Frammenti di un discorso amoroso
Roland barthes
Frammento di lettura
Parte prima
Il discorso
amoroso è oggi d’una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da
migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si
trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da
questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma
anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene,
dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale,
espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo,
non importa quanto esiguo, di un‘“affermazione”.
Questa non è
una filosofia dell’amore, bensì è una affermazione dell’amore.
FIGURE
L’innamorato
non smette mai di correre con la mente, di fare nuovi passi e d’intrigare
contro se stesso. Il suo discorso non esiste mai se non attraverso vampate di
linguaggio che gli vengono in seguito a circostanze infime, aleatorie.
La figura è
fondata se almeno una persona può dire: “Com’è vero, tutto ciò!
Per formare le
figure, bisogna soltanto farsi guidare dal sentimento amoroso.
Non sono poche
le figure evanescenti. Certune hanno la rarità delle essenze.
Che dire dell’Immagine,
della Lettera d’amore, dal momento che è tutto il discorso amoroso ad essere
intessuto di desiderio, d’immaginario e di dichiarazioni? Ma chi fa questo discorso
e ne mette in risalto gli episodi non sa che del suo discorso verrà fatto un
libro; non sa ancora che da buon soggetto culturale egli non deve nè ripetersi,
nè contraddirsi, nè prendere il tutto per la parte; egli sa soltanto che ciò
che gli passa per la testa nel tale momento è “segnato”, come il marchio di un
codice. Ciascuno può riempire questo codice con la sua propria storia.
Si dice che
soltanto le parole abbiano un loro impiego, non le frasi; ma nel fondo di
ciascuna figura c’è una frase, spesso sconosciuta (incosciente?), che trova la
sua utilizzazione nell’economia significante del soggetto amoroso. Questa frase
madre (qui solo postulata) non è una frase pienamente formata, non è un
messaggio compiuto. Il suo principio attivo non è quello che essa esprime, ma
ciò che essa articola: tutto considerato, quella frase non è altro che un
“motivo sintattico”, un “modo di costruzione”. Ad esempio, se il soggetto
aspetta a un appuntamento l’oggetto amato, un motivo di frase si agita nella
sua testa: “Certo che però non è il modo di fare…”; “lui/lei avrebbe ben potuto…”; “lui/lei sa
benissimo che…”: potere, sapere che cosa? Non ha nessuna importanza: la figura
“Attesa” è già formata.
Nella figura,
c’è qualcosa dell‘“allucinazione verbale” (Freud, Lacan): frase troncata che il
più delle volte si limita alla sua parte sintattica (“Sebbene tu sia…”, “Se tu
dovessi ancora…”). Così nasce la turbolenza di ogni figura: anche la più dolce porta in
se’ il palpito di una “suspense”: io avverto in essa il “quos ego”… nettuniano, tempestoso.
ORDINE
Per tutta la
durata della vita amorosa, le figure spuntano nella mente del soggetto amoroso
senza un qualsiasi ordine, dato che esse dipendono ogni volta da un caso
(interiore o esteriore). Ad ogni accidente (che gli “cade” addosso),
l’innamorato attinge dalla riserva (dal tesoro?) di figure, secondo i bisogni,
le esigenze o i piaceri del suo immaginario.
Ogni figura
brilla, vibra da sola come un suono avulso da qualsiasi melodia - o si ripete,
fino alla nausea, come il motivo d’una musica che aleggia nell’aria. Nessuna
logica lega tra loro le figure, né determina la loro contiguità: le figure sono
fuori sintagma, fuori racconto; sono delle Erinni; esse si agitano, sono
disordinate nel tempo, l’ordine funziona come un calendario perpetuo, come
un’enciclopedia della cultura affettiva (l’innamorato ha qualcosa di Bouvard e
Pecuchet).
Le figure sono
distribuzionali, senza però essere integrative; esse restano sempre allo stesso
livello: l’innamorato parla mediante gruppi di frasi, ma non integra queste
frasi a un livello superiore, a un’opera; il suo è un discorso orizzontale:
nessuna trascendenza, nessuna salvezza, nessun romanzo (ma molto di
romanzesco).
Ogni episodio
amoroso può essere dotato d’un senso: esso nasce, si sviluppa e muore: segue
cioè una sua strada che può sempre essere interpretata come una causalità o una
finalità, sia pure per moralizzare (“Ero pazzo e ora sono guarito”, “L’amore è
un’illusione da cui d’ora innanzi mi saprò guardare”, eccetera): è la “storia
d’amore”, asservita al grande Altro narrativo, all’opinione generale che
sminuisce qualsiasi forza eccessiva e vuole che lo stesso soggetto riduca il
grande flusso immaginario, che lo ha attraversato senza ordine e senza fine, a
una crisi dolorosa.
RIFERIMENTI
Werther” di
Goethe. Ve ne sono che derivano da letture insistenti (il Simposio di Platone,
lo Zen, la psicanalisi, certi mistici, Nietzsche, i “Lieder” tedeschi). Ve ne sono che derivano da letture
occasionali e altri che derivano da conversazioni con amici. E infine vi è ciò
che deriva dalla mia propria vita.
ABBRACCIO
“E’ dunque un
innamorato che parla e che dice”: “Nell’amorosa quiete delle tue braccia”. Per il soggetto, il gesto dell’ abbraccio
amoroso sembra realizzare, per un momento, il sogno di unione totale con
l’essere amato.
Oltre
all’accoppiamento (e al diavolo l’Immaginario), vi è quest’altro abbraccio, che
è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza
dormire; siamo nella voluttà infantile dell’addormentamento: è il momento delle
storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il
ritorno alla madre (“nell’amorosa quiete delle tue braccia”, dice una poesia
musicata da Duparc (DUPARC: “Chanson triste”, poesia di Jean Lahor. Si tratta
di cattiva poesia? Ma la “cattiva
poesia” coglie il soggetto amoroso nel registro espressivo che appartiene solo
a lui: l‘“espressione”). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il
tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti
i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.
Tuttavia, nel
mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa
sentire; esso viene a spezzare l’indistinta sensualità dell’abbraccio incestuoso;
la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere,
l’adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente
due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L’innamorato
potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane
Eros). 3. Momento dell’affermazione; per
un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il
verso giusto: sono stato appagato (tutti i miei desideri aboliti attraverso la
pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza
tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa,
mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione - la contrazione -
dei due abbracci.
ABITO
Ogni fenomeno
emotivo suscitato o alimentato dal vestito che il soggetto ha indossato in
occasione dell’incontro amoroso o che indossa nell’intento di sedurre l’oggetto
amato.
Io devo
rassomigliare a chi amo. lo postulo (ed è questo ciò che mi delizia) una
conformità di essenza fra l’altro e me. Immagine, imitazione: faccio il maggior
numero possibile di cose come l’altro. lo voglio essere l’altro voglio che lui
sia me, come se noi fossimo uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelle,
giacché il vestito non è altro che il liscio involucro di quella materia
coalescente di cui il mio Immaginario amoroso è fatto.
Werther: “M’è
costato fatica decidermi a togliermi di dosso il mio semplice frac turchino che
avevo la prima volta quando ho ballato con Lotte, ma negli ultimi tempi era
ridotto proprio indecente. Però me ne son fatto fare uno uguale…” (WERTHER: 103
e 159-60).
Ogni volta che
mette quel vestito Werther si traveste. Da che cosa? Da innamorato estasiato:
egli ricrea magicamente l’episodio dell’estasi, il momento in cui si è trovato
siderato dall’Immagine. Quel vestito turchino lo rinserra talmente forte, che
il mondo circostante si annulla: “soltanto noi due”: mediante quel vestito,
Werther si forma un corpo da bambino.
ADORABILE
Non riuscendo a
precisare la specialità del suo desiderio per l’essere amato, il soggetto
amoroso non trova di meglio che questa parola un po’ stupida: “adorabile”.
E’ il ricordo
di che cosa? Di ciò che i Greci chiamavano la “charis”: “lo splendore degli
occhi, la bellezza luminosa di un corpo, il fascino dell’essere desiderabile”;
può darsi persino che, come nella “charis” antica, io vi aggiunga l’idea - la
speranza - che l’oggetto amato si concederà al mio desiderio.
Con una logica
tutta particolare, il soggetto amoroso sente l’altro come un Tutto (come se si
trattasse della Parigi autunnale) e, al tempo stesso, questo Tutto gli sembra
comportare un resto, che egli non può esprimere. E’ soltanto l’altro a produrre
in lui una visione estetica: egli lo elogia per il fatto di essere perfetto, si
gloria per averlo scelto perfetto; immagina che l’altro voglia essere amato,
come vorrebbe esserlo lui stesso, non già per questa o quella sua qualità, ma
per “tutto”, e questo “tutto” glielo
concede sottoforma di una parola vuota, giacché Tutto non potrebbe
inventariarsi senza sminuirsi: all’infuori del “tutto” dell’affetto, in
“Adorabile!” non è contenuta nessuna qualità.
Tuttavia, esprimendo tutto, “adorabile” esprime anche ciò che manca al
tutto; la parola vuole designare lo spazio dell’altro in cui viene
“specialmente” ad innestarsi il mio desiderio, ma questo spazio non è io non
saprò mai niente di lui; il mio linguaggio sarà sempre confuso, esso
cincischierà nel tentativo di esprimerlo, ma io non potrò mai produrre altro
che una parola vuota, la quale è come il grado zero di tutti gli spazi in cui
si forma il desiderio specialissimo che io ho di quell’altro là (e non di un
altro). 3. Nella mia vita, io incontro
milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma,
di queste centinaia, io ne amo uno solo. L’altro di cui io sono innamorato mi
designa la specialità del mio desiderio.
Questa scelta, rigorosa al punto da non prendere in considerazione che
l’Unico, costituisce, si dice, la differenza tra il transfert analitico e il
transfert amoroso; l’uno è universale, l’altro è specifico (LACAN: “Non avviene
tutti i giorni d’incontrare ciò che è fatto per darvi la giusta immagine dei
vostro desiderio” (“Il Seminario”, 1, 178). Per trovare l’Immagine che, tra
migliaia, si confà al mio desiderio, ci sono volute molte combinazioni, molte
sorprendenti coincidenze, e forse molte ricerche. un certo modo di muovere le
dita mentre parla, mentre fuma? Di tutte queste “caratteristiche” del corpo, ho
voglia di dire che sono “adorabili”. “Adorabile” vuol dire: questo è il mio
desiderio, in quanto esso è unico: “E’ questo! E’ esattamente questo (che io
amo)!” Tuttavia, più provo la specialità
del mio desiderio, meno sono in grado di precisarla; alla precisione di ciò che
voglio dire corrisponde uno sfocamento del nome; il proprio del desiderio non
può produrre altro che un improprio dell’enunciato. Di questo fallimento linguistico,
resta soltanto una traccia: la parola “adorabile” (la buona traduzione di
“adorabile” sarebbe l‘“ipse” latino: proprio lui in persona.
E’ adorabile “ciò che è adorabile”. O anche: ti
adoro perché sei adorabile, ti amo perché ti amo. Ciò che limita cosi’ il linguaggio
amoroso, è precisamente ciò che lo ha istituito: la fascinazione.
Giacché
descrivere la fascinazione non può mai, “in fin dei conti”, andare al di là di
questo enunciato: “io sono affascinato”. Avendo raggiunto il limite estremo del
linguaggio, là dove, come un disco che si è incantato, esso non può che
ripetere “la sua ultima parola”, io mi stordisco con la sua affermazione: la
tautologia non è forse quella improbabile situazione in cui, con tutti i valori
mescolati fra loro, si ritrovano la fine gloriosa dell’operazione logica,
l’osceno dell’imbecillità.
L’INTRATTABILE
Nonostante
tutto, il soggetto amoroso afferma l’amore come valore. Ascolto gli argomenti
che i sistemi più disparati adoperano per demistificare, limitare, cancellare,
in poche parole svilire l’amore, ma mi ostino: “Si certo, lo so,
però…” Attribuisco il discredito nei
confronti dell’amore a una sorta di morale oscurantista, a un
realismo-farsa, a cui oppongo il reale del valore: a tutto “ciò che non va”
nell’amore, contrappongo l’affermazione di ciò che in esso vale.
Il mondo pone
ogni iniziativa di fronte a un’alternativa; quella della riuscita o del
fallimento, della vittoria o della sconfitta. lo affermo un’altra logica:
contraddittoriamente, io sono al tempo stesso felice e infelice: per me,
“riuscire” o “fallire” hanno soltanto un significato contingente, effimero (ciò
che non toglie che le mie pene e i miei desideri siano violenti); quello che,
sordamente e ostinatamente, mi anima non è affatto calcolato: io accetto e
affermo fuori del vero e del falso, fuori di ciò che è riuscito e di ciò che è
fallito; non mi pongo alcuna finalità, vivo secondo il caso (a riprova che le
figure del mio discorso mi vengono per combinazione) (PELLEAS: “Che hai? Tu non
mi sembri felice. Si, sono felice, ma sono triste”.
Se misurato
all’avventura (cosa che mi capita), non ne esco né vincitore né vinto: sono
tragico [SCHELLING: “L’essenziale della tragedia è […] un conflitto reale fra
la libertà nel soggetto e la necessità oggettiva, conflitto che si risolve non
per la sconfitta dell’uno o dell’altro, ma perché tutti e due, ad un tempo
vincitori e vinti, appaiono nella perfetta indifferenza”.
Mi si dice:
questa specie d’amore non dà frutti. Ma come poter valutare ciò che fruttifica?
Perché ciò che dà frutti è un Bene? Perché durare è meglio che bruciare?) 2.
Stamattina, devo scrivere con urgenza una lettera “importante” - dalla quale
dipende il successo d’una certa iniziativa; scrivo invece una lettera d’amore -
che non spedisco. Abbandono allegramente tristi incombenze, ragionevoli
scrupoli, comportamenti reattivi imposti dal mondo, a beneficio d’un compito
inutile, derivato da un Dovere luminoso: il Dovere amoroso. Con discrezione,
faccio delle cose pazze; sono l’unico testimone della mia follia. Quello che
l’amore mette a nudo in me è l’energia. Tutto ciò che faccio ha un senso (posso
perciò vivere senza lamentarmi), ma questo senso è una finalità inafferrabile:
esso non è altro che la coscienza della mia forza. Le inflessioni dolenti,
colpevoli, tristi, tutto il reattivo della mia vita d’ogni giorno è sconvolto.
Vi sono due
affermazioni dell’amore. Innanzitutto, quando l’innamorato incontra l’altro,
c’è affermazione immediata (psicologicamente: estasi, entusiasmo, esaltazione,
proiezione folle d’un avvenire appagato: sono divorato dal desiderio,
dall’impulso di essere felice): dico di si a tutto (illudendomi). A tutto
questo fa seguito un lungo tunnel: il mio primo si è roso dal
dubbio, il valore amoroso è continuamente
minacciato dallo svilimento: è il momento della passione triste, il momento in cui vanno crescendo
il risentimento e l’oblazione. Da questo tunnel, tuttavia, io posso uscire;
posso “sormontare”, senza liquidare; ciò che ho affermato una prima volta,
posso affermarlo nuovamente, senza ripeterlo, poiché ciò che affermo è
l’affermazione, non la sua contingenza: affermo il primo incontro nella sua
differenza, voglio il suo ritorno, non la sua ripetizione. Io dico all’altro
(vecchio o nuovo): “Ricominciamo”.
ALTERAZIONE
vedere l’altro
preso nel conformismo del mondo sociale. (O anche: l’altro si altera se si
conforma alle banalità che il mondo professa per svilire l’amore: Una volta,
parlando di noi, l’altro mi ha detto: “una relazione di qualità”; questa parola
non mi è piaciuta: essa scaturiva bruscamente dal di fuori, banalizzando la
specialità del rapporto con una formula conformista. Spesso, l’altro si altera attraverso il
linguaggio; egli dice una parola diversa e subito sento tumultuare
minacciosamente “un mondo completamente diverso”, che è poi il mondo dell’altro.
La parola è
fatta d’una sostanza chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni.
Quello che io
individuo nell’altro, e di cui lui non ha coscienza, è solo un desiderio
nascente, una vampata di desiderio: nella conversazione, lo vedo agitarsi,
moltiplicarsi, “strafare”, mettersi in posizione di questuante nei confronti di
un terzo, come attaccato a lui per sedurlo. Osservate bene tale riunione: ci
vedrete questo soggetto che perde la testa (moderatamente, mondanamente) per
quest’altro, spinto a stabilire con lui una relazione più calorosa, più
esigente, più adulatoria. Avverto uno “smarrimento d’essere”, che non è poi
molto diverso da ciò che Sade avrebbe chiamato l‘“effervescenza di testa”. Il
discorso amoroso è solitamente un involucro liscio che aderisce all’Immagine,
un morbidissimo guanto intorno all’essere amato. E’ un discorso devoto,
benpensante. Quando l’Immagine si altera, l’involucro di devozione si strappa;
una scossa viene a sconvolgere il mio proprio linguaggio.
L’orrore di
guastare è ancora più forte dell’angoscia di perdere.
AGONY
ANGOSCIA. A
seconda di tale o talaltra circostanza, il soggetto amoroso si sente trascinato
dalla paura di un pericolo, di una ferita, di un abbandono, di un improvviso
cambiamento - sentimento che egli esprime con la parola “angoscia”. Per potersi
manifestare pienamente, esse aspettano solo che passi un po’ di tempo. “Con
calma”, prendo un libro e un sonnifero. Niente di “amichevole” che mi riscaldi. Ho freddo.
La ascolto”
precisarsi, sollevarsi, come una figura inesorabile, sullo sfondo “delle cose
che sono. Lo psicotico vive nel timore del crollo (di cui le diverse psicosi
non sarebbero altro che le difese).
Ma “la paura
clinica del crollo è la paura d’un crollo che è già stato subito (“primitive
agony”) […] e vi sono dei momenti in cui un paziente ha bisogno che gli si dica
che il crollo la cui paura mina la sua vita è già avvenuto”. Lo stesso avviene,
a quanto sembra, per l’angoscia d’amore: essa è la paura di una perdita che è
già avvenuta, sin dall’inizio dell’amore, sin dal momento in cui sono stato
stregato. Bisognerebbe che qualcuno potesse dirmi: “Non essere più angosciato,
tu l’hai già perduto(a)”
AMARE L’AMORE
ANNULLAMENTO
Accesso di
linguaggio durante il quale il soggetto giunge ad annullare l’oggetto amato
sotto il volume dell’amore stesso: con una perversione propriamente amorosa, il
soggetto ama l’amore, non l’oggetto. Io desidero il mio desiderio, e l’essere
amato non è più che il suo accessorio. Mi esalto al pensiero di una così nobile causa, che non tiene nel minimo conto la
persona che ho preso a pretesto (questo è almeno quanto mi dico, felice di
potermi innalzare sminuendo l’altro): io sacrifico l’immagine all’Immaginario.
E se un giorno dovessi decidermi di rinunciare all’altro, il violento lutto che
mi colpirebbe sarebbe il lutto dell’Immaginario: era una struttura cara, e io
piangerei la perdita dell’amore, non già la perdita di questa o quella persona.
L’altro è
dunque annullato dall’amore: da questo annullamento, io ricavo un sicuro
vantaggio; non appena sono minacciato da un dolore accidentale (per esempio,
un’idea di gelosia), lo riassorbo nella magnificenza e nell’astrazione del
sentimento amoroso: mi placo nel desiderare ciò che, non essendoci, non può
ferirmi. Tuttavia, subito dopo, soffro vedendo l’altro (che amo) così sminuito, ridotto,
e come escluso dal sentimento che lui ha suscitato. Mi sento colpevole e mi
rimprovero di volerlo abbandonare. A questo punto, ha luogo un rovesciamento:
cerco di disannullarlo, mi obbligo a soffrire nuovamente.
“Tutte le
voluttà della terra”.
APPAGAMENTO
Il soggetto
ricerca, con ostinazione, la possibilità di ottenere una totale soddisfazione
del desiderio implicito nella relazione amorosa e di conseguire un successo
completo e come eterno di questa relazione: Immagine paradisiaca del Bene
Supremo da dare e da ricevere. 1.
“Prendete tutte le voluttà della terra, fondetele in una sola e quindi
precipitatela tutt’intera in un solo uomo; ebbene, tutto ciò non è niente in
confronto al godimento di cui io parlo”
[RUYSBROECK: 9, 10 e 20].
L’appagamento
sarebbe dunque una precipitazione: qualcosa si condensa, fonde su di me, mi
folgora. Che cos’è che mi colma a tal punto? Una totalità? No. E’ qualcosa che, muovendo dalla totalità, la
supera: una totalità netta, una somma senza eccezione, un luogo senza niente
vicino (“la mia anima non è solo colmata, ma sommersa”). lo colmo (sono
colmato), io accumulo, ma senza pormi dei limiti; io produco un “troppo”, ed è
proprio in questo troppo che l’appagamento ha luogo (il “troppo” è il regime
dell’Immaginario: nel momento in cui non sono più nel “troppo”, io mi sento
frustrato; per me, “giusta misura” vuol dire “non abbastanza”): ho infine modo
di conoscere quello stato in cui “il godimento supera le possibilità che il
desiderio aveva fatto intravedere”. Oltrepasso
i limiti della sazietà e, invece di trovare il disgusto, la nausea, o anche
solo l’ebbrezza, scopro… la “Coincidenza” [ETIMOLOGIA: satis (abbastanza). La
dismisura mi ha con dotto alla misura; coincido con l’Immagine, le nostre
misure sono le stesse: esattezza, precisione, musica: con il “non abbastanza”,
io ho chiuso. Da questo momento, vivo l’assunzione definitiva dell’Immaginario,
il suo trionfo.
Appagamenti:
non vengono detti - di modo che, falsamente, la relazione amorosa sembra
ridursi a essere un lungo lamento. Il fatto è che, se è incoerente esprimere
malamente l’infelicità, per contro, nel caso della felicità, sarebbe una colpa
sciuparne l’espressione: l’io parla solo quando è ferito; quando mi sento
appagato o mi ricordo di esserlo stato, il linguaggio ci appare angusto: io
sono “trasportato” fuori del linguaggio,
cioè fuori del mediocre, del generico: “Avviene un incontro che, a causa della
gioia, è intollerabile, e talora l’uomo ne è annichilito; questo è ciò che io chiamo
il trasporto. Il trasporto è la gioia di cui non si può parlare”. 2. In realtà, do poca importanza alle mie
possibilità di essere “veramente” appagato (vorrei anzi non averne). Ciò che
invece, indistruttibile, continua a risplendere, è la volontà di
appagamento. Attraverso questa volontà,
io derivo: io formo dentro di me l’utopia di un soggetto sottratto alla
rimozione: io sono “già” questo soggetto. Questo soggetto è libertario: credere
al Bene Supremo è altrettanto pazzesco che credere al Male Supremo:
filosoficamente parlando, Heinrich von Ofterdingen è della medesima stoffa
della Juliette sadiana. “Appagamento”
vuol dire abolizione dei retaggi: “… la Gioia non ha alcun bisogno di eredi o
di bambini - La Gioia vuole se stessa, l’eternità, la ripetizione delle stesse
cose, essa vuole che tutto resti com’è”. - L’innamorato appagato non ha alcun
bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre.
ASCESI
Sia che si
senta colpevole nei confronti dell’essere amato, sia che voglia impressionarlo
mostrandogli la sua infelicità, il soggetto amoroso abbozza una condotta
ascetica di autopunizione. Dato che sono colpevole di questo e di quello (io
ho, io trovo cento ragioni per esserlo), io mi punisco, mortifico il mio corpo:
mi faccio tagliare i capelli cortissimi, nascondo il mio sguardo dietro a degli
occhiali scuri (come se dovessi entrare in convento), mi consacro allo studio
di una scienza seria e astratta. Sarò molto paziente, un po’ triste, in poche
parole, “degno”, come si addice all’uomo risentito. Mostrerò istericamente il mio lutto (il lutto
che io m’immagino) attraverso il mio vestito, il taglio dei miei capelli, la
regolarità delle mie abitudini. Sarà un piacevole romitaggio, un ritiro
spirituale necessario al buon funzionamento di un patetico discreto. 2. L’ascesi (la velleità d’ascesi) è rivolta
all’altro: voltati, guardami, renditi conto di cosa stai facendo di me. E’ un
ricatto morale: io metto di fronte all’altro la figura della mia propria
scomparsa, quale essa sicuramente avrà luogo se lui non cede (a che
cosa?).
L’assente.
Ogni episodio
di linguaggio che mette in scena l’assenza dell’oggetto amato - quali che siano
la causa e la durata - e tende a trasformare questa assenza in prova
d’abbandono. 1. Molti Lieder, molte
melodie e canzoni sull’assenza amorosa. E tuttavia, questa figura classica,
in “Werther”, non la si trova. La
spiegazione è semplice: là, l’oggetto amato (Carlotta) non si muove; è il
soggetto amoroso (Werther) che, a un certo punto, s’allontana. Orbene, l’unica
assenza è quella dell’altro: è l’altro che parte, sono io che resto. L’altro è
in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è,
per vocazione, migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione
inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso
posto, “in giacenza”. L’assenza amorosa è possibile in un solo senso e non può
essere espressa che da chi resta - e non da chi parte: “io”, sempre presente,
non si costituisce che di fronte a “te”, continuamente assente. Esprimere
l’assenza equivale a significare di colpo che il posto del soggetto e il posto
dell’altro non possono essere permutati; è come dire: “Sono meno amato di quanto io ami”.
Storicamente,
il discorso dell’assenza viene fatto dalla Donna: la Donna è sedentaria, l’Uomo
è vagabondo, la Donna è fedele (Aspetta), l’uomo è cacciatore (Cerca
l’avventura, fa la corte.) Donna, chi piangi tu? - L’assente” (“L’absent”,
poema musicato da Faur‚)]. E’ la Donna che dà forma all’assenza, che ne elabora
la finzione, poiché ha il tempo per farlo; essa tesse e canta; le Tessitrici,
le Canzoni cantate al telaio esprimono al tempo stesso l’immobilità e
l’assenza. Ne consegue che in ogni uomo che esprime l’assenza dell’altro si
manifesta l’elemento “femminino”: l’uomo che attende e che soffre è
miracolosamente femminizzato. Un uomo è femminizzato non perché è invertito, ma
perché è innamorato. (Mito e utopia: come l’origine è appartenuta, così anche l’avvenire apparterrà ai soggetti “in cui vi è del femminino”) [E. B.:
lettera]. 3. Talvolta mi succede di
sopportare bene l’assenza. lo sono allora “normale”: sono in linea col modo in
cui “tutti” sopportano la separazione da una “persona cara”; mi conformo con
cognizione all’addestramento attraverso cui sono stato abituato assai per tempo
ad essere separato da mia madre. Aspettando, so nutrirmi di altre cose che non
siano solamente il seno materno. Questa
assenza ben sopportata non è altro che l’oblio. A intermittenza, io sono
infedele. La condizione per la mia sopravvivenza; poiché se io non
dimenticassi, morirei. L’innamorato che non dimentica “qualche volta”, muore
per eccesso, fatica e tensione di memoria (come Werther). (Da bambino, non dimenticavo: giornate
interminabili, abbandonate, in cui la Madre lavorava lontano; la sera, andavo
ad aspettarla alla fermata dell’autobus a Sèvres-Babylone; gli autobus
passavano e ripassavano e lei non era in nessuno di quelli). 4. Mi risveglio molto in fretta da questo
oblio. Metto frettolosamente a posto una memoria, uno smarrimento. Una parola
(classica) ha origine dal corpo, che esprime l’emozione d’assenza: “sospirare”: “sospirare per la presenza
corporea” [DIDEROT: “Poni le tue labbra su di me / E che uscendo dalla mia
bocca / La mia anima entri in te” (“Chanson dans le go–t de la romance”)]: le
due metà dell’androgino sospirano l’una per l’altra, come se ogni respiro,
incompleto volesse confondersi con l’altro: immagine dell’abbraccio, in quanto
esso fonde le due immagini in una sola: nell’assenza amorosa io sono, tristemente,
un “immagine staccata”. Pathos”, per il desiderio dell’essere assente, e
“Himeros”, più ardente, per il desiderio dell’essere presente).
Da tale
singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo
incastrato fra due tempi. Tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei
qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos’è il presente, questo tempo
difficile: un pezzo di angoscia pura.
L’assenza si protrae e bisogna che io la sopporti. lo devo perciò
“manipolarla”: trasformare la distorsione del tempo in un movimento di va e
vieni, produrre del ritmo, aprire la scena del linguaggio (il linguaggio nasce
dall’assenza: il bambino si è fabbricato un rocchetto, lo lancia e lo
riacchiappa, mimando la partenza e il ritorno della madre: un paradigma è stato
creato). L’assenza diventa una pratica attiva, un “affaccendamento” (che
m’impedisce di fare altro); ha luogo la creazione d’una finzione con ruoli
multipli (dubbi, rinfacciamenti, desideri, malinconie). Questa messa in scena
di linguaggio allontana la morte dell’altro: un brevissimo momento, si dice,
separa il tempo in cui il bambino crede sua madre ancora assente da quello in
cui la crede già morta.
La frustrazione
avrebbe per figura la Presenza (ogni giorno vedo l’altro e tuttavia non ne sono
sazio: l’oggetto è qui, realmente, ma, immaginariamente, seguita a mancarmi). Intermittenza
(accetto di lasciare per un po’ l’altro, “senza piangere”, rinuncio alla
relazione, so “dimenticare”). L’Assenza è la figura della privazione; io
desidero e ho bisogno simultaneamente. Il desiderio si spegne sul bisogno:
questo è il fatto ossessionante del sentimento amoroso. (“Il desiderio è qui, ardente, eterno: ma Dio
è più in alto, e le braccia levate non raggiungono mai l’adorata pienezza”
[RUYSBROECK: 44]. Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi
sono “le braccia levate del Desiderio”, e vi sono “le braccia” tese del
bisogno. Rendo l’assenza dell’altro responsabile della mia mondanità: “invoco”
la sua protezione, il suo ritorno: voglio che l’altro compaia, che, come una
madre che viene a prendere il suo bambino.
Un koan
buddhistico dice [s. s.: koan riferito da S. S.]: “Il maestro tiene a lungo
sott’acqua la testa del discepolo; poco a poco le bollicine d’aria si diradano;
all’ultimo momento, il maestro tira fuori il discepolo e lo rianima: Quando
desidererai la verità come hai desiderato l’aria, allora saprai cos’è”. L’assenza dell’altro mi tiene la testa
sott’acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più rarefatta: ed è
attraverso quest’asfissia che io ricostituisco la mia “verità” e preparo
l’Intrattabile dell’amore.
ATOPOS
Il soggetto
amoroso riconosce l’essere amato come “atopos” (qualifica attribuita a Socrate
dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di una originalità
sempre imprevedibile.
[NIETZSCHE:
sull‘“atopia” di Socrate, confronta Michel Guérin, “Nietzsche, Socrate héro que”]. L’altro che
io amo e che mi affascina è “atopos”. Io non posso classificarlo, poiché egli è
precisamente l’Unico, l’Immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente
alla specialità dei mio desiderio. E’ la figura della mia verità; esso non può
essere fissato in alcun stereotipo (che è la verità degli altri). Tuttavia, durante la mia vita, io ho amato o
amerò più volte. Questo significherebbe dunque che il mio desiderio, per quanto
speciale, si fissa su un tipo? Il mio desiderio è dunque classificabile? C’è,
mi domando, fra tutti gli esseri che ho amato, un solo tratto comune che, per
quanto tenue (un naso, una pelle, un qualcosa), mi permetta di dire: ecco il
mio tipo!
Ogni volta che
sul volto dell’altro leggo la sua innocenza, la sua grande innocenza, vi colgo
la sua atopia: egli non sa il male che mi fa - o, per dirla con meno enfasi,
non sa quanti problemi mi crea.
L’innocente non è forse inclassificabile (e perciò tenuto in sospetto in
ogni società la quale “si riconosce” soltanto dove può classificare delle
Colpe)?
Mi era capitato
un paio di volte di cogliere nei suoi occhi un’espressione d’una tale “innocenza”
(non c’è altra parola) che, nonostante tutto, io mi ostinavo a volerlo mettere
in un certo senso, in una posizione diversa dalla sua, al di fuori del suo
proprio carattere. In quel momento, lo esoneravo da ogni commento. Come
innocenza, l’atopia resiste alla descrizione, alla definizione, al linguaggio,
che è “maya”, classificazione di Nomi (di Colpe). Essendo atopico, l’altro fa
tremare il linguaggio: non si può parlare “di” lui, “su” lui; qualsiasi
attributo è falso, doloroso, altro è “inqualificabile” (e questo sarebbe il
vero significato di “atopos”)
Di fronte alla
brillante originalità dell’altro, io non mi sento mai “atopos”, ma semmai
classificato (come un dossier fin troppo noto). Talvolta, riesco però a
sospendere il gioco delle immagini ineguali (“Perché mai non posso essere
anch’io originale, forte quanto l’altro?”) [R. H.: conversazione]; indovino che
la vera originalità non è né in me né nell’altro, ma nella nostra stessa
relazione. Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione. La
maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo: io sono
costretto, come tutti, a far la parte dell’innamorato: ad essere geloso,
trascurato, frustrato come gli altri.
Ma quando la
relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la
gelosia, ad esempio, non ha più luogo d’essere in questo rapporto senza luogo,
senza “topos”.
ATTESA
Tumulto
d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi
ritardi.
Sto aspettando
un arrivo, un ritorno, un segnale promesso. Ciò può essere futile o
infinitamente patetico: in “Erwartung” (attesa), una donna aspetta, nella
foresta, di notte, il suo amante; io sto aspettando solamente una telefonata,
ma è la stessa angoscia. Tutto è solenne: non ho il senso delle “Proporzioni”. Vi
è una scenografia dell’attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo
di tempo in cui mimerò la perdita dell’oggetto amato e provocherò tutti gli
effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una
recita. La scena rappresenta l’interno di un caffè;
abbiamo appuntamento e io sto aspettando. Nel Prologo, unico attore della
commedia (e a ragione), io constato, registro il ritardo dell’altro; questo
ritardo è ancora soltanto un’entità matematica, guardo il mio orologio diverse
volte); il Prologo finisce quando, con un colpo di testa, decido di “farmi
venire il sangue cattivo”, di dare libero sfogo all’angoscia dell’attesa. Qui
ha inizio il primo atto; esso passa in congetture: e se per caso non ci fossimo
capiti circa l’ora, il posto? Cerco di ricordarmi il momento in cui è stato
fissato l’appuntamento, le indicazioni che ci siamo scambiati. Che fare
(angoscia di comportamento)? Andare in
un altro caffè? Telefonare? Ma se l’altro arriva mentre io non ci sono? Non
vedendomi, c’è il rischio che se ne vada, eccetera. Il secondo atto è quello
dell’ira; rimprovero violentemente l’assente: “Però lui (o lei) avrebbe ben
potuto…”, “Lui (lei) sa benissimo…” Ah! se lei (lui) fosse qui, potrei
rimproverarle(-gli) di non essere qui! L’angoscia pura: quella dell’abbandono:
in un attimo, io sono passato dall’assenza alla morte; l’altro è come morto:
esplosione di lutto: io sono interiormente “livido” [WINNICOTT: “Jeu et
Réalit‚”, 34 e 21]. Questa è la recita; essa può essere abbreviata dall’arrivo
dell’altro; se arriva in primo, l’accoglienza è calma; se arriva in secondo,
avviene una “scenata”; se arriva in terzo, vi è la riconoscenza, l’atto di
grazia: io respiro nuovamente a pieni polmoni, come Pelléas allorché, uscendo
dal sotterraneo, ritrova la vita, il profumo delle rose [Pelléas]. L’angoscia dell’attesa non è continuamente
violenta.
L’attesa è un
incantesimo: io ho avuto “l’ordine di non muovermi”. L’attesa d’una telefonata
si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, “all’infinito”.
L’essere che io
aspetto non è reale. Io lo creo e lo ricreo continuamente a cominciare dalla
mia capacità di amare, a cominciare dal bisogno che io ho di lui” [Winnicott]: l’altro viene là dove io lo sto
aspettando, là dove io l’ho già creato. E, se lui non viene, io lo allucino:
l’attesa è un delirio.
Sono
innamorato? - Sì, poiché sto aspettando”. L’altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a
quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in
ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi
ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale
identità dell’innamorato non è altro che: “io sono quello che aspetta.”
Ove vi è attesa,
vi è transfert: io dipendo da una persona che si fa a mezzo e che impiega del
tempo a darsi - come se si trattasse di far scemare il mio desiderio,
d’infiacchire il mio bisogno. “Fare aspettare” [E. B.: lettera]: prerogativa
costante di qualsiasi potere, “passatempo millenario dell’umanità”)
VOGLIO CAPIRE
Sentendo
improvvisamente l’episodio amoroso come un groviglio di motivazioni
inspiegabili e di situazioni senza vie d’uscita, il soggetto esclama: “Voglio
capire (che cosa mi sta capitando)!”
Che cosa penso
dell’amore? - In fondo, non penso niente. Certo, vorrei sapere “che cos’è”, ma,
vivendolo dal di dentro, lo vedo in quanto esistenza, non in quanto essenza.
Ciò che voglio conoscere (l’amore) è per l’appunto la materia che adopero per
parlare (il discorso amoroso).
Naturalmente, la riflessione mi è consentita, ma, siccome questa
riflessione viene subito trascinata nel ribollimento delle immagini, essa non
muta mai in riflessività: escluso dalla logica (che presuppone dei linguaggi
estranei gli uni agli altri), non posso pretendere di poter “pensare con
lucidità”.
Io mi trovo nel
“posto sbagliato” dell’amore, che è poi il suo punto più in vista; dice un
proverbio cinese: “Il punto più in ombra, si trova sempre sotto la
lampada”[REIK: proverbio citato da Reik, 184]
Uscendo dal
cinema, solo, rimuginando sul mio problema amoroso che il film non ha potuto
farmi dimenticare, curiosamente non esclamo: “tutto questo deve finire!” ma:
“voglio capire” (che cosa mi sta capitando)!
Voglio
analizzare, sapere, enunciare, in un linguaggio diverso dal mio; voglio
raffigurare a me stesso il mio delirio, voglio “guardare in faccia” ciò che mi
divide, mi taglia. “Capite la vostra
follia” [SIMPOSIO: 174]
Capire, non è
forse scindere l’immagine, disfare l’io, organo superbo della
disconoscenza? Interpretazione: il vostro grido vuole dire
un’altra cosa. A ben guardare, esso è ancora un grido d’amore: “Io voglio
capirmi, farmi capire, farmi conoscere, farmi baciare; io voglio che qualcuno
mi prenda con s‚” [A. C.: lettera]. Questo è il significato del vostro grido.
Voglio cambiare
sistema: non più smascherare, non più interpretare, ma della coscienza stessa
fare una droga e, attraverso essa, accedere alla visione netta del reale, al
grande sogno nitido, all’amore profetico [ETIMOLOGIA: i Greci contrapponevano
“onar”, il sogno puro e semplice, a
“hypar”, la visione profetica (mai creduta). Segnalato da J.-L. B]. (E se la coscienza - un tal genere di
coscienza - fosse il nostro avvenire umano? E se, con un giro supplementare
della spirale, un giorno, che sarebbe certo il più radioso di tutti, scomparsa
ogni ideologia reattiva, la coscienza diventasse l’abolizione del manifesto e
del latente, dell’apparenza e del nascosto? E se all’analisi fosse chiesto non
già di distruggere la forza (e neanche di correggerla o di dirigerla), ma solo
di “decorarla” da artista? Poniamo che la scienza dei lapsus scopra un giorno
il suo proprio lapsus, e che questo lapsus sia: una forma nuova, inedita, della
coscienza?) La catastrofe.
CATASTROFE.
Crisi violenta
durante la quale il soggetto, sentendo la situazione amorosa come un vicolo
cieco, una trappola da cui non potrà mai più uscire, si vede destinato a una
totale distruzione di s‚. 1. Vi sono due
tipi di disperazione: la disperazione pacata, la rassegnazione attiva (“lo vi
amo come bisogna amare: nella disperazione”), e la disperazione violenta: un
bel giorno, in seguito a un incidente qualsiasi, mi chiudo nella mia stanza e
scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal
dolore; il mio corpo s’irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e
tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato [Mademoiselle de
Lespinasse]. Tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione
insidiosa, ma in fondo molto civile, degli amori difficili; non c’è alcun
rapporto con l’annichilimento in cui si viene a trovare il soggetto
abbandonato: qui, sono come folgorato, ma lucido. La sensazione che provo è
quella di una vera e propria catastrofe: “Ecco, “sono veramente fottuto!”” (La causa? Non è mai solenne - per esempio,
una dichiarazione di rottura; la cosa avviene senza preavviso, o per effetto di
un’immagine che riesce insopportabile.
La catastrofe
amorosa s’avvicina forse a ciò che, nel campo psicotico, è stata definita
una “situazione estrema”, la quale è
“una situazione che il soggetto vive conscio del fatto che essa finirà col
distruggerlo irrimediabilmente”; l’immagine è ricavata da ciò che avvenne a
Dachau. Le due situazioni hanno in comune questo:
esse sono, alla lettera, due, situazioni paniche [ETIMOLOGIA: “panico” è riconducibile al dio
Pan; ma si può giocare con le etimologie come con le parole (lo si è sempre
fatto) e far finta di credere che “panico” derivi dall’aggettivo greco che vuoi
dire “tutto”]: Entrambe sono senza seguito, senza ritorno: io mi sono talmente
trasfuso nell’altro che, quando esso mi viene a mancare, non riesco più a
riprendermi, a ricuperarmi: sono perduto per sempre.
CIRCOSCRIVERE.
Per ridurre la
propria infelicità, il soggetto ripone la sua speranza in un metodo di
controllo che gli dovrebbe permettere di circoscrivere i piaceri che la
relazione amorosa gli dà: da una parte, continuare a tenersi questi piaceri,
approfittarne pienamente, e, dall’altra, mettere in una parentesi d’impensato
le larghe zone depressive che separano questi piaceri: “dimenticare” l’essere
amato al di fuori dei piaceri che esso dà.
1. Cicerone, prima, e Leibniz, poi, hanno contrapposto “gaudium” e
“laetitia” [LEIBNIZ: “Nuovi saggi sull’intelletto umano”, XX e 296]. “Gaudium”
è il “piacere che l’anima prova quando considera sicuro il possesso di un bene
presente o futuro, ed un bene è in nostro possesso quando è in nostro potere il
poterne godere quando lo vogliamo”. “Laetitia” è un piacere allegro, “uno stato
nel quale il piacere predomina in noi” (in mezzo ad altre sensazioni talvolta
contraddittorie). “Gaudium” è ciò che io
vagheggio: godere di un possesso perpetuo. Ma non potendo ottenere “Gaudium”, da cui troppi ostacoli mi
separano, considero l’eventualità di ripiegare su “Laetitia”.
Perché non
potrei avere della relazione amorosa una visione antologica? Perché, per
cominciare, non potrei capire che una profonda afflizione non esclude dei
momenti di piacere puro (come il cappellano di “Madre Courage” [BRECHT: “Madre
Courage e i suoi figli”, 1323] che spiega che “la pace esiste anche in guerra”)
e, in seguito non potrei riuscire a dimenticare sistematicamente le zone d’allarme
che separano questi momenti di piacere? Perché non potrei essere disattento,
incoerente?