta la domanda se si possa indicare il posto di un soggetto filosofico. Se c’è un soggetto filosofico, di che si tratta? Che cosa significa avere accesso alla filosofia? Che cos’è l’essere nella filosofia? Di certo non c’è un’incorporazione filosofica, nel senso in cui la troviamo nel militante politico, nell’artista, nello scienziato o nell’amante. Eppure nella filosofia abbiamo accesso a un pensiero consistente, e non a niente. La domanda resta aperta. Se supponiamo l’esistenza di un soggetto della filosofia, qual è il suo posto? È forse, come suggeriscono alcune delle mie metafore, un centro assente? È chiaro che la filosofia propone una dottrina generale di cosa sia un soggetto di verità. Ma come si entra in questa proposizione filosofica, come ci si alimenta? In che modo essa consente di tornare sulle procedure di verità? Come, infine, può aprire la strada alla vera vita o alla vita completa? Sono le domande che intendo porre. È chiaro che il mio approccio a queste domande è sempre stato in un certo senso esitante. Mi trovo di fronte a un problema non risolto. Che la mia filosofia sia sistematica non significa che abbia la pretesa di aver risolto tutti i problemi!

C’è da dire che fino a oggi ho avuto la tendenza ad affrontare alcuni problemi in modo negativo, rifiutando anziché proponendo. Ho così respinto la tesi sofistica in virtù della quale la filosofia è una unificazione generale delle cose solo nel suo essere una retorica generale. La svolta linguistica del XX secolo è di fatto sfociata in una dottrina che assimila la filosofia a una retorica generale. Fino ad arrivare alla tesi di Barbara Cassin: non c’è alcuna ontologia, solo una logologia. È il linguaggio a ritagliare e a costituire tutto ciò che si è proposto come forma dell’essere. Il XX secolo ha conosciuto una tendenza, insieme accademica, critica, antidogmatica, che si è progressivamente centrata sulla potenza creatrice del linguaggio. Derrida è stato il raffinato maestro di questa tendenza. Ai miei occhi questo ha fatto della filosofia una retorica generale, retorica inventiva, moderna. Ma, come ho detto diverse volte, non sono in questo registro. Nella discussione tra Platone e i sofisti, mi schiero senza esitare al fianco di Platone, del Platone del Cratilo, per il quale come abbiamo visto il filosofo parte dalle cose e non dalle parole. Aggiungo qui che la dottrina dei sofisti è una teoria della soddisfazione, affatto una teoria della felicità. E questo perché essa si rassegna alla finitezza, ignorando del tutto l’infinito.

Dunque, in forma negativa, ho già preso una serie di posizioni sull’accesso alla filosofia e sul ruolo di questo accesso nella questione ultima della felicità. In modo più affermativo, ho indicato ciò che chiamo delle operazioni filosofiche: ho allora parlato non di eventi, ma di operazioni. Due di queste mi sono sembrate impossibili da contestare. In primo luogo, le operazioni di identificazione: la filosofia reperisce delle verità, in particolare delle verità del suo tempo, attraverso la costruzione di un concetto rinnovato di ciò che è una verità. Seconda operazione: attraverso la categoria di verità, la filosofia rende compossibili dei registri diversi ed eterogenei di verità. Si tratta di una funzione di discernimento e di una funzione di unificazione. La filosofia si è sempre venuta a trovare tra le due. Il discernimento sfocia in una concezione critica, distinzione di ciò che è vero da ciò che non è vero, l’unificazione sfocia nei diversi usi della categoria di totalità e di sistema. (teoria dei sistemi complessi.)

Conservo queste due funzioni classiche della filosofia, perché del resto ho sempre affermato di essere un classico. Cerco di mostrare che la filosofia elabora, contemporaneamente alle proprie condizioni, delle categorie di verità che le consentono di discernere queste condizioni, di isolarle, di mettere in evidenza il fatto che non sono riducibili al normale corso del mondo. D’altra parte essa cerca in un certo senso di pensare un concetto del contemporaneo, indicando come le condizioni compongano un’epoca, una dinamica del pensiero, all’interno della quale ogni soggetto si inscrive. In questo senso la filosofia indica l’orizzonte possibile di ogni felicità reale. Ma occorre andare più lontano e chiedersi quale sia il rapporto della filosofia con la vita. È una domanda fondamentale. Se non si può dire a cosa serva la filosofia dal punto di vista della vita vera, essa si troverà ridotta a una delle tante discipline accademiche. È per questo che il terzo volume proverà a creare le condizioni di un approccio frontale a questo problema. Si tratterà allora di riprendere il problema platonico del rapporto tra filosofia e felicità. Insomma, occorre passare da una dottrina negativa della singolarità universale delle verità a una dottrina immanente e affermativa. Sono a mia volta colpito dal fatto di non essere fin qui riuscito a trattare delle verità, e di conseguenza del soggetto — il soggetto è il protocollo di orientamento di una verità, verità e soggetto sono assolutamente legati —, se non in modo differenziale.

Mi sono chiesto quale tipo di molteplicità sia una verità. Che cosa la differenzia da una molteplicità qualunque? Era l’intento fondamentale dell’Essere e l’evento. Già a in quest’epoca ero nell’eccezione. Se una verità è un’eccezione alle leggi del mondo, dobbiamo poter spiegare in cosa consiste questa eccezione. Se restiamo nell’ambito dell’ontologia, della teoria dell’essere, della teoria matematica dell’essere, dobbiamo poter spiegare matematicamente quale sia il tipo di molteplicità che singolarizza le verità. Appoggiandomi sulla teoria degli insiemi e i teoremi di Cohen, ho mostrato che questa molteplicità è generica. In altri termini, si tratta di una molteplicità che non si lascia pensare attraverso i saperi disponibili. Nessun predicato del sapere disponibile consente di identificarla. È a questo che serve la tecnica di Cohen: a mostrare che può esistere una molteplicità indiscernibile, che non si lascia discernere dai predicati che circolano nei saperi. In questo modo, la verità sfugge al sapere al livello del suo stesso essere. E ciò sembra una determinazione positiva delle verità: sono delle molteplicità generiche. Ma se la guardiamo da vicino, si tratta di una determinazione negativa: sono delle molteplicità che non sono riducibili a un sapere disponibile. La mia definizione di verità passa allora da una pratica differenziale e non da una costruzione intrinseca o immanente.

In Logiche dei mondi la verità viene definita come corpo soggettivabile. Quali sono le caratteristiche specifiche? Ve ne sono diverse, ma una è centrale: il protocollo di costruzione di questo corpo è tale che tutto ciò che lo compone è compatibile. Tuttavia, tale compatibilità non è altro che una caratteristica relazionale di ciò che è una verità.

All’interno di una verità ritroviamo una relazione di compatibilità tra tutti i suoi elementi.

È una caratteristica oggettiva. In entrambi i casi sono dunque riuscito ad arrivare a una determinazione oggettiva precisa, rispettivamente dell’essere di una verità e dell’apparire di una verità, grazie ai concetti di genericità e di compatibilità. Ma ciò che manca è appunto una determinazione soggettiva. Poiché tutto questo non ci dice che cos’è la verità vissuta dall’interno della procedura di verità, ovvero che cos’è per il soggetto di verità stesso.

Le mie risposte a queste domande restano per me troppo funzionali. Dico che il soggetto è un punto a livello ontologico, un momento locale della verità. A livello fenomenologico, dico che è una funzione di orientamento della costruzione di un corpo soggettivabile. Sono definizioni funzionali che restano a loro volta oggettive. Ormai è arrivato il momento di arrivare a qualcosa che materializzi, scriva, organizzi il protocollo di verità, considerato stavolta in modo immanente, ovvero soggettivato in quanto tale.

In Teoria del Soggetto distinguevo il «processo soggettivo» dalla «soggettivazione». Per utilizzare questa distinzione, direi che L’essere e l’evento e Logiche dei mondi contengono cose decisive sul «processo soggettivo», ma che la «soggettivazione» resta oscura, trattata negativamente e in modo meramente differenziale. La soggettivazione è il modo in cui si soggettiva dall’interno il protocollo di verità. Ma manca l’intuizione di cosa sia una soggettivazione. E l’ho detto numerose volte in questo libro, la felicità è fondamentalmente legata alla soggettivazione.

Ma come trattare in modo convincente della soggettivazione? E quali sono i protocolli formali di un simile trattamento? Per il momento so comunque una cosa: ciò presuppone una trasformazione formale della categoria di negazione. In particolare presuppone che si possa avere simultaneamente una negazione «forte» (nella tradizione politica marxista si dice: una contraddizione antagonista o «irriconciliabile») e una negazione «debole», che consente contraddizioni non distruttive, contraddizioni che non presuppongono l’annientamento di uno dei due termini.

È lungo il solco di tale concetto che occorre arrivare all’uso di nuove formalizzazioni. Se i protocolli soggettivi di una verità si compongono di riallineamenti o di incorporazioni degli individui al divenire di una verità, il punto è allora sapere come funzioni la differenza individuata all’interno del protocollo di verità. Questione che mi ha sempre interessato, basta prendere un semplice esempio. Due persone guardano un quadro: avremo un frammento di incorporazione, frammento segnalato da un certo affetto, da un lavoro dell’intelligenza, dall’immobilizzazione dello sguardo sul quadro. Mi situo piuttosto dal punto di vista dello spettatore che del creatore, per indicare che una verità è costantemente disponibile all’incorporazione. L’atto di soggettivazione che è l’incorporazione è identico in entrambi gli spettatori? Si tratta di identità o di compatibilità? Non si può comunque dire che il dualismo all’interno di questa esperienza — del resto vi possono essere milioni di persone in questa stessa esperienza—rompa l’unità del soggetto. Com’è possibile? Gran parte dello scetticismo verso ciò che attiene alle verità si radica in questo tipo di esperienza. A ciascuno la sua verità, diceva Pirandello. «A ciascuno la sua verità» comporta che non vi sia verità alcuna. Nel caso di un quadro, vi sarà un oggetto unico che andrà dislocandosi a seconda delle percezioni degli uni e degli altri. Potremmo dire che il piacere, forma sintetica della felicità nella contemplazione artistica, si propaghi in altrettante soddisfazioni disgiunte.

Ma perché questo problema della dispersione soggettivante riguarda la negazione? Perché la difficoltà è sapere quale sia il tipo di negazione al quale tale dispersione rimanda. Ognuno vede il quadro a proprio modo, la percezione dell’uno non è la percezione dell’altro. Ma cosa significa «non è»? Ciò che disloca la percezione e porta allo scetticismo è l’idea che questo «non è» sia una negazione classica, ovvero che una delle percezioni possa e debba essere in contraddizione con l’altra.

Su quale teoria della negazione è allora possibile appoggiarsi per evitare la conseguenza scettica della negazione? La risposta è che dobbiamo fondarci sulla teoria della negazione paraconsistente scoperta dal brasiliano Da Costa, per la quale non vale il principio di non-contraddizione. Oltre all’utilizzo minuto della teoria degli infiniti, il nuovo formalismo introdotto in grande scala in questo terzo volume è quello della negazione paraconsistente, la quale esplicitamente contraddice il principio di non-contraddizione. Quando si tratta di una verità, questo formalismo consente che percezioni contraddittorie possano coesistere senza interrompere l’unità di tale verità. Ciò mi interessa tanto più che al centro dell’amore si pone un problema di questo genere, quando ammettiamo, ed è la mia tesi, che per capirlo in toto dobbiamo partire dalla coesistenza di una posizione femminile e di una posizione maschile, posizioni per certi aspetti interamente disgiunte.

Se dunque il formalismo maggiore dell’Essere e l’evento era la teoria degli insiemi e il teorema di Cohen, se il maggior formalismo di Logiche dei mondi sta nella teoria dei fasci, la topologia e dunque in sostanza nella logica intuizionista, il formalismo del terzo volume sarà la messa in relazione della teoria moderna degli infiniti e della logica paraconsistente, con tutta una mediazione sui limiti del principio di non-contraddizione.

Si dirà che la felicità è simultaneamente una soggettivazione intra-finita dell’infinito e che essa è condivisa nella misura in cui la mia soggettivazione «non è» quella dell’altro senza che per questo la contraddica, poiché la negazione è qui paraconsistente.

Ciò detto, non vi sono solo i formalismi. I quali, di fatto, altro non sono che impalcature per la costruzione di concetti e presuppongono una buona dose di intuizione. Possiamo sostenere che ogni filosofo parta da un contatto soggettivo con la verità, in un certo senso dal suo punto personale di incontro con la verità. È questo punto che il filosofo cerca di trasmettere attraverso la propria filosofia. Ma contemporaneamente egli sa, in fondo a se stesso, che questo punto non è trasmissibile, poiché si tratta del suo contatto assolutamente specifico con la verità. Non è questo a spiegare, ad esempio, la difficoltà di Platone nel definire l’Idea del Bene? In questo punto, non si rischia forse di toccare l’ineffabile? È ciò che accade in molte disposizioni filosofiche. Si giunge a un punto che è l’ultimo punto reale. Il quale, proprio come dice Lacan, non si lascia simbolizzare. Spinoza ad esempio indica un punto ultimo che è l’intuizione intellettuale di Dio, ma non ne fornisce l’intuizione reale. Ne è la prova il fatto che la migliore approssimazione risiede nella beatitudine esperita nel sapere matematico. Ma il sapere matematico è una conoscenza del secondo genere, non del terzo. Così sfugge l’intuizione del punto ultimo. Quanto a Platone, nella Repubblica dichiara espressamente che del Bene può dare solo un’immagine e nient’altro.

L’immanenza delle verità sarà, parzialmente, il tentativo di circoscrivere al massimo questo punto, con la speranza di ridurne l’ineffabilità. Si tratterà di renderlo il meno ineffabile possibile e dunque anche il più trasmissibile possibile. Ciononostante al momento ancora non so fin dove procedere in questa direzione. Benché sappia che qui, con mio grande rammarico, dovrò separarmi da Platone.

Platone parte da un’esperienza filosofica dell’Idea, ma la necessità di trasmettere questa esperienza resta in lui in gran parte esterna al contenuto dell’esperienza stessa. È la ragione per cui afferma che si dovranno obbligare i filosofi a diventare politici e pedagoghi. Quando li si sarà condotti all’Idea del Bene, non avranno altra idea se non quella di restarvi! Questa necessità di trasmettere, che viene dall’esterno dell’esperienza stessa della verità, è per Platone un’esigenza sociale e politica. Occorre che quest’esperienza possa essere condivisa al livello dell’organizzazione generale della società. Se non la si trasmette, la gente finirà per rimanere sotto l’impero delle opinioni dominanti. Per questo occorre «corrompere» la gioventù, nel senso di Socrate, ovvero trasmettere gli strumenti per non restare asserviti alle opinioni dominanti.

Condivido in toto questa visione della filosofia. E si sa quanto io tenga alla sua didattica. Ma occorre riconoscere che in Platone c’è oscurità sulla questione della natura della verità. Questa verità, non l’ha mai detta davvero. Sappiamo che vi sono interpretazioni assolutamente contraddittorie di Platone. Da Galilei e diversi altri è stato visto come l’esempio stesso del razionalismo scientifico. Ma tra i neoplatonici è stato considerato l’esempio della teologia trascendente. Divergenze che si spiegano con il fatto che Platone non ha mai detto granché della verità di cui parla. In un certo senso l’ha riservata all’esperienza. E forse difettava, per andare più lontano, di una razionalizzazione del concetto di infinito, della sua realizzazione matematica che l’umanità avrà dovuto aspettare per oltre due millenni tra Eudosso e Cantor. Poiché è molto difficile pensare cosa sia una verità, senza poter dire chiaramente che essa appartiene a un tipo di infinito differente da quello all’interno della quale essa opera o si costruisce, e che l’infinito-vero non è l’infinito-che-è. Ed è la ragione per cui la teoria platonica della felicità, giusta nel suo principio (la felicità è la soggettivazione del vero), resta astratta in merito alla propria possibilità.

Per me le verità esistono, le caratterizzo, ho detto e continuo a dire esplicitamente come e perché esse esistono. È vero che la trasmissione è in questo caso difficile. Ciò che occorre trasmettere è che le verità, per quanto esistano, sono anzitutto a eccezione del resto e secondariamente esistono in quanto opere, a partire da una dialettica serrata tra più tipi di infinità. Del resto Platone presenta a sua volta l’Idea del Bene come eccezionale. L’Idea del Bene non è un’Idea! Stando a un passaggio della Repubblica spesso commentato, essa supera di gran lunga l’Idea per prestigio e per potenza. Cosa potrà mai essere? La teologia negativa dirà che si tratta di Dio e di Dio non si può dire niente. Sul fronte del razionalismo c’è l’interpretazione di Monique Dixsaut e di molti altri, tra i quali la mia. Quest’ultima consiste nel mostrare che c’è un principio di intelligibilità che non è riducibile all’Idea stessa. Il fatto che l’Idea sia principio di intelligibilità va naturalmente al di là dell’Idea come principio regionale dell’azione o della creazione. Forse Platone ancora non avevi mezzi — infiniti di tipo superiore e logica paraconsistente — per concettualizzare questo «al di là».

Platone è per me una figura fondativa e di grande importanza. Ma dobbiamo riconoscere che è sfuggente. Mostra una obliquità, d’altra parte favorita dal dialogo, nella quale non si sa mai esattamente chi parli e chi dica la verità. Scorre come un torrente e alla fine si è certamente colto il problema, ma non la soluzione. E finiamo per non sapere esattamente in quale senso si sia pronunciato Platone. È un po’ come una disillusione organizzata. Ad esempio gli interlocutori di Socrate nella Repubblica gli fanno osservare che sarebbe ora che lui definisse quest’idea del bene con la quale li intrattiene ormai da tempo. A quel punto vediamo Socrate farsi pregare e grossomodo proferire: «Beh, adesso chiedete troppo!».

Non è il mio genere. Provo al contrario a dire il massimo di ciò che posso dire. Sono un platonico più affermativo e meno sfuggente di Platone. O quantomeno ci provo! È il modo in cui intendo la filosofia: un esercizio di trasmissione di qualcosa che potremmo accontentarci di dichiarare intrasmissibile. In questo senso è questo lo specifico impossibile della filosofia, il suo fine, il suo punto di arresto. Per questo mi sono investito nella lotta contro lo scetticismo contemporaneo, il relativismo culturale, la retorica generalizzata, esattamente come Platone era impegnato nella lotta contro i sofisti. Poiché per me si tratta di affermare la posizione di eccezione della verità senza per questo dichiararla intrasmissibile, il che significherebbe mostrare una considerevole debolezza rispetto al nichilismo dominante.

Lascio tuttavia aperta la possibilità che il concetto di verità, e a maggior ragione ciò che chiamo la sua ideazione, ovvero l’incorporazione di un individuo al divenire di una verità, sia, come effettivamente sembra essere il caso in Platone, assai difficilmente trasmissibile. A questo proposito è interessante osservare il programma di apprendimento della filosofia nella Repubblica: 1. Aritmetica; 2. Geometria; 3. Geometria spaziale; 4. Astronomia; 5. Dialettica. Ma nel passaggio sulla dialettica, chiunque potrà vederlo, non c’è quasi niente! Ci si accontenta di prendere nota del fatto che l’apprendimento filosofico è a base della matematica, dunque esplicitamente riferito a una condizione scientifica. Saremmo allora tentati di ridurre la felicità alla beatitudine matematica? Non riesco a rassegnarmi a tale idea.

Dovremmo allora allinearci sulla famosa tesi di Bergson per la quale ogni filosofo trova nella propria coscienza un punto inafferrabile? Come dice lui: «In questo punto c’è qualcosa di semplice, di infinitamente semplice, di così straordinariamente semplice che il filosofo non è mai riuscito a dirlo. Ed è la ragione per cui ha parlato tutta la vita».

Se all’interno della mia filosofia scorgo un punto di questo genere, è in ultima istanza quello della felicità. L’ho circoscritto, identificandolo con il fatto che esso consiste nel pensare fino in fondo la soggettivazione del vero, e non solo l’esistenza del processo di verità. È ciò che chiamo l’incorporazione, non colta nella sua logica oggettiva ma riaffermata dal punto di vista dell’individuo stesso nell’istante in cui prende parte all’attività di un Soggetto, perché è incorporato al divenire-corpo del vero. L’intuizione di tale incorporazione è generalmente accompagnata da un affetto singolare, che forse non è nient’altro da questo sentimento di difficoltà di trasmissione del quale parlavamo. Un problema che sarà oggetto dell’opera, forse ultima, alla quale lavorerò.

Tuttavia esito a dire che l’ostacolo stia nella semplicità. Questa semplicità è evidentemente tipica dell’ontologia bergsoniana, un’ontologia non matematica ma vitalista. Il punto radicale di un’ontologia vitalista consiste nel collocarsi nel differenziale puro del movimento o della durata. Qui in effetti, per Bergson, è possibile fare l’esperienza della semplicità assoluta e contemporaneamente trovare il fondamento del pensiero.

Ma quando l’ontologia è matematica, come lo è per me, si parte da una complessità intrinseca, da una molteplicità pura che non rimanda a una semplicità originaria diversa dal vuoto. D’altra parte che del vuoto non si possa dire niente va da sé.

Posso concedere a Bergson che vi sia un punto originario dell’esperienza, un punto che la didattica filosofica cerca di raggiungere e di trasmettere. Ma credo che l’esperienza di questo punto sia l’esperienza concentrata di una complessità e non l’esperienza di una semplicità. Perché in fondo sono piuttosto d’accordo con Spinoza.

L’esempio da lui proposto per il terzo genere di conoscenza, conoscenza intuitiva e assoluta, è quello di una dimostrazione matematica raccolta in un punto. Mi sta bene. Quando si ha davvero capito una dimostrazione matematica, non sono più necessarie altre tappe: si è capito qualcosa che si raccoglie in un punto. Tuttavia la didattica è costretta a riprendere le tappe, poiché c’è una complessità di questo punto, una complessità nascosta proprio perché siamo alle prese con un punto. Non è l’equivalente di una complessità contratta e una semplicità pura come in Bergson. E da qui, la felicità non è come per un vitalista nella semplicità dello slancio, ma nella segreta complessità del punto ideale che guida la nostra incorporazione al vero, che si tratti della folla politica, del dualismo amoroso, degli algoritmi matematici o dei formalismi del sensibile.

Più che vitalista, credo di essere contemporaneamente matematico e platonico. Parto da un fatto che mi ha molto segnato. Louis Althusser da parte sua ha sostenuto, con particolare vigore, l’idea che la contraddizione principale della filosofia fosse tra materialismo e idealismo. Prolungando questa tesi nelle condizioni del materialismo moderno, tenuto conto della matematica, della scienza moderna, del bilancio complessivo del materialismo, si è visto costretto a introdurre il concetto di materialismo aleatorio. Per molte ragioni, era ineludibile far posto al problema del caso nel materialismo contemporaneo, e la più straordinaria di queste ragioni era stata lo sviluppo della meccanica quantistica. Nel piano unitario materialista che porto avanti, l’esistenza oggettiva della molteplicità è affrontata, se posso dire, attraverso la possibilità dell’aleatorio, attraverso la possibilità che qualcosa possa accadere che non si lascia né prevedere, né calcolare, né incorporare a partire dallo stato di cose esistente. È ciò che chiamo un evento. Vi è qualcosa come un punto assoluto azzardato, azzardato nel senso in cui non si lascia organizzare da ciò che lo precede. Non ho bisogno di nient’altro che di questo punto azzardato. Mi è sufficiente un evento per dispiegare l’eccezione del vero. E con questo non finisco fuori dal materialismo, che nessuna ragione intrinseca costringe infatti a essere organicamente legato al determinismo. Il determinismo è stata solo una delle possibili concezioni del materialismo.

Come sappiamo fin dalle origini del materialismo, il determinismo non è sufficiente, poiché già dall’atomismo primitivo, il clinamen, quella improvvisa deviazione degli atomi senza luogo né causa, introduce un evento sottratto a ogni determinazione: ne ho parlato a lungo in Teoria del Soggetto. Ho particolare ammirazione per i primi materialisti, conseguenti, eroici, Democrito, Epicuro, Lucrezio, i quali in un mondo popolato da dèi e superstizioni introducono la tesi radicale che non vi sia altro se non atomi e vuoto. Eppure hanno dovuto arrendersi all’evidenza che non era possibile dedurre l’evento del mondo dai soli atomi e dal vuoto. Occorre un termine terzo, che abbia la forma del mero caso. In sostanza quando dico «non vi sono altro che corpi e linguaggi se non fosse che vi sono delle verità», compio un gesto epicureo. Dico che c’è un’eccezione. Ma questa eccezione è a sua volta fondata solo sull’esistenza dell’evento. E l’evento non è nient’altro se non la possibilità dell’aleatorio nella struttura del mondo. Per questo non credo di uscire dal materialismo introducendo degli eventi. C’è chi ha sostenuto che in questo vi fosse di nuovo un dualismo e mi si è detto: «Con l’introduzione dell’eccezione non è più materialismo». Il fatto è che le conseguenze di una eccezione sono interamente situate in un mondo. Non vi è un piano sensibile e un piano intelligibile, un piano dell’evento e un piano del mondo che siano distinti. D’altra parte sostengo che è possibile interpretare Platone facendo a meno di questo dualismo tra sensibile e intelligibile, ricavato di un platonismo piuttosto rozzo. È pur vero che spesso Platone si esprime in questo modo, ma non dimentichiamo il suo risvolto sfuggente, contorto e l’utilizzo molto frequente delle immagini.

Per tornare all’evento, all’aleatorio, occorre insistere sull’esistenza di una rottura. C’è il prima e c’è il dopo. Questa rottura non fa passare da un mondo inferiore a un mondo superiore, continuiamo a restare nello stesso mondo.

Le conseguenze della rottura hanno certamente lo statuto di un’eccezione rispetto a ciò che non dipende dalla rottura. Ma occorrerà dimostrare che queste conseguenze sono organizzate secondo la logica generale del mondo stesso. È una dimostrazione, uno sforzo che mi impongo ogni volta. I miei vecchi amici marxisti, come il così rimpianto Daniel Bensaid, che mi accusano di introdurre un elemento miracoloso, sono semplicemente dei materialisti meccanicisti. Già Marx e persino Lucrezio sfoderavano la spada contro di loro.

 

Aggiungiamo che quando si è un materialista non meccanicista è perché si è dialettici. In effetti credo che si possa considerare la mia impresa filosofica come una lunga traversata della dialettica. Ho conservato dall’inizio alla fine l’idea che lo statuto ontologico delle verità sia uno statuto di eccezione: eccezione del generico rispetto a ciò che è costruibile, eccezione del corpo soggettivabile rispetto al corpo ordinario, eccezione del mio materialismo rispetto al materialismo semplicista per il quale non vi sono altro che corpi e linguaggi. Ma la categoria di eccezione è una categoria dialettica, poiché il pensiero dell’eccezione è sempre accaduto su due versanti contraddittori. Occorre pensare un’eccezione come una negazione, poiché essa non è riducibile all’ordinario, ma occorre anche non pensarla nei termini del miracolo. Occorre allora pensarla come interna al processo di verità — non miracolosa — e pensarla nonostante tutto come eccezione. Questo è dopotutto l’evidenza della felicità. Da un lato è come un regalo che ci fa il mondo, a noi, individui che stanno diventando soggetti. Ma dall’altro, questo regalo è soprannumerario, improbabile, eccezionale, benché fatto di nient’altro se non della stoffa del mondo. Si tratta dell’infinità latente finalmente sperimentata di ogni finitudine, senza che questa infinità sia trascendente. Al contrario, è la più profonda immanenza.

È forse ciò che Lacan voleva significare con extime: contemporaneamente intimo ed esterno all’intimo.

Siamo appunto al nocciolo della dialettica. In Hegel, ad esempio, la negazione di una cosa è immanente a questa cosa, ma allo stesso tempo la supera. Il nocciolo della dialettica è questo statuto della negazione, in quanto operatore che contemporaneamente supera e include. In questo senso direi che sono continuativamente dentro la dialettica, in particolare con Teoria del Soggetto, un libro ancora molto legato al marxismo classico e ai suoi sviluppi dall’eco maoista. In Teoria del Soggetto non vi è una teoria generale delle quattro condizioni della filosofia, non più di quanto vi sia del resto una teoria generale dell’evento. Le categorie fondamentali de L’essere e l’evento vi figurano solo nel concavo, come ciò che consentirebbe di riunire quanto ancora restava in un certo senso frammentario. Ma si può dire che da un estremo all’altro della mia impresa filosofica — da Teoria del Soggetto di trentadue anni fa a L’immanenza delle verità — continuo a perseguire una mediazione sulla negazione. Cerco semplicemente di rendere conto della possibilità del cambiamento, della possibilità di passare da un certo regime delle leggi di ciò che è dato a un altro regime, attraverso la mediazione del protocollo di una verità e del suo soggetto. Sono allora all’interno del pensiero dialettico e dentro una teoria dialettica della felicità, che è negazione paraconsistente della finitudine attraverso un infinito completo. Ma poiché il mio pensiero dialettico comprende il caso, esso non è determinista. Ricordo che la dialettica hegeliana è implacabilmente determinista. In questo si tratta di un grande pensiero tipico del XIX secolo. È lo spettacolo dell’autosviluppo dell’assoluto all’interno della necessità immanente di tale sviluppo. È evidente che sono molto lontano da tutto questo ed è la ragione per la quale ho con Hegel un rapporto insieme ravvicinato e complesso. Non dobbiamo scordare che nei miei tre grandi libri già pubblicati, Hegel è un autore che discuto con minuzia: in Teoria del Soggetto, a proposito del processo dialettico stesso, ne L’essere e l’evento a proposito dell’infinito, in Logiche dei mondi, a proposito dell’essere-là, delle categoria dell’essere-là. Nel libro sull’immanenza delle verità affronterò di petto il concetto hegeliano dell’Assoluto, poiché in ultima istanza per me, come per Hegel o per Platone, ogni felicità reale è una sorta di accesso provvisorio all’Assoluto. È solo che le nostre idee sul problema non sono le stesse. Per questo ho sempre avuto un’intima discussione con Hegel, ma anche con Marx, Lenin, Mao, i grandi rivoluzionari dialettici, a proposito della condizione politica. Semplicemente, con la presenza di un elemento aleatorio, introduco un principio di rottura che non è esattamente omogeneo ai principi classici della negazione ed è la ragione per cui alla fine userò tre logiche diverse e intrecciate: la logica classica, la logica intuizionista e la logica paraconsistente. Allo stesso tempo porterò all’assoluto il referenziale ontologico — il pensiero delle puro molteplice — attraverso la mediazione della teoria davvero sensazionale «dei grandi infiniti».

Triplicità logica e infinità degli infiniti saranno la chiave di una teoria generale della felicità, la quale è il fine di ogni filosofia.

La filosofia per me è questa disciplina di pensiero, questa disciplina singolare, che parte dalla convinzione che esistano delle verità. Da qui è portata verso un imperativo, una visione della vita. Qual è questa visione? Ciò che per un individuo umano ha valore, ciò che lo consegna a una vita vera e orienta la sua esistenza è l’essere parte di queste verità. E questo presuppone la costruzione, molto complessa, di un sistema per discernere le verità, che consenta a esse di circolare e che le renda compossibili. Nel modo della contemporaneità.

La filosofia è questo tragitto, va dunque dalla vita, la quale propone l’esistenza delle verità, alla vita che fa di tale esistenza un principio, una norma, un’esperienza. Cosa ci dà l’epoca nella quale viviamo? Che cos’è? Quali sono le cose che vi hanno un valore? Quali sono le cose che non hanno alcun valore? La filosofia propone un discrimine nella confusione dell’esperienza, dalla quale ricava un orientamento. L’elevazione dalla confusione all’orientamento è l’operazione filosofica per eccellenza ed è la sua saggezza propria.

Ciò presuppone un concetto della verità. «Verità» che certamente potrà ricevere altri nomi. Così, in tutta una parte dell’opera di Gilles Deleuze ciò che qui chiamo «verità» si chiama «senso». In qualunque filosofia riesco a identificare ciò che io avrei chiamato «verità». Può avere il nome di «bene», «spirito», «forza attiva», «noumeno»... Ho scelto «verità» perché ho fatto mio il classicismo.

Serve un discrimine e per questo serve un metodo per discriminare, ovvero un concetto di verità. Occorre mostrare che questa verità esiste sul serio, ma che non per questo c’è un miracolo e non è necessario disporre di dispositivi trascendenti. Ci sono filosofie che sono legate a questi dispositivi trascendenti, ma non è affatto la mia strada. Così torniamo alla semplice domanda, alla domanda iniziale: che cos’è vivere? Che cos’è una vita degna e intensa, non riducibile ai meri parametri animali? Una vita che segnali l’affetto del quale qui è questione, l’affetto della felicità reale?

Penso che la filosofia debba includere, tanto nella sua concezione che nella sua proposta, la convinzione che la vera vita possa essere sperimentata nell’immanenza. Qualcosa deve segnalare la vera vita dal suo stesso interno, non solo come un imperativo esterno, dunque come un imperativo kantiano. E questo viene da un affetto che segnala, che indica, nell’immanenza, che la vita vale la pena di essere vissuta. C’è in Aristotele un’espressione che amo molto e che riprendo volentieri: «Vivere da immortali». Esistono altri nomi per questo affetto: «beatitudine» per Spinoza, «gioia» per Pascal, «superuomo» per Nietzsche, «santità» per Bergson, «rispetto» per Kant... Io credo che vi sia un affetto della vera vita, al quale do il nome più semplice: quello di felicità. Un affetto privo di qualunque componente sacrificale. Niente di negativo è richiesto. Non vi è come nelle religioni un sacrificio la cui ricompensa sia rimandata al domani e all’altrove. Questo affetto è il sentimento affermativo di una dilatazione dell’individuo, nel momento in cui egli co-appartiene al soggetto di una verità.

È piuttosto di recente che ho capito l’incredibile ostinazione di Platone nel dimostrare che il filosofo è felice. Il filosofo è più felice di tutti coloro che si credono più felici di lui, i ricchi, i gaudenti, i tiranni... Platone lo ripete continuamente, consegnandoci innumerevoli dimostrazioni di questo punto: davvero felice è solo colui che vive all’insegna dell’Idea, è il più felice di tutti. Cosa significhi è piuttosto chiaro: il filosofo sperimenterà dall’interno della propria vita cos’è la vera vita.

La filosofia e allora tre cose. È una diagnosi dell’epoca: cosa ci propone quest’epoca? È la costruzione a partire da questa affermazione contemporanea di un concetto di verità. Ed è infine un’esperienza esistenziale relativa alla vera vita. L’unità di questi tre elementi è la filosofia. Ma in un dato momento la filosofia è una filosofia. Quando avrò ultimato il libro sull’immanenza della verità, quindi dopo aver proposto l’unità delle tre componenti di ogni filosofia, potrò dire: la filosofia c’est moi. E dunque, da uguali, c’est vous. Poiché mi leggete e nel farlo pensate insieme a me o contro di me. Poiché se vi è pensiero vi è anche l’eternità di un’esperienza terrestre, quella di un’immanenza alla vera vita. A quel punto tutti noi, amici e nemici, divideremo la felicità di questa immanenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C O N C L U S I O N E

 

Nel libro sono state proposte, contestate, testate, rifiutate, accettate diverse definizioni della felicità...

Elenco ora ventuno di queste definizioni, insieme alla pagina in cui esse figurano sicché sia possibile collocarle nel relativo contesto discorsivo.

p.

1. La felicità è il segnale infallibile di qualunque accesso alle verità.

2. La felicità non è la ricompensa della virtù, ma la virtù stessa.                                                                          4

3. La felicità è l’esperienza affermativa di un’interruzione della finitudine.                                                              5

4. La felicità è l’affetto della vera vita.                                                                                                                4

5. La felicità reale è una figura soggettiva dell’Aperto.                                                                                        7

6. La felicità reale è l’affetto della democrazia.                                                                                                   4

7. La felicità reale è il godimento di nuove forme di vita.                                                                                    4

8. Qualunque felicità reale presuppone una liberazione del tempo.                                                                       11

9. Vi è felicità solo per ciò che, di un individuo, accetta di diventare soggetto.                                                          13

10. Procedere dietro l’imperativo di un’Idea vera ci destina alla felicità.                                                                 13

11. Ogni felicità reale si gioca in un incontro contingente, non vi è alcuna necessità

       nell’essere felici.                                                                                                                                                     14   

12. Una certa dose di disperazione è la condizione della felicità reale.                                                                15

13. L’affetto dell’effetto di soggetto, che sia l’entusiasmo politico, la beatitudine                                                  15                     

      scientifica, il piacere estetico o la gioia amorosa, è sempre ciò che merita ,                                        

      al di là di ogni soddisfazione dei bisogni, il nome di felicità.

14. La felicità è sempre godimento dell’impossibile.                                                                                               18

15. Ogni felicità reale è una fedeltà.                                                                                                                     19    

16. La felicità è l’accadimento, in un individuo, del Soggetto che scopre di poter diventare diversamente.              19

17. La felicità è l’affetto del Soggetto in quanto eccezione immanente.                                                                   19

18. La vera essenza della libertà, condizione essenziale della felicità reale, è la disciplina.                                     19

19. Ogni felicità è una vittoria contro la finitudine.                                                                                              19

20. Ogni felicità è un godimento finito dell’infinito.                                                                                              22

21. Ogni felicità è in un certo senso ricavata dalla forza del volere.                                                                      22

 

 

B i b l i o g r a f i a

Alain Badiou , metafisica della felicità reale, DeriveApprodi, 2015