l ‘ insostenibile
leggerezza dell’essere
Milan
Kundera
Frammento di lettura
27/01/2018
PARTE PRIMA
LA LEGGEREZZA E LA PESANTEZZA
L'idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa
Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che un giorno ogni
cosa si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa
ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell'eterno ritorno
afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non
ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e
che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello
splendore, quella bellezza non significano nulla.
Se la Rivoluzione francese
dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia sarebbe meno orgogliosa di
Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni
di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni,
sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura.
Diciamo quindi che l'idea
dell'eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in
maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza
attenuante della loro fugacità.
Questa circostanza attenuante ci
impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò
che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il
fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.
Se ogni secondo della
nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati
all'eternità come Gesù Cristo alla croce. È un'idea terribile. Nel mondo
dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile
responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il
fardello più pesante (das schwerste
Gewicht).
Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante,
allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro
meravigliosa leggerezza.
Ma davvero la pesantezza è terribile e la
leggerezza è meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci
schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera
essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è
quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto
più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto
più è reale e autentica.
Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa
sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si
allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi
movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.
Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza
o la leggerezza?
Questa domanda se l'era posta Parmenide nel sesto
secolo avanti Cristo. Egli vedeva l'intero universo diviso in coppie di
opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno
dei poli dell'opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile,
l'essere), l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno
negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è
positivo, la pesantezza o la leggerezza?
Parmenide rispose: il leggero è
il positivo, il pesante è negativo.
Aveva ragione oppure no? Questo è
il problema. Una sola cosa era certa: l'opposizione pesante-leggero è la più
misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.
L'ho visto alla finestra del suo
appartamento, gli occhi fissi al di là del cortile sul muro della casa di
fronte, che non sa che cosa deve fare.
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♦ lettura
consigliata: Controcorrente, Huysmans
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Egli provò un inspiegabile amore per quella
ragazza quasi sconosciuta; gli sembrava che fosse un bambino che qualcuno aveva
messo in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente di un fiume perché
lo tirasse sulla riva del suo letto.
Rimase da lui una settimana, poi tornò nella sua
città. E qui era giunto l'istante di cui parlavo e che vedo come la chiave
della sua vita: egli è alla finestra, gli occhi fissi al di là del cortile sul
muro della casa di fronte, e riflette:
Deve chiederle di tornare per sempre? È una
responsabilità che lo spaventa. Se adesso la invitasse a casa sua, lei
verrebbe, per offrirgli tutta la sua vita.
Oppure non deve più sentirla? In tal caso lui non
la rivedrà mai più.
Voleva o no che lei lo raggiungesse?
Guardava in cortile, gli occhi fissi sul muro di
fronte, e cercava una risposta.
Adesso stava alla finestra e tornava con il
respiro a quell'istante. Che altro poteva essere se non l'amore, che era venuto
in quel modo da lui a farsi conoscere?
Ma era davvero l'amore? Quel voler morire accanto
a lei era evidentemente un sentimento eccessivo: era solo la seconda volta in
vita sua che la vedeva!
Non si trattava piuttosto dell'isteria di un uomo
che, scoprendo nel profondo della sua anima la propria incapacità di amare,
aveva cominciato a fingere l'amore con se stesso?
Guardava i muri sporchi del
cortile e si rendeva conto di non sapere se fosse isteria o amore.
E gli dispiaceva che in una situazione simile,
quando un vero uomo avrebbe saputo immediatamente come agire, lui esitava
privando in tal modo l'istante più bello della sua vita (era in ginocchio al
capezzale di lei e gli sembrava di non poter sopravvivere alla sua morte) del
suo significato.
Se la prese con se stesso, ma alla fine si disse
che in realtà era del tutto naturale non sapere quel che voleva.
Non si può mai sapere che cosa si deve volere
perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie
vite precedenti, né correggerla nelle vite future.
È meglio stare con lei o rimanere solo?
Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione
sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L'uomo vive ogni
cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in
scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova
è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma
nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di
qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita
è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.
“Einmal ist keinmal”. Quello che
avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l'uomo può
vivere solo una vita, è come se non vivesse affatto.
Lei arrivò la sera dopo, portava a tracolla una borsetta con una
lunga cinghia, gli sembrò più elegante dell'ultima volta. In mano teneva un
grosso libro. Era Anna Karenina di Tolstoj. Aveva un fare allegro, forse
anche un po' chiassoso, e cercava di dargli l'impressione di essersi fermata da
lui solo per caso, per via di una circostanza particolare: era a Praga per
motivi professionali, forse (le sue risposte erano molto vaghe) per cercare un
lavoro.
Salì con lei sulla macchina parcheggiata davanti a casa, andò alla
stazione, ritirò la valigia (era grande ed esageratamente pesante) e la riportò
a casa, insieme a lei.
Com'è che si era deciso così in fretta, quando era stato quasi due
settimane a esitare, incapace anche solo di spedire una cartolina di saluti?
Questa volta, però, si addormentò accanto a lei. Al mattino,
quando si svegliò, si accorse che lei, ancora addormentata, gli stringeva una
mano. Si erano tenuti così per mano tutta la notte? Gli sembrava poco
credibile.
Lei respirava profondamente nel sonno, lo teneva per mano (una
stretta salda, non riuscì a liberarsene).
Non osava liberare la mano dalla sua stretta per paura di svegliare
Tereza, e con molta cautela si voltò su un fianco per poterla osservare meglio.
Di nuovo gli venne fatto di pensare che era un bambino messo da
qualcuno in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente. Non si può
certo lasciare che una cesta con dentro un bambino vada alla deriva sulle acque
agitate di un fiume! Se la figlia del Faraone non avesse tratto dalle acque la
cesta col piccolo Mosè, non ci sarebbero stati l'Antico Testamento e tutta la
nostra civiltà! Quanti miti antichi hanno inizio con qualcuno che salva un
bambino abbandonato!
Tomáš allora non si rendeva conto che le metafore sono una cosa
pericolosa. Con le metafore è meglio non scherzare. Da una sola metafora può
nascere l'amore.
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Gli era rimasta soltanto la paura delle donne. Le desiderava ma lo
spaventavano. Tra la paura e il desiderio dovette crearsi una sorta di
compromesso: lui lo indicava con le parole “amicizia erotica”.
Per avere la certezza che l'amicizia erotica non avrebbe mai
raggiunto l'aggressività dell'amore, si incontrava con ciascuna delle sue
amanti fisse soltanto a intervalli molto lunghi. Questo metodo lo considerava
perfetto e lo propagandava tra gli amici: “È necessario attenersi alla regola
del tre. Si può vedere la stessa donna a intervalli ravvicinati, ma in questo
caso mai più di tre volte. Oppure si può avere un rapporto con lei per molti
anni, a condizione però che tra un incontro e l'altro, passino almeno tre
settimane”.
Di tutte le amiche, quella che lo
capiva meglio era Sabina. Sabina era pittrice.
L'accordo non scritto
dell'amicizia erotica presupponeva che Tomáš escludesse l'amore dalla propria
vita.
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Fu così sorpreso quando si svegliò e Tereza gli teneva saldamente
la mano. La guardava e faticava a capire quello che gli era accaduto. Ripensava
alle ore appena trascorse e gli sembrava che da esse si effondesse il profumo
di una qualche sconosciuta felicità.
Da allora entrambi aspettavano con gioia il momento di dormire
insieme. Mi verrebbe quasi da dire che per loro la meta dell'amore non era il
piacere bensì il sonno che ne seguiva. Lei soprattutto non riusciva a dormire
senza di lui. Tra le sue braccia, anche al massimo dell'agitazione, si
addormentava sempre. Lui le sussurrava favole che inventava per lei, piccole
sciocchezze, parole che ripeteva monotonamente, rassicuranti o scherzose.
Quelle parole si mutavano in lei in visioni confuse che l'accompagnavano nel
primo sonno. Lui aveva pieno potere sul suo sonno e lei si addormentava
nell'istante che lui aveva stabilito.
Quando dormivano, lei lo teneva come la prima notte: Quando lui
voleva scostarsi senza svegliarla, doveva usare l'astuzia. Liberava il dito (il
polso, la caviglia) dalla sua stretta, cosa che ogni volta la svegliava a metà,
perché anche nel sonno lei lo sorvegliava attentamente. Per calmarla, le faceva
scivolare nella mano, al posto del proprio polso, un oggetto qualsiasi (un
pigiama arrotolato, una pantofola, un libro) che lei poi stringeva con forza
come fosse stato una parte del corpo di lui.
Una volta che l'aveva appena addormentata e lei era
nell'anticamera del primo sonno e poteva quindi ancora rispondere alle sue
domande, le disse: “Bene. Ora me ne vado”. “Dove?” chiese lei. “Via” rispose
Tomáš con voce severa. “Vengo con te!” disse lei tirandosi su a sedere. “No,
non puoi. Me ne vado per sempre” disse lui, e passò dalla camera all'ingresso.
Lei si alzò e lo seguì, strizzando gli occhi. Aveva indosso una camicia da
notte corta, senza nient'altro sotto. Il suo volto era immobile, senza
espressione, ma i suoi movimenti erano energici. Dall'ingresso lui uscì nel
corridoio (il corridoio in comune con gli altri inquilini) e le chiuse la porta
in faccia. Lei aprì con gesto brusco e lo seguì, convinta nel suo dormiveglia
che lui volesse andar via per sempre e che lei dovesse trattenerlo. Lui scese
le scale fino al primo pianerottolo e si fermò ad aspettarla. Lei lo raggiunse,
lo prese per mano e lo riportò con sé a letto.
Fare l'amore con una donna
e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse ma quasi opposte.
L'amore non si manifesta col desiderio di fare l'amore (desiderio che si
applica a una quantità infinita di donne) ma col desiderio di dormire insieme
(desiderio che si applica a un'unica donna).
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Nel bel mezzo della notte lei cominciò a lamentarsi nel sonno.
Tomáš la svegliò ma, al vedere la sua faccia, lei disse con odio: “Va' via! Va'
via”. Poi gli raccontò il suo sogno: erano tutti e due in qualche posto, con
Sabina, in un salone enorme. Al centro c'era un letto, come il palcoscenico di
un teatro. Tomáš le aveva ordinato di rimanere in un angolo e poi, davanti a
lei, aveva fatto l'amore con Sabina. Quella vista le procurava una sofferenza
insopportabile. Per far tacere il dolore dell'anima col dolore del corpo, si
infilava degli aghi sotto le unghie. “Faceva una male terribile” disse,
chiudendo le mani a pugno, come se fossero davvero ferite.
Lui la strinse a sé e lei a poco a poco (tremando ancora a lungo)
si addormentò tra le sue braccia.
Quando il giorno dopo lui ripensò a quel sogno, si ricordò di una
cosa. Aprì la scrivania e ne estrasse un pacchetto di lettere che gli aveva
scritto Sabina.
Non ci mise molto a trovare questo brano: “Vorrei fare l'amore con
te nel mio studio, come su un palcoscenico. E con intorno molte persone, che
non avrebbero il permesso di avvicinarsi di un solo passo. Ma non potrebbero
toglierci gli occhi di dosso…”.
La cosa peggiore era che la lettera era datata. Era una lettera
recente, scritta quando Tereza già da tempo abitava da Tomáš.
“Sei andata a rovistare tra le mie lettere!” l'assalì.
Senza negare lei disse: “E allora cacciami via!”.
Lui però non la cacciò via. Se la vedeva davanti agli occhi,
addossata al muro dello studio di Sabina, che si infilava gli aghi sotto le
unghie. Prese tra le mani le sue dita, le accarezzò, le avvicinò alle labbra e
le baciò come se portassero ancora tracce di sangue.
Ma da allora fu come se ogni cosa cospirasse contro di lui. Quasi
non passava giorno che lei non venisse a scoprire qualcosa di nuovo sui suoi
amori clandestini.
Di giorno lei si sforzava (pur
riuscendovi solo in parte) di credere a quello che Tomáš diceva e di essere
allegra com'era stata fino ad allora. Ma la gelosia tenuta a freno durante il
giorno si manifestava tanto più violentemente nei suoi sogni che finivano tutti
in un lamento che poteva zittire solo svegliandola.
Tereza si vedeva minacciata dalle donne, da tutte le donne. Tutte
le donne erano potenziali amanti di Tomáš e lei ne aveva paura.
In un altro ciclo di sogni, era mandata a morire.
“C'era
una grande piscina coperta. Eravamo una ventina. Solo donne. Eravamo tutte
quante nude e dovevamo marciare attorno alla piscina. Dal soffitto pendeva un
cesto con dentro un uomo. Aveva un cappello a falde larghe che gli nascondeva
il viso, ma io sapevo che eri tu. Ci davi ordini. Urlavi. Marciando dovevamo
cantare e fare flessioni. Se una faceva male una flessione, tu le sparavi con
una pistola e lei cadeva morta nella piscina. E allora tutte scoppiavano a ridere
e cantavano a voce ancora più alta. E tu non ci toglievi gli occhi di dosso e
non appena una di noi faceva qualcosa di sbagliato, le sparavi. La piscina era
piena di cadaveri che galleggiavano a fior d'acqua. E io sapevo di non avere
più la forza di fare la flessione successiva e che ti mi avresti uccisa!”.
Tutte le
lingue che derivano dal latino formano la parola compassione col prefisso “com-” e la radice passio che significa originariamente
“sofferenza”. In altre lingue, ad esempio in ceco, in polacco, in tedesco, in
svedese, questa parola viene tradotta con un sostantivo composto da un prefisso
con lo stesso significato seguito dalla parola “sentimento” (in ceco: soucit; in polacco: wspóƒ-czucie; in tedesco: Mit-gefühl; in svedese: med-känsla).
Nelle
lingue derivate dal latino, la parola compassione significa: non possiamo
guardare con indifferenza le sofferenze altrui; oppure: partecipiamo al dolore
di chi soffre. Un'altra parola dal significato quasi identico, pietà (inglese pity, francese pitié, ecc.) suggerisce persino una
sorta di indulgenza verso colui che soffre. Aver pietà di una donna significa
che siamo superiori a quella donna, che ci chiniamo, ci abbassiamo al suo
livello.
È per
questo che la parola compassione generalmente ispira diffidenza; designa un
sentimento ritenuto mediocre, di second'ordine, che non ha molto a che vedere
con l'amore. Amare qualcuno per compassione significa non amarlo veramente.
Nelle
lingue che formano la parola compassione non dalla radice “sofferenza” (passio) bensì dal sostantivo
“sentimento”, la parola viene usata con un significato quasi identico, ma non
si può dire che indichi un sentimento cattivo o mediocre. La forza nascosta
della sua etimologia bagna la parola di una luce diversa e le dà un senso più
ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere insieme a qualcuno la
sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento;
gioia, angoscia, felicità, dolore.
Questa
compassione (nel senso di soucit,
wspòtczucie, Mitgefühl, medkänsla) designa quindi la capacità massima di immaginazione
affettiva, l'arte della telepatia delle emozioni. Nella gerarchia dei
sentimento è il sentimento supremo.
Quando Tereza aveva sognato di infilarsi gli aghi sotto le unghie,
si era tradita, rivelando così a Tomáš di aver frugato di nascosto nei suoi
cassetti. Se glielo avesse fatto un'altra donna, lui non le avrebbe mai più
rivolto la parola. Tereza lo sapeva e perciò gli aveva detto: “Cacciami via!”.
Ma lui non solo non l'aveva cacciata via, ma le aveva preso la mano e le aveva
baciato la punta delle dita, perché in quell'istante sentiva lui stesso il
dolore sotto le unghie di lei, come se i nervi delle dita di Tereza fossero
collegati direttamente al suo cervello.
Chi non possiede il dono diabolico della compassione
(co-sentimento), non può che condannare freddamente il comportamento di Tereza,
perché la vita privata dell'altro è sacra e i cassetti con la sua
corrispondenza intima non si aprono. Ma dal momento che la compassione era
diventata il destino (o la maledizione) di Tomáš, gli sembrava di essere stato
lui stesso a inginocchiarsi davanti al cassetto aperto della scrivania e a non
poter distogliere
gli occhi dalle frasi scritte da Sabina. Egli capiva Tereza e non solo era
incapace di arrabbiarsi con lei, ma le voleva ancor più bene.
♦ ♦ ♦
Sabina disse: “Quando ti guardo, ho la sensazione che tu ti stia
trasformando nell'eterno tema dei miei quadri. L'incontro di due mondi. Una
doppia esposizione. Dietro i contorni del Tomáš-libertino traspare il viso
incredibile dell'innamorato romantico. Oppure il contrario: attraverso la
figura del Tristano che pensa solo alla sua Tereza, si vede il bel mondo
tradito del libertino”.
♦ ♦ ♦
Tomáš sposò Tereza e le procurò un cucciolo. Karenin.
Ma nemmeno con l'aiuto di Karenin riuscì a farla felice.
Tereza voleva andare via
da Praga: prima di allora non era mai stata felice.
Chi desidera abbandonare
il posto dove vive non è felice. Per questo Tomáš accettò il desiderio di
Tereza di emigrare come un colpevole accetta la sentenza. Vi si sottomise e un
giorno si ritrovò con Tereza e Karenin nella più grande città della Svizzera.
Tereza e Sabina rappresentavano i due poli della sua vita, due
poli lontani, inconciliabili, eppure entrambi belli.
Ma appunto perché lui portava dovunque con sé il suo sistema di vita,
come un'appendice del suo corpo, Tereza continuava a fare gli stessi sogni.
Erano a Zurigo da sei o sette mesi, quando lui ritornò a casa una
sera tardi e trovò sul tavolo una lettera. Tereza gli annunciava che era
partita per Praga. Era partita perché non aveva la forza di vivere all'estero.
Sapeva che lì sarebbe dovuta essere un appoggio per Tomáš, ma
sapeva anche di non esserne capace. Aveva creduto ingenuamente che all'estero
sarebbe cambiata. Si era illusa che sarebbe diventata adulta, saggia, forte, ma
si era sopravvalutata. Per lui è una zavorra, e non vuole esserlo. Vuole trarne
le conseguenze prima che sia troppo tardi.
La partenza di lei è incredibilmente definitiva.
Un giorno Tereza era venuta da lui non invitata. Un giorno, allo
stesso modo, era andata via. Era arrivata con una valigia pesante. Con una
valigia pesante era partita.
Cominciò a passeggiare per le strade pieno di una malinconia che
diventava sempre più bella. Aveva dietro le spalle sette anni di vita passati
con Tereza e adesso si rendeva conto che quegli anni erano più belli nel
ricordo che non quando li aveva vissuti.
L'amore fra lui e Tereza era stato bello ma anche faticoso: aveva
dovuto sempre nascondere qualcosa, mascherare, fingere, riparare, tirarle su il
morale, consolarla, dimostrarle ininterrottamente il proprio amore, subire le
accuse della gelosia, del suo dolore, dei suoi sogni, sentirsi colpevole,
giustificarsi e scusarsi. Ora, la fatica era scomparsa e rimaneva sola la
bellezza.
Per sette anni aveva vissuto legato a lei e ogni suo passo era
stato eseguito dai suoi occhi. Era come se lei gli avesse legato alla caviglia
una palla di ferro. Ora il suo passo era tutt'a un tratto più leggero. Quasi si
librava nell'aria. Era entrato nello spazio magico di Parmenide: assaporava la
dolce leggerezza dell'essere.
Sentiva che, se avesse incontrato una qualsiasi donna, il ricordo
di Tereza sarebbe diventato subito insopportabilmente doloroso.
Quella strana fascinazione malinconica durò fino alla Domenica
sera. Il Lunedì ogni cosa cambiò. Tereza fece irruzione nella sua mente:
sentiva il suo stato d'animo mentre gli scriveva la lettera d'addio; sentiva
tremare le sue mani; l'immaginava mentre girava la chiave nella serratura del
loro appartamento praghese e sentiva nel proprio cuore desolazione.
In quei due bei giorni di malinconia la sua compassione (questa
maledizione della telepatia sentimentale) si era riposata. La compassione
dormiva come dorme un minatore la Domenica, dopo una settimana di duro lavoro,
per poter scendere giù di nuovo il Lunedì.
Si ripeteva dentro di sé: Non pensare a lei! Non pensare a lei! Si
diceva: Proprio perché sono malato di compassione è un bene che lei sia partita
e che non la riveda più. Devo liberarmi non da lei ma dalla mia compassione, da
questa malattia che prima non conoscevo e di cui lei mi ha inoculato il
bacillo.
Il sabato e la domenica aveva sentito la dolce leggerezza
dell'essere avvicinarglisi dal profondo dell'avvenire.
Il Lunedì si sentì oppresso da una pesantezza quale fino ad allora
non aveva mai conosciuto. Tutte le tonnellate di ferro dei carri armati russi
non erano nulla al confronto di quel peso.
Non c'è
nulla di più pesante della compassione.
Nemmeno il
nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro,
verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall'immaginazione,
prolungato in centinaia di echi.
Si ripeteva che non doveva arrendersi alla compassione, e la
compassione lo ascoltava lo ascoltava a testa bassa, come se si sentisse
colpevole. La compassione sapeva di abusare dei propri diritti, ma si ostinava
in silenzio.
Tomáš si strinse nelle spalle e disse: “Es muss sein. Es muss
sein”.
Era un allusione. L'ultimo movimento dell'ultimo quartetto di
Beethoven è scritto su questi due motivi:
Muss es sein? Es muss sein! Es muss sein! (Deve essere? Deve essere! Deve essere!).
L'allusione a Beethoven era in realtà per Tomáš un modo per
ritornare a Tereza, perché proprio lei l'aveva spinto a comprare i dischi con i
quartetti e le sonate di Beethoven.
A
differenza di Parmenide, per Beethoven la pesantezza era a quanto pare qualcosa
di positivo. “Der schwer gefasste Entschluss”, la grave risoluzione è unita con
la voce del Destino (“Es muss sein!”); la pesantezza, la necessità e il valore
sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è
pesante, solo ciò che pesa ha valore.
Questa
convinzione è nata dalla musica di Beethoven e, benché sia possibile (per non
dire probabile) che la responsabilità di essa ricada più sugli esegeti di
Beethoven che sul compositore stesso, oggi la condividiamo più o meno tutti: la
grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta
celeste. L'eroe beethoveniano è un sollevatore di pesi metafisici.
“Es muss sein” si ripeteva Tomáš dentro di sé, ma poi cominciò a
dubitarne: doveva davvero essere così?
Ma per quanto tempo ancora dovrà essere torturato dalla
compassione? Tutta la vita? O tutto un anno? O un mese? O soltanto una
settimana?
Come poteva saperlo? Come poteva verificarlo?
Qualsiasi studente nell'ora di fisica può provare con esperimenti
l'esattezza di un'ipotesi scientifica. L'uomo, invece, vivendo una sola vita,
non ha alcuna possibilità di verificare un'ipotesi mediante un esperimento, e
perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento.
Tomáš si era disabituato a quel rumore e non riusciva a prendere
sonno.
Rigirandosi accanto a Tereza addormentata, si ricordò di quello
che lei gli aveva detto anni prima durante una conversazione senza importanza.
Stavano parlando di un amico di Tomáš, e lei aveva dichiarato: “Se non avessi
incontrato te, mi sarei certamente innamorata di lui”.
Già allora quelle parole avevano messo addosso a Tomáš una strana
malinconia. Si era infatti reso conto all'improvviso che era soltanto un caso
se Tereza amava lui e non l'amico. E che, oltre al suo amore realizzato per Tomáš,
esisteva nel regno delle possibilità un numero infinito di amori non realizzati
per altri uomini.
Tutti noi consideriamo impensabile che l'amore
della nostra vita possa essere qualcosa di leggero, qualcosa che non ha peso
riteniamo che il nostro amore sia qualcosa che doveva necessariamente essere;
che senza di esso la nostra vita non sarebbe stata la nostra vita. Ci sembra
che Beethoven, in persona, suoni al nostro grande amore il suo “Es muss sein!”.
Tomáš ripensava ora a quell'osservazione di Tereza
sull'amico, e constatò che dalla storia d'amore della sua vita non risuonava
nessun “Es muss sein!”, bensì un “Es könnte auch anders sein”: poteva benissimo
essere altrimenti.
Erano stati dunque
necessari dei casi fortuiti per spingere Tomáš verso Tereza, come se lui, da
solo, non ne avesse avuto voglia.
PARTE SECONDA
L'ANIMA E IL
CORPO
Sarebbe stupido da parte
dell'autore cercare di convincere il lettore che i suoi personaggi sono
realmente esistiti.
Da quando l'uomo sa nominare, le contingenze lo
preoccupano meno.
La dualità di corpo e anima si è avviluppata in
una terminologia scientifica come di un pregiudizio fuori moda.
Ma basta innamorarsi
follemente, perché l'unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell'età
della scienza, svanisca di colpo.
♦ ♦ ♦
Lei cercava di vedere se
stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo
specchio.
Quello che l'attirava
verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio
io.
Si guardava a lungo e a
volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si
guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare
la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei
stessa.
Non solo assomigliava
fisicamente alla madre, ma a volte ho l'impressione che la sua vita non sia
stata che un prolungamento della vita della madre, un po' come la corsa di una
palla sul biliardo è il prolungamento del movimento del braccio del giocatore.
La madre di Tereza allora assomigliava tutta a una
madonna di Raffaello.
Quando giunse il tempo di
sposarsi, aveva nove pretendenti. Erano tutti inginocchiati in cerchio attorno
a lei. Lei stava al centro come una principessa, e non sapeva chi scegliere:
uno era più bello, un altro più spiritoso, il terzo più ricco, il quarto più
sportivo, il quinto era di famigli migliore, il sesto recitava versi, il
settimo viaggiava dappertutto, l'ottavo suonava il violino e il nono era il più
virile degli uomini, Tutti, però, erano inginocchiati allo stesso modo.
Poi si guardò di nuovo
allo specchio e scoprì di essere vecchia.
Quando ebbe constatato di
aver perso ogni cosa, cercò il colpevole. Colpevoli erano tutti.
L'unica persona che le
appartenesse e non potesse sfuggirle, l'ostaggio che poteva pagare per tutti
gli altri, era Tereza.
La madre le spiegava
continuamente che essere madre significava sacrificare ogni cosa. Le sue parole
suonavano convincenti perché dietro c'era l'esperienza di una donna che aveva
perso ogni cosa a causa della figlia. Tereza ascolta e crede che il valore
supremo della vita sia la maternità, e che la maternità sia un grosso
sacrificio. E se la maternità è l'incarnazione del Sacrificio, allora il
destino di figlia è la Colpa che non si potrà mai espiare.
La madre l'aveva tolta dal liceo a quindici anni e
da allora lei lavorava come cameriera e tutto ciò che guadagnava glielo
consegnava. Era disposta a tutto per meritare il suo amore. Badava alla casa,
si occupava dei fratelli e delle sorelle, passava tutte le Domeniche a lavare e
strofinare. Era un peccato perché al liceo era la più dotata della classe.
Avrebbe voluto arrivare in alto, ma in quella cittadina non esisteva per lei
alcuna possibilità. Lavava la biancheria con un libro e sul libro cadevano
gocce d'acqua.
Nella madre l'odio verso
la figlia era più forte della gelosia per il marito. La colpa della figlia era
infinita e includeva anche i tradimenti del marito.
♦ ♦ ♦
Il suo stato di estraneo
lo elevava al di sopra degli altri.
E qualcos'altro elevava
Tomáš: teneva sul tavolo un libro aperto. In quel bar nessuno aveva mai aperto
un libro sul tavolo. Un libro era per Tereza il segno di riconoscimento di una
fratellanza segreta. Contro il mondo della volgarità che la circondava, essa
aveva infatti un’unica difesa: i libri che prendeva in prestito alla biblioteca
comunale; soprattutto i romanzi: ne aveva letti un'infinità, da Fielding a
Thomas Mann.
Le offrivano la possibilità
di una fuga immaginaria da quella vita che non le dava alcuna soddisfazione, ma avevano significato
per lei anche in quanto oggetti: le piaceva passeggiare per strada con dei
libri sotto il braccio. Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio
rappresentava per un dandy del secolo scorso. La distinguevano dagli altri.
(Il paragone tra il libro e il bastone da
passeggio del dandy non è del tutto preciso. Il bastone non serviva soltanto a
distinguere il dandy, lo rendeva anche moderno e alla moda. Il libro
distingueva Tereza, ma la rendeva antiquata. Naturalmente, lei era troppo
giovane per potersi accorgere della sua aria antiquata.
I giovani che le passavano
accanto con le loro rumorose radioline le sembravano stupidi).
Tomáš fu preso da una sensazione di malessere al
pensiero che il suo incontro con Tereza fosse stato determinato da improbabili
coincidenze.
Ma non è invece il giusto
contrario, che un avvenimento è tanto più significativo e privilegiato quanti
più casi fortuiti intervengono a determinarlo?
Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che
avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è
muto. Soltanto il caso ci parla. Cerchiamo di leggervi dentro come gli zingari leggono
le immagini formate dai fondi del caffè in una tazzina.
Tomáš apparve a Tereza nel suo ristorante come il
caso assoluto. Sedeva a un tavolo, davanti a un libro aperto. Alzò gli occhi su
Tereza e sorrise: “Un cognac”.
In quel momento la radio
suonava della musica. Tereza andò al bancone a prendere il cognac e girò la
manopola dell'apparecchio per alzare il volume. Aveva riconosciuto Beethoven.
Lo conosceva da quella volta che nella sua cittadina era arrivato un quartetto
di Praga. Tereza (che, come sappiamo, agognava a qualcosa di “più alto”) era
andata al concerto.
Mentre portava dal bancone il cognac per Tomáš,
cercava di leggere in quella coincidenza: com'era possibile che, proprio mentre
stava portando un cognac a quell'uomo sconosciuto che le piaceva, sentisse
Beethoven?
Non certo la necessità,
bensì il caso è pieno di magia. Se l'amore deve essere indimenticabile, fin dal
primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze, come gli uccelli sulle
spalle di Francesco d'Assisi.
La chiamò per pagare. Aveva chiuso il libro (segno
di riconoscimento della confraternita segreta) e lei aveva voglia di
domandargli che cosa stesse leggendo.
“Lo può mettere sul mio conto?” chiese lui.
“Certo” rispose. “Qual'è il suo numero?”.
Lui le mostrò la chiave alla quale era legata una
tavoletta di legno con su disegnato un sei rosso.
“È strano,” gli disse lei “il numero sei”.
“Cosa c'è di strano?” chiese lui.
Si era ricordata che la casa dove aveva vissuto a
Praga coi genitori, prima che si separassero, era al numero sei. Però disse
qualcos’altro (e noi possiamo apprezzare la sua astuzia): “Lei ha la camera
numero sei e io alle sei smetto di lavorare”,
“E io ho il treno alle sette” disse lo
sconosciuto.
Lei non seppe cosa
rispondere, gli diede il conto per farglielo firmare e lo portò alla réception.
Quando finì di lavorare, lo straniero non sedeva più al tavolo. Aveva capito il
suo discreto messaggio? Uscì dal ristorante agitata.
Lui era seduto su una
panchina gialla da dove di poteva vedere l’ingresso del ristorante. Proprio su
quella stessa panchina si era seduta lei il giorno prima con un libro in
grembo! In quell’istante capì (gli uccelli delle coincidenze si erano posati
sulle sue spalle) che quello sconosciuto le era destinato. Lui la chiamò, la invitò
a sederglisi accanto. (L’equipaggio della sua anima si precipitò sul ponte di
coperta del suo corpo). Poi lo accompagnò alla stazione e lui, quando si
salutarono, le diede il suo biglietto da visita col numero di telefono: “Nel
caso dovesse venire una volta a Praga...”.
Molto più del biglietto da visita che lui le ha dato
all’ultimo momento, è stato il richiamo di quelle coincidenze a darle il
coraggio di andar via di casa e di cambiare, a mettere in moto il suo amore e a
diventare fonte di un’energia che essa non esaurirà fino alla fine della sua
vita.
La nostra vita quotidiana è bombardata da coincidenze o, per
meglio dire, da incontri fortuiti tra le persone e gli avvenimenti chiamati
coincidenze. Una co-incidenza significa che due avvenimenti inattesi avvengono
contemporaneamente, si incontrano: Tomáš compare nel ristorante proprio mentre
la radio suona Beethoven. La stragrande maggioranza di queste coincidenze passa
del tutto inosservata.
L’amore nascente ha acceso
in lei il senso della bellezza, e quella musica lei non la dimenticherà più.
Ogni volta che la sentirà sarà commossa. Tutto ciò che accadrà intorno a lei in
quell’istante, apparirà nell’alone di quella musica e sarà bello.
All’inizio del romanzo che
Tereza teneva sotto il braccio quando era arrivata da Tomáš, Anna incontra
Vronskij in strane circostanze. Sono sul marciapiede di una stazione dove poco
prima qualcuno è finito sotto un treno. Alla fine del romanzo sarà Anna a
gettarsi sotto il treno. Questa composizione simmetrica, nella quale un
identico motivo appare all’inizio e alla fine, può sembrarvi molto
“romanzesca”. Sì, sono d’accordo, ma a condizione che la parola “romanzesca”
non la intendiate come “inventata”, “artificiale”, “diversa dalla vita”. Perché
proprio in questo modo sono costruite le vite umane.
Sono costruite come una
composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un
avvenimento casuale (la musica di Beethoven, una morte alla stazione) in un
motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna,
lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i
temi della sua sonata. Anna avrebbe potuto togliersi la vita in maniera
diversa. Ma il motivo della stazione e della morte, quel motivo indimenticabile
legato alla nascita dell’amore, nel momento della disperazione l’aveva attratta
con la sua cupa bellezza. L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo
le leggi della bellezza persino nei momenti di più profondo smarrimento.
Non si può quindi rimproverare al romanzo di essere
affascinato dai misteriosi incontri di coincidenze, ma si può a ragione
rimproverare all’uomo di essere cieco davanti a simili coincidenze nella vita
di ogni giorno, e di privare così la propria vita della sua dimensione di
bellezza.
Incoraggiata dalle
coincidenze, senza dir nulla alla madre si prese una settimana di ferie e salì
sul treno.
Ormai non si poteva più
tornare indietro. Gli telefonò dalla stazione e, quando lui aprì la porta, si
vergognò.
Temette sulle prime che
lui l’avrebbe cacciata via, ma lui invece l’abbracciò. Gli fu riconoscente, e
lo baciò con passione, gli occhi velati. Non passò nemmeno un minuto che già
facevano l’amore.
Venne poi una seconda volta con una pesante valigia
nella quale aveva infilato tutte le sue cose, decisa a non tornare mai più
nella piccola città. Lui la invitò a casa sua per la sera del giorno dopo.
Passò la notte in un albergo. Il mattino seguente portò la valigia al deposito
bagagli della stazione, e vagabondò tutto il giorno per Praga con Anna
Karenina sotto il braccio. La sera suonò il campanello, lui aprì la porta e
lei non lasciò il libro che teneva in mano, come se fosse il biglietto di
ingresso ne mondo di Tomáš. Si rendeva conto di non avere che quell’unico
misero lasciapassare e le venne da piangere. Per non piangere fu loquace, parlò
a voce alta, rise. Ma anche questa volta aveva appena passata la soglia che lui
la prese tra le braccia e fecero l’amore. Entrò in una nebbia nella quale non
si vedeva nulla e si sentiva soltanto il suo grido.
Quel grido non era un’espressione di sensualità.
La sensualità è la
mobilitazione massima dei sensi: si osserva intensamente l’altro e si ascolta
ogni suono.
Il grido di Tereza voleva invece oscurare i sensi
perché non vedessero e non sentissero. Ciò che gridava in lei era l’ingenuo
idealismo del suo amore che voleva essere abolizione di tutti i contrasti, abolizione della dualità di anima e corpo, e
forse anche abolizione del tempo.
Aveva gli occhi chiusi?
No, ma i suoi occhi non guardavano nulla, fissavano il vuoto del soffitto.
Quando il grido tacque, si
addormentò accanto a lui, e gli tenne la mano per tutta la notte.
Già da quando aveva otto anni si addormentava stringendosi una
mano con l’altra e immaginandosi di tenere in quel modo l’uomo che amava, l’uomo
della sua vita. Se, quindi, nel sonno stringeva la mano di Tomáš con tanta
caparbietà, lo possiamo capire: era dall’infanzia che ci si preparava e ci si
allenava.
Una ragazza che, invece di farsi strada “verso l’alto”, è
costretta a portare birra agli ubriachi accumula dentro di sé una grossa
riserva di vitalità inimmaginabile per quelli che studiano all’università o
sbadigliano sui libri. Tereza ne aveva letti più di loro, sapeva più cose di
loro sulla vita, ma non ne sarà mai cosciente. Ciò che distingue una persona
che ha studiato da un autodidatta non è la quantità di conoscenza, ma il grado
di vitalità e di coscienza di sé. Lo slancio col quale Tereza, una volta a
Praga, si gettò nella vita era allo stesso tempo vorace e fragile. Come se si
aspettasse che un giorno o l’altro qualcuno le dicesse: “Questo non è il tuo
posto. Tornatene da dove sei venuta!”.
♦ ♦ ♦
Marciava nuda attorno alla piscina insieme a una
moltitudine di altre donne nude, Tomáš stava in alto con un cesto che pendeva
dalla volta, gridava contro di loro, le obbligava a cantare e fare flessioni.
Se una di loro faceva male una flessione, lui la uccideva.
Voglio tornare ancora a
quel sogno: l’orrore che ispirava non iniziava nel momento in cui Tomáš sparava
il primo colpo. Il sogno era orribile fin dall’inizio. Camminare nuda a passo
di marcia insieme ad altre donne nude era per Tereza l’immagine stessa dell’orrore.
Fin dall’infanzia, la nudità era stata per Tereza
il segno dell’uniformità obbligatoria del campo di concentramento; un segno di
umiliazione.
E c’era un altro orrore
all’inizio del sogno: tutte le donne dovevano cantare! Non soltanto i loro corpi
erano uguali, ugualmente privi di valore, non soltanto erano semplici
meccanismi sonori senz’anima, ma le donne erano contente! Era la gioiosa
solidarietà di esseri senz’anima! Le donne erano felici di essersi liberate
della zavorra dell’anima, di questo ridicolo orgoglio, di questa illusione
dell’unicità, e di essere tutte uguali fra loro. Tereza cantava insieme a loro
ma senza gioia. Cantava perché aveva paura che se non avesse cantato le donne
l’avrebbero uccisa.
E perché era proprio Tomáš a sparare, e perché
voleva sparare anche a Tereza?
Perché era stato proprio
lui a mandare Tereza tra di loro. È questo ciò che il sogno voleva rivelare a
Tomáš, dal momento che Tereza stessa non era capace di dirlo. Era andata da lui
per fuggire dal mondo della madre dove tutti i corpi erano uguali. Era andata
da lui perché il suo corpo diventasse unico, insostituibile. E lui adesso aveva
tracciato un segno di uguaglianza fra lei e le altre: le baciava tutte allo
stesso modo, le accarezzava allo stesso modo, non faceva nessuna,
proprio nessuna differenza
tra il corpo di Tereza e gli altri corpi. L’aveva nuovamente mandata nel mondo
dal quale lei aveva voluto fuggire. L’aveva mandata a marciare nuda con altre
donne nude.
In quei sogni non c’era
nulla da decifrare. L’accusa che essi rivolgevano a Tomáš era così chiara che
lui non poteva far altro che star zitto e carezzare le mani di Tereza a testa
bassa.
Quei sogni non erano solo
eloquenti, erano anche belli. Questo è un aspetto che è sfuggito a Freud nella
sua teoria dei sogni. Il sogno non è soltanto una comunicazione (magari una
comunicazione cifrata), ma anche un’attività estetica, un gioco dell’immaginazione,
che è di per sé un valore. Il sogno è la prova che immaginare, sognare ciò che
non è accaduto, è tra i più profondi bisogni dell’uomo. Qui sta la radice del
perfido pericolo del sogno. Se il sogno non fosse bello, sarebbe possibile
dimenticarlo in fretta.
Tereza, invece, tornava continuamente ai propri
sogni, se li ripeteva dentro di sé, li trasformava in leggende. Tomáš viveva
sotto l’incantesimo ipnotico della torturante bellezza dei sogni di Tereza.
“Tereza, Tereza cara, dove
sei finita? Ogni giorno sogni della morte come se davvero te ne volessi
andare...” le disse una volta, mentre sedevano l’uno di fronte all’altra in un
bar.
Chi tende continuamente “verso l’alto” deve aspettarsi prima o
poi d’essere colto dalla vertigine. Che cos’è la vertigine? Paura di cadere? Ma
allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una
sicura ringhiera? La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira,
che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura.
♦ ♦ ♦
È vero che fino a quando
non era andata via da casa Tereza aveva lottato con la madre, ma non dobbiamo
dimenticare che intanto l’amava di un amore infelice. Per la madre avrebbe
fatto qualsiasi cosa, se lei glielo avesse chiesto con la voce dell’amore. Era
solo perché quella voce non l’aveva mai sentita che aveva trovato la forza di
andarsene.
Quando la madre capì che
la sua aggressività aveva perso potere sulla figlia, prese a scriverle a Praga
lettere lacrimose.
Diceva che Tereza era l’unica persona che le
restasse al mondo. Tereza credette di sentire finalmente la voce di quell’amore
materno che aveva desiderato per vent’anni, ed ebbe voglia di tornare. Tanto
più l’ebbe perché si sentiva debole. I tradimenti di Tomáš le avevano rivelato
all’improvviso la sua impotenza e da quella sensazione di impotenza nasceva la
vertigine, l’immenso desiderio di cadere.
Una volta la madre le telefonò. Disse che aveva un
cancro. Le restavano al massimo pochi mesi di vita.
Quella notizia trasformò in rivolta la
disperazione di Tereza per i tradimenti di Tomáš. Si rimproverava di aver
tradito la madre per un uomo che non l’amava. Era pronta a dimenticare tutto
ciò che la madre le aveva fatto soffrire. Adesso riusciva a capirla. In fondo,
si trovavano entrambe nella stessa situazione: la madre amava il patrigno di
Tereza come Tereza amava Tomáš, e il patrigno faceva soffrire la madre con i
suoi tradimenti così come Tomáš tormentava Tereza. Se la madre era stata
cattiva con lei, era soltanto perché aveva sofferto troppo.
Parlò a Tomáš della malattia della madre e gli
annunciò che avrebbe preso una settimana di ferie per andare a trovarla. La sua
voce era piena di sfida.
Come presentendo che ad
attivarla verso la madre era la vertigine, Tomáš era contrario al viaggio.
Telefonò all’ospedale della piccola città. In Boemia gli esami oncologici
vengono accuratamente registrati, e a Tomáš fu facile accertare che la madre di
Tereza non aveva alcun sospetto di cancro e che anzi nell’ultimo anno non era
mai stata dal medico.
Tereza diede ascolto a Tomáš e non andò dalla
madre. Ma quello stesso giorno cadde per strada e si ferì un ginocchio. Il suo
passo diventò incerto, cadeva ogni giorno, o andava a sbattere contro qualcosa
o, quantomeno, lasciava cadere quello che teneva in mano.
C’era in lei un irresistibile desiderio di cadere.
Viveva in una vertigine continua.
Chi cade dice: “Alzami!”.
Tomáš l’alzava, pazientemente.
♦ ♦ ♦
Quel quadro mi si era
rovinato. Ci era gocciolato sopra del rosso. All’inizio mi infuriai, ma poi
quella macchia cominciò a piacermi perché sembrava una crepa.
Davanti c’era sempre un
mondo perfettamente realistico e un po’ più in là, come dietro alla tela
strappata di uno scenario, si vedeva qualcos’altro, qualcosa di misterioso o di
astratto”.
Tacque, poi aggiunse:
“Davanti c’era la menzogna comprensibile, e dietro, l’incomprensibile verità.
Tereza ascoltava ancora
con quell’attenzione incredibile che pochi professori hanno conosciuto sul viso
di uno studente, e
constatava che davvero tutti i quadri di Sabina, sia quelli vecchi che quelli
attuali, parlavano sempre della stessa cosa, erano tutti l’incontro simultaneo
di due temi, di due mondi, erano come fotografie risultate da una doppia
esposizione. Un paesaggio oltre il quale si intravedeva una vecchia lampada da
tavolo accesa.
Tutti i precedenti crimini
che sono stati compiuti al riparo di un’ombra discreta e rimasti nella memoria
senza documenti fotografici sono in fondo, come qualcosa di indimostrabile che,
prima o poi, sarà fatto passare per una mistificazione.
♦ ♦ ♦
Tutto ciò che è normale è
bello!
♦ ♦ ♦
“Intende dire che lei è felice?”.
Ribatté: “Certo che sono felice!”.
Lei disse: “Una donna che parla così
dev’essere...” e non volle terminare il proprio pensiero.
“Vuol dire: una donna molto limitata”.
Lei si controllò e disse: “Non limitata.
Anacronistica”.
Disse pensosa: “Ha ragione. È precisamente quello
che dice di me mio marito”.
Ma Tomáš stava giornate intere all’ospedale e lei
era a casa da sola. Era già tanto avere Karenin e poter fare con lui lunghe
passeggiate! Quando tornava a casa, si sedeva davanti a un manuale di inglese o
di francese. Ma era triste e si concentrava male.
♦ ♦ ♦
La parola debolezza non
suonava più come una condanna. Di fronte a una forza maggiore si è sempre
deboli.
Quella debolezza
all’improvviso l’attirava. Si rendeva conto di appartenere ai deboli.
Era attratta da quella
debolezza come da una vertigine. Ne era attratta perché si sentiva lei stessa
debole.
Ricominciò a essere gelosa e ripresero a tremarle le mani. Tomáš se ne accorse
e fece un gesto familiare: gliele prese tra le sue, e gliele strinse per
calmarla. Lei si divincolò.
“Cos’hai?” disse lui.
“Niente”.
“Cosa vuoi che faccia per te?”.
“Voglio che tu sia vecchio. Più vecchio di dieci
anni. Di vent’anni!”.
Con questo gli voleva dire: Voglio che tu sia
debole. Che tu sia debole quanto me.
Dice tra sé: Fin dall’inizio il loro incontro era
fondato su un errore. L’Anna Karenina che lei teneva sotto il braccio
era la carta d’identità falsa con la quale aveva ingannato Tomáš. Si erano
creati a vicenda un inferno, pur volendosi bene. Il fatto che si volevano bene
era la dimostrazione che l’errore non era in loro stessi, nel loro
comportamento o nel loro sentimento labile, bensì nella loro incompatibilità,
poiché lui era forte e lei debole. Ma è proprio il debole che deve saper essere
forte e andar via, quando il forte è troppo debole per poter dare del male al
debole.
Desiderava fare qualcosa
che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente
tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine. L’ottenebrante,
irresistibile desiderio di cadere.
La vertigine potremmo
anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria
debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca
della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in
mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in
basso.
Il suo primo pensiero fu: lui era tornato a causa
sua. A causa sua aveva mutato il proprio destino. Ora non era più lui a essere
responsabile di lei, ora era lei responsabile di lui.
Quella responsabilità le sembrava superiore alle
sue forze.
Ma poi all’improvviso si ricordò che la sera
prima, un attimo dopo che lui era apparso sulla porta dell’appartamento, a una
chiesa di Praga erano battute le sei. La prima volta che si erano incontrati,
lei aveva finito di lavorare alle sei. Se lo vedeva davanti, seduto sulla
panchina gialla e sentiva i rintocchi del campanile.
No, non era superstizione, era il senso della
bellezza che liberava di colpo dall’angoscia e la riempiva di un nuovo
desiderio di vivere. Ancora una volta gli uccelli delle coincidenze si erano
posati sulle sue spalle. Aveva le lacrime agli occhi ed era immensamente felice
di sentirlo respirare accanto a sé.
PARTE TERZA
LE PAROLE FRAINTESE
Ginevra è una città di getti d’acqua e fontane, e
di parchi con chioschi dove un tempo suonavano le orchestrine.
Il suo amore per la donna della quale era
innamorato da alcuni mesi era per lui così prezioso che cercava di crearle
nella propria vita uno spazio autonomo, un territorio inaccessibile di purezza.
“Tra dieci giorni, se non hai niente in contrario,
potremmo andare a Palermo” le disse.
“Preferisco Ginevra” rispose lei. Stava in piedi
davanti al cavalletto ed esaminava una tela iniziata.
“Come puoi vivere senza conoscere Palermo?” cercò
di scherzare Franz.
“Io Palermo la conosco” disse lei.
“Com’è possibile?” chiese lui, quasi con gelosia.
“Un’amica mi ha mandato una cartolina da lì. L’ho
incollata in bagno con lo scotch. Non te n’eri accorto?”.
Poi aggiunse: “C’era un poeta, all’inizio del secolo.
Era già molto vecchio e il suo segretario lo accompagnava a fare le
passeggiate. "Maestro," gli dice un giorno "guardi lassù! Oggi
sopra la città vola il primo aeroplano!"
L’affermazione “Preferisco Ginevra” aveva quindi
per lui un chiaro significato: l’amante non lo desiderava più come amante.
Come spiegare questa sua incertezza nei confronti
di lei? Non ne aveva alcun motivo! Anzi, era stata lei quella che aveva fatto
le prime avances poco dopo che si erano conosciuti.
Era un bell’uomo; era all’apice della carriera
scientifica, era addirittura temuto dai propri colleghi per l’orgoglio e la
testardaggine che dimostrava nelle discussioni fra specialisti. Perché, allora,
si ripeteva ogni giorno che la sua amante voleva lasciarlo?
Non riesco a spiegarmelo
se non col fatto che per lui l’amore non era un prolungamento della sua vita
pubblica bensì il suo polo opposto. Significava per lui il desiderio di darsi
in balìa all’altro. Chi si dà all’altro come un soldato si dà prigioniero, deve
prima consegnare tutte le armi. E così privato di ogni difesa, non può fare a meno di
chiedersi quando arriverà il colpo. Posso dunque affermare che per Franz
l’amore era una continua attesa di un colpo imminente.
Mentre lui si abbandonava alla propria angoscia,
la sua amante aveva posato il pennello ed era andata nella stanza accanto.
Tornò con una bottiglia di vino. Senza parlare l’aprì e riempì due bicchieri.
A lui cadde un peso dal cuore e si sentì ridicolo.
Le parole “Preferisco Ginevra” non significavano che lei non volesse più fare
l’amore con lui, ma esattamente il contrario, che ormai non la interessava più
limitare i momenti d’amore soltanto alle città straniere.
I simboli, come sappiamo,
sono intoccabili.
♦ ♦ ♦
Il loro incontro non era
la continuazione dei loro incontri bensì una ricapitolazione del tempo, un
canto al loro passato comune, la somma sentimentale di una storia sentimentale
che si perdeva in lontananza.
Quell’oggetto era
diventato il tema della musicale che costituiva la sua vita. Quel tema
ritornava in continuazione, e ogni volta con un significato diverso; tutti quei
significati scorrevano attraverso l’oggetto come l’acqua nel letto di un fiume.
Potrei chiamarlo il letto del fiume di Eraclito: “Non si può entrare due volte
nello stesso fiume!”.
Quell’oggetto era il letto
nel quale vedeva scorrere ogni volta un altro fiume, un altro fiume semantico:
lo stesso oggetto risvegliava ogni volta un nuovo significato, ma insieme a
quel significato risuonavano (come un’eco, come un corteo di echi) tutti i
significati trascorsi. Ogni nuova esperienza risuonava di un’armonia sempre più
ricca.
Ora, forse, possiamo
capire meglio l’abisso che li separava: lui ascoltava con avidità la storia
della sua vita e lei, con la stessa avidità, lo ascoltava. Capivano
perfettamente il significato logico delle parole che si dicevano, ma non
sentivano il mormorio del fiume semantico che scorreva in quelle parole.
Fintanto che le persone
sono giovani e la composizione musicale della loro vita è ancora alle prime
battute, essi possono scriverla in comune e scambiarsi i temi (così come Tomáš
e Sabina si sono scambiati il tema della bombetta), ma quando si incontrano in
età più matura, la loro composizione musicale è più o meno completa, e ogni
parola, ogni oggetto, significano qualcosa di diverso nella composizione di
ciascuno.
♦ ♦ ♦
Piccolo dizionario di
parole fraintese
(prima parte)
DONNA.
Essere donna è per lei un destino che lei non si è
scelta. Ciò che non abbiamo scelto non possiamo considerarlo né un nostro
merito né un nostro fallimento.
Una volta, durante uno dei loro primi incontri,
lui le aveva detto, con una sottolineatura curiosa: “Lei è una donna”. Lei non
capiva perché lui le desse questo annuncio con la solennità di un Cristoforo
Colombo che ha appena avvistato la costa dell’America. Solo più tardi aveva
capito che la parola donna, che lui aveva pronunciato con un’enfasi
particolare, non designava per lui uno dei due sessi della specie umana, ma
rappresentava un valore. Non tutte le donne erano degne di essere chiamate
donne.
In lui era rimasto vivo l’imperativo: non farle
del male e rispettare in lei la donna.
Adorava la madre e non una qualche donna in lei. L’idea
platonica della donna e la madre erano tutt’uno.
FEDELTÀ E TRADIMENTO
La fedeltà è la prima fra
tutte le virtù, la fedeltà conferisce unità alla nostra vita, la quale
altrimenti si frantumerebbe in migliaia di impressioni fuggitive.
Vi è chi è affascinato dal tradimento e non dalla
fedeltà.
Il tradimento. Fin da piccoli il papà e il maestro
ci dicono che è la cosa peggiore che si possa immaginare. Ma che cos’è questo
tradire? Tradire significa uscire dai ranghi. Tradire significa uscire dai ranghi
e partire verso l’ignoto.
Vi è chi non conosce niente di più bello che
partire verso l’ignoto.
Esser nuovamente assaliti dal
desiderio di tradire: di tradire il proprio tradimento.
Ma se tradiamo una prima persona, tradiremo una
seconda persona ed una terza . . . ; ma non ne deriva necessariamente che ci
riconcilieremo con la prima.
Il primo tradimento è
irreparabile. Esso provoca una reazione a catena di nuovi tradimenti, ciascuno
dei quali ci allontana sempre più dal punto del tradimento originario.
È un circolo vizioso. La
gente diventa sorda perché mette la musica a volume sempre più alto. E poiché
diventa sorda, non le rimane che metterla a volume ancora più alto:
È come il circolo vizioso
dell’abitudine a mentire:
Quando si diventa
completamente sordi, si tradisce.
Non è un caso che il
tradimento risuoni nella mente come una baraonda a volumi insopportabili, la
baraonda della coscienza.
MUSICA.
Per Franz è l’arte che più
si avvicina alla bellezza dionisiaca intesa come ebbrezza. Un uomo non può essere
ebbro di un romanzo o di un quadro, ma può ubriacarsi della Nona di Beethoven,
della Sonata per due pianoforti e percussione di Bartók o di una canzone dei
Beatles. Franz non fa distinzione tra musica classica e musica leggera. Questa
distinzione gli sembra antiquata e ipocrita. Ama allo stesso modo il rock e
Mozart.
Considera la musica come una forza liberatrice:
essa lo libera dalla solitudine, dalla chiusura, dalla polvere delle
biblioteche, apre nel suo corpo una porta attraverso la quale l’anima esce nel
mondo per fraternizzare.
È un circolo vizioso. La gente diventa sorda
perché mette la musica a volume sempre più alto. E poiché diventa sorda, non le
rimane che metterla a volume ancora più alto.
“A te la musica non
piace?” chiede Franz.
“No” dice Sabina. Poi
aggiunge: “Magari, se fossi vissuta in un’altra epoca...” e pensa al tempo in
cui viveva Johann Sebastian Bach e la musica assomigliava a una rosa fiorita
sulla sconfinata landa nevosa del silenzio.
Il rumore mascherato da
musica la insegue fin dalla prima giovinezza.
“Il rumore ha un
vantaggio. Non fa sentire le parole”. Si rese conto che, dalla giovinezza, non
aveva fatto altro che parlare, scrivere, fare lezione, pensare frasi, cercare
formulazioni, correggerle, sicché alla fine nessuna parola era precisa, il loro
senso sfumava, sbiadiva, perdevano contenuto e si trasformavano in polvere, gli
faceva male alla testa, era la sua insonnia, la sua malattia. E in
quell’istante desiderò, in maniera confusa ma intensa, una musica vastissima,
il rumore assoluto, il frastuono bello e allegro che abbraccia ogni cosa, che
inonda e assorda, e nel quale scompariranno per sempre il dolore, la vanità e
la vacuità delle parole. La musica era la negazione delle frasi, la musica era
l’antiparola! Desiderava stare in un lungo abbraccio con lei, tacere, non dire
mai più una sola frase e lasciar confluire il piacere nel tumulto orgiastico
della musica. In quel beato fragore immaginario si addormentò.
LUCE E BUIO.
Vivere significa vedere.
Il vedere è limitato da due confini: la luce forte
che acceca il buio totale. È forse questo a determinare il disgusto verso
qualsiasi forma di estremismo. Gli estremi significano i confini oltre i quali
la vita termina, e la passione i confini oltre i quali la vita termina, e la
passione per l’estremismo, in arte come in politica, è un desiderio di morte
mascherato.
La parola “luce” non evoca l’immagine di un
paesaggio sul quale si posa il morbido splendore del giorno, bensì la fonte della
luce in quanto tale: il sole, una lampadina, un riflettore. A Franz vengono in
mente metafore note: il sole della verità, la luce accecante della ragione,
ecc.
Così come la luce, anche il buio lo attira.
È un buio puro, perfetto, senza pensieri e senza
visioni, è un buio senza fine, senza confini, è il buio dell’infinito che
ciascuno di noi porta dentro di sé.
Sì, se si cerca l’infinito, basta chiudere gli
occhi!.
Si allunga e si dissolve nell’infinito del proprio
buio, diventa egli stesso infinito.
Il buio non significa
l’infinito quando è espressione di un semplice dissidio con la cosa vista, la
negazione della cosa vista, il rifiuto di vedere.
♦ ♦ ♦
Il “profilo politico del cittadino” (ciò che il
cittadino dice, ciò che pensa, come si comporta, come partecipa alle riunioni.
Dal momento che ogni cosa (la vita di ogni giorno)
dipende da come il cittadino sarà valutato, chiunque deve comportarsi in modo
tale da ricevere un giudizio favorevole.
Essendo una pittrice,
Sabina aveva occhio per i visi e fin dai tempi di Praga conosceva la fisionomia
delle persone la cui passione è valutare gli altri.
Avevano tutti l’indice
leggermente più lungo del medio e lo puntavano sugli interlocutori.
Si chiese perché mai
dovesse mantenere i contatti con gli altri. Che cosa la univa a loro?
La cultura? Ma che cos’è
la cultura? La musica? Sì. Ma se non han orecchio per la musica? O forse i
grandi uomini? Nessuna di quelle persone aveva letto una sola riga dei loro
libri, ascoltato una nota delle loro composizioni.
E se ognuno di loro avesse
dovuto dire che cosa evocava in lui parole che non fossero somiglianti alla
parola lucro, ai loro occhi si sarebbero offerte immagini, disparate, prive di
qualsiasi unità.
Ciò che unisce quelle
persone è soltanto la loro sconfitta e rimproveri che si rivolgono l’un
l’altro.
La turbavano i suoi
pensieri. Sapeva di essere ingiusta. C’erano in realtà anche persone diverse
dall’uomo col lungo indice.
Il silenzio imbarazzato che aveva fatto seguito
alle sue parole non voleva affatto dire che tutti fossero contro di lei. Erano
probabilmente sorpresi da quell’odio improvviso. Ma allora perché non provava
pietà per loro? Perché non vedeva in loro delle creature commoventi e abbandonate?
Il perché noi già lo sappiamo: quando ha tradito
suo padre, la vita le si è aperta davanti come una lunga strada di tradimenti.
Non vuole stare e non starà nei ranghi! Si rifiuta di stare nei ranghi, sempre
con le stesse persone e gli stessi discorsi! Per questo la turba tanto la
propria ingiustizia. Ma non è un turbamento spiacevole, anzi, Sabina ha la
sensazione di avere appena ottenuto una vittoria e di essere applaudita da un
personaggio invisibile.
Ma quell’ebbrezza cedette ben presto all’angoscia:
Quella strada deve pur finire a un certo punto! Una volta o l’altra lei deve
smetterla con i tradimenti! Una volta o l’altra deve fermarsi!
♦ ♦ ♦
La vita tra i libri gli
pareva irreale. Desiderava fortemente la vita reale. Non si rendeva conto che
ciò che lui considerava irreale (il suo lavoro nella solitudine di uno studio o
delle biblioteche) era la sua vita reale.
♦ ♦ ♦
Lei voleva dir loro che
dietro il comunismo, dietro il fascismo, dietro tutte le occupazioni e tutte le
invasioni si nasconde un male ancora più fondamentale e universale, e che
l’immagine di quel male era per lei un corteo di gente che marcia levando il
braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe. Ma sapeva che non sarebbe
riuscita a spiegarglielo. Imbarazzata, spostò la conversazione su un altro
argomento.
LA BELLEZZA DI NEW YORK.
Franz disse: “In Europa la bellezza è sempre stata
premeditata. C’è sempre stata un’intenzione estetica e un progetto a lungo
termine; ci sono voluti decenni per costruire, secondo quel progetto, una
cattedrale gotica o una città rinascimentale. La bellezza di New York ha una
base completamente diversa. È una bellezza inintenzionale. È sorta senza
intenzione da parte dell’uomo, un po’ come una grotta di stalattiti. Forme si
trovano per caso, senza un piano, in ambienti così incredibili che di colpo
brillano di una poesia magica”.
Sabina disse: “Una bellezza inintenzionale. Sì. Si
potrebbe anche dire: la bellezza per errore. Prima di scomparire
definitivamente dal mondo, la bellezza esisterà ancora un poco per errore. La
bellezza per errore è l’ultima fase della storia della bellezza”.
E si ricordò del suo primo quadro maturo: era nato
grazie al fatto che per errore vi era gocciolato sopra del rosso. Sì, i suoi
quadri si fondavano sulla bellezza dell’errore e New York era la patria segreta
e autentica della sua pittura.
In una società ricca, la gente non è costretta a
lavorare manualmente e si dedica all’attività intellettuale. Aumentano le
università e aumentano gli studenti. Per potersi laureare, bisogna trovare
argomenti per le tesi di laurea. Gli argomenti sono una quantità infinita
perché è possibile scrivere tesi su ogni cosa la mondo.
Risme su risme di fogli scritti si accumulano
negli archivi, che sono più tristi dei cimiteri, perché non ci entra nessuno
nemmeno il giorno dei morti.
La cultura scompare
nell’abbondanza della sovrapproduzione, nella valanga dei segni, nella follia
della quantità.
♦ ♦ ♦
Non riuscivo a chiudere occhio e così leggevo
ininterrottamente, giorno e notte.
Fu lì che cominciai a dividere i libri in due
categorie: quelli per il giorno e quelli per la notte. Sul serio, ci sono libri
per il giorno e libri che si possono leggere solo di notte.
“In quale gruppo includeresti Stendhal?”.
Un critico d’arte che gli stava accanto affermò
che secondo lui Stendhal era una lettura adatta al giorno.
Scosse la testa e dichiarò col suo tono
squillante: “Ti sbagli! No, no, no, ti sbagli! Stendhal è un autore notturno!”.
LA VECCHIA CHIESA DI AMSTERDAM
C’era però qualcosa che univa il banchiere e il
povero: l’odio per la bellezza.
“Che cos’è la bellezza?”
Parole sempre uguali
ritornavano come un pellegrino che non riesce a staccare gli occhi da un
paesaggio o come un uomo che non sa dire addio alla vita.
Frammenti di Parole
preziose compongono la bellezza, parole sempre uguali, ritornavano, ma nessuno
le ha mai ascoltate e nessuno le ascolterà, per questa sordità la bellezza non
è che l’infinita vanità di parole preziose, la vanità della cultura, la vanità
dell’arte.
La bellezza è un mondo
tradito. La possiamo incontrare solo quando i persecutori l’hanno dimenticata
per errore da qualche parte. La bellezza è nascosta dietro i fondali della
parata del primo maggio. Se la vogliamo trovare dobbiamo strappare la tela dal
fondale.
FORZA.
Nei confronti delle
persone con le quali si vive, alle quali si vuol bene, la debolezza ha nome
bontà. Lui
non le darebbe mai ordini. Non è che gli manchi la sensualità. Non le
comanderebbe mai, di poggiare a terra lo specchio e di camminarci sopra nuda.
L’amore fisico è impensabile senza violenza, l’amore è lotta.
E se avesse avuto o un
uomo che le dava degli ordini? Un uomo che voleva dominarla? Quanto tempo
l’avrebbe sopportato? Nemmeno cinque minuti! Ne derivava che nessun uomo le
andava bene. Né uno forte né uno debole.
Disse: “Perché significa
rinunciare alla forza” disse piano.
VIVERE NELLA VERITÀ
Kafka
Cosa vuol dire vivere nella verità? Una
definizione negativa è facile: significa non mentire, non nascondersi, non
celare nulla.
Vivere nella verità, non
mentire né a se stessi né agli altri, è possibile soltanto a condizione di
vivere senza pubblico. Nell’istante in cui qualcuno assiste alle nostre azioni,
volenti o nolenti ci adattiamo agli occhi che ci osservano, e nulla di ciò che
facciamo ha più verità. Avere un pubblico, pensare a un pubblico, significa
vivere nella menzogna.
L’uomo che perde la propria intimità perde tutto.
Si può altrimenti intendere che nella divisione
della vita in sfera privata e sfera pubblica sia contenuta l’origine di ogni
menzogna: l’uomo è una cosa in privato e un’altra in pubblico. Per lui, “vivere
nella verità” significa abbattere la barriera tra il privato e il pubblico.
André Breton diceva di voler vivere “in una casa
di vetro” dove nulla è segreto e ognuno può guardare.
La libertà dell’uomo che
vive solo, gli aveva offerto l’aureola della seduzione. Diventò attraente per
le donne. E così, tutt’a un tratto, in uno spazio di tempo incredibilmente
breve, lo scenario della sua vita cambiò.
Non riusciva a riprendersi
dalla malinconia. Se avessero chiesto che cosa era successo, non avrebbe
trovato le parole per dirlo.
Un dramma umano si può
sempre esprimere con la metafora della pesantezza.
Ma che cos’era successo in
realtà ?
Niente.
No. Il suo non era un
dramma della pesantezza, ma della leggerezza. Sulle sue spalle non era caduto
un fardello, ma l’insostenibile leggerezza dell’essere.
Sentiva attorno a sé il vuoto della solitudine. E
se quel vuoto fosse stato allora la meta di tutti i suoi tradimenti?
La meta che l’uomo
persegue è sempre velata. La ragazza che desidera il matrimonio desidera
qualcosa di cui non sa nulla. Il giovane che brama la gloria non ha alcuna idea
di che cosa sia questa gloria. Ciò che dà un senso al nostro comportamento è
sempre qualcosa che ci è totalmente sconosciuto.
In quell’istante si era
aperto tra loro un abisso di incomprensione. Soltanto oggi, lei capisce quello
che lui voleva dire. Le dispiaceva di essere stata impaziente. Forse se fossero
rimasti insieme ancora per qualche tempo, avrebbero cominciato a capire a poco
a poco le parole che dicevano. I loro vocabolari si sarebbero pudicamente e
lentamente avvicinati l’uno all’altro come amanti molto timidi, e la musica
dell’uno avrebbe cominciato a intrecciarsi con la musica dell’altro. Ma è
troppo tardi.
Era così accaduto che lei
era scomparsa dalla sua vita senza lasciar traccia. Non era rimasta nessuna
prova tangibile del fatto che avesse passato insieme a lei l’anno più bello
della sua vita.
Non riuscì a riprendersi
da quella notizia. L’ultimo legame che la univa ancora al passato si era
spezzato.
L’insostenibile leggerezza
dell’essere, è questa la meta?
Se pubblica uno studio in qualche rivista
scientifica, la sua studentessa è la prima lettrice e vuole discuterne con lui.
Ma lui pensa a quello che direbbe Lei di quel testo. Tutto ciò che fa lo fa per
Lei e lo fa come piacerebbe a Lei.
Tra il suo amore terreno e quello ultraterreno
regna, una pace assoluta. E se l’amore ultraterreno contiene necessariamente
(in quanto ultraterreno) una forte componente di inspiegabilità e
incomprensibilità (ricordiamoci del dizionario di parole fraintese, di quel
lungo elenco di travisamenti!), il suo amore terreno si fonda invece su una
comprensione reale.
La studentessa è giovane, la composizione musicale
della sua vita è appena accennata e lei vi inserisce riconoscente motivi presi
in prestito da lui. Il suo credo è anche il suo credo. Come per lui, anche per
lei la musica è ebbrezza dionisiaca. Vivono nella verità, nulla di ciò che
fanno è segreto per gli altri.
PARTE QUARTA
L'ANIMA E IL CORPO
Il campo di concentramento
è l’eliminazione totale della vita privata.
Da allora sapeva che un campo di concentramento
non è qualcosa di straordinario, qualcosa di sensazionale, ma, al contrario,
qualcosa di dato, di fondamentale, nel quale si nasce e da dove si può evadere
soltanto a prezzo di un’enorme fatica.
L’amore e il fare l’amore
sono due cose diverse, dipendono dall’equilibrio labile tra la promessa ed il
compimento.
La gente di solito si
rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze. Traccia una linea
immaginaria sulla traiettoria del tempo, al di là della quale le sue sofferenze
di oggi cessano di esistere.
Talvolta uno sguardo
all’indietro è l’unico sollievo. Talvolta no.
Gli amori sono come gli
imperi: quando scompare l’idea su cui sono fondati, periscono anch’essi.
Voleva fermarsi sulla riva
e guardare a lungo l’acqua, perché la vista dell’acqua che scorre placa e
guarisce. Il fiume scorre da sempre e le vicende degli uomini si svolgono sulla
riva. Si svolgono per essere dimenticate il giorno dopo e perché il fiume
scorra oltre.
Guardò a lungo l’acqua,
che qui sembrava ancora più triste e più scura, e all’improvviso in mezzo al
fiume vide uno strano oggetto, qualcosa di rosso, sì, una panchina. Una
panchina di legno con le gambe di ferro, come ce ne sono a centinaia nei parchi
di Praga. Scivolava lentamente. E, dietro, un’altra panchina. E un’altra, e
un’altra ancora, e soltanto ora capisce che le panchine dei parchi si
allontanano dalla città sul filo della corrente, sono tante, aumentano sempre
di più, scivolano a fior d’acqua come in autunno le foglie che l’acqua porta
lontano dai boschi, sono rosse, sono gialle, sono azzurre.
Si girò come per chiedere
alla gente che cosa volesse dire quello spettacolo. Perché le panchine dei
parchi si allontanavano sull’acqua? Ma la gente le passava accanto con
indifferenza, a loro non importava affatto che un fiume scorresse da sempre in
mezzo alla loro effimera città.
Fissò nuovamente il fiume.
Provava una tristezza infinita. Capiva che ciò che vedeva era un addio.
Le panchine erano ormai quasi
tutte scomparse, ne vide ancora tre o quattro, le ultime ritardatarie, poi una
panchina gialla e poi ancora una, azzurra, l’ultima.
PARTE QUINTA
LA LEGGEREZZA E LA PESANTEZZA
L’immagine del trovatello
gli era divenuta cara:
La sua amata era distesa
nel suo letto persuaso dentro di sé che lei fosse un bambino deposto da
qualcuno in un cesto e inviatogli sul filo della corrente. Egli l’aveva accolta
e, standole accanto, con premura, vegliava.
♦ ♦ ♦
Chi pensa che i regimi
siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità
fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da
entusiasti, convinti di aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi
difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In
seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano
quindi degli assassini.
Coloro che venivano accusati rispondevano: Noi non
sapevamo! Siamo stati ingannati! Noi ci credevamo! Nel profondo del cuore siamo
innocenti!
La discussione si riduceva a questa domanda;
Davvero loro non sapevano? Oppure facevano solo finta di non aver saputo nulla?
E si disse che la
questione fondamentale non era: Sapevano o non sapevano?, bensì: Si è innocenti
solo per il fatto che non si sa? Un imbecille seduto sul trono è sollevato da
ogni responsabilità solo per il fatto che è un imbecille?
Sentiva le grida di coloro
che difendevano la loro purezza interiore e diceva tra sé: Per colpa della
vostra incoscienza la nostra terra ha perso, forse per secoli, la sua libertà e
voi gridate che vi sentite innocenti? Come potete ancora guardarvi intorno?
Come potete non provare raccapriccio? Siete o non siete capaci di vedere?
Fu quella la prima cosa che lo stupì: benché lui non ne avesse mai dato alcun
motivo, la gente puntava sulla sua disonestà piuttosto che sulla sua integrità.
All’improvviso si rese conto di un fatto strano. Tutti
desiderano la sua disonestà, tutti ne gioirebbero!
Gli uni sarebbero felici, perché l’inflazione di
vigliaccheria renderebbe banale il loro comportamento e restituirebbe loro
l’onore perduto.
Gli altri si sono ormai abituati a considerare il
loro onore come un privilegio speciale al quale non vogliono rinunciare.
Nutrono perciò un segreto amore per i vigliacchi: senza di essi, il loro
coraggio diventerebbe una fatica banale e inutile che non stupirebbe più
nessuno.
Non poteva sopportare quei sorrisi e gli sembrava
di vederli dappertutto, anche per strada sulla faccia degli sconosciuti. Non
riusciva a dormire. Ma come? Dà forse tanta importanza a queste persone? No. Di
loro non pensa niente di buono e si arrabbia con se stesso perché si lascia
sconvolgere a tal punto dai loro sguardi. Ciò non ha alcuna logica. Com’è
possibile che qualcuno che tiene in così poca considerazione la gente dipenda a
tal punto dalla loro opinione?
Forse la sua profonda sfiducia nei confronti degli
uomini (il suo dubbio se abbiamo o no il diritto di decidere per lui e di
giudicarlo) aveva già avuto un ruolo nella sua scelta di una professione che lo
teneva lontano dagli sguardi del pubblico. Chi sceglie, ad esempio, la carriera
dell’uomo politico fa volontariamente del pubblico il proprio giudice con la
certezza ingenua e dichiarata di potersi guadagnare il favore. L’eventuale
disapprovazione della folla lo incita a imprese sempre più impegnative.
Agli sguardi di quelli che lo giudicano può rispondere
nello stesso istante con il proprio sguardo, può spiegare o difendersi. Ma si
trovava ora (per la prima volta in vita sua) in una situazione in cui gli
sguardi puntati su di lui erano molti più di quanti lui potesse cogliere. A
essi non riusciva a rispondere né con il suo sguardo né con le parole. Era alla
loro mercé. Si parlava di lui e lui lo sapeva e non poteva farci nulla. Era lui stesso
sorpreso di quanto ciò gli fosse insopportabile e lo riempisse di panico. Tutto
quell’interesse per lui gli era spiacevole, come una folla o come il contatto
della gente che ci strappa i vestiti di dosso in un incubo.
Ma non era soltanto
vanità. Era soprattutto inesperienza. Quando sedete di fronte a qualcuno che si
mostra amabile, deferente, cortese, è molto difficile tenere sempre a mente che
nulla di ciò che dice è vero,
che nulla è sincero. Diffidare
(continuamente e sistematicamente, senza vacillare nemmeno per
un
attimo) richiede uno sforzo enorme e anche un suo allenamento.
È tragicomico che sia
stata proprio la nostra buona educazione a diventare fonte di fiducia (talvolta
cieca) nei confronti del prossimo. Noi non sappiamo mentire. L’imperativo “Di’
la verità!” inculcatoci dai nostri genitori agisce su di noi in maniera così
automatica che ci vergogniamo della nostra menzogna anche davanti a un
poliziotto che ci sta interrogando.
Se è possibile dividere le persone in categorie,
lo è certamente solo sulla base dei desideri profondi che le orientano verso
questa o quella attività che esse svolgeranno per tutta la vita.
Un attore è una persona che accetta fin
dall’infanzia di mettersi in mostra per tutta la vita davanti a un pubblico
anonimo. Senza questo consenso fondamentale, che non ha niente a che fare con
il talento, che è qualcosa di più profondo del talento, non si può diventare
attori.
La chirurgia porta
l’imperativo fondamentale della professione medica fino al limite estremo, dove
l’umano tocca il divino. Se colpite qualcuno violentemente sulla testa con un
bastone, questi stramazza a terra e cessa per sempre di respirare. Ma una volta
o l’altra avrebbe cessato comunque di respirare. Un simile assassinio non fa
latro che anticipare di poco ciò che Dio avrebbe in seguito provveduto a fare
lui stesso. Dio, si potrebbe supporre, ha previsto l’omicidio, ma non la
chirurgia. Non si immaginava che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di infilare
una mano dentro un meccanismo inventato da lui, imballato con cura nella pelle,
sigillato e chiuso agli occhi dell’uomo.
Essere chirurgo significa
aprica la superficie delle cose e vedere ciò che si nasconde all’interno.
Ma era proprio quello ad attrarlo! Era l’“Es muss
sein!” profondamente radicato in lui e al quale non era stato spinto da nessun
caso, da nulla di esterno.
Naturalmente, l’uomo ha il diritto di temere anche
i pericoli poco probabili.
La vera storia del famoso motivo beethoviano “Muss
es sein? Es muss sein!”:
Era andata così: un certo signor Dembscher doveva
restituire a Beethoven cinquanta fiorini e il compositore, eternamente senza
soldi, glielo ricordò. “Muss es sein?” sospirò tristemente il signor Dembscher
e Beethoven rise forte: “Es muss sein!”, poi annotò subito quelle parole nel
suo taccuino e su quel motivo realistico scrisse una piccola composizione per
quattro voci: tre voci cantano “Es muss sein, es muss sein, ja, ja, ja,”, deve
essere, deve essere, sì, sì, sì, e la quarta voce aggiunse: “Heraus mit dem
Beutel!”, fuori il borsellino!
L’anno successivo, quello stesso motivo diventò la
base del quarto movimento dell’ultimo quartetto op. 135. Beethoven ormai non
pensava più al borsellino di Dembscher. Le parole “Es muss sein!” avevano preso
una tonalità molto più solenne, come se a pronunciarle fosse il Destino stesso.
Nella lingua di Kant, anche il “buon giorno”, convenientemente pronunciato, può
assumere l’aspetto di una tesi metafisica. Il tedesco è una lingua di parole pesanti.
“Es muss sein!” non era più uno scherzo, era diventato “der schwer gefasste
Entschluss”, la grave risoluzione.
Beethoven aveva quindi trasformato una burlesca
ispirazione iniziale in una quartetto serio, uno scherzo in una verità
metafisica. È una storia interessante sul passaggio dal leggero al pesante
(quindi, secondo Parmenide, sul passaggio dal positivo al negativo).
Stranamente, questo mutamento non ci sorprende. Ci saremmo invece scandalizzati
se Beethoven avesse trasformato la serietà del suo quartetto nello scherzo
leggero di un canone a quattro voci sul borsellino di Dembscher. Eppure avrebbe
agito proprio nello spirito di Parmenide: avrebbe trasformato il pesante in
leggero, quindi il negativo in positivo! All’inizio (come schizzo imperfetto)
ci sarebbe stata la grande verità metafisica e alla fine (come opera completa)
lo scherzo leggero! Solo che noi non sappiamo
più pensare come Parmenide.
Io credo che in lui
esistesse il profondo desiderio di trasformare, nello spirito di Parmenide, il
pesante in leggero.
Si trattava allora
evidentemente di un “Es muss sein!” esteriore, imposto dalle convenzioni sociali,
mentre l’“Es muss sein!” del suo amore era interiore. Tanto peggio! Un
imperativo interiore è ancora più forte e incita perciò ancora di più alla
rivolta.
Voleva scoprire che cosa c’era dall’altra
parte, dietro l’“Es muss sein!”; in altri termini: a scoprire che cosa resta della vita quando
l’uomo si sbarazza di ciò che fino ad allora aveva considerato la sua missione.
Tuttavia, si trovò faccia a faccia all’improvviso
col risultato della propria decisione in tutta la sua concretezza e irrimediabilità,
e ne provò quasi spavento. Con quella paura passò i primi giorni del suo nuovo
lavoro. Ma una volta superata (gli ci volle all’incirca una settimana) la
stupefacente stranezza della nuova vita, capì tutt’a un tratto di trovarsi in
una lunga vacanza.
Faceva cose delle quali non gli importava nulla,
ed era bello. Comprendeva ora la felicità delle persone (per le quali fino a
quel momento aveva sempre provato pietà) che svolgevano una professione a cui
non erano spinte da nessun “Es muss sein!” interiore e che esse potevano
dimenticare non appena smesso il lavoro. Mai prima di allora aveva conosciuto
una simile beata indifferenza. L’“Es muss
sein!” del suo lavoro precedente era come un vampiro che gli succhiava il
sangue.
Ciò che l’io ha di unico
si cela appunto in ciò che l’uomo ha di inimmaginabile. Noi possiamo
immaginarci solo ciò che nelle persone è uguale, ciò che è comune. L’io
individuale è ciò che si
differenzia
dal generale, quindi ciò che non si può indovinare o calcolare in precedenza,
ciò che nell’altro si deve svelare, scoprire, conquistare.
Non c’è nulla di più difficile da affermare
dell’io.
Tra le persone ci sono
molte più somiglianze che non differenze. Se lo si volesse esprimere con un
numero, tra loro c’è un milionesimo di diversità e
novecentonovantanovemilanovecentonovantanove milionesimi di affinità.
La curiosità invita a
desiderare di scoprire e di impadronirsi di quel milionesimo (l’inimmaginabile
che esprime l’unicità del singolo), l’indifferenza nega questo invito.
Gli uomini che inseguono una moltitudine di donne
desiderano scoprire e impadronirsi di quel milionesimo, non sono ossessionati
dalle donne, ma da quello che in ciascuna di esse c’è di inimmaginabile, in
altre parole, sono ossessionati da quel milionesimo di diversità che distingue
una donna dalle altre donne.
È vero, quel milionesimo di diversità è presente
in tutti gli aspetti della vita umana ma solo nella sessualità il milionesimo
di diversità si presenta come qualcosa di prezioso perché è inaccessibile
pubblicamente e bisogna conquistarlo. Ancora mezzo secolo fa una conquista del
genere richiedeva molto tempo (settimane, persino mesi!), e il valore della
cosa conquistata si misurava con il tempo dedicato alla conquista. Anche oggi,
sebbene il tempo della conquista si sia notevolmente accorciato, la sessualità
continua ad apparire come uno scrigno nel quale è nascosto il mistero dell’io
femminile.
Non era quindi il desiderio del piacere sessuale
(il piacere era un’aggiunta, una sorta di premio), bensì il desiderio di
impadronirsi del mondo (di aprire con il bisturi il corpo supino del mondo) ciò
che spinge a inseguire le donne.
Gli uomini che inseguono una moltitudine di donne
possono facilmente essere distinti in due categorie. Gli uni cercano in tutte
le donne la donna dei loro sogni, un’idea soggettiva e sempre uguale. Gli altri
sono mossi dal desiderio di impadronirsi dell’infinita varietà del mondo
femminile oggettivo.
L’ossessione dei primi è lirica: nelle
donne essi cercano se stessi, il proprio ideale, e sono sempre e continuamente
delusi perché l’ideale, com’è noto, è ciò che non è mai possibile trovare.
Poiché la delusione che li spinge da una donna all’altra dà alla loro
incostanza una sorta di scusa romantica, molte donne sentimentali sono commosse
dalla loro ostinata poligamia.
L’altra ossessione è un’ossessione epica e
in essa le donne non trovano nulla di commovente: l’uomo non proietta sulle
donne alcun ideale soggettivo, perciò ogni cosa lo interessa e nulla può
deluderlo. E proprio questa incapacità di rimanere delusi ha in sé qualcosa di
scandaloso. Agli occhi della gente, l’ossessione del donnaiolo epico appare
senza riscatto (senza il riscatto della delusione). Poiché il donnaiolo lirico
insegue sempre lo stesso tipo di donna, nessuno si accorge che egli cambia
amante; gli amici gli causano continui malintesi, perché non sono capaci di
distinguere le sue amiche e le chiamano tutte con lo stesso nome.
Si direbbe che nel
cervello esiste una regione del tutto particolare che si potrebbe chiamare memoria poetica e che registra ciò
che ci affascina, che ci commuove, che rende bella la nostra vita. Da quando
lui ha conosciuto Lei, nessuna donna ha il diritto di lasciare in quella parte
del suo cervello foss’anche la più fuggevole impronta.
Alcune idee sono come un
attentato, alcune idee possono salvare la vita. Sì, anche le idee possono
salvare la vita.
I confini tra il bene e il
male sono terribilmente incerti.
Nulla gli interessa all’infuori di lei. Lei, fiore
germogliato da alcune coincidenze. Lei, che è al di là di tutti gli “Es muss
sein!”, lei è l’unica cosa alla quale lui tenga.
Esiste un unico criterio per tutte le sue
decisioni: non fare nulla che possa nuocerle. No, non sa fare nemmeno questo.
No. Non ricorda nemmeno
con chiarezza il motivo della sua decisione.
E ancora una volta lo vedo
così come mi è apparso all’inizio del romanzo. È alla finestra e guarda nel
cortile il muro della casa di fronte.
È l’immagine dalla quale
egli è nato. Come ho già detto, i personaggi non nascono da un corpo materno
come gli esseri umani, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora,
contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale che l’autore
pensa nessuno abbia mai scoperto o sulla quale ritiene nessuno abbia mai detto
qualcosa di essenziale.
Ma non si dice forse che
un autore non può parlare che di se stesso?
Tutte queste situazioni le ho conosciute e vissute
io stesso, e tuttavia da nessuna di esse è sorto un personaggio che sia me
stesso col mio curriculum vitae. I
personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono
realizzate. Per questo voglio bene a tutti
allo stesso modo e tutti allo stesso modo mi
spaventano: ciascuno di essi ha superato un confine che io ho solo aggirato. È
proprio questo confine superato (il confine oltre il quale finisce il mio io)
che mi attrae. Al di là di esso incomincia il mistero sul quale il romanzo si
interroga. Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di
ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato.
E allora, che cos’era
giusto fare?
La domanda può essere
formulata anche in questo modo: è meglio gridare e accelerare così la propria
fine? Oppure tacere e guadagnarsi un’agonia più lenta?
Ma esiste poi una risposta
a queste domande?
E di nuovo gli venne in
mente un’idea che noi già conosciamo: la vita umana si svolge una sola volta e
quindi noi non potremo mai appurare quale nostra decisione sia stata buona e
quale cattiva, perché in una data situazione possiamo decidere una volta
soltanto. Non ci viene data una seconda, terza o quarta vita per poter
confrontare diverse decisioni.
Per la storia è lo stesso
che per la vita dell’individuo. La storia
è una soltanto. Un giorno terminerà, così come la vita d’un uomo, e non sarà
possibile ripeterla una seconda volta.
Se la storia si potesse
ripetere, sarebbe certo desiderabile provare ogni volta la seconda eventualità
e poi confrontare i due risultati. Senza un simile esperimento, ogni
considerazione non è che un gioco di ipotesi.
“Einmal ist keimal”.
Quello che avviene solo una volta è come se non fosse mai accaduto.
La storia è uno schizzo
tracciato dalla fatale inesperienza dell’umanità.
La storia è leggera al pari delle singole vite umane,
insostenibilmente leggera, leggera come una piuma, come la polvere che turbina
nell’aria, come qualcosa che domani non ci sarà più.
Un uomo, quell’uomo si
comportava come se la storia non fosse uno schizzo ma un quadro finito. Si
comportava come se tutto ciò che faceva si dovesse ripetere innumerevoli volte
in un eterno ritorno ed egli fosse sicuro che non avrebbe mai dubitato delle
proprie azioni. Era convinto di aver ragione e in ciò vedeva non un indizio di
limitatezza, bensì un segno di virtù. Quell’uomo viveva in una storia diversa:
in una storia che non era uno schizzo (o almeno non sapeva di esserlo).
Alcuni giorni più tardi, gli venne in mente
quest’altra idea che io annoto come aggiunta al capitolo precedente: in qualche
punto dell’universo esiste un pianeta dove tutti nasceranno una seconda volta.
Allo stesso tempo, saranno pienamente coscienti della vita passata sulla Terra,
di tutte le esperienze che vi avevano acquisito.
Ed esiste forse ancora un altro pianeta dove
nasceremo tutti una terza volta con le esperienze di entrambe le vite
precedenti.
E forse esistono ancora altri ed altri pianeti
dove l’umanità nascerà sempre di un grado (di una vita) più matura.
È questo un esempio d’eterno ritorno.
Noi qui sulla Terra (sul pianeta numero uno, sul
pianeta dell’inesperienza) naturalmente non possiamo che farci un’idea quanto
mai vaga di ciò che accadrebbe all’uomo sugli altri pianeti. Sarebbe più
saggio? E comunque la maturità è raggiungibile dall’uomo? Egli la può
raggiungere con la ripetizione?
Soltanto nella prospettiva di questa utopia
sarebbe possibile usare a pieno i concetti di pessimismo e di ottimismo:
l’ottimista è colui che crede che la storia dell’umanità sarà meno insanguinata
sul pianeta numero cinque. Il pessimista è colui che non lo crede.
♦ ♦ ♦
Il silenzio stava tra loro
come una disgrazia. Si appesantiva di minuto in minuto. Per liberarsene andarono
subito a dormire. Durante la notte lui la svegliò che piangeva.
Lei gli raccontò:
“Ero sotto terra. Da molto tempo. Tu venivi a
trovarmi una volta alla settimana. Bussavi sulla tomba e io uscivo fuori. I
miei occhi erano pieni di terra.
“Tu dicevi: “Ma come fai a vedere?” e mi toglievi
la terra dagli occhi.
“E io dicevo: “Io non vedo lo stesso ho due buchi
al posto degli occhi”.
“E poi un giorno sei andato via per molto tempo e
io sapevo che eri con un’altra. Le settimane passavano e tu non tornavi. Avevo
paura di non sentirti quando arrivavi e perciò non dormivo mai.
Finalmente sei venuto a bussare di nuovo sulla
tomba ma io ero tanto esausta per quel mese passato senza dormire che non avevo
la forza di salire e venir fuori. Quando alla fine ci sono riuscita, tu avevi
l’aria delusa. Mi hai detto che avevo un brutto aspetto. Sentivo che non
piacevo affatto, che avevo le guance incavate e facevo gesti scomposti.
“Mi sono scusata con te: “Non ti arrabbiare, non
ho dormito per tutto il tempo”.
“E tu, con voce falsamente rassicurante, hai
detto: “Vedi? Devi riposarti. Dovresti prenderti un mese di ferie”.
“E io sapevo bene a che cosa pensavi con quelle
ferie! Sapevo che non volevi vedermi per tutto il mese perché saresti stato con
un’altra donna. Tu sei andato via e io sono scesa giù nella tomba e sapevo che
per tutto un altro mese non avrei dormito per non rischiare di non sentirti, e
che quando dopo un mese tu fossi venuto, io sarei stata ancora più brutta di
prima e tu saresti stato ancora più deluso”.
Il dolore di un solo sogno di Tereza non riusciva
a sopportarlo.
Ritornò nel sogno che lei gli aveva raccontato.
Immaginò di carezzarle il viso e pian piano, senza farsene accorgere, di
toglierle la terra dalle orbite degli occhi. Poi la sentì pronunciare quella
frase incredibilmente straziante: “Io non vedo lo stesso. Ho due buchi al posto
degli occhi”.
Il cuore gli si strinse al punto che credette di
essere sull’orlo di un infarto.
Tereza si era già riaddormentata, ora era lui che
non riusciva a prender sonno. La immaginava morta. Era morta e faceva sogni
terribili; ma poiché è morta, lui non può risvegliarla. Sì, questa è la morte:
Tereza dorme, fa sogni terribili e lui non può risvegliarla.
♦ ♦ ♦
Fu lieto di questo incontro (per quella gioia
ingenua che ci procurano gli avvenimenti inattesi).
Ora che non possono più disprezzarlo, e che sono
persino costretti a stimarlo, lo evitano.
La condizione degli intellettuali declassati non
aveva più niente di eccezionale; era diventata qualcosa di permanente e di
spiacevole da vedere.
Desiderò delle vacanze. Ma vacanze autentiche,
vale a dire tranquillità da tutti gli imperativi, da tutti gli “Es muss
sein!”.
♦ ♦ ♦
L’amore è qualcosa che
appartiene soltanto a noi e ci permette di sfuggire al Creatore. L’amore è la
nostra libertà. L’amore è al di là dell’“Es muss sein!”.
Lì, su un divano, si trovò di fronte una ragazza.
Era seminuda anche lei, aveva solo le mutandine, stava sdraiata su un fianco
appoggiata a un gomito. Lo guardava sorridendo, come se già sapesse che lui
sarebbe arrivato.
Lei si avvicinò. Una sensazione di immensa gioia
si effondeva in lui per averla finalmente trovata e poter stare con lei. Le si
sedette accanto, le disse qualcosa e lei a sua volta disse qualcosa a lui.
Irradiava calma. I gesti della sua mano erano lenti e flessuosi. Per tutta la
vita aveva desiderato quei gesti tranquilli. Proprio quella calma femminile gli
era mancata per tutta la vita.
Ma in quel momento scivolò dal sonno nel
risveglio. Si ritrovò in quella no man’s land dove l’uomo non dorme più
ma non è ancora sveglio. Aver perso di vista quella ragazza lo riempì di paura
e diceva tra sé: Dio santo, non posso perderla! Cercò disperatamente di
ricordarsi chi fosse, dove l’avesse incontrata, che cosa avessero vissuto
insieme. Com’è possibile che non lo sappia, se la conosce così bene? Si
ripromise di telefonarle il mattino stesso. Ma appena lo ebbe deciso, fremette
all’idea che non poteva telefonarle perché aveva dimenticato il suo nome. Ma
com’era possibile dimenticare il nome di qualcuno che si conosce così bene? Ma
ormai era quasi del tutto sveglio, aveva gli occhi aperti e si diceva: Dove
sono? Ah sì, sono a Praga, ma quella ragazza è poi di Praga anche lei? Non l’ho
forse incontrata altrove? Non è magari svizzera? Gli ci volle ancora un bel po’
per capire che quella ragazza lui non la conosceva, che non era né svizzera né
di Praga, che usciva dal suo sogno e da nessun’altra parte. Era così agitato
che si alzò a sedere sul letto. Tereza espirava profondamente al suo fianco.
Lui si diceva che la ragazza del sogno non somigliava a nessuna delle donne che
aveva incontrato nella sua vita. La ragazza che gli pareva di conoscere più
intimamente di ogni altra era in realtà del tutto sconosciuta. Ma era lei
quella che aveva sempre desiderato. Se mai fosse esistito per lui un qualche
Paradiso personale, in quel Paradiso avrebbe dovuto vivere al suo fianco. La
donna del sogno era l’“Es muss sein!” del suo amore.
Si ricordò del famoso mito del Simposio di
Platone: all’inizio gli essere umani erano ermafroditi e Dio li spaccò in due
metà che da allora vagano per il mondo cercandosi. L’amore è il desiderio della
metà perduta di noi stessi.
Ammettiamo che sia così; che ciascuno di noi abbia
da qualche parte del mondo un partner insieme al quale, un tempo, costituiva un
unico corpo. L’altra metà di Tomáš era la donna che aveva sognato. Solo che
l’uomo non trova l’altra metà di se stesso. Al suo posto gli manderanno sulla
corrente, in una cesta, Tereza. Ma che cosa accadrà quando poi lui incontrerà
davvero la donna che gli è stata destinate, l’altra metà di se stesso? Chi
preferirà? La donna della cesta o la donna del mito di Platone?
Si immaginò di vivere in un mondo ideale con la
donna del sogno. Sotto le finestre aperte della loro villa passa Tereza. È
sola, si ferma sul marciapiede e da lì lo guarda con uno sguardo infinitamente
triste. E lui non riesce a sostenere quello sguardo. Sente di nuovo il dolore
di lei nel proprio cuore! Di nuovo è preda della compassione e si inabissa
nell’anima di Tereza. Salta fuori dalla finestra. Ma lei gli dice con amarezza
di rimanere lì dove si sente felice, e ha i gesti bruschi e scomposti che
l’hanno sempre irritato e che gli dispiacciono in lei. Lui afferra quelle mani
nervose, le stringe nelle proprie per calmarle. E sa che avrebbe abbandonato in
qualsiasi momento la casa della sua felicità, che avrebbe abbandonato in
qualsiasi momento il suo Paradiso dove vive con la ragazza del sogno, che
avrebbe
tradito l’“Es muss sein!” del suo
amore per andar via insieme a Tereza, la donna nata da sei ridicole
coincidenze.
E intanto sedeva sul letto e
guardava la donna distesa al suo fianco che gli stringeva la mano nel sonno.
Sentì per lei un amore inesprimibile. In quel momento il suo sonno doveva
essere molto leggero perché lei aprì gli occhi e lo guardò sbigottita.
“Che cosa guardi?” gli chiese.
Lui sapeva che non doveva
svegliarla, ma ricondurla nel sonno; cercò quindi di rispondere con parole che
facessero nascere nella sua mente l’immagine di un nuovo sogno.
“Guardo le stelle” disse.
“Non mentire, non guardi le
stelle, guardi in basso”.
“È perché siamo in aereo. Le
stelle sono sotto di noi” rispose Tomáš.
“Ah, in aereo” disse Tereza.
Strinse ancora più forte la mano di Tomáš e si riaddormentò. Tomáš sapeva che
Tereza ora stava guardando giù attraverso l’oblò di un aereo che volava alto
sopra le stelle.
PARTE SESTA
LA GRANDE MARCIA
La
dannazione e la condizione di privilegiato, la fortuna e la disgrazia, nessuno
sentì con più concretezza quanto siano interscambiabili queste opposizioni e
quanto sia breve il passo da un polo all’altro dell’umana esistenza.
Sono dunque così
vertiginosamente vicini il dramma più eccelso e quello più infimo?
Vertiginosamente vicini?
La vicinanza può dare la vertigine?
Sì, può darla. Quando il
polo Nord si avvicinerà al polo Sud fin quasi a toccarlo, il globo terrestre
scomparirà e l’uomo si troverà in un vuoto che gli farà girare la testa e lo
farà cedere alla seduzione di cadere.
Se la dannazione e il
privilegio sono la stessa identica cosa, se non esiste differenza tra il
sublime e l’infimo l’esistenza umana perde le sue dimensioni e diventa
insostenibilmente leggera.
Nell’istante in cui Dio
cacciò l’uomo dal Paradiso, gli fece conoscere la sua natura immonda e il
disgusto. L’uomo cominciò a nascondere ciò di cui si vergognava e, nell’istante
in cui tolse il velo, fu accecato da una grande luce.
La disputa fra coloro che sostengono che il mondo
è stato creato da Dio e coloro che invece ritengono sia sorto spontaneamente
tocca qualcosa che supera il nostro intelletto e la nostra esperienza. Molto
più reale è la differenza che separa coloro che mettono in discussione l’essere
così com’è stato dato all’uomo (non importa in che modo o da chi) da coloro che
vi aderiscono senza riserve.
Dietro tutte le fedi europee, religiose e
politiche, c’è il primo capitolo della Genesi dal quale risulta che il mondo è
stato creato in maniera giusta, che l’essere è buono e che è quindi giusto
moltiplicarsi. Chiamiamo questa fede fondamentale accordo categorico con
l’essere.
Da ciò deriva che l’ideale estetico dell’accordo
categorico con l’essere è un mondo
dove l’inaccettabile è negato e dove tutti si comportano come se non esistesse.
Questo ideale estetico si chiama Kitsch.
È questa una parola tedesca nata alla metà del
sentimentale diciannovesimo secolo e poi propagatasi in tutte le lingue. Il
Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è
essenzialmente inaccettabile.
La rivolta interiore
contro le contingenze politiche, economiche, sociali ed affettive non aveva un
carattere etico ma estetico. Ciò che disgustava era però molto meno la
bruttezza del mondo che non la maschera di bellezza che esso portava; in altri
termini: il Kitsch.
Aveva visto i cortei all’epoca in cui la gente era
ancora entusiasta, oppure fingeva ancora entusiasmo con diligenza. Le donne
indossavano camicette rosse bianche e blù sicché, viste dai balconi e dalle
finestre, creavano figure di vario genere: stelle a cinque punte, cuori,
lettere. Tra le varie sezioni del corteo avanzavano orchestrine che suonavano
ritmi di marcia. Quando il corteo si avvicinava alla tribuna centrale, anche i
visi più annoiati si illuminavano di un sorriso, come a voler dimostrare di
essere doverosamente contenti, o meglio di essere doverosamente d’accordo.
E non si trattava di un semplice accordo politico ma di un accordo con l’essere
in quanto tale. La cerimonia si alimentava alla fonte profonda dell’accordo
categorico con l’essere. La parola d’ordine non scritta e tacita non era
“Viva il regime politico!”, bensì “Viva la vita!”. La forza e l’astuzia della
politica consistevano nel suo essersi appropriata di quella parola d’ordine.
Era appunto quella stupida tautologia (“Viva la vita!”) a
trascinare nel corteo anche coloro che alle tesi politiche relative erano
indifferenti.
Come sapeva quel senatore che i bambini
significano la felicità?
Il senatore aveva un unico argomento a favore di
quell’affermazione: i suoi sentimenti. Quando parla il cuore non sta bene che
la ragione trovi da obiettare. Nel regno del Kitsch impera la dittatura del
cuore.
I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere,
ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone.
Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è
collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate
nella memoria:
Il Kitsch fa spuntare, una dietro l’altra, due
lacrime di commozione. La prima lacrima dice: Come sono belli i bambini che
corrono sul prato!
La seconda lacrima dice: Com’è bello essere
commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul
prato!
È soltanto la seconda lacrima a fare del Kitsch il
Kitsch.
La fratellanza di tutti gli uomini della terra
sarà possibile solo sulla base del Kitsch. Nessuno lo sa meglio degli uomini
politici. Quando c’è in giro una macchina fotografica, si precipitano subito
verso il bambino più vicino per sollevarlo in aria e baciarlo sulla guancia. Il
Kitsch è l’ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i
movimenti politici.
In una società dove coesistono orientamenti
politici diversi e dove quindi la loro influenza si annulla o si limita
reciprocamente, possiamo ancora in qualche modo sfuggire all’inquisizione del
Kitsch; l’individuo può conservare la sua individualità e l’artista può creare
opere inattese.
Ma là dove un unico movimento politico ha tutto il
potere, ci troviamo di colpo nel regno del Kitsch totalitario.
Quando dico totalitario, voglio dire che tutto ciò
che turba il Kitsch è bandito dalla vita: ogni espressione di individualismo
(perché ogni discordanza è uno sputo in faccia alla fratellanza sorridente),
ogni dubbio (perché chi comincia a dubitare di una piccolezza finirà per
dubitare della vita in quanto tale), ogni ironia (perché nel regno del Kitsch
ogni cosa deve essere presa con assoluta serietà).
Da questo punto di vista, possiamo considerare il
cosiddetto gulag come una fossa settica dove il Kitsch totalitario getta i suoi
rifiuti.
Il terrorismo mentale, lo
strumento di falsificazione del Kitsch totalitario:
Il professore di marxismo spiegava a lei e ai suoi
compagni la seguente tesi:
La società è arrivata tanto avanti che in essa il
conflitto fondamentale non è più tra il bene e il male, ma tra il bene e il
meglio.
Ciò che è essenzialmente inaccettabile poteva
quindi esistere solo “dall’altra parte” e solo da lì, da fuori, e solo come un
corpo estraneo poteva penetrare nel mondo “dei buoni e dei migliori”.
E in effetti, i film che invadevano i cinema di
tutti i paesi influenzati dal Kitsch totalitario erano impregnati di
un’incredibile innocenza. Il conflitto maggiore che potesse aver luogo tra due
uomini era un malinteso d’amore: lui pensa che lei non lo ami più, lei pensa la
stessa cosa di lui. Alla fine cadono uno tra le braccia dell’altra e dai loro
occhi scendono lacrime di felicità.
Oggi, la spiegazione convenzionale che si dà di
quei film è la seguente: essi mostravano l’ideale premeditato dal potere
politico-mediatico, mentre la realtà era peggiore.
Il Kitsch è un paravento che nasconde la morte.
Nel regno del Kitsch
totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia
domanda. Ne deriva che il vero antagonista del Kitsch totalitario è l’uomo che
pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di
fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro. Davanti c’è la menzogna comprensibile e dietro, intravista,
l’incomprensibile verità.
Quello che c’è sotto la
superficie è un mondo estraneo.
Lucio
Fontana
È però vero che quelli che lottano contro i regimi
totalitari possono difficilmente lottare contro interrogativi e dubbi. Hanno
anch’essi bisogno delle loro certezze e verità semplici che siano comprensibili
al maggior numero di persone e provochino una lacrimazione collettiva.
Una volta un movimento politico organizzò una
mostra di quadri di Sabina. Sabina prese in mano il catalogo: c’era una sua
fotografia sulla quale era stato disegnato un filo spinato. All’interno la sua
biografia assomigliava alla biografia dei martiri e dei santi: aveva sofferto,
aveva lottato contro l’ingiustizia, aveva dovuto abbandonare la patria
martirizzata e continuava a lottare. “Con i suoi quadri essa lotta per la
felicità” era l’ultima frase del testo.
Protestò ma non la capirono.
Lei rispose arrabbiata: “Il mio nemico è il
Kitsch!”.
Lei voleva sfuggire al Kitsch nel quale la gente
voleva trasformare la sua vita.
Per tutta una vita lei ha proclamato di essere
nemica del Kitsch. Ma non lo porta forse lei stessa dentro di sé? Il suo Kitsch
è l’immagine di un focolare tranquillo, dolce, armonioso, dove regnano una
madre amorevole e un padre saggio. Questa immagine si era formata in lei dopo
la morte dei genitori. Quanto meno la sua vita assomigliava a quel dolce sogno,
tanto più lei diventata sensibile al suo fascino e molte volte le erano salite
le lacrime agli occhi vedendo alla televisione una storia sentimentale dove la
figlia ingrata abbracciava il padre abbandonato e nel giorno morente brillavano
le finestre della casa dove viveva la famiglia felice.
Il cammino dei tradimenti continuerà e di tanto in
tanto, dal suo intimo, risuonerà nell’insostenibile leggerezza dell’essere una
canzone ridicola e sentimentale che parla di due finestre illuminate dietro le
quali vive una famiglia felice.
Quella canzone la commuove, ma lei non prende sul
serio la sua commozione. Sa benissimo che quella canzone è una bella menzogna.
Nel momento in cui il Kitsch è riconosciuto per la
menzogna che è, viene a trovarsi nel contesto del non-Kitsch.
Perde in tal modo il suo potere autorizzato ed è
commovente come qualsiasi altra debolezza umana. Perché nessuno di noi è un
superuomo capace di sfuggire interamente al Kitsch. Per quanto forte sia il
nostro disprezzo, il Kitsch fa parte della condizione umana.
L’origine del Kitsch è l’accordo categorico con
l’essere.
Ma qual è il fondamento dell’essere? Dio?
L’individuo? L’amore? L’uomo? La donna?
Le opinioni sono diverse e perciò diversi sono
anche i tipi di Kitsch: cattolico, protestante, ebraico, comunista, fascista,
democratico, femminista, europeo, americano, nazionale, internazionale.
Dai tempi della Rivoluzione francese una metà
dell’Europa viene chiamata sinistra, mentre l’altra metà riceve
l’appellativo di destra. È quasi impossibile definire l’una o l’altra
parte sulla base dei principi teorici sui quali esse si appoggiano. Non c’è
motivo di stupirsi: i movimenti politici non si fondano su posizioni razionali
ma su idee, immagini, parole, archetipi che tutti insieme vanno a costituire
questo o quel Kitsch politico, sociale o economico.
Ciò che aveva fatto era uno spettacolo. Ma non
aveva altra possibilità. Non aveva possibilità di scelta tra azione e
spettacolo. La scelta era: o dare spettacolo oppure non fare nulla. Ci sono
situazioni nelle quali le persone sono condannate a dare spettacolo.
(contro il potere silenzioso sull’altro lato del fiume, contro la polizia
trasformata in silenziose videocamere nel muro) è la lotta di una compagnia
teatrale che ha assalito un esercito.
♦ ♦ ♦
Tutti abbiamo bisogno che
qualcuno ci guardi.
A seconda del tipo di
sguardo sotto il quale vogliamo vivere potremmo esser suddivisi in quattro
categorie.
La prima categoria
desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi:
in altri termini, desidera
lo sguardo di un pubblico.
La seconda categoria è
composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a
loro conosciuti. Si tratta degli instancabili organizzatori di cocktail e di
cene. Essi sono più felici delle persone della prima categoria le quali, quando
perdono il pubblico, hanno la sensazione che nella sala della loro vita si
siano spente le luci. Succede, una volta o l’altra, quasi a tutti. Le persone
della seconda categoria, invece, quegli sguardi riescono a procurarseli sempre.
C’è poi la terza
categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli
occhi della persona amata.
La loro condizione è
pericolosa quanto quella degli appartenenti alla prima categoria. Una volta o l’altra
gli occhi della persona amata si chiuderanno e nella sala ci sarà il buio.
E c’è infine una quarta
categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo
immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.
Alla stessa categoria appartiene anche il figlio
di Tomáš. Lo chiamerò Šimon. (Sarà contento di avere un nome biblico come il
padre). Gli occhi che desidera sono gli occhi di Tomáš.
Dopo essersi invischiato nella raccolta delle
firme, era stato espulso dall’università. La sua ragazza era la nipote di un
parroco di campagna. La sposò, diventò autista di trattori in una cooperativa,
cattolico praticante e padre di famiglia. Venne poi a sapere che anche Tomáš
viveva in campagna e ne fu contento: il destino aveva reso simmetriche le loro
vite! Questo lo incitò a scrivergli una lettera. Non chiedeva risposta. Voleva
solo che Tomáš posasse il proprio sguardo sulla sua vita.
“Punire coloro che non sapevano quello che
facevano è una barbarie”. Lo attrassero le parole di Gesù: “Perdonate loro perché non sanno quello che
fanno”. Sapeva che suo padre era ateo, ma nella somiglianza tra le due
frasi vedeva un segno segreto: il padre approvava la strada che lui aveva
scelto.
Viveva in campagna già da tre anni quando ricevette
una lettera con la quale Tomáš lo invitava ad andare a trovarlo. L’incontro fu
amichevole.
Sulla lapide, sotto il nome del padre, fece
mettere la scritta: Voleva il Regno di Dio sulla terra.
Sa bene che il padre non avrebbe mai usato quelle
parole. Ma è sicuro che la scritta esprime bene ciò che voleva il padre. Il
regno di Dio vuol dire giustizia. Tomáš agognava un mondo nel quale regnasse la
giustizia. Non ha forse diritto Šimon di esprimere la vita del padre con il
proprio lessico? Non è, in fondo, da che mondo è mondo, un diritto di chi
rimane?
Dopo lungo errare, il ritorno è scritto sulla lapide
posta sulla tomba di Franz. La scritta può essere intesa come un simbolo
religioso: l’errare nella vita terrena, il ritorno tra le braccia di Dio. I bene
informati sanno però che quella frase ha, allo stesso tempo, un significato del
tutto profano.
Che è rimasto di Tomáš?
Una scritta: Voleva il
Regno di Dio sulla terra.
Che è rimasto di
Beethoven?
Un uomo aggrottato con una
chioma inverosimile che pronuncia con voce cupa: “Es muss sein!”.
Che è rimasto di Franz?
Una scritta: Dopo lungo
errare, il ritorno.
E così di seguito. Prima
di essere dimenticati, verremo trasformati in Kitsch. Il Kitsch è la stazione
di passaggio tra l’essere e l’oblio.
PARTE SETTIMA
IL SORRISO DI KARENIN
Non c’è alcun merito a
comportarsi bene verso il prossimo! Non potremo mai stabilire con certezza fino
a che punto i nostri rapporti con gli altri sono il risultato dei nostri
sentimenti, del nostro amore, del nostro non-amore, della nostra bontà o del
nostro rancore e fino a che punto sono condizionati dal rapporto di forze tra
gli individui.
Già nella Genesi, Dio aveva affidato all’uomo il
dominio sugli animali, ma l’uomo non era il padrone ma soltanto
l’amministratore del pianeta e un giorno dovrà render conto della sua gestione.
Descartes compì un decisivo passo: fece dell’uomo
il “signore e padrone della natura”. E c’è di sicuro una profonda correlazione
nel fatto che sia stato proprio lui a negare categoricamente un’anima agli
animali: l’uomo è padrone e signore, mentre l’animale dice Descartes non è che
un automa, un meccanismo animato, una “machina animata”. Se un animale si
lamenta, quello non è un lamento ma solo il cigolio di un congegno che funziona
male. Se la ruota di un carro stride, non vuol dire che il carretto soffre,
vuol dire che non è oliato. Allo stesso modo dobbiamo intendere il pianto di un
animale.
La vera bontà dell’uomo si può manifestare in
tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza.
Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in
profondità da sfuggire al nostro sguardo) è il suo rapporto con coloro che sono
alla sua mercé: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento “descartesiano”
dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri.
Una volta, tanto tempo prima, di sicuro più di
quarant’anni addietro, tutti gli animali del villaggio avevano un nome. (E se
il nome è il segno dell’anima, posso dire che esse ne avevano una a dispetto di
Descartes). Ma poi il villaggio era stato trasformato in una grossa fabbrica
collettiva e gli animali vivevano tutta la loro vita nei due metri quadrati
della stalla. Da allora non hanno più un nome e si sono trasformate in
“machinae animatae”. Il mondo ha dato ragione a Descartes.
E nello stesso istante mi appare davanti agli
occhi un’altra immagine; Nietzsche esce dal suo albergo a Torino. Vede davanti
a sé un cavallo e un cocchiere che lo colpisce con la frusta. Nietzsche si
avvicina al cavallo e, sotto gli occhi del cocchiere, gli abbraccia il collo e
scoppia in pianto. Ciò avveniva nel 1889 e a quel tempo anche Nietzsche era già
lontano dagli uomini. In altri termini, proprio allora era esplosa la sua
malattia mentale. Ma appunto per questo mi sembra che il suo gesto abbia un
significato profondo. Nietzsche era andato a chiedere perdono al cavallo per Descartes.
La sua pazzia (e quindi la sua separazione dall’umanità) inizia nell’istante in
cui piange sul cavallo. È questo il Nietzsche che amo, egli si allontana dalla
strada sulla quale l’umanità, “signora e padrona della natura”, prosegue la sua
marcia in avanti.
♦ ♦ ♦
Tomáš vedeva la tristezza di Tereza. Prese lui
stesso il panino in bocca e si mise carponi di fronte a Karenin. Poi gli si
avvicinò lentamente.
Karenin lo guardava, sembrava che nei suoi occhi
si fosse acceso come un lampo d’interesse, ma non si alzava. Tomáš sporse il
viso fino a sfiorare il suo muso. Senza muovere il corpo, il cane prese in
bocca il pezzo di panino che sporgeva dalla bocca di Tomáš. Allora Tomáš lasciò
andare il panino in modo che rimanesse tutto a Karenin.
Ancora carponi, Tomáš arretrò, si rannicchiò e
cominciò a ringhiare. Faceva finta di voler litigare per il panino. Il cane
rispose al padrone con un ringhio. Finalmente! Era quello che aspettavano!
Karenin ha voglia di giocare! Karenin ha ancora voglia di vivere!
Quel ringhio era il sorriso di Karenin e loro
volevano che quel sorriso durasse il più a lungo possibile. Perciò Tomáš gli si
avvicinò, sempre carponi, e afferrò l’estremità del panino che spuntava dal
muso del cane. I loro visi erano vicinissimi, Tomáš sentiva l’odore del fiato
del cane e i lunghi peli attorno alla bocca di Karenin gli solleticavano il
viso. Il cane ringhiò ancora una volta, scuotendo il muso. A ciascuno dei due
rimase tra i denti metà del panino. Poi Karenin fece un vecchio errore. Lasciò la
sua metà per potersi impadronire della metà che teneva in bocca il padrone.
Aveva dimenticato come sempre che Tomáš non era un cane e aveva le mani. Tomáš
non lasciò il panino che aveva in bocca e raccolse da terra la metà
abbandonata.
“Lo fa solo per noi” disse Tereza. “Non aveva
voglia di fare una passeggiata. È venuto soltanto per farci contenti”.
Quello che lei aveva detto era triste eppure,
senza rendersene conto, erano felici. Erano felici non certo a dispetto della
tristezza, ma grazie alla tristezza.
Oggi, Karenin, cammina con molta difficoltà e
saltella solo su tre zampe; sulla quarta c’è una ferita che sanguina. Ogni
pochi minuti Tereza si china su di lui e lo accarezza sulla schiena. Due
settimane dopo l’operazione, è chiaro che il tumore non si è fermato e che
Karenin starà sempre peggio.
♦ ♦ ♦
Noi che siamo stati
allevati nella mitologia dell’Antico Testamento, potremmo dire che l’idillio è
un’immagine rimasta in noi come ricordo del Paradiso: la vita nel Paradiso non
somigliava a una corsa in linea retta che ci conduce verso l’ignoto, non era
un’avventura. Essa si muoveva in circolo tra cose conosciute. La sua monotonia
non era noia ma felicità.
Nel Paradiso, quando si chinava su una fonte,
Adamo non sapeva ancora che ciò che vedeva era lui stesso.
Adamo era come Karenin. Spesso Tereza si divertiva
a portarlo davanti allo specchio. Karenin non riconosceva la propria immagine e
la guardava distrattamente, con incredibile disinteresse.
In Paradiso l’uomo non era
ancora scagliato sulla traiettoria dell’uomo. Noi, è già molto che vi siamo
stati scagliati e voliamo nel vuoto del tempo che si compie in linea retta. Ma
esiste sempre in noi una cordicella sottile che ci lega al lontano e nebuloso
Paradiso.
La nostalgia del Paradiso
è il desiderio dell’uomo di non esser uomo.
(E per questo è così pericoloso trasformare un
animale in una “machina animata”: in questo modo l’uomo taglia il filo che lo
legava al Paradiso, e nel suo volo nel vuoto del tempo non ci sarà nulla che lo
potrà fermare o confortare).
♦ ♦ ♦
Non vuole sostenere che si sarebbero potuti voler
bene di più.
Un amore disinteressato:
Le domande che torturano
le coppie umane: Mi ama? Ha mai amato qualcuna più di me? mi ama più di quanto
lo ami io? Forse tutte queste domande rivolte all’amore, che lo misurano, lo
indagano, lo esaminano, lo sottopongono a interrogatorio, riescono anche a
distruggerlo sul nascere. Forse non siamo capaci di amare proprio perché
desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l’amore) dall’altro
invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice
presenza.
Accettare il prossimo così com’è, non voler
cambiarlo a propria immagine e somiglianza, accettare in partenza il suo
universo, non sottrarglielo. Vegliare ma solo per insegnare una lingua
elementare che avrebbe permesso di capirsi e di vivere insieme.
Un amore volontario, libero d’ogni obbligo,libero
dall’“Es muss sein!”
In questa frase è
contenuta tutta la condanna dell’uomo: Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza
veloce in linea retta. È per questo che l’uomo non può essere felice, perché la
felicità è il desiderio di ripetizione.
♦ ♦ ♦
Era seduto al tavolo di camera sua dove aveva
l’abitudine di leggere i suoi libri. In momenti come quelli, Tereza gli si
avvicinava, si chinava da dietro su di lui e accostava il proprio viso al suo.
Quando lo fece quel giorno, vide che Tomáš non stava guardando un libro. Aveva
davanti una lettera e, sebbene non fosse composta da più di cinque righe
scritte a macchina, Tomáš la fissava con un lungo sguardo immobile.
“Che cos’è?” chiese Tereza piena d’angoscia.
Senza nemmeno voltarsi, Tomáš prese la lettera e
gliela diede. Sopra c’era scritto che quello stesso giorno doveva presentarsi
all’aeroporto della città vicina.
Quando infine voltò la testa verso Tereza, essa
gli vide negli occhi lo stesso terrore che provava lei.
“Vengo con te” disse.
Lui scosse la testa: “La convocazione riguarda me
soltanto”.
“No, vengo con te” ripeté.
Partirono con il camion di Tomáš. In poco tempo
raggiunsero lo spiazzo dall’aeroporto. C’era nebbia. Di fronte a loro, molto
confusamente, si disegnavano le sagome di alcuni aerei. Passarono dall’uno
all’altro, ma avevano tutti le porte chiuse, inaccessibili. Alla fine, ne
trovarono uno con lo sportello anteriore aperto, ci si poteva arrivare per
mezzo di una scaletta accostata. Salirono, e sulla porta apparve uno steward
che li invitò a entrare. L’aereo era piccolo; per trenta passeggeri al massimo,
e completamente vuoto. Avanzarono nel corridoio tra i sedili, sempre
stringendosi l’uno all’altra e senza grande interesse per ciò che avveniva
attorno a loro. Si sedettero in due posti vicini e Tereza poggiò la testa sulla
spalla di Tomáš. Il terrore iniziale si dissolveva trasformandosi in tristezza.
Il terrore è uno shock, un istante di totale
accecamento.
Il terrore è privo di una qualsiasi traccia di
bellezza. Noi non vediamo che la luce violenta dell’avvenimento sconosciuto che
ci aspettiamo. La tristezza presuppone invece che si sappia.
Tomáš e Tereza sapevano quello che li aspettava.
La luce del terrore si era velata e il mondo era visto in una luminosità
azzurrina e tenera che rendeva le cose più belle di quanto non fossero prima.
Nell’istante in cui Tereza aveva letto la lettera,
non aveva sentito alcun amore per Tomáš, sapeva soltanto che non avrebbe dovuto
lasciarlo nemmeno un istante:
il terrore aveva soffocato tutti gli altri
sentimenti, tutte le altre sensazioni.
Adesso che gli stava stretta accanto (l’aereo
navigava tra le nuvole), lo spavento era passato e lei sentiva il proprio amore
e sapeva che era un amore senza confini e senza misura.
Alla fine l’aereo atterrò. Si alzarono e andarono
verso la porta che lo steward aprì. Si tenevano sempre abbracciati per la vita
e si fermarono in cima alla scaletta. In basso videro tre uomini incappucciati
con i fucili in mano. Era inutile indugiare perché non c’era via di scampo.
Scesero lentamente e quando poggiarono il piede sulla superficie della pista,
uno degli uomini alzò il fucile e prese la mira. Non si sentì alcuno sparo, ma
Tereza ebbe la chiara sensazione che Tomáš, che ancora un istante prima si
stringeva a lei e le teneva il braccio attorno alla vita, stesse accasciandosi
al suolo.
Lo strinse a sé ma non riuscì a sostenerlo: Tomáš
cadde sull’asfalto della pista di atterraggio. Lei si chinò su di lui. Voleva
gettarglisi sopra e coprirlo con il proprio corpo, ma in quell’istante vide
qualcosa di straordinario: il corpo di Tomáš stava rimpicciolendo velocemente
davanti ai suoi occhi. Era così incredibile che lei impietrì e restò inchiodata
al terreno. Il corpo di Tomáš diventava sempre più piccolo, ormai non
somigliava più a Tomáš, non restava altro che una cosina minuscola, e quella
cosa cominciò a muoversi, prese a correre e fuggì via sulla superficie
dell’aeroporto.
L’uomo che aveva sparato si tolse il cappuccio e
sorrise a Tereza con affabilità. Poi si voltò e si lanciò dietro alla cosettina
che correva qua e là come se fosse voluta sfuggire a qualcuno e cercasse
disperatamente un nascondiglio. La caccia andò avanti per un po’, fino a quando
l’uomo non si gettò improvvisamente a terra e l’inseguimento si concluse.
L’uomo si alzò e ritornò verso Tereza. Le portava
quella cosa in mano. La cosa tremava di paura. Era una lepre. La porse a
Tereza. In quell’istante lo spavento e la tristezza scomparvero e lui fu felice
di tenere in braccio quella bestiola, felice che quella bestiola fosse sua,
felice di poterla stringere contro di sé. Scoppiò in lacrime dalla felicità.
Piangeva, senza sosta, e le lacrime le impedivano di vedere mentre riportava a
casa il leprotto con la sensazione di essere ormai a un passo dalla meta, di
essere là dove voleva essere, là dove non si sfugge più.
Attraversò le strade di Praga e trovò facilmente
la sua casa. Ci era vissuta con la madre e il padre quando era piccola. Ma non
c’erano né la madre né il padre. Fu accolta da due vecchi che non aveva mai
visto prima, ma sapeva che erano il bisnonno e la bisnonna. Tereza era contenta
di poter abitare con loro. Ora però voleva stare da sola con il suo animaletto.
Trovò con sicurezza la sua camera dove aveva abitato dall’età di cinque anni,
quando i genitori avevano deciso che meritava una stanza tutta per lei.
C’erano un divano, un tavolinetto e una sedia. Sul
tavolinetto c’era una lampada accesa che l’aveva aspettata lì tutto quel tempo.
Sulla lampada era posata una farfalla con le ali aperte sulle quali erano
disegnati due grandi occhi. Tereza sapeva di essere alla meta. Si sdraiò sul
divano e strinse il leprotto al viso.
♦ ♦ ♦
Era seduto al tavolo dove aveva l’abitudine di
leggere i suoi libri. Davanti aveva una busta aperta con una lettera. Stava
dicendo a Tereza:
“Di tanto
in tanto ricevo lettere delle quali non ti volevo dir nulla. È mio figlio che
mi scrive. Ho fatto di tutto per evitare che la mia e la sua vita venissero a
contatto. E guarda che vendetta mi ha preparato il destino! Sono già alcuni
anni che è stato espulso dall’università. Fa l’autista di trattori in un villaggio.
È vero, la mia e la sua vita non si toccano, ma corrono una accanto all’altra
nella stessa direzione come due parallele”.
“No, macché. Crede in Dio e pensa che in ciò sia
la chiave di tutto. Dice che dobbiamo vivere tutti la nostra vita di ogni
giorno secondo le regole date dalla religione, senza curarci dei regimi. I
regimi devono essere ignorati. Dice che se crediamo in Dio possiamo costruire,
in qualsiasi condizione, mediante il nostro agire, quello che lui chiama
"il Regno di Dio sulla terra". Mi spiega che nel nostro paese la
Chiesa è l'unica libera comunità di persone che sfugga al controllo dello
Stato. Mi chiedo se lui è nella Chiesa per meglio resistere al regime o perché
crede davvero in Dio”.
“Ho sempre ammirato i credenti. Pensavo che
avessero lo strano dono di una percezione soprasensoriale che a me era negata.
Qualcosa come i veggenti. Adesso però vedo con mio figlio che in fondo credere
è molto facile. Quando si è trovato in difficoltà, i cattolici si sono presi
cura di lui e così all’improvviso è arrivata la fede. Forse ha deciso di
credere per riconoscenza. Le decisioni umane sono di una terribile semplicità”.
Non so perché sono stato così testardo. Un giorno
uno prende una decisione senza nemmeno sapere come, e questa decisione continua
per propria forza d’inerzia. Con il passare degli anni è sempre più difficile
cambiarla”.
Non so perché sono stato così testardo. Un giorno
uno prende una decisione senza nemmeno sapere come, e questa decisione continua
per propria forza d’inerzia. Con il passare degli anni è sempre più difficile
cambiarla”.
Non avrebbero mai avuto il permesso di andare
all’estero. Non sarebbero più riusciti a trovare la strada di Praga, nessuno
avrebbe dato loro un lavoro. Quanto ad andare in un altro villaggio, a che
scopo?
Dio mio, era davvero necessario arrivare fin lì
perché lei fosse convinta che lui l’amava?
Si ripeteva che per tutta la vita aveva
approfittato della propria debolezza ai danni di Tomáš. Siamo tutti portati a
vedere nella forza il colpevole e nella debolezza la vittima innocente. Ma ora
Tereza si rende conto che nel loro caso è stato tutto il contrario!
Uscì dalla vasca e andò a cercare il vestito da
mettersi. Voleva indossare il vestito più bello per piacergli, per farlo
felice.
Mentre ballavano gli disse: “Tomáš, tutto il male
della tua vita proviene da me. A causa mia sei arrivato fin qua. Così in basso
che più in basso non è più possibile andare”.
Tomáš le disse: “Che stupidaggini vai dicendo? Che
è questo così in basso?”.
“Se fossimo rimasti a Zurigo, tu ora opereresti i
tuoi pazienti”.
“E tu faresti fotografie”.
“È un parallelo stupido” disse Tereza. “Per te il
tuo lavoro rappresenta tutto mentre io posso fare qualsiasi cosa, mi è del
tutto indifferente. Io non ho perso proprio nulla. Tu hai perso tutto”.
“Tereza,” disse Tomáš “non ti sei accorta che qui
sono felice?”.
“La tua missione era operare” disse.
“Tereza, una missione è una cosa stupida. Io non
ho nessuna missione.
Nessun uomo ha una
missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi, di non avere una
missione”.
Non era possibile non credere alla sincerità della
sua voce. Le tornò in mente la scena di quella mattina: lo vedeva riparare il
camion e le sembrava vecchio. Era arrivata là dove aveva voluto: in fondo aveva
sempre desiderato che lui fosse vecchio. Si ricordò nuovamente del leprotto che
stringeva al viso nella sua cameretta di bambina.
Che cosa significa diventare un leprotto?
Significa perdere ogni forza. Significa che ormai nessuno dei due è più forte
dell’altro.
Si muovevano a passo di danza al suono del
pianoforte e del violino e Tereza teneva la testa sulla sua spalla. Così
l’aveva tenuta quando erano stati insieme nell’aereo che li portava via
attraverso la nebbia. Adesso provava la stessa strana felicità e la stessa
strana tristezza di allora.
Quella tristezza voleva
dire: siamo all’ultima stazione. Quella felicità voleva dire: siamo insieme. La
tristezza era la forma e la felicità il contenuto. La felicità riempiva lo
spazio della tristezza.
Tomáš girò la chiave nella serratura e accese la
luce. Tereza vide due letti accostati, accanto a uno c’era un comodino con una
lampada. Dal paralume, spaventata dalla luce, si alzò in volo una grande
farfalla notturna e prese a girare per la camera. Dal basso giungeva debole il
suono del pianoforte e del violino.