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lunedì 31 agosto 2020

FRAMMENTI DI UN DISCORSO AMOROSO - Frammento di lettura

 

 

 

 

 

 

 

Frammenti di un discorso amoroso

Roland barthes

 

 

 

Frammento di lettura

Parte prima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un‘“affermazione”.

Questa non è una filosofia dell’amore, bensì è una affermazione dell’amore.

 

FIGURE

 

L’innamorato non smette mai di correre con la mente, di fare nuovi passi e d’intrigare contro se stesso. Il suo discorso non esiste mai se non attraverso vampate di linguaggio che gli vengono in seguito a circostanze infime, aleatorie.

La figura è fondata se almeno una persona può dire: “Com’è vero, tutto ciò!

Per formare le figure, bisogna soltanto farsi guidare dal sentimento amoroso.

Non sono poche le figure evanescenti. Certune hanno la rarità delle essenze.

Che dire dell’Immagine, della Lettera d’amore, dal momento che è tutto il discorso amoroso ad essere intessuto di desiderio, d’immaginario e di dichiarazioni? Ma chi fa questo discorso e ne mette in risalto gli episodi non sa che del suo discorso verrà fatto un libro; non sa ancora che da buon soggetto culturale egli non deve nè ripetersi, nè contraddirsi, nè prendere il tutto per la parte; egli sa soltanto che ciò che gli passa per la testa nel tale momento è “segnato”, come il marchio di un codice. Ciascuno può riempire questo codice con la sua propria storia.

Si dice che soltanto le parole abbiano un loro impiego, non le frasi; ma nel fondo di ciascuna figura c’è una frase, spesso sconosciuta (incosciente?), che trova la sua utilizzazione nell’economia significante del soggetto amoroso. Questa frase madre (qui solo postulata) non è una frase pienamente formata, non è un messaggio compiuto. Il suo principio attivo non è quello che essa esprime, ma ciò che essa articola: tutto considerato, quella frase non è altro che un “motivo sintattico”, un “modo di costruzione”. Ad esempio, se il soggetto aspetta a un appuntamento l’oggetto amato, un motivo di frase si agita nella sua testa: “Certo che però non è il modo di fare…”;  “lui/lei avrebbe ben potuto…”; “lui/lei sa benissimo che…”: potere, sapere che cosa? Non ha nessuna importanza: la figura “Attesa” è già formata.

Nella figura, c’è qualcosa dell‘“allucinazione verbale” (Freud, Lacan): frase troncata che il più delle volte si limita alla sua parte sintattica (“Sebbene tu sia…”, “Se tu dovessi ancora…”). Così nasce la turbolenza di ogni figura: anche la più dolce porta in se il palpito di una suspense: io avverto in essa il quos ego”… nettuniano, tempestoso.

 

ORDINE

Per tutta la durata della vita amorosa, le figure spuntano nella mente del soggetto amoroso senza un qualsiasi ordine, dato che esse dipendono ogni volta da un caso (interiore o esteriore). Ad ogni accidente (che gli “cade” addosso), l’innamorato attinge dalla riserva (dal tesoro?) di figure, secondo i bisogni, le esigenze o i piaceri del suo immaginario.

Ogni figura brilla, vibra da sola come un suono avulso da qualsiasi melodia - o si ripete, fino alla nausea, come il motivo d’una musica che aleggia nell’aria. Nessuna logica lega tra loro le figure, né determina la loro contiguità: le figure sono fuori sintagma, fuori racconto; sono delle Erinni; esse si agitano, sono disordinate nel tempo, l’ordine funziona come un calendario perpetuo, come un’enciclopedia della cultura affettiva (l’innamorato ha qualcosa di Bouvard e Pecuchet).

Le figure sono distribuzionali, senza però essere integrative; esse restano sempre allo stesso livello: l’innamorato parla mediante gruppi di frasi, ma non integra queste frasi a un livello superiore, a un’opera; il suo è un discorso orizzontale: nessuna trascendenza, nessuna salvezza, nessun romanzo (ma molto di romanzesco).

Ogni episodio amoroso può essere dotato d’un senso: esso nasce, si sviluppa e muore: segue cioè una sua strada che può sempre essere interpretata come una causalità o una finalità, sia pure per moralizzare (“Ero pazzo e ora sono guarito”, “L’amore è un’illusione da cui d’ora innanzi mi saprò guardare”, eccetera): è la “storia d’amore”, asservita al grande Altro narrativo, all’opinione generale che sminuisce qualsiasi forza eccessiva e vuole che lo stesso soggetto riduca il grande flusso immaginario, che lo ha attraversato senza ordine e senza fine, a una crisi dolorosa.

RIFERIMENTI

 

Werther” di Goethe. Ve ne sono che derivano da letture insistenti (il Simposio di Platone, lo Zen, la psicanalisi, certi mistici, Nietzsche, i “Lieder”  tedeschi). Ve ne sono che derivano da letture occasionali e altri che derivano da conversazioni con amici. E infine vi è ciò che deriva dalla mia propria vita.

ABBRACCIO

 

“E’ dunque un innamorato che parla e che dice”: “Nell’amorosa quiete delle tue braccia”.  Per il soggetto, il gesto dell’ abbraccio amoroso sembra realizzare, per un momento, il sogno di unione totale con l’essere amato.

Oltre all’accoppiamento (e al diavolo l’Immaginario), vi è quest’altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell’addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (“nell’amorosa quiete delle tue braccia”, dice una poesia musicata da Duparc (DUPARC: “Chanson triste”, poesia di Jean Lahor. Si tratta di cattiva poesia? Ma la  “cattiva poesia” coglie il soggetto amoroso nel registro espressivo che appartiene solo a lui: l‘“espressione”). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.

Tuttavia, nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l’indistinta sensualità dell’abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l’adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L’innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).  3. Momento dell’affermazione; per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i miei desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione - la contrazione - dei due abbracci.

ABITO

Ogni fenomeno emotivo suscitato o alimentato dal vestito che il soggetto ha indossato in occasione dell’incontro amoroso o che indossa nell’intento di sedurre l’oggetto amato.

Io devo rassomigliare a chi amo. lo postulo (ed è questo ciò che mi delizia) una conformità di essenza fra l’altro e me. Immagine, imitazione: faccio il maggior numero possibile di cose come l’altro. lo voglio essere l’altro voglio che lui sia me, come se noi fossimo uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelle, giacché il vestito non è altro che il liscio involucro di quella materia coalescente di cui il mio Immaginario amoroso è fatto.

Werther: “M’è costato fatica decidermi a togliermi di dosso il mio semplice frac turchino che avevo la prima volta quando ho ballato con Lotte, ma negli ultimi tempi era ridotto proprio indecente. Però me ne son fatto fare uno uguale…” (WERTHER: 103 e 159-60).

Ogni volta che mette quel vestito Werther si traveste. Da che cosa? Da innamorato estasiato: egli ricrea magicamente l’episodio dell’estasi, il momento in cui si è trovato siderato dall’Immagine. Quel vestito turchino lo rinserra talmente forte, che il mondo circostante si annulla: “soltanto noi due”: mediante quel vestito, Werther si forma un corpo da bambino.

 

ADORABILE

Non riuscendo a precisare la specialità del suo desiderio per l’essere amato, il soggetto amoroso non trova di meglio che questa parola un po’ stupida: “adorabile”.

E’ il ricordo di che cosa? Di ciò che i Greci chiamavano la “charis”: “lo splendore degli occhi, la bellezza luminosa di un corpo, il fascino dell’essere desiderabile”; può darsi persino che, come nella “charis” antica, io vi aggiunga l’idea - la speranza - che l’oggetto amato si concederà al mio desiderio.

Con una logica tutta particolare, il soggetto amoroso sente l’altro come un Tutto (come se si trattasse della Parigi autunnale) e, al tempo stesso, questo Tutto gli sembra comportare un resto, che egli non può esprimere. E’ soltanto l’altro a produrre in lui una visione estetica: egli lo elogia per il fatto di essere perfetto, si gloria per averlo scelto perfetto; immagina che l’altro voglia essere amato, come vorrebbe esserlo lui stesso, non già per questa o quella sua qualità, ma per “tutto”, e questo  “tutto” glielo concede sottoforma di una parola vuota, giacché Tutto non potrebbe inventariarsi senza sminuirsi: all’infuori del “tutto” dell’affetto, in “Adorabile!” non è contenuta nessuna qualità.  Tuttavia, esprimendo tutto, “adorabile” esprime anche ciò che manca al tutto; la parola vuole designare lo spazio dell’altro in cui viene “specialmente” ad innestarsi il mio desiderio, ma questo spazio non è io non saprò mai niente di lui; il mio linguaggio sarà sempre confuso, esso cincischierà nel tentativo di esprimerlo, ma io non potrò mai produrre altro che una parola vuota, la quale è come il grado zero di tutti gli spazi in cui si forma il desiderio specialissimo che io ho di quell’altro là (e non di un altro).  3. Nella mia vita, io incontro milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma, di queste centinaia, io ne amo uno solo. L’altro di cui io sono innamorato mi designa la specialità del mio desiderio.  Questa scelta, rigorosa al punto da non prendere in considerazione che l’Unico, costituisce, si dice, la differenza tra il transfert analitico e il transfert amoroso; l’uno è universale, l’altro è specifico (LACAN: “Non avviene tutti i giorni d’incontrare ciò che è fatto per darvi la giusta immagine dei vostro desiderio” (“Il Seminario”, 1, 178). Per trovare l’Immagine che, tra migliaia, si confà al mio desiderio, ci sono volute molte combinazioni, molte sorprendenti coincidenze, e forse molte ricerche. un certo modo di muovere le dita mentre parla, mentre fuma? Di tutte queste “caratteristiche” del corpo, ho voglia di dire che sono “adorabili”. “Adorabile” vuol dire: questo è il mio desiderio, in quanto esso è unico: “E’ questo! E’ esattamente questo (che io amo)!”  Tuttavia, più provo la specialità del mio desiderio, meno sono in grado di precisarla; alla precisione di ciò che voglio dire corrisponde uno sfocamento del nome; il proprio del desiderio non può produrre altro che un improprio dell’enunciato. Di questo fallimento linguistico, resta soltanto una traccia: la parola “adorabile” (la buona traduzione di “adorabile” sarebbe l‘“ipse” latino: proprio lui in persona.

E’  adorabile “ciò che è adorabile”. O anche: ti adoro perché sei adorabile, ti amo perché ti amo. Ciò che limita cosi’ il linguaggio amoroso, è precisamente ciò che lo ha istituito: la fascinazione.

Giacché descrivere la fascinazione non può mai, “in fin dei conti”, andare al di là di questo enunciato: “io sono affascinato”. Avendo raggiunto il limite estremo del linguaggio, là dove, come un disco che si è incantato, esso non può che ripetere “la sua ultima parola”, io mi stordisco con la sua affermazione: la tautologia non è forse quella improbabile situazione in cui, con tutti i valori mescolati fra loro, si ritrovano la fine gloriosa dell’operazione logica, l’osceno dell’imbecillità.

 

L’INTRATTABILE

 

Nonostante tutto, il soggetto amoroso afferma l’amore come valore. Ascolto gli argomenti che i sistemi più disparati adoperano per demistificare, limitare, cancellare, in poche parole svilire l’amore, ma mi ostino: “Si certo, lo so, però…” Attribuisco il discredito nei  confronti dell’amore a una sorta di morale oscurantista, a un realismo-farsa, a cui oppongo il reale del valore: a tutto “ciò che non va” nell’amore, contrappongo l’affermazione di ciò che in esso vale.

Il mondo pone ogni iniziativa di fronte a un’alternativa; quella della riuscita o del fallimento, della vittoria o della sconfitta. lo affermo un’altra logica: contraddittoriamente, io sono al tempo stesso felice e infelice: per me, “riuscire” o “fallire” hanno soltanto un significato contingente, effimero (ciò che non toglie che le mie pene e i miei desideri siano violenti); quello che, sordamente e ostinatamente, mi anima non è affatto calcolato: io accetto e affermo fuori del vero e del falso, fuori di ciò che è riuscito e di ciò che è fallito; non mi pongo alcuna finalità, vivo secondo il caso (a riprova che le figure del mio discorso mi vengono per combinazione) (PELLEAS: “Che hai? Tu non mi sembri felice. Si, sono felice, ma sono triste”.

Se misurato all’avventura (cosa che mi capita), non ne esco né vincitore né vinto: sono tragico [SCHELLING: “L’essenziale della tragedia è […] un conflitto reale fra la libertà nel soggetto e la necessità oggettiva, conflitto che si risolve non per la sconfitta dell’uno o dell’altro, ma perché tutti e due, ad un tempo vincitori e vinti, appaiono nella perfetta indifferenza”.

Mi si dice: questa specie d’amore non dà frutti. Ma come poter valutare ciò che fruttifica? Perché ciò che dà frutti è un Bene? Perché durare è meglio che bruciare?) 2. Stamattina, devo scrivere con urgenza una lettera “importante” - dalla quale dipende il successo d’una certa iniziativa; scrivo invece una lettera d’amore - che non spedisco. Abbandono allegramente tristi incombenze, ragionevoli scrupoli, comportamenti reattivi imposti dal mondo, a beneficio d’un compito inutile, derivato da un Dovere luminoso: il Dovere amoroso. Con discrezione, faccio delle cose pazze; sono l’unico testimone della mia follia. Quello che l’amore mette a nudo in me è l’energia. Tutto ciò che faccio ha un senso (posso perciò vivere senza lamentarmi), ma questo senso è una finalità inafferrabile: esso non è altro che la coscienza della mia forza. Le inflessioni dolenti, colpevoli, tristi, tutto il reattivo della mia vita d’ogni giorno è sconvolto.

Vi sono due affermazioni dell’amore. Innanzitutto, quando l’innamorato incontra l’altro, c’è affermazione immediata (psicologicamente: estasi, entusiasmo, esaltazione, proiezione folle d’un avvenire appagato: sono divorato dal desiderio, dall’impulso di essere felice): dico di si a tutto (illudendomi). A tutto questo fa seguito un lungo tunnel: il mio primo si è roso dal dubbio, il valore  amoroso è continuamente minacciato dallo svilimento: è il momento della passione triste, il momento in cui vanno crescendo il risentimento e l’oblazione. Da questo tunnel, tuttavia, io posso uscire; posso “sormontare”, senza liquidare; ciò che ho affermato una prima volta, posso affermarlo nuovamente, senza ripeterlo, poiché ciò che affermo è l’affermazione, non la sua contingenza: affermo il primo incontro nella sua differenza, voglio il suo ritorno, non la sua ripetizione. Io dico all’altro (vecchio o nuovo): “Ricominciamo”.

ALTERAZIONE

vedere l’altro preso nel conformismo del mondo sociale. (O anche: l’altro si altera se si conforma alle banalità che il mondo professa per svilire l’amore: Una volta, parlando di noi, l’altro mi ha detto: “una relazione di qualità”; questa parola non mi è piaciuta: essa scaturiva bruscamente dal di fuori, banalizzando la specialità del rapporto con una formula conformista.  Spesso, l’altro si altera attraverso il linguaggio; egli dice una parola diversa e subito sento tumultuare minacciosamente “un mondo completamente diverso”, che è poi il mondo dell’altro.

La parola è fatta d’una sostanza chimica impalpabile che opera le più violente alterazioni.

Quello che io individuo nell’altro, e di cui lui non ha coscienza, è solo un desiderio nascente, una vampata di desiderio: nella conversazione, lo vedo agitarsi, moltiplicarsi, “strafare”, mettersi in posizione di questuante nei confronti di un terzo, come attaccato a lui per sedurlo. Osservate bene tale riunione: ci vedrete questo soggetto che perde la testa (moderatamente, mondanamente) per quest’altro, spinto a stabilire con lui una relazione più calorosa, più esigente, più adulatoria. Avverto uno “smarrimento d’essere”, che non è poi molto diverso da ciò che Sade avrebbe chiamato l‘“effervescenza di testa”. Il discorso amoroso è solitamente un involucro liscio che aderisce all’Immagine, un morbidissimo guanto intorno all’essere amato. E’ un discorso devoto, benpensante. Quando l’Immagine si altera, l’involucro di devozione si strappa; una scossa viene a sconvolgere il mio proprio linguaggio.

L’orrore di guastare è ancora più forte dell’angoscia di perdere.

AGONY

ANGOSCIA. A seconda di tale o talaltra circostanza, il soggetto amoroso si sente trascinato dalla paura di un pericolo, di una ferita, di un abbandono, di un improvviso cambiamento - sentimento che egli esprime con la parola “angoscia”. Per potersi manifestare pienamente, esse aspettano solo che passi un po’ di tempo. “Con calma”, prendo un libro e un sonnifero. Niente di  “amichevole” che mi riscaldi. Ho freddo.

La ascolto” precisarsi, sollevarsi, come una figura inesorabile, sullo sfondo “delle cose che sono. Lo psicotico vive nel timore del crollo (di cui le diverse psicosi non sarebbero altro che le difese).

Ma “la paura clinica del crollo è la paura d’un crollo che è già stato subito (“primitive agony”) […] e vi sono dei momenti in cui un paziente ha bisogno che gli si dica che il crollo la cui paura mina la sua vita è già avvenuto”. Lo stesso avviene, a quanto sembra, per l’angoscia d’amore: essa è la paura di una perdita che è già avvenuta, sin dall’inizio dell’amore, sin dal momento in cui sono stato stregato. Bisognerebbe che qualcuno potesse dirmi: “Non essere più angosciato, tu l’hai già perduto(a)”

AMARE L’AMORE

ANNULLAMENTO

Accesso di linguaggio durante il quale il soggetto giunge ad annullare l’oggetto amato sotto il volume dell’amore stesso: con una perversione propriamente amorosa, il soggetto ama l’amore, non l’oggetto. Io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è più che il suo accessorio. Mi esalto al pensiero di una così nobile  causa, che non tiene nel minimo conto la persona che ho preso a pretesto (questo è almeno quanto mi dico, felice di potermi innalzare sminuendo l’altro): io sacrifico l’immagine all’Immaginario. E se un giorno dovessi decidermi di rinunciare all’altro, il violento lutto che mi colpirebbe sarebbe il lutto dell’Immaginario: era una struttura cara, e io piangerei la perdita dell’amore, non già la perdita di questa o quella persona.

L’altro è dunque annullato dall’amore: da questo annullamento, io ricavo un sicuro vantaggio; non appena sono minacciato da un dolore accidentale (per esempio, un’idea di gelosia), lo riassorbo nella magnificenza e nell’astrazione del sentimento amoroso: mi placo nel desiderare ciò che, non essendoci, non può ferirmi. Tuttavia, subito dopo, soffro vedendo l’altro (che amo) così sminuito, ridotto, e come escluso dal sentimento che lui ha suscitato. Mi sento colpevole e mi rimprovero di volerlo abbandonare. A questo punto, ha luogo un rovesciamento: cerco di disannullarlo, mi obbligo a soffrire nuovamente. 

 

“Tutte le voluttà della terra”.

APPAGAMENTO

Il soggetto ricerca, con ostinazione, la possibilità di ottenere una totale soddisfazione del desiderio implicito nella relazione amorosa e di conseguire un successo completo e come eterno di questa relazione: Immagine paradisiaca del Bene Supremo da dare e da ricevere.  1. “Prendete tutte le voluttà della terra, fondetele in una sola e quindi precipitatela tutt’intera in un solo uomo; ebbene, tutto ciò non è niente in confronto al godimento di cui io parlo”  [RUYSBROECK: 9, 10 e 20].

L’appagamento sarebbe dunque una precipitazione: qualcosa si condensa, fonde su di me, mi folgora. Che cos’è che mi colma a tal punto? Una totalità? No. E’  qualcosa che, muovendo dalla totalità, la supera: una totalità netta, una somma senza eccezione, un luogo senza niente vicino (“la mia anima non è solo colmata, ma sommersa”). lo colmo (sono colmato), io accumulo, ma senza pormi dei limiti; io produco un “troppo”, ed è proprio in questo troppo che l’appagamento ha luogo (il “troppo” è il regime dell’Immaginario: nel momento in cui non sono più nel “troppo”, io mi sento frustrato; per me, “giusta misura” vuol dire “non abbastanza”): ho infine modo di conoscere quello stato in cui “il godimento supera le possibilità che il desiderio aveva fatto intravedere”.  Oltrepasso i limiti della sazietà e, invece di trovare il disgusto, la nausea, o anche solo l’ebbrezza, scopro… la “Coincidenza” [ETIMOLOGIA: satis (abbastanza). La dismisura mi ha con dotto alla misura; coincido con l’Immagine, le nostre misure sono le stesse: esattezza, precisione, musica: con il “non abbastanza”, io ho chiuso. Da questo momento, vivo l’assunzione definitiva dell’Immaginario, il suo trionfo.

Appagamenti: non vengono detti - di modo che, falsamente, la relazione amorosa sembra ridursi a essere un lungo lamento. Il fatto è che, se è incoerente esprimere malamente l’infelicità, per contro, nel caso della felicità, sarebbe una colpa sciuparne l’espressione: l’io parla solo quando è ferito; quando mi sento appagato o mi ricordo di esserlo stato, il linguaggio ci appare angusto: io sono  “trasportato” fuori del linguaggio, cioè fuori del mediocre, del generico: “Avviene un incontro che, a causa della gioia, è intollerabile, e talora l’uomo ne è annichilito; questo è ciò che io chiamo il trasporto. Il trasporto è la gioia di cui non si può parlare”.  2. In realtà, do poca importanza alle mie possibilità di essere “veramente” appagato (vorrei anzi non averne). Ciò che invece, indistruttibile, continua a risplendere, è la volontà di appagamento.  Attraverso questa volontà, io derivo: io formo dentro di me l’utopia di un soggetto sottratto alla rimozione: io sono “già” questo soggetto. Questo soggetto è libertario: credere al Bene Supremo è altrettanto pazzesco che credere al Male Supremo: filosoficamente parlando, Heinrich von Ofterdingen è della medesima stoffa della Juliette sadiana.  “Appagamento” vuol dire abolizione dei retaggi: “… la Gioia non ha alcun bisogno di eredi o di bambini - La Gioia vuole se stessa, l’eternità, la ripetizione delle stesse cose, essa vuole che tutto resti com’è”. - L’innamorato appagato non ha alcun bisogno di scrivere, di trasmettere, di riprodurre.

ASCESI

Sia che si senta colpevole nei confronti dell’essere amato, sia che voglia impressionarlo mostrandogli la sua infelicità, il soggetto amoroso abbozza una condotta ascetica di autopunizione. Dato che sono colpevole di questo e di quello (io ho, io trovo cento ragioni per esserlo), io mi punisco, mortifico il mio corpo: mi faccio tagliare i capelli cortissimi, nascondo il mio sguardo dietro a degli occhiali scuri (come se dovessi entrare in convento), mi consacro allo studio di una scienza seria e astratta. Sarò molto paziente, un po’ triste, in poche parole, “degno”, come si addice all’uomo risentito.  Mostrerò istericamente il mio lutto (il lutto che io m’immagino) attraverso il mio vestito, il taglio dei miei capelli, la regolarità delle mie abitudini. Sarà un piacevole romitaggio, un ritiro spirituale necessario al buon funzionamento di un patetico discreto.  2. L’ascesi (la velleità d’ascesi) è rivolta all’altro: voltati, guardami, renditi conto di cosa stai facendo di me. E’ un ricatto morale: io metto di fronte all’altro la figura della mia propria scomparsa, quale essa sicuramente avrà luogo se lui non cede (a che cosa?). 

L’assente.

Ogni episodio di linguaggio che mette in scena l’assenza dell’oggetto amato - quali che siano la causa e la durata - e tende a trasformare questa assenza in prova d’abbandono.  1. Molti Lieder, molte melodie e canzoni sull’assenza amorosa. E tuttavia, questa figura classica, in  “Werther”, non la si trova. La spiegazione è semplice: là, l’oggetto amato (Carlotta) non si muove; è il soggetto amoroso (Werther) che, a un certo punto, s’allontana. Orbene, l’unica assenza è quella dell’altro: è l’altro che parte, sono io che resto. L’altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è, per vocazione, migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto, “in giacenza”. L’assenza amorosa è possibile in un solo senso e non può essere espressa che da chi resta - e non da chi parte: “io”, sempre presente, non si costituisce che di fronte a “te”, continuamente assente. Esprimere l’assenza equivale a significare di colpo che il posto del soggetto e il posto dell’altro non possono essere permutati; è come dire:  “Sono meno amato di quanto io ami”.

Storicamente, il discorso dell’assenza viene fatto dalla Donna: la Donna è sedentaria, l’Uomo è vagabondo, la Donna è fedele (Aspetta), l’uomo è cacciatore (Cerca l’avventura, fa la corte.) Donna, chi piangi tu? - L’assente” (“L’absent”, poema musicato da Faur‚)]. E’ la Donna che dà forma all’assenza, che ne elabora la finzione, poiché ha il tempo per farlo; essa tesse e canta; le Tessitrici, le Canzoni cantate al telaio esprimono al tempo stesso l’immobilità e l’assenza. Ne consegue che in ogni uomo che esprime l’assenza dell’altro si manifesta l’elemento “femminino”: l’uomo che attende e che soffre è miracolosamente femminizzato. Un uomo è femminizzato non perché è invertito, ma perché è innamorato. (Mito e utopia: come l’origine è appartenuta, così anche  lavvenire apparterrà ai soggetti in cui vi è del femminino) [E. B.: lettera].  3. Talvolta mi succede di sopportare bene l’assenza. lo sono allora “normale”: sono in linea col modo in cui “tutti” sopportano la separazione da una “persona cara”; mi conformo con cognizione all’addestramento attraverso cui sono stato abituato assai per tempo ad essere separato da mia madre. Aspettando, so nutrirmi di altre cose che non siano solamente il seno materno.  Questa assenza ben sopportata non è altro che l’oblio. A intermittenza, io sono infedele. La condizione per la mia sopravvivenza; poiché se io non dimenticassi, morirei. L’innamorato che non dimentica “qualche volta”, muore per eccesso, fatica e tensione di memoria (come Werther).  (Da bambino, non dimenticavo: giornate interminabili, abbandonate, in cui la Madre lavorava lontano; la sera, andavo ad aspettarla alla fermata dell’autobus a Sèvres-Babylone; gli autobus passavano e ripassavano e lei non era in nessuno di quelli).  4. Mi risveglio molto in fretta da questo oblio. Metto frettolosamente a posto una memoria, uno smarrimento. Una parola (classica) ha origine dal corpo, che esprime l’emozione d’assenza:  “sospirare”: “sospirare per la presenza corporea” [DIDEROT: “Poni le tue labbra su di me / E che uscendo dalla mia bocca / La mia anima entri in te” (“Chanson dans le go–t de la romance”)]: le due metà dell’androgino sospirano l’una per l’altra, come se ogni respiro, incompleto volesse confondersi con l’altro: immagine dell’abbraccio, in quanto esso fonde le due immagini in una sola: nell’assenza amorosa io sono, tristemente, un “immagine staccata”. Pathos”, per il desiderio dell’essere assente, e “Himeros”, più ardente, per il desiderio dell’essere presente).

 

Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi. Tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos’è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura.  L’assenza si protrae e bisogna che io la sopporti. lo devo perciò “manipolarla”: trasformare la distorsione del tempo in un movimento di va e vieni, produrre del ritmo, aprire la scena del linguaggio (il linguaggio nasce dall’assenza: il bambino si è fabbricato un rocchetto, lo lancia e lo riacchiappa, mimando la partenza e il ritorno della madre: un paradigma è stato creato). L’assenza diventa una pratica attiva, un “affaccendamento” (che m’impedisce di fare altro); ha luogo la creazione d’una finzione con ruoli multipli (dubbi, rinfacciamenti, desideri, malinconie). Questa messa in scena di linguaggio allontana la morte dell’altro: un brevissimo momento, si dice, separa il tempo in cui il bambino crede sua madre ancora assente da quello in cui la crede già morta.

La frustrazione avrebbe per figura la Presenza (ogni giorno vedo l’altro e tuttavia non ne sono sazio: l’oggetto è qui, realmente, ma, immaginariamente, seguita a mancarmi). Intermittenza (accetto di lasciare per un po’ l’altro, “senza piangere”, rinuncio alla relazione, so “dimenticare”). L’Assenza è la figura della privazione; io desidero e ho bisogno simultaneamente. Il desiderio si spegne sul bisogno: questo è il fatto ossessionante del sentimento amoroso.  (“Il desiderio è qui, ardente, eterno: ma Dio è più in alto, e le braccia levate non raggiungono mai l’adorata pienezza” [RUYSBROECK: 44]. Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono “le braccia levate del Desiderio”, e vi sono “le braccia” tese del bisogno. Rendo l’assenza dell’altro responsabile della mia mondanità: “invoco” la sua protezione, il suo ritorno: voglio che l’altro compaia, che, come una madre che viene a prendere il suo bambino.

 

Un koan buddhistico dice [s. s.: koan riferito da S. S.]: “Il maestro tiene a lungo sott’acqua la testa del discepolo; poco a poco le bollicine d’aria si diradano; all’ultimo momento, il maestro tira fuori il discepolo e lo rianima: Quando desidererai la verità come hai desiderato l’aria, allora saprai cos’è”.  L’assenza dell’altro mi tiene la testa sott’acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più rarefatta: ed è attraverso quest’asfissia che io ricostituisco la mia “verità” e preparo l’Intrattabile dell’amore.

 

ATOPOS

Il soggetto amoroso riconosce l’essere amato come “atopos” (qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di una originalità sempre imprevedibile.

[NIETZSCHE: sull‘“atopia” di Socrate, confronta Michel Guérin,  “Nietzsche, Socrate héro que”]. L’altro che io amo e che mi affascina è “atopos”. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l’Unico, l’Immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità dei mio desiderio. E’ la figura della mia verità; esso non può essere fissato in alcun stereotipo (che è la verità degli altri).  Tuttavia, durante la mia vita, io ho amato o amerò più volte. Questo significherebbe dunque che il mio desiderio, per quanto speciale, si fissa su un tipo? Il mio desiderio è dunque classificabile? C’è, mi domando, fra tutti gli esseri che ho amato, un solo tratto comune che, per quanto tenue (un naso, una pelle, un qualcosa), mi permetta di dire: ecco il mio tipo!

 

Ogni volta che sul volto dell’altro leggo la sua innocenza, la sua grande innocenza, vi colgo la sua atopia: egli non sa il male che mi fa - o, per dirla con meno enfasi, non sa quanti problemi mi crea.  L’innocente non è forse inclassificabile (e perciò tenuto in sospetto in ogni società la quale “si riconosce” soltanto dove può classificare delle Colpe)?

Mi era capitato un paio di volte di cogliere nei suoi occhi un’espressione d’una tale “innocenza” (non c’è altra parola) che, nonostante tutto, io mi ostinavo a volerlo mettere in un certo senso, in una posizione diversa dalla sua, al di fuori del suo proprio carattere. In quel momento, lo esoneravo da ogni commento. Come innocenza, l’atopia resiste alla descrizione, alla definizione, al linguaggio, che è “maya”, classificazione di Nomi (di Colpe). Essendo atopico, l’altro fa tremare il linguaggio: non si può parlare “di” lui, “su” lui; qualsiasi attributo è falso, doloroso, altro è “inqualificabile” (e questo sarebbe il vero significato di “atopos”)

 

Di fronte alla brillante originalità dell’altro, io non mi sento mai “atopos”, ma semmai classificato (come un dossier fin troppo noto). Talvolta, riesco però a sospendere il gioco delle immagini ineguali (“Perché mai non posso essere anch’io originale, forte quanto l’altro?”) [R. H.: conversazione]; indovino che la vera originalità non è né in me né nell’altro, ma nella nostra stessa relazione. Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione. La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto, come tutti, a far la parte dell’innamorato: ad essere geloso, trascurato, frustrato come gli altri.

Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d’essere in questo rapporto senza luogo, senza “topos”.

 

ATTESA

Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi.

Sto aspettando un arrivo, un ritorno, un segnale promesso. Ciò può essere futile o infinitamente patetico: in “Erwartung” (attesa), una donna aspetta, nella foresta, di notte, il suo amante; io sto aspettando solamente una telefonata, ma è la stessa angoscia. Tutto è solenne: non ho il senso delle “Proporzioni”. Vi è una scenografia dell’attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell’oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita.  La scena rappresenta l’interno di un caffè; abbiamo appuntamento e io sto aspettando. Nel Prologo, unico attore della commedia (e a ragione), io constato, registro il ritardo dell’altro; questo ritardo è ancora soltanto un’entità matematica, guardo il mio orologio diverse volte); il Prologo finisce quando, con un colpo di testa, decido di “farmi venire il sangue cattivo”, di dare libero sfogo all’angoscia dell’attesa. Qui ha inizio il primo atto; esso passa in congetture: e se per caso non ci fossimo capiti circa l’ora, il posto? Cerco di ricordarmi il momento in cui è stato fissato l’appuntamento, le indicazioni che ci siamo scambiati. Che fare (angoscia di comportamento)?  Andare in un altro caffè? Telefonare? Ma se l’altro arriva mentre io non ci sono? Non vedendomi, c’è il rischio che se ne vada, eccetera. Il secondo atto è quello dell’ira; rimprovero violentemente l’assente: “Però lui (o lei) avrebbe ben potuto…”, “Lui (lei) sa benissimo…” Ah! se lei (lui) fosse qui, potrei rimproverarle(-gli) di non essere qui! L’angoscia pura: quella dell’abbandono: in un attimo, io sono passato dall’assenza alla morte; l’altro è come morto: esplosione di lutto: io sono interiormente “livido” [WINNICOTT: “Jeu et Réalit‚”, 34 e 21]. Questa è la recita; essa può essere abbreviata dall’arrivo dell’altro; se arriva in primo, l’accoglienza è calma; se arriva in secondo, avviene una “scenata”; se arriva in terzo, vi è la riconoscenza, l’atto di grazia: io respiro nuovamente a pieni polmoni, come Pelléas allorché, uscendo dal sotterraneo, ritrova la vita, il profumo delle rose [Pelléas].  L’angoscia dell’attesa non è continuamente violenta.

 

L’attesa è un incantesimo: io ho avuto “l’ordine di non muovermi”. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, allinfinito”.

L’essere che io aspetto non è reale. Io lo creo e lo ricreo continuamente a cominciare dalla mia capacità di amare, a cominciare dal bisogno che io ho di lui”  [Winnicott]: l’altro viene là dove io lo sto aspettando, là dove io l’ho già creato. E, se lui non viene, io lo allucino: l’attesa è un delirio.

Sono innamorato? - Sì, poiché sto aspettando. Laltro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell’innamorato non è altro che: “io sono quello che aspetta.”

Ove vi è attesa, vi è transfert: io dipendo da una persona che si fa a mezzo e che impiega del tempo a darsi - come se si trattasse di far scemare il mio desiderio, d’infiacchire il mio bisogno. “Fare aspettare” [E. B.: lettera]: prerogativa costante di qualsiasi potere, “passatempo millenario dell’umanità”)

 

VOGLIO CAPIRE

Sentendo improvvisamente l’episodio amoroso come un groviglio di motivazioni inspiegabili e di situazioni senza vie d’uscita, il soggetto esclama: “Voglio capire (che cosa mi sta capitando)!”

Che cosa penso dell’amore? - In fondo, non penso niente. Certo, vorrei sapere “che cos’è”, ma, vivendolo dal di dentro, lo vedo in quanto esistenza, non in quanto essenza. Ciò che voglio conoscere (l’amore) è per l’appunto la materia che adopero per parlare (il discorso amoroso).  Naturalmente, la riflessione mi è consentita, ma, siccome questa riflessione viene subito trascinata nel ribollimento delle immagini, essa non muta mai in riflessività: escluso dalla logica (che presuppone dei linguaggi estranei gli uni agli altri), non posso pretendere di poter “pensare con lucidità”.

Io mi trovo nel “posto sbagliato” dell’amore, che è poi il suo punto più in vista; dice un proverbio cinese: “Il punto più in ombra, si trova sempre sotto la lampada”[REIK: proverbio citato da Reik, 184]

Uscendo dal cinema, solo, rimuginando sul mio problema amoroso che il film non ha potuto farmi dimenticare, curiosamente non esclamo: “tutto questo deve finire!” ma: “voglio capire” (che cosa mi sta capitando)!

Voglio analizzare, sapere, enunciare, in un linguaggio diverso dal mio; voglio raffigurare a me stesso il mio delirio, voglio “guardare in faccia” ciò che mi divide, mi taglia.  “Capite la vostra follia” [SIMPOSIO: 174]

Capire, non è forse scindere l’immagine, disfare l’io, organo superbo della disconoscenza?   Interpretazione: il vostro grido vuole dire un’altra cosa. A ben guardare, esso è ancora un grido d’amore: “Io voglio capirmi, farmi capire, farmi conoscere, farmi baciare; io voglio che qualcuno mi prenda con s‚” [A. C.: lettera]. Questo è il significato del vostro grido.

 

Voglio cambiare sistema: non più smascherare, non più interpretare, ma della coscienza stessa fare una droga e, attraverso essa, accedere alla visione netta del reale, al grande sogno nitido, all’amore profetico [ETIMOLOGIA: i Greci contrapponevano “onar”, il sogno puro e semplice, a  “hypar”, la visione profetica (mai creduta). Segnalato da J.-L. B].  (E se la coscienza - un tal genere di coscienza - fosse il nostro avvenire umano? E se, con un giro supplementare della spirale, un giorno, che sarebbe certo il più radioso di tutti, scomparsa ogni ideologia reattiva, la coscienza diventasse l’abolizione del manifesto e del latente, dell’apparenza e del nascosto? E se all’analisi fosse chiesto non già di distruggere la forza (e neanche di correggerla o di dirigerla), ma solo di “decorarla” da artista? Poniamo che la scienza dei lapsus scopra un giorno il suo proprio lapsus, e che questo lapsus sia: una forma nuova, inedita, della coscienza?) La catastrofe. 

 

 

 

 

CATASTROFE.

Crisi violenta durante la quale il soggetto, sentendo la situazione amorosa come un vicolo cieco, una trappola da cui non potrà mai più uscire, si vede destinato a una totale distruzione di s‚.  1. Vi sono due tipi di disperazione: la disperazione pacata, la rassegnazione attiva (“lo vi amo come bisogna amare: nella disperazione”), e la disperazione violenta: un bel giorno, in seguito a un incidente qualsiasi, mi chiudo nella mia stanza e scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal dolore; il mio corpo s’irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato [Mademoiselle de Lespinasse]. Tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione insidiosa, ma in fondo molto civile, degli amori difficili; non c’è alcun rapporto con l’annichilimento in cui si viene a trovare il soggetto abbandonato: qui, sono come folgorato, ma lucido. La sensazione che provo è quella di una vera e propria catastrofe: “Ecco, “sono veramente fottuto!””  (La causa? Non è mai solenne - per esempio, una dichiarazione di rottura; la cosa avviene senza preavviso, o per effetto di un’immagine che riesce insopportabile.

La catastrofe amorosa s’avvicina forse a ciò che, nel campo psicotico, è stata definita una  “situazione estrema”, la quale è “una situazione che il soggetto vive conscio del fatto che essa finirà col distruggerlo irrimediabilmente”; l’immagine è ricavata da ciò che avvenne a Dachau. Le due situazioni hanno in comune questo: esse sono, alla lettera, due, situazioni paniche  [ETIMOLOGIA: “panico” è riconducibile al dio Pan; ma si può giocare con le etimologie come con le parole (lo si è sempre fatto) e far finta di credere che “panico” derivi dall’aggettivo greco che vuoi dire “tutto”]: Entrambe sono senza seguito, senza ritorno: io mi sono talmente trasfuso nell’altro che, quando esso mi viene a mancare, non riesco più a riprendermi, a ricuperarmi: sono perduto per sempre.

 

CIRCOSCRIVERE.

Per ridurre la propria infelicità, il soggetto ripone la sua speranza in un metodo di controllo che gli dovrebbe permettere di circoscrivere i piaceri che la relazione amorosa gli dà: da una parte, continuare a tenersi questi piaceri, approfittarne pienamente, e, dall’altra, mettere in una parentesi d’impensato le larghe zone depressive che separano questi piaceri: “dimenticare” l’essere amato al di fuori dei piaceri che esso dà.  1. Cicerone, prima, e Leibniz, poi, hanno contrapposto “gaudium” e “laetitia” [LEIBNIZ: “Nuovi saggi sull’intelletto umano”, XX e 296]. “Gaudium” è il “piacere che l’anima prova quando considera sicuro il possesso di un bene presente o futuro, ed un bene è in nostro possesso quando è in nostro potere il poterne godere quando lo vogliamo”. “Laetitia” è un piacere allegro, “uno stato nel quale il piacere predomina in noi” (in mezzo ad altre sensazioni talvolta contraddittorie).  “Gaudium” è ciò che io vagheggio: godere di un possesso perpetuo. Ma non potendo ottenere  “Gaudium”, da cui troppi ostacoli mi separano, considero l’eventualità di ripiegare su “Laetitia”.

Perché non potrei avere della relazione amorosa una visione antologica? Perché, per cominciare, non potrei capire che una profonda afflizione non esclude dei momenti di piacere puro (come il cappellano di “Madre Courage” [BRECHT: “Madre Courage e i suoi figli”, 1323] che spiega che “la pace esiste anche in guerra”) e, in seguito non potrei riuscire a dimenticare sistematicamente le zone d’allarme che separano questi momenti di piacere? Perché non potrei essere disattento, incoerente?